Autore Emma Giammattei
CoautoreJeannine Auboyer, Marc Augé, R. Bianchi Bandinelli, Arduino Colasanti, Lucio Gambi, Paola Gregory, René Grousset, Vittorio Ingegnoli, Luigi Parpagliolo, Adriana Polveroni, Riccardo Priore, B. Rossi Doria, Osvald Sirén, Rosanna Tozzi
Titolo Paesaggi
SottotitoloUna storia contemporanea
EdizioneTreccani, Roma, 2019, Voci , pag. 384, cop.fle., dim. 12x17,4x2,6 cm , Isbn 978-88-12-00818-6
CuratoreEmma Giammattei
PrefazioneAlessio D'Auria
LettoreElisabetta Cavalli, 2020
Classe urbanistica , architettura , natura , ecologia , geografia , storia dell'arte , storia sociale












 

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Indice


  9 INTRODUZIONE
    di Emma Giammattei
    Stadi del paesaggio, 9
    Le Parole, la Storia, l'Atlante della Nazione, 20
    Due scene. Le rive dell'Ilisso, il monte Ventoso, 40
    Strategie novecentesche. Croce storico, teorico, legislatore, 48
    Fine del paesaggio? (Una postilla), 62


    PARTE I. NATURA E ARTE

 73 PAESAGGIO 1935
    di Rosanna Tozzi, di Arduino Colasanti
    e di Luigi Parpagliolo
    La protezione del paesaggio, 98
    Bibliografia, 102

105 PAESAGGIO 1963
    di Ranuccio Bianchi Bandinelli, di René Grousset,
    di Jeannine Auboyer e di Osvald Sirén
    Egitto, 110
    Vicino Oriente, 115
    Antichità classica, 118
    India, 140
    Cina, 141
    Monumenti considerati, 142
    Bibliografia, 145

149 ARTE E PAESAGGIO 2010
    di Adriana Polveroni
    Musei all'aperto, 153
    L'incontro con il pubblico, 156
    Scelta urbana, 160
    Riformulazione del paesaggio, 165
    Smaterializzazione del paesaggio e dell'opera nel paesaggio, 172
    Arte ambientale: declinazione relazionale, 176
    Arte ambientale: declinazione performativa, 180
    Giardino contemporaneo, 182
    Recupero del paesaggio, 186
    Bibliografia 190


    PARTE II. IL PAESAGGIO COME SPAZIO E COME PROCESSO

195 PAESAGGIO 2007
    di Lucio Gambi e di Paola Gregory
    Parte introduttiva, 197
    Bibliografia, 206
    Architettura, 207
    Bibliografia, 240

245 PAESAGGIO 2007
    di Paola Gregory e di Riccardo Priore
    Architettura, 247
    Bibliografia, 265
    Normativa giuridica, 267
    Bibliografia, 275


    PARTE III. LA SVOLTA ECOLOGICA

279 AMBIENTE E PAESAGGIO 1978
    di Bernardo Rossi Doria
    Bibliografia, 293

295 ECOLOGIA DEL PAESAGGIO 2010
    di Vittorio Ingegnoli
    Ecologia, paesaggio, bionomia, 297
    L'ecologia alla fine del XX secolo, 299
    Il rinnovamento in ecologia, 302
    Entità del rinnovamento dell'ecologia, 307
    Teoria della bionomia del paesaggio, 310
    Elementi concettuali, 310
    Processi biologici del paesaggio, 315
    Trasformazioni, alterazioni, patologie di un paesaggio, 319
    Criteri metodologici e applicativi della bionomia del paesaggio, 323
    Bionomia del paesaggio e scienza della vegetazione, 324
    Bionomia del paesaggio e habitat umano, 328
    Bionomia del paesaggio e conservazione biologica, 332
    La nuova figura del medico bioambientale, 334
    Bibliografia, 337


    PARTE IV. IL PAESAGGIO QUASI-ULTIMO

341 NONLUOGO 2015
    di Marc Augé
    Nonluogo e luogo antropologico, 343
    La crisi del luogo, 346

353 NOTA TECNICA
    di Alessio D'Auria
    Il paesaggio nel territorio, 353
    La "democratizzazione" dell'idea di paesaggio:
        la Convenzione europea del paesaggio, 363
    Oggettività e soggettività del paesaggio: oltre la forma, 368
    Paesaggio e identità: genius loci, non-luogo, 373
    Il paesaggio come risorsa: un discorso tra etica ed economia, 378


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE



                     «Tutto questo nominare le cose non le lascia certo illese.»

