Copertina
Autore Michela Giachetta
Titolo Assalto al cielo
SottotitoloLa classe operaia va sui tetti
EdizioneFandango, Roma, 2012 , pag. 202, cop.fle., dim. 13,5x20,5x1 cm , Isbn 978-88-6044-233-8
PrefazioneFrancesco Piccolo
LettoreGiorgia Pezzali, 2012
Classe paesi: Italia: 2010 , lavoro
PrimaPagina


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Indice


Prefazione
di Francesco Piccolo                     7

Assalto al cielo                        11

Il paradiso può attendere               13
La finestra sul cortile                 28
Croci e mausoleo                        44
Tutti giù per terra                     59
Il fischio del treno                    76
Tutta colpa di Vasco                    93
"Un pezzo, un culo"                    109
Gomma bruciata                         125
Il secondo terremoto                   141
La murga a Roma                        158
Desert Valley                          175

Intervista a Luciano Gallino           187

Ringraziamenti                         199


 

 

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Pagina 7

Prefazione


Cosa importa in un libro? Questa è la domanda che riformulo di continuo, a proposito di ogni libro che leggo. Forse non di tutti, ma di molti. A un certo punto, mentre leggo e mi appassiono, subentra la questione che mi sembra stia sempre più a cuore: cosa importa in un libro? La risposta più banale e che si avvicina di più alla verità è: tutto.

Che però, oltre a essere banale, nasconde un indizio. E cioè: non importa solo di cosa si parla. Per intenderci, qui non importa solo di coloro che sono in cassa integrazione, che sono chiusi in fabbrica in attesa che le macchine ripartano, che sono a casa e hanno nostalgia della fatica immane. Quello è il centro, la sostanza del libro. Il motivo per cui è stato scritto e il motivo per cui lo leggo e mi interessa. Eppure, nonostante mi importi tantissimo, non è sufficiente. Se fosse così, tutti i libri sarebbero nella sostanza simili, e tutti i libri avrebbero un grado di importanza più o meno uguale. Misurabile. Non solo: tutti i libri che raccontano storie di tale rilevanza umana e sociale sarebbero da leggere (un po' è davvero così, e un po' no). Quindi, importano anche altre cose, tante altre: quelle che non vengono raccontate direttamente, ma sono porte socchiuse che conducono alla vita quotidiana di una famiglia, ai figli, alle paghette, al cinema da saltare, al cattivo umore, ai silenzi, alle piccole menzogne; e poi ne importa un'altra: chi sta raccontando.

In fondo, anche se il dolore, l'agitazione nel sonno, e forse gli occhi sbarrati nel buio dell'autrice sono di gran lunga più lievi di coloro che lei racconta – che si raccontano – nel libro, esiste una cosa che chiamerei "parentela" tra quelle inquietudini e queste.

Bene, la parentela è una buona cosa. Ogni libro dovrebbe basarsi su una parentela. Non per forza diretta, e di diverso grado; perfino una parentela che si basi su esperienze del dolore, del disagio, ma anche del comico, dell'educazione, del sesso, della scuola – completamente diverse. La parentela, insomma, è il gancio che propone la necessità per chiederti di metterti lì mesi a scrivere intorno a qualcosa – e come in questo caso, di metterti in viaggio alla ricerca di qualcosa.

Quello che cerco nei libri, la prima cosa che mi metto a fiutare fin dalla prima pagina, in definitiva, è la parentela che esiste – se esiste – tra chi scrive e ciò che racconta.

Spesso, soprattutto nella narrativa, questa parentela viene data per scontata. Ed è un errore, perché è proprio lì che ci si accorge, a volte, quando senti che pagina dopo pagina ti importa poco di ciò che viene raccontato – è lì che ci si accorge che nella sostanza più profonda, nemmeno all'autore importa tanto di ciò che sta raccontando. Quando viene data per scontata, la parentela, lì alzo le antenne, mi preoccupo, divento indagatore.

Per unlibro non narrativo, militante e appassionato come Assalto al cielo, la risposta alla domanda sulla parentela appare ancora più scontata. E questo è il vero pericolo: proprio perché racconta sprazzi di vita vera, con i quali non si può che essere empatici, proprio perché presuppone la passione, un reportage giornalistico-narrativo del genere, potrebbe essere, come dire, dopato. Nel senso che chiunque potrebbe pensare – addirittura sentirsi in dovere di pensare: vado io, lo scrivo io. Per questo motivo, la parentela è tanto più necessaria. Quanto più è scontata, tanto più sento la necessità di vedere se c'è per davvero.

E Michela Giachetta porta con sé, in questi viaggi dentro le vite a cui è stato o vuole essere tolto il lavoro, un sentimento preciso che rimanda alla sua precarietà. È il punto di vista che ci voleva. Per questo, Assalto al cielo l'ha scritto lei e non un altro.

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Pagina 13

Il paradiso può attendere


"Usciamo fuori a fumare?" "No, no, qui si fuma in fabbrica." Roberto tira fuori le sigarette dalla tasca e ne accende una. Pochi giri di parole, poche regole, ma chiare. Qui comandano gli operai. Le regole le hanno stravolte e riviste. In alcuni casi reinventate. Il fumo si perde nel capannone enorme. Nessuno fiata, nessuno protesta per la violazione di quella regola, si sente solo il caos dei macchinari in funzione. Il giallo e blu della fabbrica si mischia con il grigio e il blu delle tute dei lavoratori. In mezzo all'azienda una segreteria operativa, quasi un corpo estraneo fra tutti questi ingranaggi. Due grosse gru sfiorano il sottotetto. I muri hanno qualche crepa, anche se sono stati appena ridipinti. Fuori c'è il sole, filtrano pochi raggi, illuminano pezzi di ferro e corpi. Il terreno intorno alla fabbrica è terriccio, sabbia e polvere si alzano a ogni passo. In una parte dell'azienda le finestre sono rotte, sembra sia passato da queste parti un terremoto. Scoprirò solo dopo che da queste parti un terremoto è passato davvero.

Se si ha voglia di guardare in faccia cosa è sopravvissuto al terremoto, bisogna prendere la metro e scendere alla fermata di Lambrate, a Milano. Salire su un autobus e farsi guidare per una ventina di minuti. Si deve attraversare tutta Lambrate, quartiere nella periferia milanese, strade strette, negozi e poi il nulla. La destinazione è via Rubattino. Scendo e mi trovo su uno stradone senza strisce pedonali nelle vicinanze della fermata del bus. Di qua o di là della strada. L'Innse, azienda metalmeccanica, è di là. Per raggiungere la fabbrica, devo conquistare uno spartitraffico che taglia in due lo stradone, respirare l'aria di alcune industrie milanesi, evitare di farmi investire nel frattempo. La tangenziale è a due passi, l'aeroporto di Linate a cinque chilometri, nelle vicinanze la stazione di Lambrate. Tutt'intorno ci sono fabbriche e fabbriche, molte chiuse, pezzi di terreno che farebbero la gioia di qualsiasi immobiliarista, su tutti l'ombra dell'Expo 2015, l'Esposizione universale che si svolgerà a Milano fra tre anni.

