Copertina
Autore Alicia Giménez-Bartlett
Titolo Exit
EdizioneSellerio, Palermo, 2012, Il contesto 29 , pag. 310, cop.fle., dim. 13,5x21x1,8 cm , Isbn 978-88-389-2746-1
OriginaleExit [1984]
TraduttoreMaria Nicola
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa spagnola
PrimaPagina


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Indice


Exit

Una splendida organizzazione di innegabile praticità

Alberi o alberelli?                                   13
Pamela e Clarissa fra giacinti e gardenie             19
Duemila vedove su un espresso                         29
Adamo ed Eva sul patibolo                             44
Una spina nella torta                                 52
L'allegra spedizione al Golgota                       64

Giorni d'agosto

Un discreto patrizio                                  77
La kermesse eolica                                    86
Il borsista diligente                                108
Il Signore delle mosche                              129
Anche i rifiuti umani devono morire                  143

Il terzo mese di canicola

Il sirventese siculo                                 159
La mort d'Emma                                       186
L'inefficacia del metodo vitale                      207
Il trillo del diavolo                                223

Fine stagione

La piramide strabica                                 243
La complicata scomparsa di Mr Finn                   264
Commedia brillante?                                  282

Oh, l'autunno!

La conversazione                                     301
La casa                                              304


 

 

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Pagina 13

Alberi o alberelli?



Poteva sembrare una questione bizantina, bizantinissima addirittura, e invece era una solenne stupidaggine. Era semplicemente assurda quell'ostinazione su arbusti e alberi da frutto, a scapito di robuste acacie o piangenti salici o contorti ulivi, o persino, volendo concedersi raffinatezze più costose e audaci, una dracena, l'albero del drago, almeno una, come tocco di buon gusto, di un gusto quasi sublime. E invece no, niente da fare: peri, meli e mandorli nani. Che impuntatura sciocca! Chi avesse soggiornato lì, anche solo per qualche giorno, anche per una sola notte, chi avesse preso la decisione di arrivare fin li, accettando di sottoporsi a tutti i necessari test e colloqui preliminari, non sempre dei più agevoli, mai si sarebbe sognato di procedere in modo così grossolano, così poco originale. Sarebbe stato un controsenso. E invece no. Il dottor Berset era e rimaneva della stessa idea: niente alberi sufficientemente alti o sufficientemente robusti da prestarsi a un'impiccagione. Gli esili alberelli da frutto diffondono un gradevole profumo nella bella stagione, sebbene attirino gli insetti in estate. Ma avrebbero dovuto letteralmente piegarsi sotto il peso dei frutti più scelti e deliziosi perché gli ospiti preferissero quel vantaggio alla frescura di un'ombra frondosa, al sussurro del vento nel fogliame. Berset poteva apparire intransigente, e invece no: era solo testardo, testardo come un mulo. Tuttavia questo equilibrava le forze, spesso gli rendeva più facili le cose.

«Dottor Eugenius, la vogliono al telefono».

«A quest'ora?».

«Non so che ore siano».

Il dottore si avvia, cadenzando il passo al ritmo dei suoi pensieri, distrattamente. Le porte a vetri oscillano alle sue spalle offrendo e sottraendo il giardino alla vista dell'enorme casa. È allora che l'infermiera Matea, psicologa diplomata, rimane sola a contemplare i cespugli. Filosofeggia, probabilmente, o ripensa alla famosa polemica su alberi e alberelli. Alberi o alberelli! Troppa teoria per un così misero risultato: che fossero alberi o soltanto alberelli, avrebbero tolto il sole, e i fiori hanno bisogno di sole. Ma con il dottor Eugenius, sempre così attento a ogni dettaglio, sempre pronto al ripensamento, anche quando ormai la decisione era presa; e con il dottor Berset, sempre così inflessibile su quegli stessi dettagli, sempre così ostinato nella ricerca della praticità a tutti i costi, fino al limite dell'impraticabilità, è inutile discutere. Né i suoi pensieri né le sue filosofie possono essere di qualche utilità. Le porte tornano a oscillare ed ecco che gli occhi da merluzzo dell'infermiera psicologa Matea sbattono, investiti dal Bolero di Ravel. La musica non attende che lei salga ogni gradino, il crescendo la coglie sulla soglia. Le sue orecchie di topo captano il dottor Berset che parla al telefono.

«Soprattutto, che i documenti siano in regola, è assolutamente indispensabile. Certo, l'importante è che lei sia pienamente deciso, anche se da questa decisione potrà recedere fino all'ultimo momento. Ma i documenti sono determinanti per l'ammissione; senza, non se ne può fare nulla. Capisco. Lo spero. Lo so».