                                       DOLF STERNBERGER, Panorama del XIX secolo


                   «Quando lasciammo l'isola le demmo il nome di Ile du Salut...
                         È solo quando lasciamo una cosa, che le diamo un nome.»

                                   WALTER BENJAMIN, Conversazione con André Gíde



STADI DEL PAESAGGIO

Ci sono termini che da soli designano fatti molto complessi, una collezione di fatti compresi in un'unica parola. La difficoltà, scriveva Benedetto Croce in una lettera a Vilfredo Pareto nel 1900, a proposito del termine "valore", consiste nel designare un summum genus, cioè un tutto che investe l'attività integrale dell'uomo, nelle infinite variazioni del suo esserci. Il concetto di "paesaggio", lungo una pluri-secolare evoluzione, da esperienza estetica a questione tematizzata nel progressivo apporto teorico di nuove o rinnovate discipline, ha a che fare nella sua costante evidenza con il "valore". Struttura primaria dell'immaginario e dato reale mediato dall'arte, forma archetipica e genere artistico-letterario, a partire dal Settecento il paesaggio diventa un vero e proprio paradigma nel quale convergono fenomeni e funzioni variabili, di natura estetica, scientifica, etico-politica, economica. Esso non sembra perciò prestarsi a una definizione genetica, appunto perché il semplice e l'originario «è, geneticamente, indefinibile», ma consiste al plurale, nelle specificazioni degli aggettivi che lo circoscrivono e frammentano, indicandone il nesso problematico con gli itinerari del Moderno. In ragione di questo carattere miscelato, multiverso, enucleato nella formula complessiva dei paradoxes du paysage, la comunicazione mediatica e accademica e persino la prassi verbale della vita di tutti i giorni oggi registrano, secondo quanto dichiarano preventivamente gli stessi protagonisti del dibattito nel momento in cui vi entrano, la «babele paesaggistica», il «supemercato della teoria», l'«onnipaesaggio». Se ne argomenta in maniera puntuale nella Nota tecnica: dove si comprova l'utilità immediata e l'efficacia funzionale del volume che qui si presenta, trama continua di testi che progressivamente introducono, discutono e interpretano stadi teorici, questioni poste da nuove scienze, compiti operativi e istituzionali, nell'ambito di un pensiero del paesaggio collegato per sempre e in misura riconosciuta alla identità culturale italiana, almeno dal Rinascimento, almeno dalla soglia capitale nella storia del visibile e della «perfetta visione» costituita dalla nascita della prospettiva.

[...]


È quanto mai complesso, dunque, il rapporto fra il luogo reale come prodotto dinamico di una comunità in movimento e la paratopia, cioè il luogo negoziato nella dimensione artistico-letteraria, che non è mai, neppure nella grande stagione del realismo, nient'altro che simile, imperscrutabilmente simile a se stesso. Lo spazio dell'immaginario letterario accredita l'identità geografica, storica, naturalistica, di una nazione, nello stesso tempo, nella ricezione, essendone identificato. Il percorso non è a senso unico, o la parola simbolica sarebbe solo lo schermo che duplica le cose e le occulta in ideologia, mentre è chiamata a farle esistere nel tempo.