Lascio la carta d'identità all'ingresso, mi danno un tesserino da visitatore, lo attacco al giaccone. Fuori c'è un'area immensa, duecentomila metri quadri di terreno. Dentro l'azienda macchinari da migliaia di euro. La precisione è il loro punto di forza. Qui lavorano Roberto e Stefano, "niente cognomi per carità, che la nostra storia è la storia di tutti i cassintegrati". Occhi scuri, tute blu. Mani grosse e una diffidenza che si respira. Sono due degli operai che hanno inventato la stagione dei tetti. Hanno provocato il terremoto e sono sopravvissuti, loro e tutti gli altri colleghi. Sono stati i primi a salire in alto, per rivendicare i loro diritti. Tutti iscritti alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici che ha detto no al patron della Fiat, Sergio Marchionne, per intenderci. L'unico che ha detto no. Per raccontare la loro storia, bisogna partire dalla sigaretta accesa, contro tutte le regole, dentro la fabbrica e dall'area che circonda lo stabilimento.

All'Innse si fabbricano presse, utilizzando enormi macchine di altissima precisione. Di quelle attrezzature Roberto e Stefano conoscono ogni piccolo dettaglio, pregi e difetti. Se ne prendono cura da anni. Perché, mi dicono, sono la loro forza per il domani. "Sembra una cazzata, ma quando c'è un padrone che viene e ti impone la chiusura perché i macchinari sono obsoleti, se non ho fatto bene il mio lavoro, rispondo Si, hai ragione. Ma se io a quelle attrezzature ho fatto la balia per anni e tu mi dici che sono vecchie, io ti chiamo dentro, ti metto alla prova. E ti dimostro che dietro la chiusura ci sono altri interessi."

La prova l'hanno vinta i dipendenti Innse. Dentro c'è odore di olio, di ingranaggi. Ci sono gli operai. Ci sono sempre stati. Anche quando Lambrate, l'attivissima Lambrate è diventata la zona da cui fuggire. Nel 2008, nel nord ricco e produttivo era più facile trovare un operaio a casa che dentro una fabbrica. I lavoratori dell'Innse a casa non sono mai voluti restare: hanno toccato il fondo, che per loro era la cima di una gru. Ma poi sono risaliti, hanno ripreso il loro posto. Il nuovo imprenditore, la politica e le istituzioni si sono resi conto che le macchine erano comunque in uno stato efficiente, pronte a rimettersi in moto.

Il giorno prima dell'appuntamento con Stefano e Roberto, li chiamo per avere conferma dell'orario. "Facciamo alle 11?", chiedo. "Meglio fare alle 11.30, prima c'è la pausa pranzo." Chiudo la chiamata e sorrido. Io alle 11 al massimo sono al secondo caffè della giornata. So per esperienza diretta che al nord l'ora del pranzo è anticipata rispetto al sud, ma non avrei mai pensato che qualcuno alle 11 potesse essere già seduto in mensa. A quell'ora, però, chi è entrato in fabbrica alle 6 è già a metà giornata di lavoro, mi rispondo da sola.

La mensa ha tutto l'aspetto di una vecchia roulotte. È una delle strutture che dovrà essere rinnovata, secondo i piani del nuovo imprenditore che ha acquisito l'azienda. Quando arrivo all'Innse, gli operai hanno appena finito di mangiare. Alcuni di loro sono già chini su macchine talmente grandi che servirebbe un grandangolo per farle stare tutte in una foto. Due carriponte in cima, su uno di quelli sono saliti nell'agosto del 2009 cinque lavoratori: "Per evitare che questa fabbrica chiudesse, ci siamo dovuti impadronire della fabbrica stessa". Scelta che rivendicano con orgoglio.

La loro è una rabbia che viene da lontano. La loro è la storia di un collettivo, di un gruppo. Non racconteranno nulla di sé, pochi spiragli di vita privata. Non è mica da questi particolari che si giudica un lavoratore. Un operaio lo riconosci dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia. Mi viene in mente De Gregori, mentre Roberto e Stefano parlano. Chissà se loro quella canzone la conoscono. Non glielo chiedo. Vorrei conoscere le loro storie. "Mi piacerebbe sapere quale era, qual è la vostra quotidianità fuori dal lavoro..." Mi trovo davanti un muro. Li vedo irrigidirsi: "Che cosa vuoi sapere? Dei nostri mutui, degli affitti, delle bollette da pagare? E poi? Ci mettiamo a piangere? Mi metto a piangere?". Stefano non mi lascia finire la domanda. Alza la voce per dire no, il nostro privato rimane nostro. "Si sa che il rimanere senza lavoro ha portato squilibri dappertutto, in qualsiasi famiglia. Le problematiche si sanno, sono sempre quelle: ti viene a mancare un reddito alla fine. E come fai?", incalza Roberto. Sono due voci, ma è la stessa che parla, quella del gruppo. Quella di chi ha deciso che le vite personali rimangono fuori. Stefano chiarisce meglio il concetto. Addolcisce il tono, la forma del discorso, ma la sostanza rimane la stessa. "Non la metterei sul personale, perché sul personale non c'è niente da dire, non ne parliamo nemmeno fra di noi. E stato dichiarato un interesse collettivo. Questa non è la storia di un'azienda che ti lascia a casa perché non c'è più lavoro. Noi potevamo contare sul fatto che qui c'era sotto un discorso ben diverso, una speculazione immobiliare, a scapito degli operai." Si fermano, lasciano passare qualche secondo. E ho come l'impressione di essere sotto esame. Provo a insistere, ma so che non servirà a nulla. Così è.

La stanza in cui ci troviamo è il luogo delle riunioni sindacali, nel cuore dell'azienda. Fuori c'è un terreno semi abbandonato, pure i capannoni in cui lavorano non sono in ottime condizioni, anche se in parte, nell'ultimo anno, sono stati risistemati. In un lato dello stabilimento le vetrate sono rotte. Se ne occuperà il nuovo imprenditore, l'ingegnere Attilio Camozzi, capo dell'omonimo gruppo industriale bresciano, che ha rilevato la fabbrica nell'agosto del 2009.

La storia dell'Innse inizia molti anni prima. Questa è la fabbrica dove si costruiva la Lambretta, all'epoca in cui l'azienda era in mano alla Innocenti. Fino agli anni Ottanta lo stabilimento funziona, da quel periodo in poi, ogni due anni subentra un nuovo proprietario. La prima grossa crisi arriva alla fine degli anni Novanta: allora c'erano 300 dipendenti fra operai e impiegati. I colletti bianchi vengono acquisiti da un diverso gruppo industriale. Si passa attraverso un fallimento. L'azienda è messa in liquidazione.

A febbraio 2006 la fabbrica viene rilevata dall'imprenditore Silvano Genta, gli operai sono 51. La promessa è il rilancio. La proprietà dell'area resta in mano all'Aedes immobiliare. Passano due anni, a fine maggio 2008 arrivano ai lavoratori le lettere per cessata attività. "È un sabato mattina, io ero con la mia famiglia a Corso Buenos Aires, a Milano, a fare shopping e vengo chiamato da un collega che mi avvisa di quello che stava succedendo", racconta Roberto, "ci ritroviamo tutti in fabbrica." Immediatamente decidono di occuparla, la fabbrica. Assemblea permanente e tutti dentro. "Già dal venerdì fuori c'erano guardie giurate che avevano il compito di presidiare l'area, ma siamo riusciti a scavalcare ed entrare." Tutti dentro, tutti al lavoro, anche se nelle tasche ogni operaio ha una lettera di licenziamento. L'unico modo per convincere l'imprenditore a non chiudere è far vedere che il lavoro c'è. Ad agosto 2008 Genta apre la procedura di mobilità. A metà settembre la polizia fa sgomberare gli operai, restati in fabbrica fino a quel momento. E mette sotto sequestro l'area. Dove ora si trova la portineria all'ingresso dello stabilimento, prima c'era un capanno: diventa la loro base. Il presidio è attivo sette giorni su sette, 24 ore su 24. "Non si deve credere a quello che è uscito sui giornali in quel periodo, che qui c'avevano offerto soldi, altri posti di lavoro. Qui non c'è mai stato offerto niente. Lì c'è il portone chiuso, quello è il poliziotto col manganello, queste sono le cose che devi affrontare oggi, domani e poi. Noi non abbiamo accettato compromessi, e ci hanno sbattuto in strada. Da lì è partita la nostra lotta solidale."