Il dottore sorride con il volto severo, prende una sigaretta da una scatola d'argento. Il corpo grosso e forte si adagia sulla poltrona e la boccata di fumo sale dritta al soffitto.

«Non sarà qui per la questione del giardino...».

«No, sono venuta per la sua approvazione al menu della cena. Julienne di verdure, doublés di vitello come secondo e torta gelato per dessert».

«Che verdure?».

«Un po' di tutto».

«Che cosa sono i doublés?».

«Due fette di carne».

«Ah».

«La torta è di gelato».

«Logico».

L'infermiera Matea trasporta la sua pigra impassibilità fino alla porta, sbattendo le palpebre. Si volta meditabonda strabuzzando gli occhi, come solo un merluzzo potrebbe fare.

«Ci tengo a farle sapere che io, personalmente, avrei preferito dei fiori».

«È un vero peccato che non abbia espresso prima il suo parere, infermiera, purtroppo gli alberelli sono già stati ordinati. Però, a ben vedere, la sua idea... Chi mai potrebbe impiccarsi a un geranio? Avrebbe fatto bene a dirlo».

«Non che abbia molta importanza».

Uscendo, l'infermiera incrocia il dottor Eugenius, che non la degna di uno sguardo e punta diritto sul dottor Berset.

«Le due signorine arrivano stasera» annuncia, fregandosi euforico le mani.

«E anche il nostro uomo d'affari».

«Ah! Non sarà facile coordinare l'accoglienza».

«Eugenius, è improbabile, quasi impossibile, che arrivino tutti alla stessa ora. Quindi le cerimonie d'accoglienza saranno due. Ha già pensato a qualcosa?».

«Oddio, le signorine sono giovani, non credo ci daranno troppi problemi, ma un finanziere di quel livello...».

«Nessuna originalità, sulle prime; cordialità, molta cordialità. Spero solo che le signorine arrivino con tutti i documenti in regola: quando è lei a occuparsi da cima a fondo di una questione ho sempre paura che si lasci sfuggire qualche aspetto tecnico».

Il dottor Eugenius sa che Pamela e Clarissa hanno entrambe presentato un certificato psichiatrico, sa che hanno provveduto a chiudere e lasciare in perfetto ordine tutte le loro pendenze e incombenze nel mondo. Potrebbe offendersi se non sapesse che per Berset gli "aspetti tecnici" sono una vera ossessione, e che in quell'apparente rimprovero si cela un tacito omaggio alla sua spumeggiante fantasia, che Berset ammira, perché la considera il vero segreto del progetto. Se è vero che Berset nutre benevoli sentimenti verso il suo socio, ora non saprebbe dimostrarli se non con parole spicce. Nella sua testa si affollano troppi pensieri che non possono non preoccuparlo. I primi ospiti già annunciano l'arrivo imminente, altri figurano sulla breve lista e presto telefoneranno confermando il giorno e l'ora. Di alcuni non sono ancora completi tutti i dati, altri presentano ombre nel curriculum, che per non violare le norme della cortesia non è stato possibile chiarire per telefono. Berset non si permetterebbe mai di sostenere che il compito del suo socio è più leggero, ma sa che il suo ruolo gli consente di non badare alle questioni finanziarie, né alle possibili complicazioni legali. I problemi di Eugenius sono di altra indole, altrettanto spinosi, ma al tempo stesso più consoni alle sue passioni, alle sue personali inclinazioni.

Non è gradevole dover esercitare il controllo, né dover saldare le fatture, ma non importa: è una ginnastica, un gioco di destrezza del pensiero con le palline della realtà; con una mano le lanci, con l'altra le raccogli, così rapidamente che il pubblico vede in te solo l'artista, non il tecnico, non il cervello che organizza, non il contabile che calcola.

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Pagina 77

Un discreto patrizio



«Mia cara infermiera Matea, lei non ha ancora capito che i giornali non servono a nulla, tanto meno a informare su come va il mondo; la sola cosa che possono fare è metterci qualche sciocchezza nella testa quando meno ce lo aspettiamo».

«Mi prende per una stupida, Léonard; qualunque cosa lei abbia da dire sulla stampa, io la so già, ma mi piace leggere i giornali e commentare le notizie, sempre che trovi una persona intelligente con cui farlo».

«Benissimo, l'ha trovata. Cominciamo. Che si dice sulla vita nell'aldilà? E il mio tema d'attualità preferito».

«Non posso essere aggressiva con i clienti, ma ho il dovere di informarla che sta spingendo i suoi scherzi un po' troppo lontano».