L'esempio più illuminante e fattuale, invece, del potere edificante, nell'accezione propria, della letteratura, che si preleva dall'opera del Carducci poeta nazionale, riguarda un luogo simbolo dell'Italia "italica", le fonti del Clitumno. L'ode Alle fonti del Clitumno, anch'essa siglata, come Davanti San Guido, dal nuovo tipo di visione, quella trascorrente e veloce, dal treno, si sviluppa come un piccolo poema antiquario fra luoghi e loci classici, compiuto monumento dell'Italia unita divenuto tale grazie alla poesia carducciana. Fra Spoleto e Perugia furono installate lapidi a ricordo del passaggio taumaturgico del poeta, a partire dagli anni Novanta dell'Ottocento. Nel 1910, per il cinquantenario dell'Unità, lo scultore Leonardo Bistolfi realizzò una stele con una epigrafe scritta da Ugo Ojetti. Nell'ambito del binomio paesaggio-storia, dal particolare versante della unitarietà della storia della itala gente, attestata da taluni luoghi sacri occultati dal tempo, risulta innegabile la centralità della poesia Alle fonti del Clitumno. Nel 1879 il filologo classico Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, coetaneo e oppositore di Friedrich Nietzsche, traduceva l'ode, insieme con altre due, Nella piazza di San Petronio e Dinanzi alle terme di Caracalla, in giocosa competizione con il suocero Theodor Mommsen, il quale da Firenze gli aveva inviato le Nuove poesie e le Odi barbare appena pubblicate. Nel 1885 avrebbe illustrato quelle strofe in una conferenza a Berlino dove era sottolineato il valore del nesso organico instaurato da Carducci fra luogo, topografia letteraria e progetto ideologico nazionale. Notava con acume la singolarità dell'allocuzione diretta al genius loci: «L'ode non solo si presenta composta presso la fonte del Clitumno, ma si rivolge anche ad essa». Wilamowitz individuava le fonti classiche - Virgilio, Plinio, Properzio - e moderne, innanzitutto Edward Gibbon, «il grande narratore della caduta e del tramonto dell'impero romano», il quale nell'organizzare il racconto inserisce la marcia di Alarico su Roma, lo fa fermare sul Clitumno, gli fa macellare il sacro bestiame, rappresentando con evidenza teatrale il contrasto fra l'antica grandezza di Roma e la barbarie. Inoltre descriveva con dovizia di particolari il sito e i dintorni, il lungo viaggio in treno che aveva intrapreso per giungervi, quasi a verificare con la puntualità del viaggiatore tedesco la Stimmung emanante dal paesaggio ed espressa nella poesia. In seguito, nel 1925, a Firenze avrebbe ripreso quella poesia in un discorso sull'Italia pre-romana, prontamente tradotto in italiano da Gaetano De Sanctis col titolo di

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Perché ci riguardano i segni della Natura? La Natura ha diritti? Qual è il significato del contatto fra memoria e futuro dell'uomo? Perché la costanza di questo domandare, de rerum natura, nel momento stesso in cui dalla Natura ci allontaniamo e anzi la neghiamo e distruggiamo? E che rapporto c'è - aggiungiamo qui introducendo le voci Paesaggi - tra il proliferare del discorso scientifico e quella assenza, che è l'oggetto del sapere e delle interpretazioni? Per Schiller, come più tardi per Roger Caillois , permane ancora una stretta relazione tra natura e natura umana, sia pure come tra un prima e un poi, scandito da un vuoto, da una lacuna, ciò che ci manca. Ma siamo fatti della stoffa dei paesaggi, dei minerali, delle piante. Per Croce, tutto questo insieme di problemi e vedute possiede la forza dinamica e irreversibile dei processi storici, che includono ciò che l'uomo ha pensato e prodotto e conservato e quindi gli spazi al quadrato, quelli che accreditano l'esistente, vale a dire l'Arte, l'Archivio, la Biblioteca, il Museo, centri del mondo civile. E quindi paesaggio naturale e città - come luogo culturale -, sono l'esterno-interno, le due facce di una stessa medaglia.

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Vale la pena, allora, riprendere alcuni dei fili del discorso finora disseminati.