Ogni volta che il proprietario prova a entrare in azienda per prendere qualcosa, succede il parapiglia. "Il messaggio che Genta ci lanciava era chiaro: io sono il padrone e faccio quello che voglio e te lo faccio vedere", dice Stefano. I lavoratori contestano anche quell'aspetto: ok è proprietà privata, ma tu non mi metti in mezzo a una strada, io in mezzo a una strada non ci sto. Punto. "Combattiamo in tutti i modi che conosciamo." La politica, quella dei palazzoni e delle istituzioni, non si interessa alla loro storia.

Stefano non cerca le parole, me le getta addosso con orgoglio e con rabbia. Io quella rabbia la conosco. Non se ne va nemmeno quando vinci una battaglia. La voce si scalda, come il motore di un'auto appena accesa. "Noi avevamo il potere politico contro, il padrone contro." "Durante un incontro in Provincia un politico con un ruolo importante ci ha chiesto: Che cazzo volete da me? Come che cazzo vogliamo da te? Ed era anche sotto elezioni." "Fuori firmano sulle chiusure delle aziende accordi che fan paura, loro non vivono più la fabbrica. Ti dicono: piuttosto che la chiusura è meglio fare un po' di cassa integrazione. Ma io con 700 euro al mese che ci faccio?" "In un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo tu vai a smantellare delle fabbriche? Tu sei fuori di testa: ce n'è una miriade di fabbriche chiuse, perché in questi anni la politica del sindacato è stata questa."

Basta mettere il naso fuori da lì, per contare quante sono le aziende chiuse nella zona di Lambrate. La crisi economica da queste parti ha l'aspetto di capannoni scheletrici, come quello dell'ex Maserati, lì a due passi, il rumore di sigilli messi alle fabbriche, il silenzio di un lavoro che non c'è più.

Quando Stefano e Roberto raccontano la storia dell'azienda, ci sono parole che rimbombano nella stanza. Nessuno sembra accorgersene, i lavoratori alle macchine continuano a fare quello che stavano facendo. Eppure parole come "padrone", "interesse dell'operaio", "gruppo" sono ripetute talmente tante volte che è impossibile far finta di niente. La voce di Stefano e Roberto non cede mai, il tono non si addolcisce nemmeno quando lasciano trapelare la fatica della loro lotta, le mani si muovono mentre parlano, gli occhi non si abbassano un secondo. I duri e puri della Fiom, li ha definiti qualcuno. Quelli della Fiat, certo, ma anche quelli dell'Innse. Padrone da una parte, operaio dall'altra. Due mondi che da queste parti non si sorrideranno mai. Nel mondo degli operai ci sono diritti che non si chiedono, si pretendono, con le buone o con le cattive: "Noi abbiamo tenuto il capo del personale dentro il suo ufficio, perché non arrivava lo stipendio, pensava che scherzassimo. Noi non scherzavamo: io sto qua giorno e notte, ma tu stai qua giorno e notte con me finché non ci paghi. Tu a quel punto devi fargli vedere che sei più cattivo di loro". Ci sono diritti che non hanno prezzo: "Io non sono in vendita. Come operaio il mio unico interesse è di non fare chiudere le fabbriche. Se tu accetti 20.000 euro per andartene, è come se accettassi di far chiudere le fabbriche e dai un prezzo al tuo lavoro. Ma il mio lavoro mette in moto l'uscire da casa, il rendermi utile per la famiglia, mi garantisce un futuro. E il mio futuro vale più di 20.000 euro".

Le parole diventano più dure, la voce si adegua: "I politici, i sindacalisti parlano tanto di democrazia, la fantomatica democrazia... La democrazia non esiste, se io non mi scontro con quelli là e non uso il pugno duro come lo usano con me, io con la democrazia sai cosa faccio? Vado a casa, con la testa bassa. Che la democrazia se la tenessero loro".

Detto, fatto. Genta, durante il presidio, prova più volte a entrare in fabbrica, ma gli operai si mettono in mezzo. Ci sono scontri con le forze dell'ordine, feriti fra gli agenti e gli stessi lavoratori.

A marzo 2009 cambiano i vertici dell'Aedes, l'azienda proprietaria del terreno. In quella sede gli operai si fanno vedere spesso. "Più che incontri erano veri e propri assalti. Rompevamo le scatole finché non eravamo ascoltati." Ma il punto rimane sempre lo stesso: la Innse deve andarsene da qui. Su questo terreno si vuole costruire altro. Incominciano le pressioni per far sì che i lavoratori cedano. Ci sono continui incontri in prefettura. "Anche loro ci dicevano: È finita. E invece no, noi andiamo avanti. Se la lotta la vinciamo, la vinciamo. Se non la vinciamo però, va tutto a scatafascio, non è che ce ne andiamo via così. Qua ti diamo fuoco a tutto. Ti distruggiamo tutto. Da qua non porti via niente." Si fa presto a dire "aumentano gli operai senza lavoro", oppure la cassa integrazione è cresciuta anche nell'ultimo semestre del 10%. Quelle sono parole, appunto, numeri in alcuni casi: dietro ci sono lavoratori infuriati che hanno imparato ad alzare la voce. Il silenzio degli ingranaggi fermi non lo vogliono più sentire, meglio il deflagrare di parole forti, violente, per evitare, prima che sia troppo tardi, quel nulla assoluto.

Le parole esplodono fuori dal presidio. Qualche politico comincia a farsi vedere, "ma noi non abbiamo voluto nessun tipo di partito, la bandierina qui non la vieni a depositare. Se qualcuno vuole venire qua a darci solidarietà ok, ma la lotta ce la gestiamo noi. Noi abbiamo una prospettiva". A fine luglio, però, la prospettiva sembra scomparire. Genta manda in fabbrica un gruppo di persone per portare via alcuni macchinari. Senza quelle macchine l'azienda non ha davvero più futuro. Gli operai si giocano il tutto per tutto: "L'unica cosa da fare è rischiare. Non dovevano certo insegnare a noi da dove entrare senza essere visti". Bisogna solo distrarre polizia e carabinieri. "Fuori c'era di tutto, c'era l'esercito veramente, 400-500 persone."