«Esatto, nell'aldilà, anche se è un posto che, come tutti sanno, si trova a un tiro di schioppo. Non capisco perché se la prenda. Lei mi mette in soggezione, infermiera, davvero».

«E io posso dire altrettanto di lei, non scherzo».

L'infermiera psicologa Matea raccolse i giornali sparsi accanto alla sua sedia ed escluse un nuovo interlocutore dalla rosa dei candidati. Per dire la verità, non aveva mai sperato che Léonard potesse rivelarsi un partner adatto a lei. Ed era vero che le metteva soggezione, soprattutto in certi momenti, quando lo vedeva circonfuso da una strana luce che lo rendeva simile a un profeta o un apostolo. Ma il più delle volte non vedeva altro in lui che uno zoticone, come in quel momento, mentre inzuppava biscotti nel succo d'arancia. Si allontanò. Sarebbe andata a leggere nella sua stanza, dove poteva stare molto più comoda. Vide arrivare Berset e il finanziere Finn impegnati in un'accesa discussione.

«Lei è completamente fuori strada, Berset. Nessuna delle meraviglie di cui parla è vera. Può darsi che il mondo della finanza fosse appassionante molti anni fa, quando tutto era più aleatorio, più su piccola scala; ma oggi tutto dipende dalla politica internazionale, è legato a fenomeni incontrollabili, o controllabili solo dalla stratosfera. Pochi, forse pochissimi, sono in grado di muovere i pezzi sulla scacchiera; e io non sono mai stato tra quelli».

«E così ha perso ogni entusiasmo».

«Se si riferisce al mio suicidio, le ripeto quello che dico sempre: io non cerco la morte come via di fuga, ma come fine. Credo sia giunto il momento di mettere un punto finale. E poi, la vita non mi è mai parsa nulla di straordinario».

«Eppure lei è ancora giovane».

«Lo è anche, e molto più di me, il nostro amico Léonard, che ha preso la stessa decisione».

Léonard fingeva di ignorare la conversazione, senza riuscire a essere troppo convincente. Era davvero orribile il modo in cui inzuppava quei biscotti. Di tanto in tanto beveva un sorso di spremuta disgustosamente intorbidata, nella quale salivano e scendevano briciole sfatte. Berset credette di leggere nel suo silenzio un'intenzione ironica.

«Forse il nostro amico ha già deciso di rinunciare alle sue intenzioni suicide e tutto si risolverà per lui in un'esperienza letterariamente interessante».

Léonard finse di non avere neppure sentito e si rivolse a Finn in tono aggressivo:

«Non dubito che lei abbia superato tutti gli accertamenti del nostro sommo pontefice e capo, ma la sua storia non mi convince. Mancano troppe cose, sarebbe bello se fosse così semplice: la morte come fine, tutto troppo sereno, nessuno ragiona in questo modo».

Finn rise, mostrando due file perfette di denti bianchi.

«E che cos'è che manca, Léonard? Una passione, una terribile delusione? Qualcosa di più letterario?».

«No! Manca per l'appunto qualcosa di banale, di sordido. Magari che sua moglie l'ha piantata, che le è morto un figlio; qualcosa che lei non vuole che si sappia, o che le dà fastidio ricordare. Nessuno si uccide perché è arrivato dove voleva. È assurdo».

«Io mi uccido per mancanza d'interesse. Lo trova inconcepibile? Perché si uccide, lei, Léonard?».

«La mia storia è molto semplice, invece. Io mi uccido perché mi manca la pazienza. Ho un talento enorme, Finn. Non pensi che sia arroganza, non avrebbe senso, dato che abbiamo entrambi un piede nella fossa. Ho del genio, certo, ma solo il pensiero di dover passare tutta la vita a coltivarlo, a lavorare, a scrivere, a lottare, accumulando tensioni e angosce per raggiungere la gloria, mi è insopportabile; e senza la gloria io non so vivere».

Finn lo ascoltava un po' sorpreso, riflettendo attentamente su quel che diceva e forse considerando che poteva essere una ragione valida.

«Immagino che raccomandarle un po' di pazienza sia inutile».

«Tanto come raccomandare a lei di interessarsi a qualcosa».

«Allora, visto che le sue ragioni quanto le mie possono apparire inverosimili a molti, la prego di credere alle mie come io credo alle sue».

Léonard non rispose, e Berset si vide costretto a intervenire per puro spirito di cortesia, temendo un malinteso fra i due ospiti.

«In realtà nessuno è tenuto a spiegare le sue motivazioni agli altri abitanti della casa».

