Copertina
Autore Anais Ginori
Titolo Pensare l'impossibile
SottotitoloDonne che non si arrendono
EdizioneFandango, Roma, 2010, Documenti 36 , pag. 158, cop.fle., dim. 17x21x1 cm , Isbn 978-88-6044-143-0
PrefazioneConcita De Gregorio
LettoreGiorgia Pezzali, 2010
Classe paesi: Italia: 2000 , femminismo , media
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Indice


Prefazione                            9

Introduzione                         15

Utilizzatori finali                  23

Pubblicità progresso                 33

Le Poppe                             45

Forza fisica                         55

L'imputata                           64

Uno strano Casanova                  72

Senza pudore                         84

Indietro tutta                       95

In fondo al mondo                   115

La Monella                          115

All'ultimo minuto                   126

Quando eravamo regine               132

Dottor Pillola                      139

Le Malefiche                        148


 

 

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Pagina 15

Introduzione


Un pomeriggio di tarda estate. Il radiogiornale delle 13 apre con i verbali di Gianpaolo Tarantini, l'uomo che portava le prostitute a palazzo Grazioli. Ne viene letto soltanto un brano, innocuo e neutro per quel che riguarda la politica, probabilmente scelto proprio per quello. "Ho pensato in questi anni che le ragazze e la cocaina fossero una chiave per il successo nella società." È una frase importante, invece. Uno di quegli slogan che ti restano in testa, la sintesi perfetta di un mondo, di quel che stiamo diventando. Tutti noi, obtorto collo, non solo l'intraprendente venditore di protesi mediche che aveva capito come si fa ad andare avanti. Con la carne, con il corpo delle donne da usare come moneta corrente. La radio gracchia ancora, dopo un confuso pastone politico dove si evidenzia "l'irrilevanza" dell'interrogatorio di Tarantini, si passa ad altro. La seconda notizia ci prepara all'autunno che verrà, riferendo della nuova indagine parlamentare per tentare di bloccare la vendita in Italia della Ru486, la pillola abortiva da anni venduta in tutto il mondo.


C'era un legame tra quelle due notizie, sfuggito forse a chi decide la scaletta del radiogiornale. Quella sequenza produceva uno strano spaesamento, ma era giusto scegliere quell'ordine, perché entrambe le notizie parlavano di donne, e non in modo tangenziale, ma diretto. Donne in Italia, oggi. Il 2009 è stato il nostro Anno Zero. È cominciato con l'idea che una persona in stato vegetativo potesse fare figli soltanto perché aveva ancora le mestruazioni, ed è finito con il "lei è più bella che intelligente" a Rosy Bindi. In mezzo, storie di magnaccia politici che fanno carriera con donne&droga. Veline che chiamano le mamme dai bagni del Premier, giovani certificate "illibate" da avviare allo spettacolo o alla politica, "tanto deciderà Papi". Casting invece che selezione, Book al posto del curriculum, puttane cacciate dalla strada mentre le squillo d'alto bordo festeggiano. Abbiamo scoperto parole nuove, "escort", "ragazza-immagine", clienti diventati "utilizzatori finali", maschi che scappano in convento o che si giustificano: "Io non sono un santo".

Se non fosse stato per lo scatto d'orgoglio di una moglie, il "ciarpame politico senza pudore" sarebbe passato inosservato, o quasi. Quando il 3 maggio Veronica Lario annuncia su Repubblica che chiederà il divorzio dall'uomo più potente del Paese, diventa il bersaglio di pesanti allusioni e campagne stampa. Eppure sarebbe stato facile riconoscersi nella sua denuncia. Ha invece prevalso una sorta di rassegnazione femminile. "Per una strana alchimia — aveva detto Veronica - il Paese tutto concede tutto giustifica al suo imperatore." La reazione, non solo contro Silvio Berlusconi, ma contro uno stato delle cose mai così evidente come in quest'ultimo anno, non è stata all'altezza. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che il silenzio generale — poche le voci femminili di dissenso - seguito a una vicenda che non faceva altro che sottolineare il deterioramento dell'idea di donna in questo Paese, è forse il segno più evidente di una sconfitta in corso.

