Copertina
Autore Elena Gianini Belotti
Titolo Che razza di ragazza
SottotitoloVerso una nuova coscienza delle donne?
EdizioneSavelli, Milano, 1979, Cultura politica 243 , pag. 208, cop.fle., dim. 106x182x16 mm
Classe sociologia , femminismo , storia sociale
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Indice

  7 Premessa di Elena Gianini Relotti

    CAPITOLO PRIMO: FIGLIE, MADRI, PADRI:
    RAPPORTI CON LA FAMIGLIA

    Non dite niente (p.13); Meglio le botte che
    l'indifferenza (p.17); La gonna no (p.19); Paura del
    padre (p.20); La benda sugli occhi (p.23); Anche le
    bambine crescono (p.24); Non come lei mi avrebbe voluto
    (p.26); Madre e figlia (p.29); Un pessimo risultato (p.
    31); Che razza di ragazza (p.33); Un'oscura paura
    (p.35); Una brava bambina (p.38); La facciata e la
    realtà (p.41); Rivoluzionari solo in piazza (p.44);
    Certezze (p.47).

 49 CAPUOLO SECONDO: LA COPPIA

    Affari tuoi (p.49); Il contrario di mio padre (p.50);
    Libertà o nevrosi? (p.52); Adoratori di televisori
    (p.54); La donna di servizio (p.57); Dopo il 6 dicembre
    (p.58); La parola (p.61); La coppia aperta (p.63); Amore
    unico e eterno (p.67); Il prezzo dell' «amore eterno»
    (p.69); Non è obbligatorio (p', 72); La compassione
    (p.75).

 79 CAPITOLO TERZO: LA SESSUALITA'

    Una storia tragica (p.79); Non avere fretta (p.80); Una
    parola mai pronunciata (p.83); La generazione dei casini
    (p.85); Il pelo nell'uovo (p.87); I maledetti modelli
    (p.89); Vittima di Freud (p.92); Trappola (p.94);
    Curiosità (p.96); Tanta fatica (p.98); Buono e paziente
    (p.100); Un lungo drago colorato (p.101); La saggezza
    dell'indulgenza (p.103); Basta la domenica (p.106);
    Funerale (p.108); Braccio di ferro (p.110).

113 CAPITOLO QUARTO: LA POLITICA

    Una storia esemplare (p.113); Femminile e femminista (p.
    116); Campanello d'allarme (p.118); Compagni mariti (p.
    121); Troppo o troppo poco? (p.123); Al femminile (p.
    126); Impallata (p.129); Donnicciole (p.132); L'incubo
    dell'intervento (p.135); Rovina della famiglia (p.137).

139 CAPITOLO QUINTO: IL CORAGGIO DELLA MEZZA ETA'

    Idealizzazione del passato (p.139); Lasciatemelo urlare
    (p.141); Un immenso mare d'angoscia (p.142); La malattia
    dell'infelicità (p.144); Paura (p.146); Quarantenni e
    oltre (p.149); Siamo tutte vigliacche (p.152).

155 CAPITOLO SESTO: IL GRANDE MALESSERE

    Nessuna certezza (p.155); Perché (p.157); Uscire (p.158)
    ; Dopo Danielle (p.161); Perché viviamo (p.164);
    Mettercela tutta (p.167); Che il mondo continui (p.168);
    Non barare con se stessi (p.170); Il prezzo da pagare
    (p.172).

175 CAPITOLO SETTIMO: LA PAROLA AGLI UOMINI

    La stanza chiusa (p.175); Una donna sensibile e
    combattiva (p.176); Figuriamoci diciotto (p.178); Un mio
    amico ha detto che... (p.180); Difficile ma necessario
    (p.181); Profondo sud (p.183); Una dura battaglia (p.
    187); L'incubo del padre (p.188); Dare e ricevere (p.
    191); Compagno metalmeccanico (p.195); Cenerentolo (p.
    196); Abbiamo il coraggio (p.197); L'ombrellone e la
    tintarella (p.199); Sospiri e maglie di lana (p.201); Il
    mio mattone (p.202); II ghiaccio si è rotto (p.205).
 