La considerazione del paesaggio come esperienza estetica, vale a dire come percezione di una forma visibile "aperta", generativa di racconto, include, non esclude, il concetto di paesaggio come conoscenza e progetto, come realtà - ed è questo il significato complessivo, giova ripeterlo, che emerge dalla sequenza delle voci. Difatti la aisthesis non si risolve nel simbolo e negli usi del simbolico. Venti anni fa l'epistemologo della geografia Jean M. Besse seppe illustrare in pagine molto analitiche il rapporto fra la visione di Goethe, teorico dei colori, con il paesaggio italiano. Goethe vi coglieva la pienezza di simbolo, non già come sogno o ombra, ma intuizione istantanea dell'originario e della «eterna presenza dell'essere», dove infinito è il valore dell'istante che unifica passato e presente. È il colpo d'occhio che afferra il paesaggio anteriore. Dirà Jorge Luis Borges: il fatto estetico è «quell'imminenza di una rivelazione, che non si produce». Per il Goethe "italiano" c'è una essenza comune fra i fenomeni della natura e fra questa e lo sguardo che li comprende, per il postulato romantico della unità del mondo. Quando vige questo tipo di persuasione - che sarà sviluppata con determinazione "scandalosa" da Roger Caillois, studioso dei grandi temi del moderno, il sogno, il fantastico, l'immaginario, scopritore di Borges, fondatore con Georges Bataille del Collège de sociologie - valgono le analogie che si dipanano tra i piani diversi di un universo indivisibile. Nell'ultima parte della sua vita Roger Caillois si dedicò con sempre maggiore intensità allo studio dei minerali, nella ricerca del contatto vero con una Natura non culturalizzata, non elusiva in quanto sempre pre-costituita dal soggetto. Sono gli anni in cui l'antico cultore del surrealismo e della letteratura, analizza le figure - medaglie, monete - disegnate sulle pietre. Così un secolo prima un rappresentante dell'hegelismo napoletano, Vittorio Imbriani , scrittore ed estetologo, aveva individuato la percezione estetica originaria nella macchia, l'idea pittorica, e la ritrovava nelle venature di un tronco di marmo africano che gli suggerivano precise immagini. Era la forma essenziale, irrapportabile, nella sua verità, ai quadri storici o ai paesaggi di genere, allora in auge. Allo stesso modo, si legge nel testo postumo di Caillois Malversazioni: nello «spessore del minerale... né tracce né simboli, ancor meno promesse. Etichette taciturne, dubbiose sagome che non divulgano né messaggi né modelli». In questa ricerca estrema di un senso non "dilapidato" del paesaggio impossibile si esprime il dissenso rispetto al proprio tempo, rispetto alla «incredibile proliferazione dei simboli... che ha scavato un fossato tra gli uomini e la realtà concreta». È vero, il paesaggio come tessera dell'ordine del discorso è stato toccato dalla generale sostituzione della realtà in simbolo che è uno dei caratteri del moderno. La dimensione estetica, la cognitio sensitiva, predisponeva la conoscenza a una semantica dell'azione - che è in fondo il senso proprio della saggezza enciclopedica condensata nel nostro volume. Il simbolo, invece, chiuso in se stesso, svuota l'esistente, apre la via all' Ersatz, nelle due forme complementari, dell'appagamento confortevole o del compianto patetico. Non è lecito trascurare, senza che ci si consegni a essa, la descrizione risentita del processo che nel secondo Novecento si è affermato in modo plenario: la reificazione dell'immagine nello spettacolo. La «programmazione del territorio» - come recita un capitolo del celebre libro di Guy Débord La società dello spettacolo - racconta con anticipo e in un linguaggio escatologico oggi insostenibile, perché insieme arcaico e bruciante nell'attuato compimento del fenomeno, l'habitat contemporaneo, l'equivalenza dei paesaggi, l'impossibilità dell'esotismo, la distruzione del diverso.

Sottoprodotto della circolazione delle merci, la circolazione umana considerata come un consumo, il turismo, si riduce fondamentalmente alla facoltà di andare a vedere ciò che è divenuto banale. L'organizzazione economica materiale della frequentazione di posti diversi è già di per se stessa la garanzia della loro equivalenza. La stessa modernizzazione che dal viaggio ha ritirato il tempo, gli ha anche ritirato la realtà dello spazio.