Le storie che ho raccolto sono un modo per dare voce a un disagio sempre più profondo e diffuso. Per la prima volta, le donne italiane, quelle non ancora completamente rassegnate, hanno paura di tornare indietro. Vedono la loro libertà minacciata e sentono che gli uomini riprendono il controllo sul loro corpo. È una pressione costante, fatta di battute, episodi umilianti, nuovi e inaspettati ostacoli. È la fine di troppe cose, il precipitare di ogni certezza e speranza. C'è davvero una strana alchimia che intorpidisce le coscienze. Una lenta assuefazione alla volgarità e allo svilimento, cominciata vent'anni fa. Abbiamo paura del conflitto, preferiamo la ricerca del consenso anche a costo di fare qualche compromesso. È quanto sostengono Sofia Ventura e Lorella Zanardo, due donne con percorsi diversi alle spalle ma che giungono alle stesse conclusioni e anche questo, se volete, è un indicatore della necessità di tornare a parlare di certe questioni che si credevano ormai archiviate, passate in giudicato.

Questo libro ovviamente non è un'indagine esaustiva sull'arretramento della condizione femminile. Impossibile dare conto di tutti gli esempi positivi che, per fortuna, ci sono anche in Italia. Sono voci, testimonianze, situazioni che mostrano una resistibile decadenza sociale. Un racconto corale di come eravamo e di cosa siamo diventate. L'ho pensato come un piccolo contributo a chi è giovane, a chi non sa. Pochi mesi fa, in un bar del centro di Roma, due studentesse con zaino in spalla discutevano di una notizia letta sul giornale appoggiato al bancone. Una loro coetanea, stuprata in una strada di periferia. Leggevano ad alta voce. L'autore dell'articolo descriveva la vittima come "esuberante, attiva nella sua comunità". Una delle due ragazze si è posta una buona domanda: "Che vuole dire questo?". Ma l'altra, la sua amica, ha risposto così: "Che magari vestiva da mignotta".


I centimetri che abbiamo perso in questi anni, l'arretramento costante, sono intorno a noi. Si respirano in certi discorsi, nell'aria che tira, nelle cronache di giornali e televisioni. Anche questo è un paradosso. L'Italia è forse il paese dove la rappresentazione femminile è più spinta, in ogni senso. Basta guardare le pubblicità nelle strade, accendere appunto la televisione. Succede anche all'estero, ma solo da noi è un'ossessione così totalizzante. Grandi quantitativi di ragazze pronte all'uso, o almeno così fanno sembrare. Non devono però essere considerate come vittime. Usano le libertà che le loro madri hanno faticosamente ottenuto come un brutto scherzo, una beffa. Si è creata un'oscenità diffusa, nella quale non è stato liberato solo il sesso ma anche la sua patologia. È un pendio scivoloso. Quando una voce contraria si alza contro le veline viene subito giudicata "moralista", "bacchettona". "Pensavamo di aver innescato un processo irreversibile" ricorda qui Emma Bonino. Invece, il senso si è perso, la forza vitale è scomparsa. "Abbiamo smesso di pensare l'impossibile."

C'è sicuramente un problema di comunicazione. Un capitolo è dedicato a ogni aspetto di questa rappresentazione sempre più patinata e volgare delle donne. Dall'ottusità delle mamme da spot pubblicitario, stereotipate al limite della parodia involontaria, fino all'indecente esposizione televisiva del corpo delle donne, alla quale Lorella Zanardo ha dedicato un documentario terribile nella sua semplicità. Ma non si tratta solo di questo. Purtroppo c'è anche dell'altro.

Arretratezza femminile e arretratezza collettiva camminano insieme. Non esiste progresso sociale permanente e profondo se le donne sono confinate nella cittadinanza di seconda classe. E quando le donne possono dire di avercela fatta, è la società intera, maschi inclusi, che ce l'ha fatta. L'economista Daniela Del Boca studia da anni le differenze di genere. L'Italia accumula record su record. Tutti negativi. Soltanto una donna su due lavora, e si deve comunque accontentare spesso di impieghi più precari e sottopagati rispetto a un maschio. Alla nascita del primo figlio, una italiana su cinque è costretta a lasciare il lavoro. C'è il culto della mamma, della regina del focolare, e ci sono le italiane che devono sobbarcarsi tre ore e quarantacinque minuti di lavori domestici al giorno. C'è la retorica sulla sacra famiglia e ci sono le risorse pubbliche per aiutare le coppie che sono la metà rispetto alla media degli altri paesi europei. Restano ancora molte ambiguità da superare.

"La donna italiana non vuole completamente rinunciare al suo vero, unico potere." Una mattina, a palazzo Grazioli, la sociologa Monica Fabris mi mostra alcune ricerche che ha realizzato. I suoi uffici sono vicini all'abitazione del Primo Ministro. "Nella nostra cultura è sempre stata la donna che comandava in casa. Rimane, questa, un'attrazione fatale, anche perché la dimensione pubblica non è ancora così gratificante." Eppure lei è ottimista, vede dei passi avanti. Nei campioni statistici che la sua società utilizza per i sondaggi, le differenze di genere si assottigliano sempre più. È un buon segno. L'attuale maschilismo di ritorno come reazione all'avanzamento delle donne nella società.