Il 2 agosto 2009 cinque operai entrano nell'azienda e salgono su una gru. Stefano e Roberto oggi sanno di aver aperto quella che dopo, solo mesi dopo, sarà chiamata la stagione dei tetti. Ma non lo rivendicano una sola volta. Raccontano soltanto di quei giorni, della loro battaglia. Li ascolto ricordare quelle giornate. Sospesi a 17 metri da terra, su una gru lercia di olio e grasso, il caldo infernale. I cinque operai in cima parlano con i colleghi rimasti a terra e con moglie e figli attraverso un cellulare. Quando viene staccata la corrente, da lassù si fanno i turni, ancora una volta, pochi secondi a testa, per poter parlare con parenti e amici. Una corda è il loro filo di comunicazione con chi non è salito in alto. Giù restano i colleghi più giovani, pronti a correre da una parte all'altra della città, per gli incontri in corso, per spargere la voce. Sono il loro megafono. Resistono lassù otto giorni, cinque operai, molte zanzare, zero dubbi su quello che stavano facendo, "perché non si può smantellare un'azienda sana". Accorrono telecamere e giornali, politici e istituzioni. Le foto e le immagini dei lavoratori sulla gru fanno il giro del mondo, la politica non può perdere la faccia ancora una volta. Il governo per risolvere il problema cerca una persona credibile. Ogni giorno si fa avanti un imprenditore, dicendo di essere interessato all'acquisto. Il nuovo proprietario viene individuato: è l'ingegnere Attilio Camozzi. Accordo raggiunto: Camozzi rileva tutte le macchine, gli operai saranno riassunti.

Io ricordo perfettamente l'agosto del 2009: per me quella è stata un'estate caldissima da un punto di vista lavorativo. Allora scoprivo l'esistenza del contratto di solidatietà e contemporaneamente l'esistenza dell'Innse. Ricordo di aver letto con avidità tutti gli articoli che riguardavano i lavoratori di Lambrate, di averli visti in tv lassù, in cima e di non aver mai pensato "chi glielo ha fatto fare". Intuivo, immaginavo chi e cosa li avessi spinti fin lassù. Ora quella molla la respiro in questa fabbrica, la assaporo ascoltando le parole di Stefano e Roberto. È fame di pane e di diritti. È tenacia. Non si sono limitati a protestare. Hanno voluto raggiungere il cielo sporco come solo una gru può essere. Lo hanno conquistato, impacchettato e portato a casa, giù, per terra.

Quando gli operai scendono dal carroponte è sera tardi, riemergono ai cancelli dal buio della notte e sono accolti da uno striscione: Hic sunt leones. Il concetto è chiaro: gli operai dell'Innse hanno vinto la loro battaglia. Due anni dopo, i lavoratori sono in fabbrica, quasi tutti.

Fuori dall'azienda, macchinone blu e polvere che si alza, mi viene incontro Flavio Logica, responsabile delle Risorse Umane del Gruppo Camozzi. Parla del presente, a fine 2011 sono 48 gli operai in fabbrica. E del futuro: all'orizzonte ci sono commesse importanti che dovrebbero andare in porto nel 2012. E si punta ad assumere una quarantina di persone entro un anno e mezzo. Indica le vetrate che oggi sono rotte: lì saranno realizzati nuovi uffici. Mi spiega anche il progetto pensato per i giovani apprendisti. L'idea è di creare una sorta di scuola all'interno dell'azienda. Con corsi che potrebbero tenere gli operai più anziani ai ragazzi che escono dagli istituti professionali. Gli studenti imparerebbero così il lavoro sul campo e si assicurerebbero un'occupazione. Mentre parla mi guardo intorno. Non c'è più nulla vicino a questa azienda, solo uno stradone e nuove costruzioni, saranno realizzati centri commerciali e case. L'Innse è l'unica fabbrica restata al suo posto in quest'area. Solo qui si continuerà a sentire l'odore di olio e ingranaggi.

Una vittoria, certo, ma fuori, altri colleghi, in altre fabbriche usano altri aggettivi per parlare degli operai dell'Innse: li definiscono "particolari". Per il modo in cui hanno condotto la loro battaglia, per quella rabbia che trapela dalle loro parole. Glielo dico. L'aggettivo non piace. Roberto si scalda, alza la voce. "Ma quali particolari? Qui non c'è niente di particolare, è la cultura che ti insegna a stare insieme a tante persone per tanto tempo con uno scopo ben preciso, un interesse ben preciso, che è l'interesse dell'operaio."

Seduta in questa saletta, penso per un attimo a chi dice che la classe operaia non esiste più: io ce l'ho davanti agli occhi. Mi lascio contagiare dall'odore di questa fabbrica, guardo in faccia Roberto e Stefano che non arretrano di un millimetro dalle loro posizioni, faccio loro compagnia mentre si accendono una sigaretta dentro lo stabilimento. E continuo ad ascoltarli. "Nei momenti di difficoltà ti rendi conto che quando un operaio si mette in testa una cosa la fa. Puoi vincere o perdere, ma la fai. Noi abbiamo tenuto duro." Ne hanno parlato con gli altri colleghi, c'era un obiettivo comune, c'era la determinazione, l'accordo sul tipo di lotta, i fattori esterni che agiscono, la scelta di assicurare comunque la presenza al presidio, anche se non porti a casa nulla. "O la morte o il lavoro. O fai così o dove cazzo vai? L'accordo singolo non ti porta da nessuna parte."

Gli sforzi fatti si sentono tutti, si avvertono nel respiro che accelera, nel tono di voce che si alza quando Stefano e Roberto raccontano il passato recente, nel gesticolare delle mani. Ed è lì, nel ricordo di quello che è stato, che fanno capolino spiragli di vita privata. Il presidio fisso costa fatica fisica, ma anche psicologica, in qualsiasi famiglia. Quando la busta paga viene a mancare crolla l'equilibrio che con tanti sacrifici si era riusciti a raggiungere: "La moglie, dopo cinque, sei, sette mesi che sei lì a guardare i moscerini che passano, ti dice: ascolta, qua il tempo stringe, la pagnotta non viene a casa, cos'è che fai, cosa vai lì a fare? Subentrano queste cose, ma come fai a mollare?". È un rischio che gli operai hanno deciso di correre, con costanza e convinzione. Poi può anche andare male, ma piuttosto che fare una fine magra hanno lottato fino allo spasmo. "Anche perché, dove vai altrimenti? Le fabbriche sono chiuse. Mi fai fare un corso di riqualificazione, ma dove? Per cosa? Potevamo cercare anche noi un altro lavoro, però avrebbe significato dire al padrone Ok, fai quello che vuoi. Noi invece volevamo si facesse quello che dicevamo noi, riaprire l'Innse." È stato un azzardo, un peso che hanno portato perché sapevano dove volevano andare. Una scommessa (vinta) con loro stessi e contro il vecchio proprietario. "Il padrone va per la sua strada? Perché io non posso andare per la mia? Devo accettare tutto a priori? No, non l'accetto a priori, come mia moglie non ha accettato a priori che io venissi qua tutti i giorni, mia moglie come la moglie di tutti gli altri."

Dal 2 agosto 2009 la rabbia dei lavoratori è sempre più spesso salita sui tetti, ma il posto di lavoro l'hanno riottenuto in pochi. Non sempre urlare la propria rabbia dalla cima di una gru o di un monumento paga. Chiedo cosa c'è di diverso qui, qual è stata la carta vincente. Stefano non ci pensa nemmeno un attimo prima di darmi una risposta: "Abbiamo cercato di tutelare solo ed esclusivamente gli interessi nostri, di operai. Il lavoro che facciamo può essere pure brutto, perché, parliamoci chiaro, il lavoro non è bello, ci pagano quattro soldi. Ma io devo riuscire a mangiare oggi domani e magari anche dopodomani".

