Autore Amitav Ghosh
Titolo L'Isola dei fucili
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2019, Le tavole d'oro , pag. 320, cop.fle., dim. 14x21,5x2,5 cm , Isbn 978-88-545-1760-8
OriginaleGun Island
TraduttoreAnna Nadotti, Norman Gobetti
LettoreGiovanna Bacci, 2020
Classe narrativa indiana












 

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Indice


  7 PARTE PRIMA. IL MERCANTE DI FUCILI

  9 Calcutta
 29 Cinta
 59 Tipu
 79 Il tempio
 95 Visioni
107 Rani
121 Brooklyn
133 Incendi
141 Los Angeles
157 L'Isola dei fucili


171 PARTE SECONDA. VENEZIA

173 Il Ghetto
187 Rafi
199 Spiaggiamenti
211 Amici
223 Sogni
239 Avvertimenti
251 Acqua alta
261 Traversate
273 Vento
281 La Lucania
289 Avvistamenti
301 La burrasca


317 Ringraziamenti


 

 

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Pagina 9

Calcutta



La cosa più strana di quello strano viaggio fu che venne inaugurato da una parola - non una parola particolarmente evocativa, bensì un banale conio linguistico ampiamente in uso dal Cairo a Calcutta. Si trattava di bundook, che significa "arma da fuoco" in molte lingue, inclusa la mia, il bengali o bangla, e non è estranea neppure all'inglese: attraverso l'uso coloniale è arrivata fino all' Oxford English Dictionary, dove è riportata col significato di "fucile".

Ma non c'erano né pistole né fucili il giorno in cui il viaggio ebbe inizio, né la parola intendeva riferirsi a un'arma. E fu questo il motivo per cui catturò la mia attenzione: perché il fucile in questione era parte integrante di un nome, Bonduki Sadagar, che si potrebbe tradurre come "mercante di fucili".

Il mercante di fucili non entrò nella mia vita a Brooklyn, dove vivo e lavoro, bensì nella città in cui sono nato e cresciuto, Calcutta, o Kolkata, come viene ora ufficialmente denominata. Quell'anno, come già altre volte, ci avevo passato gran parte dell'inverno, teoricamente per affari. La mia attività di commerciante di libri rari e oggetti d'antiquariato asiatico richiede assidue ricerche in loco, e dal momento che possiedo un piccolo appartamento a Calcutta, ricavato all'interno della casa che io e le mie sorelle abbiamo ereditato dai nostri genitori, la città è diventata per me una seconda base operativa.

Ma non era solo il lavoro a riportarmici ogni anno: a volte Kolkata costituiva anche un rifugio, non solo dal freddo pungente dell'inverno di Brooklyn, ma anche dalla solitudine di una vita privata che si era fatta sempre più malinconica col passare del tempo, malgrado il mio crescente successo professionale. E la malinconia non era mai stata acuta come quell'anno, quando una relazione molto promettente era finita all'improvviso: una donna che frequentavo da lungo tempo mi aveva lasciato senza alcuna spiegazione, bloccando tutti i nostri consueti canali di comunicazione. Sperimentavo per la prima volta il ghosting, un'esperienza umiliante quanto dolorosa.

All'improvviso, sulla soglia dei sessant'anni, mi ritrovavo più solo che mai. Così ero partito per Calcutta prima del solito, facendo coincidere il mio arrivo con la migrazione annuale che avviene quando nei climi nordici comincia a far freddo, e grandi stormi di calcuttiani residenti all'estero prendono il volo e vanno a svernare in quella città. Sapevo che sarei stato accolto da una moltitudine di amici e parenti; che le settimane sarebbero volate in una girandola di pranzi, cene e ricevimenti nuziali. L'eventualità di incontrare, in simili frangenti, una donna con la quale poter condividere la vita non era, suppongo, del tutto assente dai miei pensieri - era accaduto infatti a molti uomini della mia età.