In questa vicenda di immagini e segni, di moniti e di istruzioni per l'uso, la storia del paesaggio italiano occupa un posto rilevantissimo, in pagine di viandanti d'eccezione che comprendono le riflessioni di Rudolf Borchardt sulle Città italiane e le variazioni di Yves Bonnefoy in L'arrière-pays. Qui in particolare la definizione di paesaggio è poetica e profetica, l'entroterra è il retro-paesaggio, il senso che continuamente indietreggia. È il 1971. L'Italia centrale appare a Bonnefoy, nelle zolle di Capraia o di Urbino, dinanzi agli affreschi di Piero della Francesca o alle tele di Tiziano, il paese della realtà. Il paesaggio, espressione di comunità consapevoli è «il vero luogo», «il luogo forte», dove vive la memoria di ciò che ha avuto luogo. La prospettiva nacque tra quelle colline, tra quei colori, ed è giudicata discrimine fra rischio illusivo e prova di realtà, e dunque insignita dell'immenso valore di un'etica della visione. Ai luoghi il Poeta si consegna allora, tramite i maestri della saggezza prospettica, Piero della Francesca, Paolo Uccello, con devozione, con capacità di ascolto: «L'essere del luogo, il nostro tutto, si forgia a partire dal nulla, grazie a un atto di fede». Solo il libretto testamentario della Ortese , Corpo celeste, possiede un pari spessore di guida spirituale per un tempo nuovo, che è il nostro. «Bisogna tornare a credere ai luoghi, per ritornare ad abitare il mondo», si legge nella summa postuma dell'urbanista e storico delle idee Giovanni Ferraro. Questa religione della Terra, che comincia a registrarsi nell'ultima parte del Novecento, non solo nella dimora letteraria, è forse l'itinerario che ricongiunge le generazioni contemporanee a un compito di cura e riparazione, di tipo genitoriale, per adoperare la formula di Hans Jonas. In tale senso precipuo, la fine o consumazione del valore-paesaggio nella comunità mediatica, potrà allora coincidere con il paesaggio come fine, lavoro che spetta al soggetto, scopo quasi-ultimo, prefigurando il trapasso semantico in luogo semplice, il contrario del non-luogo messo in chiusura del volume. Anche in questo caso, è dato riconoscere il potere allarmante e precorritore dell'arte, ove si tengano presenti i Non-lieux, i 210 dipinti del 1984 nei quali Jean Dubuffet negli ultimi mesi di vita mise a punto una geografia negativa e ammonitrice, di spazi vuoti e neri abitati da movimenti vertiginosi e colorati, fantasmi e simulacri della realtà assente.

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NOTA TECNICA





IL PAESAGGIO NEL TERRITORIO


Le ragioni del persistente successo del discorso sul paesaggio potrebbero rimandare a prima vista alla presenza del movimento ecologista, e soprattutto alle domande urgenti e strutturali poste dal problema ambientale; tuttavia, la coscienza ecologica e la coscienza paesaggistica s'inseriscono in una corrente più ampia che si riferisce alla relazione dell'uomo moderno con l'ambiente che lo circonda e di cui è responsabile.

Il concetto di paesaggio, come è noto, è esposto a numerose interpretazioni, tanto da rendere arduo qualsiasi tentativo di perimetrazione interpretativa e operativa.

D'altra parte, proprio la natura trans-scalare e pluri-dimensionale dell'idea di "paesaggio", non contempla definizioni esatte: esso è interpretato da differenti codici disciplinari in una "enciclopedia" di significati che hanno condotto a percorsi euristici affatto diversi, talvolta poco dialoganti o addirittura inconciliabili. In tal senso, l'impianto enciclopedico che emerge dalle voci raccolte in questo volume rappresenta il salutare antidoto alla cosiddetta "babele paesaggistica".

Il paesaggio è, dunque, un concetto trasversale o interstiziale nel senso di una entità che si pone ai confini dei vari campi del sapere; o meglio, è un concetto "diagonale" nel senso che con esso è possibile collegare idee e conoscenze che normalmente sarebbero tra loro estranee.