Per ora qui all'Innse il pane è assicurato, un nuovo imprenditore è stato trovato ed è al lavoro per ampliare l'attività, i dipendenti sono tornati in fabbrica. "Poi fra due anni vedremo", dice Roberto, "Camozzi è anche lui un padrone, non un benefattore. È un industriale che punta ad avere il suo pezzo di terreno, il suo bel praticello, ma rientra nella logica di interesse. Noi siamo sempre sul chi va là, la nostra prerogativa è di non dormire sugli allori. Sappiamo benissimo che quando si ha a che fare con un padrone bisogna stare attenti." Il messaggio è stato lanciato, forte e chiaro, duro e puro, come loro. Roberto e Stefano mi accompagnano verso l'uscita. Il sole si riflette sui macchinari gialli e sul blu delle tute dei lavoratori. Roberto si accende una sigaretta, dentro la fabbrica. Qui comandano loro. La classe operaia non va (più) in paradiso, si è fermata a Lambrate.

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Fioravante Fabozzo, detto Floriano, è uno degli immigrati. Trent'anni, maglioncino blu, fisico asciutto e occhi azzurri, si vede il mare lì dentro. Quello che gli manca. Anche se a Sant'Antimo, il suo paese, a nord di Napoli, il mare non c'è, si deve prendere la macchina per trovarlo. Ma Floriano sembra averlo dimenticato. Gli mancano le onde enormi dell'inverno che sbattono sul lungomare, la passeggiata ai suoi piedi, l'odore di salsedine: "Solo chi è vissuto in un posto di mare sa cosa vuol dire averlo a 150 chilometri di distanza". Floriano a 21 anni lascia il suo paese a nord di Napoli per venire a lavorare alla Merloni. Vede un annuncio della fabbrica che cerca nuovi operai, molla gli studi di ingegneria, "perché a 20 anni fai degli errori, il mio è stato di pensare a guadagnare i primi soldi, voler rendermi indipendente a tutti i costi". Per lui la Merloni è stata una scommessa, pensava di tornare a casa dopo una settimana, sotto la sottana di mamma, invece dopo nove anni è ancora qui. Sulla sua decisione influisce anche il luogo in cui è nato, e quello non lo scegli. Puoi però provare a buttarti in un futuro diverso: "Sant'Antimo è uno di quei paesi dove il giovane di 20 anni o decide di stare ai ricatti di chi gestisce l'occupazione, oppure decide di mettersi in mano una pistola". Mi immagino Sant'Antimo e mi guardo intorno. Vedo quello che ha reso l'Umbria famosa. Gli agriturismi, il buon cibo, la pace. L'Umbria è la regione in cui passare un fine settimana di calma e tranquillità, lontano dal caos di una grande città. La campagna intorno, poche case, il silenzio, "l'aria buona.", sempre consigliata dai medici, da respirare. Io che abito nella Capitale non riesco a immaginare la quotidianità in un posto come questo, dove tutti si conoscono e i servizi sono tutti racchiusi in una piccola piazza. A Roma puoi considerarti fortunato se in una stessa mattina riesci ad andare alle Poste e a fare la spesa. Gli chiedo come sia stato il salto dalla Campania all'Umbria. Sorride. "Fra ricatti e pistole ho cercato una terza via e ho trovato il posto in fabbrica. Forse il lavoro non mi piaceva, forse non lo sapevo nemmeno fare, mai lavorato in una fabbrica, ma volevo essere pagato il giusto per quello che producevo." Si trova in mezzo a un ingranaggio che funziona, senza pistole e senza ricatti. Ricorda quegli anni con un unico lungo discorso, mai interrotto. Un appartamento in affitto. Un piccolo gruzzolo messo da parte. Tanto da pensare: quasi quasi mi faccio un mutuo, provo ad acquistarla una casa. Le garanzie per la banca ci sono, molte firme e il finanziamento è concesso. Floriano diventa il punto di riferimento per la sua famiglia. Fino a quando l'ingranaggio si inceppa. Ora è costretto a chiedere aiuto ai parenti. "Dopo nove anni di sacrifici l'umiliazione di prendere il telefono e chiamare casa per pagare una bolletta mi fa sentire male." Il presente di Floriano è fatto di conti che non tornano, non tornano mai. Ha un mutuo di 300 euro al mese, stipulato quando la situazione in Merloni era ancora salda. La sua fidanzata, che studia psicologia, un lavoro qualsiasi l'ha cercato, badante o donna delle pulizie, "ma qui non c'è lavoro". Ora convivono con 700 euro di cassa integrazione. Dal 2005 al 2008 è riuscito a bloccare il mutuo per qualche rata, poi la cassa integrazione è aumentata, ha richiesto se poteva sospendere il pagamento in banca per altri mesi, gli hanno detto no. Qualche tempo fa è uscito un nuovo bando del ministero in cui era prevista per i lavoratori in difficoltà la possibilità di fermare il pagamento. "Sono andato alla mia agenzia e abbiamo aperto il bando: c'erano due vincoli importanti, potevi accedere se avevi perso il lavoro o se c'era qualche morto in famiglia, io ho chiamato subito a casa chiedendo come stavano tutti, tutto bene, quindi non si può fare..." A Floriano scappa un sorriso, amaro, non ha perso l'ironia, tutto il resto sì. Ha dovuto chiedere un finanziamento anche per comprare una stufa. E ora convive coi sensi di colpa. "Mi alzo la mattina e mi sento in colpa perché non ho un lavoro, so che la colpa non è mia, ma mi assale quel senso di inadeguatezza che mi resta addosso tutto il giorno." La sua ragazza è sarda, anche lei ha la famiglia lontano. Se la situazione continuerà ad essere in stallo, saranno costretti ad andare via, a lasciare Nocera Umbra. Destinazione? Qualunque posto in grado di offrire un'occupazione. "Se fino adesso non l'ho fatto e perché c'è ancora un minimo di speranza." Floriano ha fretta, deve andare in banca, ma quando gli chiedo cosa gli pesa di più, si ferma un attimo e tira fuori tutta l'energia dei suoi trent'anni e la rabbia per il futuro frenato, bloccato. Parla della sua passione per i bei vestiti, per lo shopping. Ma rinunciare a una nuova scarpa o a una bella giacca, limitarsi a guardare le vetrine, ormai non gli pesa più. Non riesce però a rassegnarsi al fatto che il problema della cassa integrazione si riversi anche sulla sua compagna. "Non poterle comprare un fiore nemmeno a Natale è davvero umiliante, non poterle dire: Dai questo fine settimana andiamo a mangiare una pizza, non chiudiamoci a trent'anni a casa." Però ora nemmeno una pizza si possono permettere. "E abbiamo solo trent'anni, è un momento in cui dovremmo spaccare il mondo e invece è il mondo che sta spaccando noi." Questa volta sorrido io. Nel mio viaggio nell'Italia delle fabbriche Floriano è uno dei pochi trentenni che incontro. Penso alla sua rabbia, che è quella della mia generazione. Mi vengono in mente, tutte insieme, le serate con gli amici, "pronti a spaccare il mondo". Spesso quelle serate si concludono con "è il mondo che sta spaccando noi". Che continuiamo a resistere. Anche se ci hanno detto che bastava la volontà per fare il lavoro che desideravamo. Ci hanno detto di uscire di casa per non essere più "bamboccioni". Lo abbiamo fatto, ma per non chiedere aiuto in famiglia siamo costretti a fare tre lavori tutti insieme. La chiamano flessibilità. Floriano, che molla tutto per essere indipendente, è la prova tangibile che non sempre la volontà è sufficiente. Lo saluto con la stessa frase che ci ripetiamo noi a fine serata: "Resisti, non mollare". Ricambia il sorriso e scappa in banca.