Léonard, che in fondo aveva fatto una confidenza a Finn, ora si sentiva a disagio con Berset, quasi che avesse perso una parte della sua forza critica.

«Certo, dottor Berset, questo a lei non converrebbe! C'è il rischio che fra tutti quanti riusciamo a convincerci di quant'è bella la vita e non facciamo che concederci una piacevole vacanza. A parte il notevole danno alle sue entrate per la cancellazione della "cerimonia finale", potrebbe vedersi ridotto, da medico illustre, a semplice direttore d'albergo».

Ormai Berset era abituato alle provocazioni di Léonard, che sapeva confutare con abilità, senza mai uscire dal ruolo di guida pacata che ci si aspettava da lui. Eppure, quell'accusa di voler impedire la comunicazione fra gli ospiti lo allarmò e lo mise in guardia circa una possibile incrinatura alle fondamenta della sua organizzazione.

«Mi duole sentirle dire questo, Léonard. Credevo che con la sua cultura e con il fine olfatto di cui sono dotati gli artisti, lei avesse capito che qui regna la più assoluta libertà. Non vedo perché i miei ospiti non debbano discutere tra loro del motivo che li ha condotti qui».

«Non si scaldi, Berset! A ben pensarci, simili discussioni sarebbero noiosissime. Tutti sono troppo suscettibili questa mattina. Pensi che l'infermiera Matea non ha neppure voluto commentare le notizie con me!».

«Chissà che cosa le avrà detto lei! Ci scusi, Léonard; se non le spiace continuerei la mia passeggiata con il finanziere Finn. La riempirà di malsana soddisfazione apprendere che mi propongo di chiedergli consiglio su come investire i miei risparmi».

«Detto da lei non mi stupisce affatto».

Léonard rimase seduto al tavolo della colazione. Quella mattina tutti sembravano disprezzare il cibo come anoressici. Per fortuna lui aveva una fame vorace. Si versò una tazza di tè e si soffermò sull'assortimento di torte e dolcetti distribuiti sul lungo tavolo. Osservò i vari colori delle marmellate e delle gelatine, il bianco avorio del burro, i toni ascendenti dal bruno al dorato delle zollette di zucchero, le diverse varietà di biscotti, l'enorme focaccia tagliata a fettine uniformi, il salmone roseo come il culetto di un bebè. Come mai i responsabili di Exit facevano di tutto per dare a quel luogo l'aspetto di un giardino dell'Eden? Solo per farlo assomigliare a un circolo esclusivo per ricconi? O per vedere se qualcuno si decideva a restare in vita lusingato dal cibo e dalle gioie della campagna? Vide il signor Ottosillabo affaccendarsi fra gli alberi. Maledetto omiciattolo! Di sicuro si era alzato all'alba e ancora non la smetteva di potare, zappettare, annaffiare. Eppure non aveva niente contro di lui. In quella casa, se non altro, rappresentava la classe lavoratrice. L'avrebbe perfino difeso, se ce ne fosse stato bisogno. Lo vide sparire fra i susini, con i pantaloni imbrattati di fango e la cesta in cui trasportava i suoi attrezzi. O era l'uomo più semplice che esistesse al mondo, oppure aveva l'anima dello schiavo per sgobbare a quel modo, malgrado quello che aveva sborsato per il soggiorno a Exit e la susseguente uscita da questo mondo. Spalmò di marmellata di fragole un soffice panino dolce e vi affondò i denti. Clarissa comparve sotto il portico. Da quando era stato nella sua stanza le aveva rivolto la parola appena l'indispensabile. La passività di Clarissa lo aveva fatto sentire in colpa, anche se continuava a trovarla una bionda angelica. Per di più lei non sembrava serbargli rancore, sorrideva ogni volta che lo incontrava e, diversamente da prima, lo guardava senza diffidenza. Si era accorto benissimo di questi particolari e anche di altri. Pamela, dal canto suo, era impenetrabile. La sola cosa evidente era che non si separava quasi mai da Finn, insieme a lui rideva e si permetteva comportamenti che sarebbero potuti passare addirittura per civettuoli. Ah, e quella stupida di Clarissa la reclamava con trasporto sotto il suo abbraccio! Era scontato che Pamela andava a letto con Finn. Non c'era da stupirsi che fossero tutti lì allo scopo di suicidarsi! Nessuno aveva l'aria di essere troppo a posto in quella casa.