 

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Pagina 7

PREMESSA



Quando mi fu chiesto dalla direzione di «Noi Donne», nel 1974, di tenere una rubrica di corrispondenza con le lettrici, mi ci volle un certo tempo per assimilare la proposta e per accettarla.

Avevo pubblicato l'anno precedente Dalla parte delle bambine, che era il frutto dell'analisi assai sofferta della mia storia privata di bambina e poi di ragazza e poi di donna che si era trovata a combattere una battaglia senza respiro nel tentativo di porre rimedio all'avvenimento fondamentale e decisivo di essere nata femmina. Era anche il frutto, contemporaneamente e non secondariamente, della mia professione di «bambinologa» che mi aveva permesso, nel quotidiano contatto con bambini al di sotto dei tre anni e i relativi genitori, di scoprire i precocissimi segnali di quel diabolico congegno che era l'educazione al ruolo sessuale.

Il IX Congresso nazionale dell'UDI (di cui «Noi Donne» è l'organo di stampa) che si svolse nel novembre del '73, aveva il titolo Dimensione Donna e segnò una svolta importantissima nella storia dell'organizzazione. Il dibattito era centrato per la prima volta sui ruoli maschio-femmina, su come si producono partendo dalla prima infanzia e sulle nefaste conseguenze che ne derivano per le donne, ciò che costituiva appunto l'argomento del mio libro, citato nel documento di apertura del congresso. Si cominciava a scavare nel privato, in quei meccanismi familiari e di coppia di dominio-sottomissione, dai quali nasceva lo stereotipo del maschio e della femmina, una scheda perforata che veniva trasmessa di generazione in generazione e che dava luogo a quei comportamenti nettamente differenziati a seconda del sesso che venivano fatti passare per «natura».

Uno dei motivi della mia perplessità ad accettare la proposta di collaborare al giornale con la rubrica, risiedeva nel fatto che mi sentivo una «esterna», non appartenevo all'UDI, rifiutavo l'obiettivo dell'emancipazione che pure aveva avuto una sua grossa validità per tanti anni e che aveva tenute sveglie e combattive le donne per la difesa dei loro diritti di parità con l'uomo, per puntare a quello della liberazione che mi sembrava, da quel momento in poi, l'unico possibile e l'unico autenticamente nuovo e rivoluzionario. Al termine «femminile» preferivo nettamente il termine «femminista».

Un altro motivo di incertezza derivava dal fatto che mi ritenevo una professionista della primissima infanzia e mi sembrava corretto restare nell'ambito della mia professionalità, nel quale sentivo di muovermi sul sicuro, sul conosciuto: forse ero in grado di dire qualcosa di sensato sui bambini, ma niente mi garantiva che sarei stata in grado di dire qualcosa di sensato alle donne. Senza capirlo, mi mettevo nella posizione dell'«esperta».

Sottovalutavo così, in maniera macroscopica, quello che le donne sarebbero state capaci di dire a me, quanto mi avrebbero costretto a riflettere, come e in che misura il dialogo con loro mi avrebbe obbligato a mettermi in gioco a mia volta, ad analizzare la loro realtà ma anche la mia e a cambiare interiormente in maniera molto più profonda di quanto avrei mai supposto.

Avevo dubbi anche sulla validità di uno strumento di comunicazione come una rubrica di corrispondenza su un giornale, fosse pure politicamente orientato nel verso giusto. Avevo sempre detestato le «piccole poste» dei giornali femminili, giudicandole un ricettacolo di lamentazioni deteriori del tipo «m'ama non m'ama» o «lo lascio o non lo lascio» e per quanto conoscessi perfettamente quanto «Noi Donne» fosse profondamente diverso dagli altri giornali, in qualche modo temevo i contenuti di cui avrebbe potuto riempirsi lo spazio della rubrica. Temevo di diventare in qualche modo una Donna Letizia di sinistra.