"Tutti pazzi per le escort." Ma che bel titolo. Giocato sulla reminiscenza di un film famoso, nel giornalismo è prassi diffusa. Letto di recente su un settimanale di quelli che cercano l'araba fenice dell'editoria, il pubblico giovane. In fondo è davvero così. Uno degli effetti collaterali delle vicende private del Premier è stato lo sdoganamento della prostituzione, l'asticella si è abbassata e non di poco. Escort, e non prostituta, o puttana. Escort, un termine più vicino a top model che alla professione realmente esercitata. La mistificazione è lampante, evidente. Le escort sono socialmente accettabili, frequentano i palazzi del potere, vestono firmato, profumano, costano, sono consenzienti e consapevoli. Ne consegue che la prostituzione, in fondo, non è poi un male, perché farsi dei sensi di colpa? Mentre scrivo, ho sulla scrivania le prime notizie di agenzia del giorno, quelle fatte con i mattinali di questura. In una settimana soltanto, due prostitute malmenate a Bari, un'altra derubata e abbandonata esanime nei campi intorno a Tor Bella Monaca.

Alcune scelte di questo libro mi sono state dettate da questo, dall'ipocrisia dilagante e accettata. La prima è stata quella di iniziare questo racconto da Benin City, dalla Nigeria. Girare per le baraccopoli, guardare in faccia la miseria, fissare negli occhi le bambine che stanno per partire, destinazione i marciapiedi d'Italia. Farebbe passare la voglia a qualche puttaniere incallito. Qualcuno, non tutti. Ma la prostituzione, il 99% del commercio sessuale italiano, è questa cosa qui. Non sono gli specchi di belle case residenziali, non sono modelle palestrate che lavorano con gioia. Esistono, ma traslare il significato della parola escort, attribuirle una valenza sociale, è un modo di trovare un appiglio per voltarsi dall'altra parte, e non guardare in faccia la realtà.

La prostituzione da marciapiede sta diventando un primato soltanto italiano, così come sembra essere una fissazione solo nostra il business dei film porno monotematici che vedono la donna violentata, presa in maniera bestiale, costretta a piangere e urlare. Ho incontrato il re di questo filone cinematografico, perché volevo capire quale immaginario stesse dentro a quei film. Si chiama Andy Casanova, abbiamo pranzato insieme in un ristorante sulle colline della Versilia. Era insieme alla sua fidanzata, una giovane pornostar. La trattava con dolcezza, e lui sembrava tutto fuorché un pappone o un maniaco degenerato. Ha cercato di spiegarmi, ben sapendo che trovavo disgustoso il suo lavoro. E di questo lo ringrazio.


Si parlava di centimetri andati persi, di ritirata. Che dire di un ministro della Repubblica il quale sostiene che le donne in fondo non devono lamentarsi, perché oggi possono diventare mamme anche a cinquant'anni? Niente, se non che quelle parole sono figlie del nostro tempo, confondono causa ed effetto, presunta libertà e vere costrizioni. Certamente, tra i messaggi che passano senza colpo ferire c'è anche una rappresentazione umiliante, quasi irreale delle nuove generazioni. Date per perse, nel migliore dei casi, irrecuperabili perché contaminate da anni di televisione volgare e sessista.

Troppo semplice. Le ragazze che ho incontrato per scrivere questo libro non sono tutte veline. Molte però provano un senso di disillusione. Sono cresciute pensando che i diritti erano tutti già conquistati, che la parità fosse un dato acquisito. Hanno scoperto che non è così. Le donne si laureano più degli uomini, hanno voti migliori ma le differenze nel salario e nella carriera sono enormi. "Oggi possiamo studiare, decidere se sposarci o divorziare. Ma non basta", racconta Teresa, una studentessa di ventitré anni che, per il solo fatto di partecipare a un collettivo femminista alla Sapienza, viene spesso derisa dai suoi amici.

Allora ha ragione Luisa Muraro quando dice che la parola "femminista" fa ancora molta antipatia, sottolineando che gli italiani sono rimasti indietro, "non hanno ancora assimilato le conquiste del movimento". Le protagoniste delle storiche battaglie degli anni Settanta hanno spesso difficoltà a comprendere lo scontento delle più giovani. Rispetto a tanti anni fa, il progresso è innegabile. Ma le donne di oggi forse hanno imparato a riconoscere e detestare la subordinazione, hanno acquisito la consapevolezza di una condizione ingiusta. Sanno. E la conoscenza, a volte, può essere fonte di infelicità.