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Pagina 112

Ma quella mattina dormire non fu facile per nessuno, per nessun essere vivente, o morente, nella grande casa di Exit. Da poco aveva cominciato ad albeggiare e si udivano i primi cinguettii degli uccelli, i primi scricchiolii dei rami sotto il sole, i primi passi felpati dell'infermiera Matea che, lavata e vestita di buon'ora, scendeva in cucina a preparare le colazioni. Lo squillo di tromba fu uno solo, ma lacerante. Risuonò al cancello, ma poté udirsi in tutto il giardino, dentro la casa, in tutte le stanze, e per centinaia di metri tutt'intorno, se ci fosse stato qualcuno a sentirlo. L'infermiera Matea, scettica e pacata come sempre, non pensò all'annuncio del Giorno del Giudizio, né si figurò alcun angelo sterminatore. Corse alla porta domandandosi che cosa capitasse, già snocciolando mentalmente una litania che più tardi si sarebbe trasformata in una lunga serie di rimostranze rivolte, non senza rispetto, al dottor Berset. Sulla porta splendeva una lucida tromba impugnata da una grossa mano nera di luridume.


Per l'ora di pranzo tutti gli ospiti morivano dalla curiosità. Ormai le voci correvano ma nessuno sapeva ancora nulla. Il dottor Berset era stato bersagliato da un fuoco di fila di domande, alle quali aveva risposto con poche parole: avrebbero avuto tra loro un nuovo ospite. E qui si era esaurita la sua loquacità. Quando si radunarono sotto il portico cercarono con gli occhi un nuovo posto a tavola, ma non lo trovarono. L'infermiera Matea disse che potevano sedersi, i due medici sarebbero scesi più tardi. Tutti la seguirono con lo sguardo mentre serviva la crema di porri.

«Perché non ci dice chi è arrivato, infermiera psicologa Matea?» chiese Léonard cantilenando come un bambino che vuole qualcosa dalla maestra. «Oh, andiamo» insistette, «mia cara professionista, mio adorato angelo custode, sia comprensiva! Se nutre il nostro corpo ma lascia affamato il nostro spirito, non potremo essere felici nel momento del trapasso».

Madame Tevener spalmava abbondanti strati di foie gras sul pane tostato.

«Ho paura, Léonard, che all'infermiera Matea la nostra felicità, nel momento del trapasso o in qualunque altro momento, interessi ben poco».

«Non si tratta di questo, Madame. È solo che non sono autorizzata».

Pamela abbandonò il cucchiaio nel piatto.

«Ma perché non la lasciate in pace? Non basta che debba sopportare la vostra presenza e accontentarvi in tutto? Deve anche stare ai vostri giochetti?».

Léonard la guardò con gli occhi di uno sparviero.

«Magnifico, Pamela! La ammiro. Quando non fa della filosofia, lei difende i diritti dell'individuo!».

Pamela stava per rispondergli, ma l'infermiera Matea impose il silenzio e disse:

«La ringrazio, signorina Pamela, ma questa volta tengo a dirle che si sbaglia. Io non sopporto assolutamente nulla che non sia compreso nelle mie mansioni, e faccio soltanto ciò di cui sono incaricata per contratto».

Léonard mise tutto il sarcasmo che poté nelle sue risate.

«Ah, povera Pamela, che cosa deve subire la sua fibra più sensibile! Mi pare quasi un sogno!».

L'infermiera rimise il mestolo nella zuppiera e, per una volta, parve permettersi il lusso di essere se stessa:

«Non mi piacerebbe che nascessero discussioni per causa mia. Ripeto che non sono autorizzata a parlare. Però, signor Léonard, una cosa posso dirla. Fino a poco fa credevo che lei fosse l'ospite più... difficile, qui dentro. Ora devo ammettere che ho cambiato opinione».

Rimise il coperchio alla zuppiera e se ne andò. Tutti erano rimasti interdetti, ma nessuno era più curioso di Léonard.

«Che cosa avrà voluto dire?».

Pamela lo guardò e sorrise:

«Immagino che ora l'infermiera Matea mi trovi ancora più antipatica di lei».

«Niente affatto, io credo che si riferisse al nuovo ospite!».

Madame Tevener portò una mano alla fronte come se si svegliasse in quel momento da un sonno:

«È vero! Però non ci capisco nulla lo stesso».

Finn aveva finito la sua minestra in silenzio. Prese la parola, alzando l'indice in un gesto paterno:

«Signori, ma vi rendete conto di quel che ci sta capitando? Da quando siamo arrivati a Exit stiamo subendo un processo di infantilizzazione. Ce ne stiamo qui come collegiali a preoccuparci di chi è il nuovo, a prendercela con chi ci serve la minestra e a tormentarci a vicenda con stupide frecciatine. Sinceramente credevo che la vicinanza della morte stimolasse nelle persone intelligenti il fiorire di idee più interessanti».