Ma naturalmente a me non accadde, sebbene non perdessi occasione per farmi vedere in giro e venissi presentato a un consistente numero di donne divorziate, vedove e single di età adeguata. Ci furono in effetti un paio di occasioni in cui sperimentai il vago luccichio della speranza... ma solo per scoprire, come già altre volte in passato, che in inglese esistono poche espressioni che alle orecchie di una donna suonino meno attraenti di "libraio antiquario".

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Pagina 22

Poco prima dell'arrivo dell'uragano, mentre il cielo si oscurava, la campana del tempio si era messa a suonare. Gli abitanti del villaggio erano accorsi, portando con sé tutto il cibo e gli oggetti che riuscivano a trasportare. I muri e il tetto del tempio non solo li avevano tenuti al riparo dall'uragano, ma avevano continuato a proteggerli anche dopo, fornendo perfino l'acqua pulita e fresca del pozzo - un lusso molto raro nelle Sundarban.

Nilima aveva chiesto di vedere il tempio e l'avevano accompagnata fin là. Era piuttosto lontano dal terrapieno, su un modesto rilievo al centro di una radura sabbiosa circondata da fitte foreste di mangrovie.

Dell'edificio in sé Nilima serbava un ricordo vago; ci si accalcavano intorno centinaia di persone, e i loro averi erano ammucchiati ovunque. Ricordava solo l'alta cinta muraria e il tetto ricurvo a forma di barca rovesciata, il cui profilo le aveva ricordato i celebri templi di Bishnupur.

Nilima aveva chiesto se c'era qualcuno che se ne prendesse cura, un custode col quale parlare. Dopo un po', dall'interno del tempio era emerso un musulmano di mezza età, con la barba brizzolata e uno zucchetto bianco. Nilima aveva appreso che era un majhi, un barcaiolo, e che era originario dell'altro versante del fiume Raimangal. Da bambino di tanto in tanto aveva lavorato per la gente che allora custodiva il tempio: erano una famiglia di gayan indù, cantori di ballate che avevano tenuto vivo il poema epico che narrava la leggenda del tempio, trasmettendolo oralmente per molte generazioni. Ma col passare degli anni la famiglia si era ridotta a un unico membro, ed era stato lui a chiedere al barcaiolo di occuparsi del tempio dopo la sua morte. Era accaduto molto tempo addietro, dieci anni prima della divisione del subcontinente nel 1947. Da allora il barcaiolo si era sempre preso cura del dhaam; era diventato la sua casa, e adesso ci viveva con la moglie e il figlio.

Nilima gli aveva chiesto se non era strano per lui, musulmano, occuparsi di un tempio dedicato a una dea indù. Il barcaiolo aveva replicato che il dhaam era venerato da tutti, a prescindere dalla religione: gli indù credevano che il tempio fosse protetto da Manasa Devi, mentre i musulmani credevano che fosse una dimora di jinn, protetta da un pir, un santo, di nome Ilyas.

Ma chi aveva costruito il tempio, e quando?

Il barcaiolo aveva risposto con riluttanza. Non conosceva bene la leggenda, aveva detto, e del poema ricordava solo qualche brandello.

Ma non esisteva una versione scritta del poema? aveva chiesto Nilima. No, era stata la risposta, per espresso desiderio del mercante di fucili il poema non doveva essere messo per iscritto ma solo tramandato di bocca in bocca. Purtroppo il barcaiolo non l'aveva mai memorizzato e ne rammentava solo qualche strofa.

Su insistenza di Nilima, il barcaiolo aveva recitato un paio di versi, e le parole le erano rimaste impresse nella memoria, forse perché sembravano nonsense, un genere poetico che Nilima adorava.


    Kolkataey tokhon na chhilo lok na makan
    Banglar patani tokhon nagar-e-jahan
    Calcutta allora non aveva né abitanti né case
    Il grande porto del Bengala era una città del mondo.



Nilima mi guardò e rise, con un certo disagio, come se la imbarazzasse sottopormi una simile sciocchezza.