Pertanto, appare evidente quanto sia necessario provare a individuare quel «minimo comune denominatore», di cui parla opportunamente Lucio Gambi in una delle più rilevanti delle voci proposte, fra i significati che le varie discipline «conferiscono alla nozione, anzi all'idea di paesaggio».

Gambi, che è stato alfiere di una concezione storicistica della geografia - o della geografia come storia del territorio - sottolinea a più riprese nei suoi scritti come l'ambiguità tra immagine del territorio e territorio reale che ancora informa il concetto di "paesaggio" sia ineludibile.

Egli sostiene che il paesaggio «nasce entro e dal territorio»: da quello prende forma ed è una realtà indiscutibile quando lo si considera oggettivamente in sé, e anche allorché lo si filtra culturalmente o sentimentalmente in una interpretazione artistica, figurativa o in moduli letterari. Su questa base può e deve essere studiato, suggerisce Massimo Quaini, allievo di Gambi, come «una sorta di memoria in cui si registra e si sintetizza la storia dei disegni territoriali degli uomini». Il paesaggio ha sempre conosciuto almeno due categorie di lettura: una prima di tipo ontologico di stampo positivista e razionalista, volta a ricondurre (e a ridurre) il paesaggio alle sue caratteristiche fisiche (geomorfologiche, biotiche e antropiche) oggettivamente desgrivibili e misurabili; e una seconda di tipo percettivo, fondata sulla rappresentazione che del paesaggio si dà nei differenti contesti socio-culturali.

La prima prospettiva è stata l'oggetto di studio di molte discipline scientifiche come la geografia fino all'ecologia del paesaggio; mentre la ri-scoperta e la valorizzazione delle dimensioni soggettive del paesaggio ne hanno accompagnato il revival, a partire dalle teorie sulla "figurabilità" eleborate da Kevin Lynch negli anni Sessanta, fino agli studi di Douglas Porteous sulla environmental aesthetics.

Le due teorie si pongono in maniera antitetica, e anzi ognuna di esse ha sempre avuto la presunzione di colmare le aporie concettuali dell'altra. Negli studi dell'ecologia del paesaggio, per esempio, la componente "percettiva" dell'interpretazione paesaggistica è messa in discussione in modo radicale: Valerio Romani, uno dei massimi teorici della disciplina, assieme a Vittorio Ingegnoli (autore della voce Ecologia del paesaggio), si mostra in dissenso con l'idea secondo la quale la presenza di un osservatore sia fondamentale per definire il paesaggio. Egli, infatti, sostiene che «il paesaggio esiste. Realmente, concretamente. Indipendentemente dal fatto che qualcuno lo percepisca».

Non condividendo l'idea di paesaggio come prodotto di una relazione tra uomo e natura, e ritenendo fragile l'aspetto soggettivo e antropologico nell'approccio percettivo, afferma l'esigenza di una definizione scientifica riferibile solo a un'interpretazione essenzialmente ecologica e oggettivamente "terrestre". Romani riconosce l'importanza dell'apporto umanistico e dell'approccio soggettivo nella storia e nella definizione della nozione "paesaggio", ma ribadisce che tutti gli orientamenti non puramente scientifici vadano accolti solo «nella veste [...] di interpretazioni e di esperienze cognitive». Quindi, dopo aver stabilito una sorta di gerarchia tra le accezioni e aver affermato che tale impostazione sia alla base delle sue speculazioni teoriche, propone una serie di enunciati di matrice prettamente positivista come: «Il paesaggio è l'elemento a più alto livello organizzativo nella scala di aggregazione spontainea della materia»; «il paesaggio è un sistema dinamico di ecosistemi e antroposistemi in perenne interazione e trasformazione».

È innegabile che la landscape ecology rivesta un'importanza essenziale nell'analisi e nella pianificazione di area vasta, per gli studi peculiari delle configurazioni spaziali (modalità di localizzazione, distribuzione e forma) che gli ecosistemi assumono nel sistema territorio.