Anche in questo caso, sottovalutavo con singolare cecità e sordità, non solo la maturità e l'intelligenza delle compagne, che dovevo verificare via via che il discorso si dipanava e il dialogo si impiantava su fiducia e stima reciproche, ma anche, dopotutto, la mia capacità di volgere in chiave corretta l'analisi di eventuali richieste di questo tipo.

I temi del «privato» esplosi con il femminismo, dell'affettività, della coppia, della sessualità, fino allora negati perché giudicati privi di dignità politica almeno pari a quella di altri aspetti della vita individuale e collettiva, sono massicciamente presenti nella rubrica e, connessi strettamente gli uni agli altri, rivelano in maniera inequivocabile quanto una delle caratteristiche distintive e positive del modo di porsi delle donne sia quella del rifiuto della scissione tipicamente maschile tra il mondo dell'impegno politico e sociale e quello della vita affettiva e di relazione.

Nella mia incertezza nella decisione aveva peso anche il dubbio, provocato dalla mia inevitabile posizione di potere che il semplice fatto di rispondere alle lettere mi conferiva, di proiettare sia pure involontariamente i miei problemi personali su chi mi avrebbe scritto, di non possedere, come avrei preteso da me stessa, gli strumenti culturali adeguati per dipanare con sufficiente misura di obiettività le imbrogliate matasse altrui e di finire per dipanare le mie matasse invece di quelle. Non sono affatto certa, riesaminando la mole di messaggi nell'un senso e nell'altro che sono passati in questi cinque anni attraverso le pagine del giornale, di non averlo fatto più volte e di avere forse, in qualche caso, forzato certe situazioni.

Le storie che uscivano dalle lettere di chi scriveva somigliavano così spesso alla mia storia passata e presente che mi confermavano, se ce ne fosse stato bisogno, che i nodi della condizione femminile erano simili per tutte, a prescindere dall'età, dalla cultura, dalla condizione sociale, differenziandosi solo nei particolari ovviamente peculiari ad ogni storia o in sfumature dovute alle variabili sempre presenti.

Ho accettato la proposta di «Noi Donne» per un periodo di prova, per qualche mese, riservandomi di decidere se continuare o smettere.

Non ho smesso. Ho scoperto' con gratitudine, senso di solidarietà e di appartenenza, quanto le compagne mi dessero, più di quanto io sentivo di dare loro. Ogni lettera riusciva a mettere in moto dentro di me un processo ogni volta rinnovato e rinnovabile di coinvolgimento, di identificazione, di partecipazione, grazie alla spontaneità, alla schiettezza e alla sincerità, talvolta persino impietose verso se stesse, che solo le donne riescono ad avere. Cercando chiarezza, mi obbligavano ogni volta a farla dentro di me. Rifiutando compromessi, bisognose fino in fondo di coerenza con se stesse e con le idee che le muovevano, mi costringevano a mettermi - di fronte alle mie personali incoerenze, ai miei quotidiani compromessi, e come loro e con loro dovevo riconoscere che spesso non è sufficiente vedere, sapere, aver «preso coscienza» per trovare il coraggio di agire di conseguenza. La mia e la loro impotenza avevano la stessa matrice e provocavano la stessa sofferenza, Proteggendo loro dal pericolo di esigere troppo da se stesse e tutto in una volta, spesso proteggevo anche me stessa. E viceversa.

Da tutte queste lettere viene fuori il gran coraggio e lucidità delle donne, la straordinaria vitalità che le distingue, la capacità di accettare e, ancor più, di sollecitare il mutamento, sapendo bene che se ne deve pagare un prezzo.

Sono ragazze, una «razza di ragazze», anche quelle di cinquant'anni, figlie del proprio tempo fino in fondo che, pur coscienti della sofferenza che comporta, non si sottraggono alla grande avventura del mutamento.