«Non ha alcun senso, vero?» disse.

«Così su due piedi, direi di no. Ma va' avanti».

Nilima aveva continuato a interrogare il barcaiolo, che si era fatto via via più reticente, ora accampando ignoranza, ora insistendo sul fatto che per gran parte delle persone era impossibile attribuire un senso alla leggenda. Ma Nilima si era intestardita, riuscendo a farsi raccontare a grandi linee l'intreccio della storia, che aveva molto in comune con la leggenda del mercante Chand.

Si diceva che Bonduki Sadagar, proprio come Chand, fosse un ricco mercante che aveva fatto infuriare Manasa Devi rifiutando di diventare suo devoto. Tormentato dai serpenti e perseguitato da alluvioni, carestie, burrasche e altre calamità, era fuggito oltremare per sottrarsi all'ira della dea, trovando infine rifugio in una terra dove non c'erano serpenti, un posto chiamato Bonduk-dwip, "Isola dei fucili".

A quel punto Nilima s'interruppe per chiedermi se avessi mai sentito parlare di un posto chiamato così.

Scossi il capo: «No, mai. Dev'essere uno di quei paesi fantastici di cui si parla nelle fiabe».

Nilima annuì. Nella storia c'erano anche altri luoghi, disse, ma non riusciva a ricordarne i nomi.

Ma neppure sull'Isola dei fucili il mercante aveva trovato un nascondiglio sicuro. Un giorno Manasa Devi era uscita dalle pagine di un libro e l'aveva ammonito rammentandogli che lei aveva occhi dappertutto. Quella notte lui aveva cercato di nascondersi in una stanza con le pareti di ferro, ma lei l'aveva scovato anche lì: una minuscola creatura velenosa era entrata attraverso una fessura e l'aveva morsicato. Sopravvissuto a stento al morso, il mercante era fuggito dall'Isola dei fucili a bordo di un vascello, ma era stato ancora una volta catturato dai pirati. L'avevano sbattuto in una cella e lo stavano portando in un posto chiamato Shikol-dwip, "Isola delle catene", dove l'avrebbero venduto, quando ancora una volta gli si era parata davanti Manasa Devi. Gli aveva promesso che se fosse diventato suo devoto e avesse fatto costruire un tempio per lei in Bengala, l'avrebbe lasciato libero e reso ricco.

Stavolta il mercante si era arreso, giurando alla dea che, se l'avesse aiutato a tornare al suo paese natale, le avrebbe fatto costruire il tempio. Così lei l'aveva liberato e aveva ordito un miracolo: la nave era stata assediata da creature di ogni genere, creature dell'acqua e dell'aria, e mentre i pirati le combattevano, i prigionieri si erano impadroniti della nave e delle ricchezze dei loro carcerieri. Con la sua parte del bottino il mercante aveva potuto far rotta verso casa, e durante il viaggio aveva realizzato lucrosi commerci. Al ritorno in Bengala portava con sé una così ingente fortuna, e un racconto così portentoso, che si era guadagnato il titolo di Bonduki Sadagar, "mercante di fucili". A ciò si doveva il nome del tempio.

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Eravamo d'accordo di cenare insieme, quella sera, in un ristorante che distava una ventina di minuti dalla guest house. Cinta mi stava aspettando quando passai a prenderla, e quasi subito, mentre percorrevamo i tranquilli marciapiedi di Southern Avenue, disse: «Ho letto il tuo articolo. Adesso, poco prima che tu arrivassi».

«Oh, e cosa ne pensi?»

«Bravo! Molto interessante. E sulle patate hai senz'altro ragione!»

Una certa ironia nel suo tono m'induceva a credere che avesse altro da dire. Attesi.

«Ho trovato interessante il modo in cui scrivi di questo poema. Sembri un archeologo che esamina un frammento di terracotta. Il tuo linguaggio è così chirurgico, così esatto!»