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Utilizzatori finali


I primi ad accoglierti sono i lebbrosi. Organizzano posti di blocco, piccoli dossi di pietre sulle strade. Quando le auto sono costrette a rallentare, bussano ai vetri. Elemosinano qualche naira ostentando braccia e gambe divorati dalla malattia. Estremo sud della Nigeria, in mezzo alla foresta pluviale. È la regione più povera del Paese, non c'è il petrolio dell'Est, né l'agricoltura del Nord. Non c'è industria, università, non ci sono dinastie politiche o militari. Non c'è nulla.

L'unica ricchezza di Benin City sono le ragazze. Parlano italiano, sanno pronunciare perfettamente la frase che più di ogni altra ascolteranno: "Quanto vuoi?". E poi ci sono gli Italos che conoscono le nostre strade. Quelle che davvero contano. Corso Traiano, Porta Nuova, Cimitero Monumentale, viale Zara.

Torino, Milano. Il loro territorio.

Nel 1897, appena arrivati in Nigeria, i coloni inglesi scoprirono con orrore i riti voodoo. Donne e bambini bruciati di notte, teste appese nelle piazze per il pantheon degli dèi Orisha. Oggi il sacrificio di Benin City si consuma altrove, in Italia.

"Le nostre donne sono bellissime." Grace Osakue non parla da estimatrice ma da presidente di un'associazione femminista locale. Corpi da gazzelle, bocche di rosa, sederi come mappamondi. "Già a 11 anni sono sviluppate, pronte per partire." Benin City è la fabbrica delle prostitute. Una filiera quasi perfetta che rifornisce ogni anno l'Italia. Il nostro Nord chiama, il Sud del mondo risponde, per necessità, per avidità. Un perfetto esempio di globalizzazione.

"Want to go abroad?", vuoi andare all'estero?, è scritto su un grande cartello in mezzo alla piazza del mercato. Raffigura una nigeriana in catene che abborda un'auto. I manifesti, così come gli spot televisivi, i volantini, tutti finanziati dal governo locale, sono un disperato tentativo di ricordare a famiglie e ragazze che la prostituzione è schiavitù. La domanda diventa retorica. "Sì, le ragazze di Benin vogliono tutte andare all'estero", risponde Grace. Prima destinazione: Italia. Dicono che sia il paese dei papagiri. Puttanieri.

"Non provate un po' di vergogna?", chiede Eki Igbinedion, la moglie del governatore dell'Edo State. Da cattolica osservante è stupita che il racket di giovani donne prosperi nella terra del Papa. Ha mandato anche una lettera a Berlusconi. "Caro Presidente, 42mila ragazze di Benin sono schiave nel suo Paese. Molte non tornano più, tutte vengono maltrattate, sfruttate, infettate. Dal 1999, ne sono state uccise duecento."

I giornali locali chiamano la rotta delle schiave pipeline, oleodotto. Ci sono interi quartieri che hanno cambiato aspetto da quando si vende all'Italia il nuovo petrolio di Benin. Famiglie con la casa ristrutturata, padri fieri del Mercedes nuovo. Gli sponsor in grado di procurare un visto e un biglietto per l'estero vengono chiamati con gran rispetto Italos. Trafficanti. Aprono le porte dell'Italia. Si considerano manager. Mettono in relazione l'offerta e la domanda. Uno dei rari trafficanti arrestati, Chidi Nsoro, fermato alla frontiera del Ghana con tredici ragazze, si è giustificato così con la polizia: "Questo è il mio business".

Italian Connection era il titolo di un film che raccontava il viaggio di queste ragazze verso l'Italia. La Nigeria è il primo produttore di film in Africa e sul traffico di prostitute è stata girata una sorta di epopea strappalacrime. Fiction. Qui nessuno piange. Anzi, le famiglie festeggiano quando un Italo entra in casa e porta via una giovane. In cambio, lei dovrà ripagare il debito. Cinquantamila euro, anche se le ragazze spesso non sanno contare, confondono naira, dollari ed euro. "Comunque, significa 2 anni di lavoro, 10 uomini a notte", quantifica Grace.

Un affare tra donne. Sono le madri che incoraggiano le ragazze a partire. Sono le maman che gestiscono le schiave in Italia.

La magia voodoo esiste ancora. Insieme alla miseria, è la catena invisibile che tiene imprigionate le ragazze. C'è un tempio a Benin City dove si custodiscono ciocche di capelli e fotografie delle prostitute. Molte credono che saranno maledette se cercheranno di fuggire. Quando vedono un poliziotto, imparano a farsi il segno della croce, dicendo "I'm covered by the blood of Jesus".