La replica di Léonard non si fece attendere:

«Ma certo! E se vuole la mia opinione, signor Finn, le dirò che questo processo è stato incoraggiato da Berset e da Eugenius fin dal nostro arrivo qui. Ci trattano come ragazzini e usano gli espedienti più ridicoli per far emergere la nostra parte più infantile».

«Forse è solo una tecnica psicologica per tenerci tranquilli» disse la Tevener.

«Lei non pensa mai male, Madame? Credevo che le vedove avessero la lingua affilata».

«Léonard! Questa è una grossolanità che preferisco fingere di non avere sentito. In fin dei conti, siamo qui per morire. A che serve preoccuparsi di smascherare macchinazioni ai nostri danni? Quanto a lei, signor Finn, non crede sia meglio così? Perché dovremmo tirare a lucido le nostre anime quando è chiaro che nessuno di noi darebbe un centesimo per la propria?».

Léonard rideva deliziato.

«Lei è geniale, Madame, geniale. La sua logica è di una solidità molto amena, ma non per questo meno rigorosa. Comunque mi piacerebbe che un giorno affrontassimo in modo più approfondito la questione sollevata da Finn. È davvero interessante».

Pamela sbriciolava annoiata un pezzo di pane.

«Benissimo. E adesso che abbiamo rinviato il dibattito-seminario sulla condotta dell'uomo in situazioni limite, continuiamo le indagini sul nuovo ospite».

«Credo sia un mendicante» disse a bassa voce Clarissa, che non aveva ancora parlato.

Tutti la guardarono come se si fosse materializzata in quel preciso istante. Lei pensò di non essere stata capita, o forse di non essere creduta. Continuò:

«Stamattina all'alba non riuscivo più a dormire, ero sveglia, leggevo. Non avete sentito anche voi uno squillo di tromba? Mi sono affacciata alla finestra. L'infermiera Matea è uscita ad aprire. Se poi non se ne è andato, il nuovo ospite deve essere lui. Tanto più che non avrebbe lasciato lì la sua roba».

Indicò, in un angolo del giardino, un mucchio informe di stracci da cui sporgeva il collo di una bottiglia e uno scintillio d'ottone. Léonard si alzò e andò a vedere. Giunto accanto al fagotto, si chinò e ne estrasse una tromba. L'infermiera Matea arrivava in quel momento con il vassoio dell'arrosto. Léonard gridò:

«Ehi, infermiera! Si può sapere cos'è questo?».

L'infermiera lo guardò e arrossì lievemente, forse di collera.

«È il bagaglio del nuovo ospite».

Ci fu un mormorio.

«Allora è vero!».

L'infermiera si ritirò, certo per evitare altre domande. L'arrosto era servito. Léonard, dopo aver curiosato ancora un po' fra quegli stracci, tornò a sedersi a tavola, dove tutti si sforzavano di mostrarsi indifferenti. Lui continuò ad almanaccare ad alta voce senza toccare il piatto.

«Che sorpresa ci staranno preparando? Stavolta Berset ha superato se stesso. O forse è stato quel mattacchione di Eugenius. Non mi stupirei se si trattasse di un milionario eccentrico».

«O di un altro artista fallito».

«Non cerchi di provocarmi, Pamela. Sono troppo sulle spine per darle retta».

«Non so proprio perché lei pensi al suicidio. Solo di curiosità ne ha quanto basta per riempire più di una vita».

«E quei due medici che non scendono!».

Madame Tevener pescò l'ultimo pisello rimasto nel suo piatto e osservò che in quell'agitazione nessuno aveva badato a un pranzo superbo. I suoi capelli rossi avvampavano nel riverbero del sole. Si passò il tovagliolo sulle labbra e sospirò:

«E dire che la tragedia del signor Ottosillabo mi aveva tolto l'appetito!».

Finn sorrise e domandò:

«A quale tragedia si riferisce, Madame? Tutti noi stiamo accettando con naturalezza quella che lei chiamerebbe la nostra tragedia».

«Ah, certo! Il sangue freddo dell'uomo d'affari! Le ricordo che per me si è trattato del mio primo suicidio; e poi, una morte è sempre una tragedia. Deve esserlo. Il rispetto delle forme lo esige».

«Questo è vero» disse Finn, ridendo.

Non compariva nessuno, faceva caldo, le bucce della frutta rimaste sui piatti cominciavano a decomporsi in macchie scure. Gli sguardi si appesantivano di torpore. A poco a poco tutti smisero di parlare. Una goccia di sudore percorse la fronte di Madame Tevener.