«Grazie. Il tuo apprezzamento mi fa un enorme piacere».

Mi lanciò un'occhiata perplessa, di sbieco, mentre passavamo sotto un lampione.

«Ma dimmi, per te il poema non è nient'altro che questo? Un frammento senza vita, interessante solo perché può essere sottoposto a datazione?»

«Suppongo di sì» replicai. «Dopotutto non sono un critico letterario».

«Però... neanche gli spettatori di ieri, neanche loro sono dei critici. E come ascoltavano! Bastava guardarli per capire che per loro la storia non è morta».

«Cosa vuoi dire?»

«Avresti dovuto vederli, erano completamente rapiti!» disse. «Ed erano anche tantissimi! In Europa uno spettacolo analogo non richiamerebbe mai una simile folla. Se qualcuno mettesse in scena, che so, l' Orlando furioso, avrebbe un pubblico di professori e addetti ai lavori, ma nessun altro. Non troveresti mai questo tipo di gente, persone semplici, giovani e vecchi, uomini e donne. Solo alle partite di calcio vedi simili folle. E comunque non è la stessa cosa, perché non sono molte le donne che seguono il calcio. No, per la gente che c'era ieri, quel poema è vivo! Riguarda il qui e ora! È più reale della vita reale».

«Be', cosa ti aspettavi?» ribattei. «Si tratta, come tu dici, di persone semplici e ignoranti. Marx non diceva forse che i contadini sono come sacchi di patate? Ti stupisce che si facciano riempire la vita da dèi, dee e demoni?»

Un'altra occhiata di sbieco. «Non ti piace proprio, vero, la gente comune?»

A quell'accusa di elitismo m'inalberai. «Ti sbagli di grosso! Mi sono sempre considerato una persona di sinistra. Da studente ero un compagno di strada dei maoisti. Sono sempre stato solidale con i contadini e gli operai».

«Oh sì, certo!» disse lei, reprimendo un risolino. «In Italia conoscevo un sacco di maoisti e compagni di strada. Avevano infiniti riguardi per la pancia e il corpo della povera gente, ma pochi, credo, per ciò che la povera gente ha dentro la testa».

«Non se sono pensieri irragionevoli» dissi. «Mi considero una persona razionale, laica, con una mentalità scientifica. Mi dispiace se questo contraddice gli stereotipi sugli indiani, ma non sono religioso e non credo nel sovrannaturale. Non potrei mai, per nessuna ragione, aderire a tutti quei ridicoli cerimoniali e quelle superstizioni».

Fece qualche passo in silenzio: «Se tutto ciò è vero» disse poi a bassa voce, «perché usi tanti termini religiosi?»

«Quali termini religiosi?»

«Termini come "superstizioso" e "sovrannaturale"» disse, tracciando le virgolette nell'aria con entrambi gli indici. «Non lo sai che fu l'Inquisizione cattolica a coniare queste parole? Il compito dell'Inquisitore era sradicare la "superstizione" e rimpiazzarla con la vera religione. Ed era l'inquisitore a stabilire cosa fosse "naturale" e cosa "sovrannaturale". Perciò dire che non credi nel "sovrannaturale" è una contraddizione in termini, perché significa che non credi neppure nel "naturale". L'uno non può esistere senza l'altro».

«Ma dai» dissi spazientito, «risparmiami la semantica».

«D'accordo. Ma l'universo intero è fatto di semantica, e la tua è quella del Seicento. Anche se ti credi tanto moderno».

Mi aveva colpito in un punto particolarmente sensibile, e reagii con stizza.

«Immagino che ai tuoi occhi nessun indiano possa essere moderno o razionale! Dobbiamo tutti necessariamente credere in dee, streghe e demoni?»

«Madonna!» Si fermò all'improvviso e alzò le mani al cielo in un gesto di stizza. «Perché? Pensi forse che altrove la gente non ci creda? Be', non è così. Ti posso assicurare che oggigiorno per molte persone in Francia e in Italia le streghe e la possessione da parte degli spiriti sono dati di fatto».