Ci sono anche donne che aiutano altre donne. Poche, ma ci sono.

Hauwa Ibrahim è un avvocato che lavora alla legge contro il traffico di esseri umani. Da dieci anni è sposata con un impresario edile di Milano. "Una volta mi sono finta prostituta e ho preso un volo per l'Italia insieme ad altre nigeriane. Ho capito che non solo i trafficanti sono tollerati, ma godono anche di forti complicità con le autorità nigeriane." Hauwa ha denunciato un funzionario dell'ambasciata. "Poi mi sono fermata", confessa. "Ho due figli e non posso mettere a repentaglio la mia vita."

Suor Blandina è arrivata in Nigeria all'inizio degli anni Ottanta. Nel centro Bishop Kelly, dedicato a un pastore irlandese, accoglie quasi duecento ex prostitute nigeriane espulse dall'Italia. Suor Florenza invece gestisce i programmi di reinserimento. "Di solito i primi tre mesi non parlano, è difficile persino farle mangiare." Trovano rifugio qui. "Più che della vendetta dei trafficanti, hanno paura della famiglia. Spesso i genitori sono delusi o arrabbiati per il loro fallimento. Significa perdere l'unica fonte di reddito. La cosa peggiore per me è vedere che sono le madri quelle più avide e spietate."

I charter atterranno a Lagos almeno due volte al mese. Le ragazze sbarcano senza documenti, mezze nude, spaventate. Ragazze come Joy, Cinzia, Tina che ti salutano in italiano con diffidenza: "Ciao, che ci fai qui?". Raccontano tutte lo stesso viaggio di andata verso l'Italia. Macchina da Benin City fino a Lagos, aereo fino a Parigi o Londra per le più fortunate. Alle altre tocca in sorte una lunga traversata nel deserto fino alle coste della Libia. "Ho lavorato per un anno tutte le notti." Joy era minorenne quando è arrivata a Torino. "Le prime volte vengono mille irritazioni. I genitali si gonfiano, sembra quasi che caschino. Ti fai impacchi di acqua calda e fredda. Usi lozioni astringenti, ma le volte dopo fa ancora più male." Quando le ragazze sono consegnate ancora vergini, come Joy, è una complicazione in più. Ci pensano gli Italos a eliminare l'inconveniente. Dopo lo stupro, la merce è pronta per la strada.

I vocaboli del mestiere, quelli da sapere assolutamente, sono pochi. "Tranquillo", per dire di parcheggiare in un posto non troppo isolato. "Cubana", perché si vende meglio della nigeriana. "Vaffanculo", perché bisogna sopravvivere.

Joy è stata espulsa dopo che un italiano l'ha picchiata. Sembra paradossale ma capita spesso. Ricorda ancora gli insulti. Puttana di merda. Sporca negra, ora ti sistemo io. L'uomo aveva giocato a spegnere sigarette sul suo corpo. "Mi sono salvata perché un marocchino mi ha difeso." È arrivata la polizia, Joy è finita su un charter. "L'Italia? Non voglio più vedere un italiano in vita mia."


"E le donne italiane, dove sono?"

"Perché non si accorgono di noi?"

Isoke Aikpitanyi aveva ventuno anni quando è arrivata a Torino. Le hanno consegnato un paio di mutande, si è ritrovata vicino a un grande falò in corso Traiano, la notte di Santo Stefano del 2000. Davanti a sé, l'ombra nera di Mirafiori chiusa per feste. Non un'anima nel giro di chilometri. Aveva appena nevicato. Era la prima volta che Isoke vedeva la neve. Tutto le sembrava persino bello.

Era partita da Benin City con la promessa di un posto da commessa in un negozio di frutta e verdura. Nel suo Paese la condizione delle donne è atroce: puoi morire per mano delle bande armate o degli integralisti islamici che lapidano le adultere. Lei sognava solo di guadagnare qualche soldo per aiutare la madre, senza più marito e con otto figli da sfamare.

"Queste sono matte", fu il suo primo pensiero nel vedere le altre nigeriane perse nella notte torinese. Molti mesi dopo, anche lei sarebbe diventata matta.

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Senza pudore


In primo piano, la foto di un tacco a spillo estremo. "Donne in politica, il velinismo non serve." L'articolo viene pubblicato sul sito della Fondazione FareFuturo, presieduta da Gianfranco Fini. Mancano poche ore allo sfogo della signora Berlusconi, ma quel 27 aprile 2009 appartiene all'epoca A.V., ante Veronica. Quindi, ancora più difficile dire certe cose, senza paracadute. A farlo ci pensa invece Sofia Ventura, una politologa poco conosciuta. È lei l'autrice di quel testo che esce in sordina, ma lascerà un segno.