Continuo a chiacchierare coi suoi colleghi, tutti più grandi. Mi descrivono la catena di montaggio, dove lavorano circa 25 persone per volta. "Immagina un nastro trasportatore continuo." Il primo operaio prende le traverse, le mette sulla catena dove arriva lo scheletro del frigorifero, ognuno deve comporre parte dell'elettrodomestico, chi mette le viti, chi il motore, c'è il saldatore, uno lavora davanti uno lavora dietro, fino all'imballatrice. Avanti e indietro, prima un pezzo, poi l'altro. Dall'inizio alla fine delle operazioni, la catena non si ferma mai. Giuliano Ercolani, 38 anni, romano, anche lui emigrato in Umbria con la sua famiglia, quando aveva appena 7 anni, era la persona che si occupava di portare gli oggetti che vanno dentro il frigorifero, dalle verduriere ai pezzi di plastica. "Io la lancio la roba, a quei ritmi è impossibile fare diversamente." Usa il presente, come se il suo lavoro non l'avesse perso, come se avesse appena staccato dalla fabbrica. Eppure sono passati più di due anni da quando ha messo dentro l'elettrodomestico gli ultimi oggetti. Muove le braccia, le mani, mi mostra il lavoro come se lo stesse facendo in quel momento. "Di solito si ferma la catena per 10 minuti, per la pausa. Se c'è qualche problema extra, se c'è bisogno di andare in bagno fuori da quei 10 minuti, chiedi a qualcuno che ti sostituisca. Se c'è bene, se no devi aspettare." E se la catena si ferma per l'errore di qualcuno? "Visto che i tempi si possono aumentare, la catena gira più veloce di 2 o 3 secondi per recuperare i pezzi persi, è una cosa che non si potrebbe fare, ma la fanno." Anche Giuseppina ricorda i giorni di lavoro. Quando le chiedo che cosa la manca di più della fabbrica, mi risponde ridendo: "Il frigorifero che mi casca addosso". Penso a un incidente avvenuto in azienda, ma mi spiega che no, altro che incidente. Il frigorifero che improvvisamente cade è la sensazione che ti rimane addosso quando lavori 8 ore alla catena di montaggio. I primi giorni che un operaio arriva in fabbrica non riesce a fare niente, perché il nastro va troppo veloce. Però da subito gli resta addosso quel senso di movimento continuo, è come se ondeggiasse anche lui. "Ti sembra che il frigorifero a forza di ondeggiare possa caderti addosso da un momento all'altro. Quando esci e ti trovi davanti a un lavandino sembra ondeggi pure quello, è una situazione che solo chi è stato alla catena di montaggio può capire." Respira per qualche secondo, come se fosse di nuovo in mezzo a quelle onde e dovesse riprendere fiato. Poi mi guarda dritto negli occhi e mi consegna una frase che riassume tutto: "Mi manca il lavoro in sé, il lavoro è dignità. Senza che vita abbiamo?".

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La murga a Roma


"Tutto bene lassù? Passo." "Fa freddo, ma resistiamo. Diglielo, noi resistiamo qui finché non avremo risposte. E che siano scritte, basta con le parole. Passo e chiudo." Riesco a sentirli, ma non li vedo. Sono talmente in alto che non si vedono. Sdraiati a 50 metri da terra, su un asse di acciaio. Quando si alzano sembrano sagome più che uomini. Quando si alzano lo fanno solo per salutare i colleghi, giù, in basso, presenti e vigili. Per parlare con loro uso il walkie-talkie. Roma sonnecchia ancora, nella sua indolente indifferenza. Il barista nel chiosco di fronte a quegli uomini lassù in cima, non smette, nemmeno per un attimo, di fare cappuccini e cornetti, due caffè, prego. La luce del giorno filtra fra i palazzi. Una signora si affaccia da una finestra, guarda in alto, poi verso il basso e continua a stendere vestiti. Alcuni uomini cominciano una colletta, 5, 10 euro, nome segnato su un taccuino. Hanno già riempito un foglio, stanno scrivendo sul secondo. Due fogli di nomi e cognomi appuntati. Arrivano telecamere, giornalisti, qualche passante, molti colleghi, la notizia ha fatto il giro della città: è stato espugnato il Gazometro, quattro lavoratori sono saliti in alto, a 50 metri da terra. Due anni dopo l'impresa dei dipendenti dell'Innse, i primi a salire su una gru, l'assalto al cielo rimane l'unica forma di protesta che fa notizia. Gli operai sul Gazometro non vogliono perdere il loro posto di lavoro. Per urlare la loro disperazione hanno scelto quel cilindro d'acciaio, alto quasi 100 metri, simbolo della Roma industriale, il cuore del quartiere Ostiense. Quel pezzo di città di notte si trasforma per accogliere i giovani, i locali aprono le porte, la musica invade le strade, cartelli esposti con scritto: "Abbassate la voce, qui sopra qualcuno dorme". Ma durante il giorno la zona si presenta struccata, capelli al vento e operai al lavoro. L'hanno raccontato in tanti questo spicchio di città. Il sole rosso dei tramonti che filtrava dal Tevere fino al Gazometro conquistò Pasolini e i suoi Ragazzi di Vita. Baglioni ha scelto come tema della sua tesi in Architettura la riqualificazione di quest'area. Il regista Ozpetek con Le fate ignoranti ha portato sul grande schermo l'Ostiense moderna, con le sue vie, i suoi colori e tutti i suoi odori. Qui c'è la sede dell'Italgas, l'azienda che fornisce gas. I lavoratori saliti sul Gazometro sono dipendenti della Conus spa, si occupano della lettura dei contatori. Hanno scelto il simbolo del loro lavoro e quello di un'intera città per farsi sentire.

Per arrivare al Gazometro attraverso buona parte della Capitale: percorro via Trionfale e non posso fare a meno di buttare, come sempre, un occhio e tutto il cuore alla mia sinistra per ammirare lo scorcio di una delle più belle viste di Roma dall'alto. Passo in mezzo agli studi legali del quartiere Prati, lascio alle mie spalle la folla di turisti che alle 8 è già in fila per i Musei Vaticani. Il Lungotevere è ingolfato, come al solito. Le auto scorrono da una parte all'altra del fiume. Più che guidare, mareggio anche io. Non riesco a fare un chilometro senza essere costretta a fermarmi. Ma ormai al traffico sono quasi abituata. Ho imparato a muovermi in auto "come i romani". "Se vuoi sopravvivere e non passare tutta la giornata in mezzo al caos, al volante devi essere cattiva", mi è stato detto appena sono arrivata in città. Ho imparato a "essere cattiva", tanto che in meno di un'ora riesco a raggiungere il cilindro d'acciaio. I lavoratori lassù in cima si muovono come le macchine sul Lungotevere: flusso continuo e lento. Il giorno prima sono saliti sul Gazometro e per tutta la notte, per colpa del freddo, si sono mossi avanti e indietro, tutto intorno, fino a consumarlo quell'acciaio. Al mattino la stanchezza si fa sentire, ma non c'è alcuna intenzione di fare un passo indietro. Sono sul Gazometro perché esasperati da un anno e mezzo di stallo: c'è una nuova gara d'appalto per decidere chi sarà la prossima azienda che si occuperà della lettura dei contatori, ma per i dipendenti Conus non è prevista alcuna clausola di salvaguardia occupazionale.