«Impossibile!»

La parola mi era sgorgata spontanea dalle labbra; ciò che lei stava dicendo non quadrava con la mia idea di Europa, che avevo sempre visto come la sorgente della razionalità scientifica.

«Non ti credo».

«Ma devi credermi!» insistette lei. «Hai mai sentito parlare di tarantismo, per esempio?»

«No. Cosa sarebbe?»

«Il termine viene da tarantola, un ragno velenoso che vive nel Sud Italia. Il suo morso può avere strani effetti sulle persone. In alcune regioni dell'Italia meridionale la gente crede che gli spiriti entrino attraverso il morso di una tarantola. Le vittime devono essere esorcizzate con la musica, e soprattutto con la danza - è così che nasce la tarantella».

«Ma, Cinta, la tarantella non è solo una forma musicale? E molto antica; se ricordo bene risale al Seicento. Sono cose morte e sepolte».

«Invece no! Il tarantismo esiste tuttora. Uno studioso che conoscevo ha pubblicato un libro sull'argomento non molti anni fa: Ernesto De Martino. Ne hai sentito parlare?»

«No, il nome non mi dice niente».

«Non mi stupisco. Fuori dall'Italia, De Martino è pochissimo conosciuto, anche se a mio avviso è stato uno dei più importanti intellettuali del ventesimo secolo. Era uno storico, uno studioso di folklore e un etnologo, nonché un comunista e discepolo di Gramsci. Ma la sua fama si deve alle ricerche sul tarantismo che condusse negli anni Sessanta, quando si pensava che tali pratiche fossero scomparse da tempo. Ed è proprio questo a rendere il suo lavoro così interessante: ha dimostrato che in certe regioni d'Italia - la culla del razionalismo rinascimentale - il tarantismo era vivo e vegeto. E a differenza di altri studiosi, lui si è avvicinato a tali pratiche con mente aperta. Non partiva dal presupposto che quelle povere contadine - perché in effetti erano quasi tutte donne - fossero vittime di un inganno. Non escludeva la possibilità che avessero sperimentato qualcosa che esula dal nostro modo abituale di intendere le cose».

«Vuoi dire» chiesi incredulo «che riteneva che spiriti e demoni fossero reali? Che potessero comunicare con la gente per mezzo dei morsi di ragno?»

«No, no!» disse Cinta. «Solo sosteneva che non si devono etichettare certi fenomeni come "sovrannaturali", cosa che i razionalisti non mancano mai di fare, escludendo per principio che possano esistere forme di causalità inspiegabili. Invece, come De Martino dimostra, ci sono molti esempi ben documentati di fatti che è impossibile attribuire a cause cosiddette "naturali"».

«Per esempio?»

«Hmm...» Ci pensò un momento. «Per esempio la preveggenza, quella che oggi chiamiamo precognizione. Sapere che qualcosa accadrà prima che accada».

«Come gli indovini e gli oracoli?» la schernii. «Non mi dirai che credi sul serio a questo genere di cose».

«Ma allora come spieghi ciò che accadde agli aztechi?»

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L'Isola dei fucili



L'intervento di Cinta avrebbe chiuso il convegno, e quando cominciò non c'era un posto vuoto in tutta la sala.

Non erano solo i suoi libri e il fatto che fosse docente emerita all'Università di Padova a far di lei un'attrazione: nel corso degli anni era anche diventata un'oratrice straordinariamente coinvolgente. La sua voce profonda e roca, l'accento lirico e i modi teatrali e insieme impulsivi erano perfetti complementi della sua erudizione, e lei sapeva come usarli al meglio. In piedi sul podio, coi bei lineamenti incorniciati da un'aureola di capelli luminosamente bianchi, Cinta spesso lasciava un'impressione indelebile - e cosí fece quel giorno mentre ci parlava del retroterra storico della Venezia shakespeariana.