L'uomo è sempre presente in questo dialogo, sia direttamente, con voci maschili che si inseriscono per contestare, per approvare e incoraggiare, ma anche per dialogare con autenticità e schiettezza, sia indirettamente come grande antagonista, compagno di strada recalcitrante o partecipe, in tanti aspetti diversi rivelati dalle storie raccontate, riconducibili con maggiore o minore evidenza a una condizione di dipendenza da lui dalla quale le donne cercano in ogni modo di liberarsi.

Per quanto mi riguarda, sia personalmente che come interlocutrice dialogante di queste lettere al giornale, l'obiettivo sempre presente era quello di rompere la dipendenza dall'uomo, di rifiutare di continuare a farne la figura centrale di una vita femminile sulla quale si misura il successo o il fallimento di un'intera esistenza. Vivere per se stesse e non in funzione sia pure del più amato degli uomini, raggiungere l'autonomia psicologica rompendo il condizionamento alla sudditanza, accettarsi come si è senza imporsi il «dover essere», è il lavoro importante nel quale ci siamo misurate in questi anni anche attraverso questo dialogo. Questa «razza di ragazze» ha compiuto e sta compiendo uno straordinario sforzo di affrancamento dal «maschile».

Le lettere e le relative risposte vanno dal 1974 al 1979. Alcune «categorie» o alcuni temi sembrano apparentemente assenti: per esempio, non ho dato volutamente uno spazio definito alle adolescenti in quanto tali sia per rompere schemi di divisione per età che rifiuto in via generale perché l'essere umano è tale dalla nascita alla vecchiaia, sia perché la condizione femminile non cambia per adolescenti o più anziane se non nelle aperture concesse dall'evolversi generale del costume, sia perché molte tematiche adolescenziali emergono con molta evidenza nei rapporti con la famiglia che è ancora, a quell'età, un punto di riferimento essenziale sul quale si appuntano le richieste di sicurezza, comunicazione, affetto, quello che le ragazze definiscono con il termine complessivo di «dialogo».

Analogamente, non c'è uno spazio definito per la scuola e il lavoro, che sono pure realtà importantissime nella vita di ognuna, perché nelle lettere scuola e lavoro non costituiscono un problema centrale, separato, ma tutti e due sono sempre presenti, in relazione a una globalità della condizione del vivere in cui si mescolano gli affetti, la vita sociale di relazione, l'impegno politico, la sessualità. Inoltre, è evidente che si affida a una rubrica quel che le si può affidare, non certo il magico potere di cambiare la scuola o trovare un lavoro.

Al contrario, il fare politica, con l'estraneità che le donne avvertono per il modo maschile di farla cui sono costrette ad adeguarsi, i limiti e le difficoltà dell'impegno dovuti alla propria specifica condizione di donne, rappresentano un tale nodo che si avverte costantemente la necessità di interrogarsi e di confrontare le reciproche esperienze e punti di vista.

Il «coraggio della mezza età» è invece una mia scelta precisa per sottolineare la forza con la quale molte donne affrontano un'età difficile, spesso la solitudine e l'abbandono, il sentirsi inutili e «vecchie» perché tali vengono considerate, facendo scelte coraggiose che spaventerebbero chiunque.

Così come è anche una mia scelta precisa lo spazio dedicato al malessere esistenziale, «il grande malessere» per cui le donne si pongono gli inquietanti interrogativi della vita, una volta privilegio e dannazione dei soli uomini perché, occupate a fare e a crescere figli, consacrate ai lavori domestici che impoveriscono e distruggono corpo e mente, non avevano tempo, energie e strumenti culturali per occuparsi del proprio destino di esseri umani pensanti.

Sono profondamente grata alle compagne di «Noi Donne» e a tutte quelle che mi hanno scritto, per questi cinque anni di cammino percorso insieme.

Elena Gianini Relotti

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