Parlo con loro attraverso un walkie-talkie in mano ai colleghi in presidio fuori dalla sede dell'Italgas. "Ci siamo stancati di subire tutte le decisioni. Siamo incazzatissimi." Da lassù risponde Massimo Sestito, 57 anni, i suoi occhi azzurri e la sua pelle chiara da sotto il Gazometro non si vedono, li scoprirò solo quando saranno scesi di nuovo a terra. Ma la sua voce si sente forte, vibra, chiedo se hanno avuto freddo, come stanno. A Roma la primavera è già arrivata, ma sui marciapiedi e nelle strade, non a 50 metri d'altezza. Hanno passato la notte all'addiaccio, poche le ore di sonno. Il vento li ha presi a sberle, tanto che sono dovuti scendere dal terzo al primo anello. "Abbiamo i cellulari scarichi, possiamo comunicare solo con i walkie-talkie, è dura, ma da qui non scendiamo, finché non sarà garantito il nostro posto di lavoro." Il messaggio è chiaro e condiviso anche dai colleghi sotto al Gazometro. Sono una cinquantina almeno. Hanno attaccato striscioni all'ingresso dell'Italgas: "Lavoratori=rifiuti", hanno disegnato quattro operai, su uno di loro è stata incollata la fotografia di Massimo. Il lavoro è bloccato, anche quello dell'Italgas, si esce solo per le emergenze. Una sbarra divide chi sta dentro l'azienda e chi fuori al presidio. I lavoratori fuori sono tutti dipendenti Conus. Aspettano una risposta dall'Eni, la società madre. È dedicato ai dipendenti Eni lo striscione che gli operai hanno srotolato dal Gazometro: "Caro ex collega dell'Eni, io sono quello che tu domani sarai... esubero".

Oggi quella struttura ha gli occhi puntati addosso, ma da tempo non riceve più attenzioni. Il cilindro d'acciaio è stato illuminato solo una volta, durante una Notte Bianca di veltroniana memoria: divenne il Luxometro per una sera, luci addosso e politici attorno. Poi, struccato e imperfetto, tornò al suo grigio, al suo immobilismo. Che risale agli anni Sessanta, quando è stato dismesso, anzi dismessi (i Gazometri sono tre), fino ad allora erano stati utilizzati per accumulare il "gas di città", poi soppiantato dal metano. Ieri in questa zona c'erano i Mercati Generali, un andirivieni continuo di frutta, verdure, cibo e persone. Oggi, intorno, nascono e muoiono piccoli negozi, resistono quelli storici, il fruttivendolo sotto casa, l'edicola nelle vicinanze, molti bar. Qui resistono anche i lavoratori Conus: la loro sede è sulla Tiburtina, nella periferia est di Roma, ma hanno scelto questa zona per rivendicare i loro diritti. E fare ascoltare a tutti la storia della loro azienda.

La storia della Conus è una fitta trama di cessioni e di vendite, di appalti e decisioni prese dall'alto, di lavoratori che da un giorno all'altro si sono trovati impiegati in una azienda diversa da quella da cui erano stati assunti: è stata creata nel 2001 da una cessione del ramo d'azienda dell'Eni. Società che nel 2009 ha deciso di cedere il 100% di Italgas alla neo costituita Snam, da cui dipende Conus. Ieri erano impiegati 120 operai, tutti ex dipendenti Italgas. Oggi sono 250 i letturisti, di cui un centinaio solo a Roma. Altre 190 persone operano nell'indotto.

La cessione del ramo d'azienda per i lavoratori non è stata indolore: "Mio nonno, mio padre ed io, abbiamo lasciato in Italgas 95 anni di lavoro, io la chiamavo mamma-gas, perché fin da piccolo mio padre mi portava con lui in fabbrica", racconta Mauro Ricci, 54 anni, un altro degli operai saliti sul Gazometro. C'era anche una chiesetta, dentro la fabbrica, la domenica andavano lì a messa. "Il nostro era un sentimento di forte appartenenza. Quando c'è stata la cessione del ramo d'azienda, è stato come sentire il cordone ombelicale che si rompe." È stato assunto nel 1980 e il trasferimento a Conus è avvenuto nel 2001. Sono passati dieci anni, ma ancora oggi si considera un ex Italgas. L'appartenenza è una camicia che ti si stira addosso con il passare degli anni, diventa una coperta di Linus. A volte è impossibile cambiarla. "Ci consideravamo l'aristocrazia della classe operaia, era diverso il rapporto, avevamo un dialogo anche coi vertici. Non c'era il padrone delle ferriere."

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Intervista a Luciano Gallino


Luciano Gallino, fra i più autorevoli sociologi del lavoro nel nostro paese, lo incontro nel suo studio al Dipartimento di Scienze della Formazione dell'Università di Torino. Cerco le risposte alle domande emerse durante il mio viaggio in giro per le fabbriche e tenute in tasca fino a oggi. Gallino vuole sapere quali mondi ho visto, quali sono le aziende che ho visitato, che cosa mi hanno detto i lavoratori. Gli racconto tutto. Chiede ancora, puntualizza, allarga il discorso. Solo dopo aver chiaro il quadro, risponde alle mie domande. Partiamo dal 2009, arriveremo all'Ottocento. E alle manifestazioni dei sindacati del 2011.

Professore, le manifestazioni degli operai sono sempre state nelle piazze. Due anni fa però i lavoratori hanno aperto la cosiddetta stagione dei tetti. Qual è stata la molla che li ha spinti verso l'alto?

I lavoratori sanno benissimo che una notizia che non compare in tv non esiste. Oggi l'informazione è tutta in televisione e salire sui tetti è lo strumento per essere presente nel mezzo di informazione dominante. Se la modernità della comunicazione è la tv e in subordine la rete, persone sull'orlo della disperazione, perché non hanno interlocutori e vedono che lo stesso sindacato fatica ad accogliere le loro richieste, ricorrono a questo mezzo dei tetti, che assicura almeno per qualche giorno un po' di visibilità. Non è detto che si ottenga sempre il risultato sperato, ma ogni tanto potrebbe funzionare, magari qualche politico si attiva. Il ricorso al tetto non è comunque un buon segnale.

Su dieci aziende visitate, solo in due casi la salita sul tetto è servita, gli operai sono ritornati al lavoro. In tutte le altre fabbriche, i dipendenti sono ancora a spasso. Si è parlato di loro quando sono saliti in cima, poi il silenzio. Ha senso avere visibilità solo per qualche minuto o al massimo per qualche giorno?

È stato un esperimento per vedere se almeno per alcuni giorni si riesce a bucare l'invisibilità quasi totale del lavoro operaio nei media. E come tutti gli esperimenti può essere efficace o meno. Certamente è uno strumento che si presta molto al logoramento, perché anche lo spettatore che guarda il telegiornale all'ora di pranzo, la prima volta dice: "Accidenti ci sono i lavoratori sui tetti, sulle ciminiere o sui monumenti", ferma per un momento l'attenzione. Ma la terza volta che succede lo spettatore medio sbuffa: "Ancora sui tetti? Ma cosa sperano di ottenere?". Non bisogna però dimenticare che esiste un sistema sociale, politico e culturale che ne ha decretato l'invisibilità politica per molti anni, perché tutto sembrava andare in direzione della società della conoscenza, tutto stava diventando operazioni compiute da personale in camice bianco.

Di fronte a questo sistema, l'idea di ricordare con la salita in alto che qualunque cosa materiale di cui ci serviamo, dalla lavastoviglie alla sedia, viene prodotta da un operaio che lavora in fabbrica è un'idea abbastanza efficace, con il rischio dell'insuccesso, come tutti gli esperimenti.