"Se il problema della carente presenza femminile nei luoghi della politica tocca molte democrazie, anche se nel caso italiano si presenta in modo particolarmente acuto, vi è una specificità tutta nostrana che aggrava ancor di più la situazione. Ci riferiamo alla pratica di cooptazione di giovani, talvolta giovanissime signore di indubbia avvenenza ma con un background che difficilmente può giustificare la loro presenza in un'assemblea elettiva come la Camera dei deputati o anche in ruoli di maggiore responsabilità.

Che nella politica italiana vi sia la necessità di dare spazio a una nuova generazione non vi è dubbio, ma è questo, ci chiediamo, il modo? Qui assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto a che fare, allo scopo di proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento.

Questo uso strumentale del corpo femminile, al quale naturalmente le protagoniste si prestano con estrema disinvoltura, denota uno scarso rispetto da un lato per quanti, uomini e donne, hanno conquistato uno spazio con le proprie capacità e il proprio lavoro, dall'altro per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima. Al tempo stesso, esso rischia di far fare un pericoloso passo indietro alla cultura politica del nostro Paese.

Il fenomeno del 'velinismo' in politica, ancorché circoscritto, non aiuta certo a modernizzare una cultura ancora in parte diffidente verso il ruolo delle donne in politica e a promuovere la pari dignità dei sessi in ogni ambito della vita pubblica, piuttosto rilancia uno stereotipo femminile mortificante, accuratamente coltivato dalla nostra televisione (che è, a questo proposito, un unicum nel contesto europeo-occidentale) e drammaticamente diseducativo per le nuove generazioni. Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole, non sono nemmeno fragili esserini bisognosi di protezione e promozione da parte di generosi e paterni signori maschi, le donne sono, banalmente, persone."


L'articolo esce un momento prima del terremoto. È la piccola crepa nella diga. Non c'è neppure il tempo per una reazione, per dire che il quadro tracciato da Ventura non è veritiero. Le parole sul "velinismo", poi Noemi, Veronica. E viene giù tutto. Almeno così sembra.


L'anno accademico è appena ricominciato, all'ingresso dell'università bolognese alcune aule sono occupate. "Con i provvedimenti del governo la conoscenza va in fumo e si disperde per sempre", è scritto su uno striscione. Gli studenti hanno fatto un grande falò di libri. Sofia Ventura imbocca una via laterale all'ingresso di Strada Maggiore e sale al primo piano. Chiede a un'impiegata le chiavi di un ufficio nel dipartimento di Scienze Politiche. "Non ho ancora la mia scrivania. Devo ringraziare due colleghe che mi prestano la stanza. La solidarietà femminile è potente, peccato che molte donne non lo capiscano."

Aspetta di vincere un concorso da "ordinario". "Ci vorrà tempo, non mi sono mai preoccupata di fare le mosse giuste per fare carriera, e poi non sono simpatica a qualcuno, perché dico sempre quello che penso. Sono fatta così." L'impiegata le apre una porta, quasi si scusa. "Abbiamo chiesto l'agibilità dei nuovi uffici, abbia pazienza."

Sofia non è abituata ad aspettare. Va sempre di fretta. La notte prima era a Milano, ospite de "L'infedele" di Gad Lerner, per parlare di riforme costituzionali e informazione. "Ho avvertito l'assistente di Lerner: 'Non fatemi parlare solo di quell'articolo'. Vorrei evitare di ghettizzarmi sulle questioni femminili, non è la mia specializzazione." Insegna Scienza Politica, Leadership e Comunicazione Politica alla facoltà di Forlì. Ha pubblicato ricerche sulla destra francese e sulla Quinta Repubblica. Sua madre è parigina. Lei è bilingue, doppia nazionalità. Altri segni particolari: elettrice di destra, a Bologna. La prima scheda per Silvio Berlusconi risale al fatidico 1994. Bisognava scegliere un campo, c'era stata la famosa "discesa", e lei non ha avuto dubbi: il suo anticomunismo è viscerale.

È nata sulla linea gotica, dai suoi parenti ha sentito tante storie su quella che definisce una "guerra civile". "Insomma, sono stata vaccinata da piccola contro le ideologie e i totalitarismi. Mio papà era democristiano, io mi considero liberale. Ma sono anche anti-clericale nel senso più vero del termine, vorrei cioè che la politica e la religione fossero separate. E naturalmente sono antifascista, però non l'ho mai detto perché a un certo punto è diventata una cosa particolare, troppa retorica."