«È inutile che stiamo qui ad aspettare. Oggi il caffè non arriva. Che ne direste di andare a fare un po' di conversazione in biblioteca? Forse accostando le imposte riusciremo a trovare un po' di refrigerio».

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Pagina 148

A quella tavola, rilevati da ombre e chiaroscuri, tracciati da una mano assai diversa da quella che li aveva raffigurati in passato e in altri luoghi, sedevano i più svariati personaggi. Solo l'infermiera psicologa Matea, con i suoi movimenti netti e precisi, pareva estranea al carattere spettrale della serata. Léonard taceva, facendo presagire il peggio. Beveva e tornava metodicamente a riempirsi il bicchiere. Paracelso, con artificiosa discrezione, corteggiava la vedova Tevener, e lei cinguettava vezzosa pensando che in fin dei conti un uomo, straccione o no, rimane pur sempre un uomo, e che il mondo era stato ingiusto a trattare così male un essere intelligente, sensibile e originale come Paracelso Pasteur.

Berset vedeva con una certa diffidenza quei conciliaboli. L'approfondirsi di una relazione fra la vedova e Pasteur proprio quando il trapasso di quest'ultimo si avvicinava rischiava di sortire risultati nefasti. A meno che, cosa improbabile, non ne nascesse un legame tale da spingerli entrambi a desistere dai loro intenti, annullare il contratto e andarsene da Exit mano nella mano. Eventualità, più che remota, impraticabile, giacché una volta fuori di lì i due avrebbero cessato di essere Paracelso Pasteur e la vedova Tevener, per ritrasformarsi in un povero barbone emarginato e in una raffinata signora dell'alta società. Preferì interromperli con delicatezza:

«Mio caro Paracelso, non crede che sarebbe ora di cominciare a servirci?».

«Carissimo dottor Berset: stavo appunto ringraziando il cielo che il brontolio dei tuoni celasse alla mia affascinante commensale l'impazienza delle mie povere trippe».

«Le garantisco che da questo stesso istante le sue povere trippe saranno sontuosamente accontentate».

E in quel momento apparvero, sotto cupole d'argento, scintillanti polli dorati, succose pernici in salmì, miriadi di pisellini di un verde prodigioso, pasticci di fegato in pasta sfoglia, soffici montagne di purè di patate, allegre distese di insalate multicolori. Paracelso Pasteur batté le mani e cantò le lodi di ciascuno dei piatti mentre si serviva con dovizia di ogni cosa. Léonard, risentito, spolpò senza interesse una coscia di pollo. Tutti gli altri mangiarono in silenzio, come presagendo che la festa non sarebbe finita bene. Berset e il dottor Eugenius proponevano di continuo nuovi brindisi, sebbene non fosse facile trovare ragioni per alzare i calici in una serata spenta e triste come quella, fra gente che aveva messo da parte ogni fiducia nel futuro. L'enfasi retorica raggiunse picchi di entusiasmo solo grazie all'eco che trovava in Pasteur. Si brindò alle virtù di cuoca dell'infermiera Matea, all'eccellenza del vino custodito nelle cantine di Exit, alla felice circostanza di trovarsi tutti lì riuniti e, malgrado lo scettico e un po' offensivo ribattere di Pamela, alla bellezza delle donne sedute a quella tavola. Se non si potevano trascinare i commensali verso la felicità, li si poteva almeno indurre ad alzare i calici, e a vuotarli.