La forma degli elementi paesistici influisce sulle funzioni e viceversa: forma e processo sono aspetti indivisibili di un unico fenomeno, quindi gli studi di ecologia del paesaggio interessano la struttura del paesaggio (costituita dalla distribuzione spaziale degli ecosistemi e dalle loro forme), le funzioni (che hanno a che fare con tutto ciò che si sposta all'interno del mosaico ambientale sia in termini biotici sia abiotici), le loro trasformazioni nel tempo.

In tal senso l'ecologia del paesaggio - come sottolinea Vittorio Ingegnoli, in una delle voci più paradigmatiche e dotate di futuro - propone nuovi concetti, come quello di "ecotessuto" o "habitat standard", mettendo in evidenza i nessi tra i processi biologici e la loro misurabilità, secondo la innovativa prospettiva scientifica della "bionomia", intesa come dottrina delle leggi della vita.

Non può sfuggire che, in tale prospettiva, i valori ecologico-funzionali, che l'ecologia del paesaggio calcola mediante l'utilizzo di dispositivi diagnostici che partono da indici complessi, non necessariamente coincidono con i parametri valutativi estetici o identitari, avendo questa scienza l'esigenza di interfacciare la lettura ecosistemica del territorio con i dispositivi di governance che ne determinano le trasformazioni alle varie scale.

Pur non potendo certamente sottovalutare l'enorme contributo che lo sforzo di oggettivazione dispiegato dalle scuole ecologiche ha portato e porta alla comprensione dei valori paesistici, «sgominando le interpretazioni vagamente impressionistiche e le arbitrarie valutazioni visibilistiche che hanno spesso inquinato le politiche del paesaggio», è, al tempo stesso, legittimo avanzare dei dubbi circa la possibile autonomia dell'osservazione scientifica di fronte alla natura stessa dell'esperienza paesistica.

L'idea secondo cui possa esistere un sapere scientifico in qualche modo separato e diverso dalle varie forme di esperienza e conoscenza paesistica sembra implicare una concezione estremamente riduttiva del significato del paesaggio per la società contemporanea.

Per questo, esso non può ridursi a quello "cognitivamente perfetto" che le scienze della terra tendono a proporci.

Le teorie sull'analisi percettiva in ambito urbanistico-territoriale, nate già alla metà del secolo scorso e riportate in auge all'inizio del nuovo millennio, si sono sempre mosse nel tentativo di sottrarre il tema della "percezione" alla aleatorietà dell'interpretazione individuale, e pertanto non codificabile.

Esse hanno la loro genesi in forma embrionale con Gordon Cullen, ma soprattutto con gli studi che Lynch e Steen Eiler Rasmussen elaborarono quasi contemporaneamente tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta. In maniera particolare gli studi condotti da Lynch, scaturiti dall'incontro con György Kepes, tra gli iniziatori della Gestaltpsychologie, si fondano sul concetto di "figurabilità": questo è il fulcro di tutta la ricerca condotta da Lynch, in quanto dirige verso una possibile oggettivazione, in termini psicologici, della percezione della città come risultato di un rapporto fra la struttura cognitiva degli abitanti e quella dell'ambiente urbano vissuto dagli abitanti stessi al fine di una chiara "riconoscibilità" delle parti. Con la sua nozione di "figurabilità" dell'immagine urbana, Lynch contribuì alla nascita di una vera e propria "teoria cognitiva della città".

Acquisisce progressiva importanza, in questo contesto, lo "spazio del progetto", come sottolinea opportunamente Paola Gregory in una delle voci portanti. Progetto architettonico, ma anche agriurbano, di scala vasta, che tenga assieme le esigenze di sostenibilità ambientale evidenziando i significati ecologici, così come quelli simbolici e fenomenologici, è la cosidetta landscape architetture che si occupa della disciplina progettuale ed ermeneutica degli spazi aperti e quindi - in senso più ampio - della formazione di una "scena urbana". Nascono così, in particolare come reazione alla dismissione di grandi aree produttive nella seconda metà degli anni Ottanta, progetti di paesaggio che affrontano il tema del riciclo e della trasformazione territoriale come stratificazione di processi politici, socio-economici, ambientali e che toccano nuovi spazi "ibridi", urbani, peri-urbani, aperti.