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Indietro tutta

Succede che una dirigente con master in Business Administration, che ha lavorato a New York, Londra, Parigi, prima donna manager della multinazionale Unilever, consulente dell'Unione europea e poi di grandi imprese, decida di mettere tra parentesi il suo lavoro per occuparsi di tette e culi. Ore, giorni interi, davanti a ragazze discinte teletrasmesse, in geometrica esibizione, a novanta, a quarantacinque gradi, da sfogliare come riviste – lato a, lato b –, balbettanti, meglio se affette da mutismo, basta che respirino no?, riprese dai piedi per creare una vertigine sull'inguine, oppure in picchiata sul petto, tuffo con atterraggio morbido garantito.

Per molto tempo, Lorella Zanardo ha evitato di guardare la televisione. La teneva spenta nel salotto della sua casa milanese, era un elettrodomestico di raro consumo come il battitappeto che si usa ai cambi di stagione. Ogni tanto, quando tornava dalle trasferte di lavoro all'estero, accendeva su un canale a caso, esaurendo immediatamente la curiosità. Ha vissuto così – da esule culturale in patria – fino a quando non sono nati i suoi figli. Anche per loro valeva la regola: niente tv. Ma i bambini crescono, vanno a scuola, portano a casa quello che tu faticosamente cerchi di tenere fuori. "Mamma, perché lei è sempre in costume e lui in giacca e cravatta?" Eventuali risposte alla figlia di nove anni che s'interroga sul varietà del pomeriggio. Prevedibile: "Lei è scema, lui no". Inverosimile: "Lei ha caldo, lui no".


Succede dunque che l'occhio di una donna e madre, televisivamente ancora "vergine", si sintonizzi sul nostro piccolo schermo. All'inizio prevale una sensazione di incredulità, stupore. Un'incursione tra i selvaggi. "Mi sentivo come l'esploratore che va in Africa per la prima volta." Una Livingstone del palinsesto. Alla scoperta dell'ordinaria volgarità che ci circonda ormai da vent'anni.

"Lo sdegno che ho provato non è solo mio. Conosco tanta gente indignata per la qualità dell'offerta televisiva, che ha deciso di non far vedere la tv ai propri figli. Però anche questo è il problema dell'Italia, un atteggiamento elitario che ha condotto il Paese al disastro." Giudizio implacabile. Nessuna attenuante.

Una chiamata in correo a quelli come lei, al pubblico assente: con il suo disinteresse ha permesso che tutto ciò accadesse. Si può essere o non essere d'accordo. Discuterne per ore. La tv rispecchia la società o la società rispecchia la tv? Lorella ha preferito fare qualcosa.

Durante le vacanze di Natale 2008, con un paio di amici, Marco Malfi Chindemi e Cesare Cantù, due giovani esperti di comunicazione, ha fatto un'abbuffata di televisione. Quattrocento ore di programmi Rai e Mediaset, escludendo informazione e reality. Solo trasmissioni di intrattenimento, il classico varietà. Tre videoregistratori, tre computer sempre accesi per venti giorni. Tutto il trash possibile e immaginabile, l'offerta non manca. Hanno selezionato le immagini più simboliche, ne hanno rintracciato altre famose su YouTube e poi hanno organizzato un montaggio serrato con la voce narrante di Lorella.

Il corpo delle donne inizia così: "Ho lavorato e sono sfinita. Non immaginavo così tanta fatica e così tanta noia. Adesso so che le immagini non sono solo immagini. Sono comunicazione, memoria, sapere, educazione. Di certo non immaginavo che le immagini televisive fossero uno specchio così preciso per alcuni comportamenti. Ho cercato di vedere dentro a quello specchio per vedere chi siamo e magari riuscire a modificarlo se non ci piacciamo. Ho capito anche che gli specchi servono spesso a nascondere oltre che rivelare".

La convinzione degli autori è che le donne, quelle vere, siano scomparse dalla tv. Sostituite da una rappresentazione grottesca, volgare, umiliante. Un pogrom, dicono senza paura di strumentalizzare un termine che evoca massacri di ben altro tipo. La tv propone un solo modello di femminilità. È l'avvento della Femmina Unica. Una consulente aziendale come la Zanardo, "cinquantenne non magrissima, non levigata né rifatta, senza zigomi alti e labbra gonfie" secondo la sua stessa definizione, non appare mai. "Questo sta avvenendo sotto lo sguardo di tutti senza che vi sia un'adeguata reazione, nemmeno da parte delle donne."