Dopo un po' cominciò a udirsi la risata fanciullesca di Clarissa, libera e cristallina come nelle prime sere, accompagnata dalla più mondana e provetta ilarità di Madame Tevener. Berset poteva dirsi soddisfatto: tutti sembravano seguire la via sinuosa dell'alcol. Finn e Pamela si scambiavano sguardi di complicità, interrogativi quelli di Finn, beffardi e sfuggenti quelli di Pamela. Solo Léonard perseverava nella cupezza silenziosa con cui dimostrava il suo malcontento. Neppure Paracelso parlava molto, ma solo perché non ne trovava il tempo; per incredibile che potesse sembrare, le sue mascelle erano costantemente in funzione. Trinciava, tagliava, sminuzzava, infilzava, assaporava, masticava, inghiottiva, alzando di tanto in tanto il calice, già vistosamente orlato di un circolo untuoso, e tornava a percorrere con lo sguardo la tavola alla ricerca di nuovi vassoi da assalire. L'infermiera Matea, con la serietà che le era propria, o che riteneva confacente al suo ruolo, badava che tutto funzionasse a dovere. Tre volte si alzò per andare a prendere altro vino, inoltrandosi nel buio con una candela tremolante. Quando vide che i commensali, deposte le posate sui piatti, cominciavano ad assumere le pose più rilassate del dopocena, balzò in piedi per ritirare i vassoi. Paracelso pescò al volo un mezzo pollo gelatinoso, che quasi rischiò di sfuggirgli dalle dita, e continuò imperterrito a mangiare finché Matea tornò con il carrello dei dolci carico di frutti di bosco, pasticcini, gelati, confetti e marron glacé. Il dottor Eugenius provvide lui stesso ad adagiare le bottiglie di champagne nel secchiello del ghiaccio coprendole poi con un tovagliolo ripiegato. Tutti gli ospiti, ormai sazi, si lasciarono catturare dalla magia dei dolci, la cui abbondanza pareva voler dire loro che mangiare non era una necessità, né lo sarebbe mai stata, a Exit, effimero paese della cuccagna perfettamente organizzato e felice. Léonard tentò di mostrarsi indignato persino mentre raccoglieva con due dita un tartufo al caffè spolverato di cacao: «Che cosa volete? Farci scoppiare tutti quanti?». Lo champagne spumeggiò moderatamente nei bicchieri. Paracelso cosparse di minuscoli bignè il suo piatto colmo di frutta, poi mescolò il tutto come un cuoco che prepari un'insalata, e se ne riempì la bocca deliziato, a cucchiaiate debordanti, mentre rivoli di succhi e sciroppi gli scivolavano sul mento. Quando ebbe vuotato un secondo piatto di quel miscuglio, lasciò andare un rutto. Madame Tevener non seppe trattenere una smorfia di fastidio. Ma già il dottor Eugenius versava di nuovo lo champagne nei delicati calici incisi, sperando di distrarre i commensali da quel comportamento imbarazzante. Fu inutile, Paracelso Pasteur, dopo essersi scolato tre calici di champagne uno dopo l'altro, si alzò in piedi e con voce di tuono chiese la parola. Eugenius presentì la catastrofe, ma il suo intuito e la sua prontezza di riflessi non bastarono a prevenirla. Fingendo di non aver colto le intenzioni di Pasteur, tentò una manovra diversiva:

«Dal momento che questa sera, per mancanza di corrente elettrica, non possiamo affidarci al giradischi per allietarci con la musica, proporrei di ascoltare ciò che i nostri virtuosi ospiti avranno la bontà di eseguire dal vivo».

Clarissa si alzò per andare a prendere il violino. Berset fece per seguirla impugnando un candeliere, ma la voce poderosa di Paracelso li costrinse a riprendere i loro posti.

«Devo intendere che non volete concedermi l'opportunità di parlare? Ci tengo a farlo ora che siamo tutti insieme!».

Eugenius rispose, falsamente sollecito:

«Ma, mio caro Pasteur, ne avrà senz'altro occasione domani. Lei crede che dopo questa pantagruelica cena noi siamo in grado di dedicare al suo discorso tutta l'attenzione che merita?».

«Voglio parlare!» disse Paracelso, con fermezza. «Ve lo avevo annunciato. O forse nessuno ha voglia di ascoltarmi?».

Intervenne Léonard:

«Lo lasci parlare!».

Il resto dei presenti era ammutolito. L'aria, impercettibilmente, si era caricata di tensione. Berset cavò di tasca la sua pipa e la batté più volte sul palmo della mano. Poi la voce di Paracelso Pasteur suonò, impastata dal vino:

«Che silenzio! Non avevo certo intenzione di costringervi a darmi retta. Ora che ci penso, non ho neppure molto da dire. O meglio, ho un annuncio molto importante da fare, signore e signori: prima che io mi ammazzi, la vedova Tevener ed io ci uniremo in matrimonio».

Madame Tevener era come imbambolata; il vino le aveva lievemente gonfiato il viso e l'architettura sempre impeccabile dei suoi capelli rossi dava segni di cedimento. Quando si rese conto di quel che Paracelso aveva detto, strinse i pugni, le guance le si arrossarono di colpo e sbottò, fuori di sé dalla collera:

«Ma cosa dice questo demente? È ubriaco fradicio! Chi l'ha autorizzato a divertirsi alle mie spalle?».

Si fece il gelo. L'infermiera Matea tentò di accorrere al fianco della vedova, ma Paracelso Pasteur, che gettava occhiate terrificanti tutt'intorno, glielo proibì. Quando, in parte trattenuta da Eugenius, lei ebbe ripreso il suo posto, Paracelso proseguì, in tono beffardo e temibile:

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