Come si è arrivati all'invisibilità della classe operaia?

L'invisibilità nasce da fattori strutturali, ideologici e politici. Quelli strutturali riguardano il fatto che sono scomparse le grandi fabbriche che sotto un unico tetto, in un grande stabilimento, contenevano migliaia e migliaia di operai. E allora quelli erano visibili. A Mirafiori, a Torino, c'erano una volta 65.000 operai, oggi gli addetti alla produzione sono appena 5000. Dividiamo quelle 65.000 persone nei tre turni: si parla comunque di 20.000 persone, che nello stesso momento uscivano nelle strade, prendevano gli autobus, e si vedevano. Poi la produzione è stata frammentata in tanti piccoli segmenti che formano le lunghe catene di creazione del valore. Oggi si produce il meno possibile dentro la fabbrica e si affida buona parte del lavoro ad aziende che stanno anche a centinaia, talora a migliaia di chilometri di distanza dalla casa madre. Questa esternalizzazione ha origine negli anni Ottanta. Ma il fatto che la classe operaia sia stata frammentata non vuole affatto dire che non esista più, anzi, nel tempo numericamente non è diminuita di molto.

Con questa frammentazione anche la politica ha smesso di interessarsi alla classe operaia...

C'è stata la grande vittoria dell'ideologia neoliberale, fondata, anche grazie al successo delle telecomunicazioni e della rete, sull'idea della società della conoscenza e di un'economia dove tutto è conoscenza. L'interesse verso le nuove tecnologie si è trasformato in una vera e propria ideologia, quella in base alla quale la produzione materiale non conta più e tutto diventa simbolo e trasformazione di simboli. La politica negli ultimi 30 anni ha virato fortemente a destra, e per la destra non è che gli operai non esistano, ma l'importante è che si facciano vedere il meno possibile, perché ciò che conta è la finanza, la borsa, la cosiddetta produzione immateriale, la globalizzazione che consiste nel far fare ai cinesi tutto ciò che è materiale. Quest'idea ha fatto presa anche nei partiti del centrosinistra, non solo in Italia, ma pure in Francia e in Gran Bretagna. E il fatto che ci sono ancora milioni di operai non va in secondo, ma in terzo piano, non interessa più nessuno.

Si citano sempre le cifre: 400.000 cassaintegrati in Italia, la disoccupazione aumenta al 10%. Dietro a ognuna di quelle cifre c'è una persona con propri desideri, sogni, aspettative, rapporti familiari e di amicizia. Ma nessuno ne parla. Quando abbiamo incominciato a considerare la persona solo come un numero o peggio ancora, come ha scritto lei, solo come una "merce"?

C'è un grande processo storico che riguarda l'alternanza di mercificazione e de-mercificazione. Per larga parte dell'Ottocento e dell'inizio del Novecento il processo è stato quello di mercificare il lavoro, considerarlo una merce come le altre. Il che vuol dire che se la merce è abbondante viene pagata poco, se è scarsa, magari attraverso vie artificiali come la sindacalizzazione, viene pagata di più. Nel dopoguerra, in Europa occidentale nei primi 35 anni c'è stato un grosso processo di demercificazione. Sono stati considerati diritti che prima non erano riconosciuti: il sistema sanitario nazionale non esisteva, si è introdotta l'indennità di disoccupazione, si è stabilito il diritto ad essere considerati come persone dentro le fabbriche. È stato un trentennio di de-mercificazione. Per citare solo un caso: nel 1944 la ricostituenda Organizzazione internazionale del lavoro riscrive lo statuto e nel primo articolo dice che il lavoro non è una merce. Questo messaggio ha improntato la politica e l'economia per 30 anni. Negli anni Ottanta c'è stata una controffensiva nei confronti delle conquiste del lavoro, una nuova ondata legislativa che è andata verso la mercificazione. In Europa non esisteva il lavoro in affitto che è il simbolo più sgradevole del lavoro ridotto a merce: ti usano per due giorni e vieni affittato da una azienda a un'altra.

In Italia più che in altri paesi si afferma questo principio, sancito dal pacchetto Treu del 1997 e riconfermato nel 2003, con la legge che porta a oltre 40 le tipologie di lavoro possibili. Nonostante in Italia esista una pattuglia abbastanza agguerrita di giuristi del lavoro che hanno dichiarato che il lavoro non è una merce, quest'idea ha fatto comunque presa nella cultura politica. I diktat di Pomigliano e Mirafiori ne sono un esempio, fondati sull'idea che il lavoro è totalmente una merce e in quanto tale viene valutato sul centesimo di secondo: nell'accordo su cui c'è stato il referendum, su 34 pagine almeno 19 sono dedicate alla metrica del lavoro, al come si lavora secondo per secondo, come si devono regolare i movimenti, come si usano i macchinari. La politica ha sostenuto questa mercificazione.

Come tornare a considerare l'operaio un soggetto e non più una merce?

Il lavoratore ha bisogno di una rappresentanza sindacale forte, perché il singolo è estremamente debole rispetto all'impresa. La persona che cerca un'occupazione, perché non riesce a sfamare i figli o ad arrivare a fine mese, deve poter contare su un sindacato in grado di convertire milioni di debolezze in un'unica forza. Serve inoltre un partito politico che faccia proprie le ragioni dei lavoratori, come è stato nella democrazia tedesca agli inizi del Novecento, come è stato il Labour britannico in Gran Bretagna nel dopoguerra (prima che qualcuno si inventasse la terza via che ha voluto dire trasformare il Labour in un'appendice dell'ideologia liberale). E come sono stati il partito comunista, socialista, negli anni Settanta. Lo Statuto dei lavoratori è stato voluto da un ministro socialista, Giacomo Brodolini, e da un accademico socialista Gino Giugni. Ma anche i cristiani progressisti, i cattolici sociali hanno dato un contributo importante e hanno votato quello Statuto.

Oggi non esiste un partito che difende gli interessi dei lavoratori?

Se me lo indica lei... perché io non lo vedo. Ci sono partiti ormai ridotti all'1% che si chiamano tuttora comunisti, ma sono fuori dal Parlamento e non possono portare in quel luogo le istanze dei lavoratori. Gli altri partiti dove stanno? Pensano alla famiglia, ad altre cose, ma non esiste un gruppo politico che si preoccupi delle istanze dei lavoratori, prenda le richieste di chi sale sulle gru per portarle in Parlamento, trasformandole in testi di legge. Se non si costituisce quello, la situazione del lavoro come merce è destinata a durare. Ci sono molti fermenti, ci sono state tante manifestazioni, nel nostro paese come in altri, contro il taglio allo stato sociale, le politiche di austerità, contro la disoccupazione dilagante. Ma le manifestazioni della società civile, che siano le donne, gli studenti di Parigi o la Fiom, devono trovare un partito che raccolga quelle voci.

Si è creato però un circolo vizioso, la politica non si interessa ai lavoratori, perché la classe operaia è invisibile. E i lavoratori si allontanano dalla politica. Un partito del genere, se mai esisterà, potrà avere percentualmente la forza di stare in Parlamento e far valere quelle istanze?

Se non c'è un partito in cui i lavoratori possano riconoscersi, perché difende le loro istanze, se non c'è un partito che si oppone a leggi che portano a più di 40 le tipologie di contratto, che si batte contro la disoccupazione e la mercificazione a oltranza del lavoro, se questo gruppo politico non esiste, i lavoratori vanno da un'altra parte.

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