Dalla necessità di rifondare l'equilibrio complessivo (ecologico, sociale, culturale e simbolico) fra sistema urbano e ambiente di riferimento, alla fine degli anni Novanta ha successivamente preso corpo il landscape urbanism, una teoria che vede nel progetto di paesaggio uno strumento che consente di riformulare i quadri cognitivi sull'esistente e di tematizzare in modo innovativo le strategie della pianificazione e della progettazione urbana che ha aperto nuovi orizzonti di ricerca e d'intervento sulle città e sul territorio. Il landscape urbanism adotta un approccio che permette di «integrare processi naturali e sviluppo urbano nel comune disvelamento di un'ecologia artificiale» che rappresenta la vera novità dell'epoca contemporanea. Inoltre, nell'assumere la città come una ibrida ecologia vivente, «segna la dissoluzione tra antichi dualismi come quello tra natura e cultura, e smantella le nozioni classiche di gerarchia, delimitazione e centralità».

Risulta evidente che la centralità del landscape urbanism introduca e anticipi un discorso che ha rivelato tutta la sua rilevanza etico-politica, risultando nella formulazione della Convenzione europea del paesaggio. Si tratta della strategia politica più forte, che riconosce il territorio come luogo di condensazione degli equilibri naturali, con le loro caratteristiche e dinamiche, e dei valori identitari, storici, culturali e simbolici degli insediamenti umani, e soprattutto individua e privilegia il luogo del manifestarsi delle qualità o delle criticità delle relazioni che tra questi valori intercorrono.

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LA "DEMOCRATIZZAZIONE" DELL'IDEA DI PAESAGGIO:

LA CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO


All'interno di questo scenario complesso e variegato, va dunque adeguatamente considerata la spinta innovativa esercitata dalla Convenzione europea del paesaggio (Cep) che costituisce il riferimento giuridico internazionale di un progetto politico volto alla condivisione e al consolidamento di un nuovo approccio alle tematiche connesse al paesaggio, e cui Riccardo Priore dedica il suo intervento in una voce che ne sottolinea l'importanza come snodo ermeneutico e operativo formidabile.

Il paesaggio, così come emerge dall'articolato della Convenzione, è un concetto pervasivo, che giunge a investire tutto il territorio, compresi i suoi aspetti funzionali e produttivi: esso infatti «si applica a tutto il territorio degli Stati contraenti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e peri-urbani. [...] Comprende gli spazi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati».

Questo "sconfinamento" permette di affermare che «tutto il territorio è paesaggio». Questa affermazione, seppur debole dal punto di vista dell'efficacia giuridica, ha comunque un peso notevole dal punto di vista della rilevanza giuridica. Significa riconoscere la necessità di integrare le politiche di governo del territorio con le politiche di tutela e valorizzazione del paesaggio.

La dimensione soggettiva del paesaggio rappresenta quindi l'elemento basilare del significato etico, sociale e democratico della Convenzione. Questa introduce pertanto un'innovazione sostanziale e non solo formale, attribuendo alla percezione un valore rifondativo, gravido di ricadute operative. La progressiva dilatazione del concetto di paesaggio, che porta a farlo coincidere con tutto il territorio, non è marginale, giacché riflette una mutazione della concezione estetica che conferisce legittimità istituzionale, politica e culturale pari a quella attribuita alle restituzioni scientifiche, alle rappresentazioni (verbali e visive), all'attribuzione del senso dei luoghi da parte degli abitanti, produttori di visioni, interiori e trasferibili in linguaggi per l'azione, frutto di letture non strettamente disciplinari.

La Convenzione riconosce che il paesaggio ha a che fare anche con la rappresentazione che del territorio danno coloro che lo vivono, con il tipo di immaginario e di aspettative che questo suscita, con le complesse dinamiche di identità, di appartenenza; ha a che vedere con le caratteristiche sociali, produttive, architettoniche, con le modalità di insediamento e di utilizzo delle risorse ambientali: contiene inconfutabilmente una dimensione di tipo "antropologico".

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