Una controfigura reale di Shylock, ci raccontò Cinta, avrebbe vissuto nell'enclave ebraica di Venezia, fondata nel 1516 quando una legge emanata dalla Repubblica veneziana aveva autorizzato gli ebrei a stabilirsi in città a condizione che indossassero determinati abiti, non fraternizzassero coi cristiani e vivessero per conto proprio su un'isola tutta loro.

A quel punto su uno schermo avvolgibile alle sue spalle comparve una grande mappa di Venezia, e Cinta si girò a indicarla con un puntatore laser. «Ecco» disse, «questo è il sestiere di Cannaregio, nella parte nord-orientale della città. E qui...» la lucina rossa del puntatore si spostò leggermente «...qui vedete l'isola in questione. Dal momento che Venezia è essa stessa un'isola, o meglio un arcipelago, il vecchio ghetto risulta essere un'isola dentro un'isola».

L'espressione "un'isola dentro un'isola" mi colpì. Dove l'avevo già sentita?

Impiegai un paio di minuti per ricordarmi lo strano simbolo dei due cerchi concentrici che avevo visto sulle pareti del tempio del mercante di fucili.

«Dwiper bhetorey dwip» aveva detto Rafi, un'isola dentro un'isola.

Mi sporsi in avanti, tendendo l'orecchio a ciò che Cinta stava dicendo: l'isola assegnata agli ebrei era stata in precedenza una fonderia dove venivano fabbricate armi, proiettili compresi. Nell'antico dialetto veneziano il termine per fonderia era getto, e quello era diventato il nome del primo insediamento ebraico della città. Un insediamento che non solo sarebbe diventato uno dei grandi centri della cultura ebraica, ma avrebbe portato al conio di molte parole nuove, tra cui appunto ghetto.

Poggiando un gomito sul podio, Cinta si protese verso la platea: «Dovete tenere presente che i mercanti che vivevano nel ghetto di Venezia commerciavano con il Levante, l'Egitto e il Nord Africa; molti di loro parlavano fluentemente l'arabo. Secondo me, fu tramite loro che la mia città giunse a occupare una curiosa posizione nel vocabolario dell'arabo classico: in tale lingua Venezia è legata a tre cose in apparenza prive di qualunque nesso tra loro: le nocciole, i proiettili e i fucili! Dico in apparenza perché la forma delle nocciole è ovviamente simile a quella dei proiettili, che a loro volta sono indispensabili per i fucili. Comunque sia, per tutt'e tre le cose in arabo si usa la stessa parola, che deriva dal nome bizantino di Venezia, che era Banadiq - antenato del Venedig tedesco e svedese. In arabo Banadiq divenne al-Bunduqeyya, che rimane tuttora il nome di Venezia in quella lingua. Ma bunduqeyya significa anche "fucile", "nocciola", "proiettile"... e, be', mi piace pensare che i proiettili venissero fabbricati proprio nella fonderia del vecchio getto!»

A quel punto fece una breve pausa, poi, come un mago che sta per estrarre un coniglio dal cappello, proseguì con un gesto melodrammatico.

«E attraverso l'arabo il nome di Venezia ha viaggiato raggiungendo paesi molto lontani, la Persia e parti dell'India, dove ancora oggi i fucili sono chiamati bundook, che ovviamente non significa altro che "Venezia" o "veneziano"».

Accade a volte che il sistema cerebrale stabilisca una sinapsi che produce una scossa simile a quella di un elettroshock. Fu ciò che accadde a me a quel punto del discorso di Cinta. Possibile che avessi completamente frainteso il nome Bonduki Sadagar? Possibile che il suo significato non fosse "mercante di fucili", come avevo dato per scontato, bensì "mercante che era stato a Venezia"?

Dovevo aver boccheggiato in modo udibile, perché molte teste si girarono verso di me. Rosso d'imbarazzo, mi alzai e uscii incespicando dalla sala.

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