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Quando eravamo regine


Luisa Muraro riceve nel suo appartamento al primo piano di un palazzo affacciato su Porta Ticinese. È una delle più note e autorevoli rappresentanti del pensiero femminista, è stata tra le fondatrici della Libreria delle donne di Milano, della comunità filosofica Diotima, ha insegnato all'università di Verona, è l'autrice di fondamentali saggi sul femminismo della differenza, diventato elemento identificativo del movimento italiano rispetto, per esempio, a quello dei paesi nordici più incentrato sulla parità. "La differenza femminile significa la relatività della differenza maschile. Gli uomini sono un sesso, non sono la misura dell'umanità." Per questa intellettuale nata a Vicenza nel 1940 e così attenta al linguaggio — "Non dico mai la donna, perché è una dizione metafisica, preferisco parlare delle donne" —, la discussione sulla nostra epoca parte da una semplice constatazione: "Gli uomini italiani hanno mancato l'appuntamento con il femminismo". Uno "sfasamento", un ritardo abbastanza evidente, secondo Muraro.

Negli Stati Uniti si è parlato di backlash. Il contraccolpo del maschilismo dopo l'avanzata del femminismo: è questo che devono affrontare le donne oggi?

"In Italia le cose sono andate e vanno diversamente, sebbene l'ispirazione e lo slancio degli anni Sessanta e Settanta ci abbiano avvicinate a tanti altri paesi, in primo luogo gli Usa. Qui non abbiamo notato alcun contraccolpo, perché la nostra strada è sempre stata in salita. Ma continua, si continua ad andare avanti. Da vent'anni circa l'Italia registra una crescente presenza di donne nel mercato del lavoro. È un processo irreversibile, non una contingenza, sebbene la crisi oggi in corso colpisca anche le donne, con effetti pesanti specialmente nel Sud. Ma ovunque la cultura è cambiata, anche dove le opportunità scarseggiano.

Oggi per una giovane è normale realizzarsi sul lavoro, salvando altri desideri, in primis quello di maternità. Osservo che le ragazze di oggi sono intimamente autonome, non si fanno più definire dal desiderio e dalla volontà maschile. Un'amica che è tornata dopo molti anni passati in Venezuela mi ha detto che non riconosceva più l'Italia proprio per questa libertà femminile che si respirava nell'aria. D'altra parte, però, ci sono aspetti che definirei di arretratezza maschile. Paradossale: l'Italia è stata uno dei paesi con il femminismo più forte, intenso, vivace e creativo, ma gli uomini – compresa gran parte degli intellettuali progressisti – non hanno recepito le conquiste del movimento. Perciò, passato il tempo della maturazione, il tempo che doveva essere dell'assimilazione delle nuove idee portate dal movimento delle donne nella vita pubblica, per esempio nella politica ufficiale, nella televisione, non si sono visti i frutti."

Per alcune giovani c'è anche un sentimento di scoramento, la delusione per una rivoluzione in qualche modo incompiuta.

"La condizione delle donne è migliore che in passato ma è più difficile, complessa, e dunque più interessante. La singola donna deve risolvere molti più problemi. Prima camminava su un binario fisso. Come ho già detto, oggi le giovani donne dicono sì al mondo del lavoro ma anche alla maternità. Questo è un cambiamento notevole, la mia generazione tendeva infatti a pensare che fosse necessario scegliere. A questa novità positiva si aggiunge, purtroppo, per le persone giovani, maschi o femmine, quella di trovare un lavoro corrispondente alle proprie aspettative e pagato decentemente. Ma nonostante tutto io osservo che questa generazione, penso alle mie ex studentesse, non si scoraggia.

Come sta cambiando l'esercizio delle libertà femminili nella società?

"Se si sapesse osservare e raccontare, si vedrebbe che la società italiana è uno straordinario laboratorio della libertà femminile. Cambiano i rapporti con gli uomini, tra donne, con il lavoro, la sessualità... E i cambiamenti vanno in tante direzioni, non senza contrasti e contraddizioni. Anche sul piano simbolico la rappresentazione femminile è diventata più problematica. Per esempio, ci sono donne proiettate sulla scena pubblica che agiscono e si comportano in modo che suscita indignazione nella società femminile. Vengono strumentalizzate dai partiti? Forse. Sono troppo timide nei confronti dei capi della televisione? Forse. Comunque, in tutto questo si esprime il travaglio di una società che cambia e fa posto alle donne. Una volta le prostitute si chiamavano, eufemisticamente, donne pubbliche. Oggi ci sono tante donne pubbliche e nessuno ricorda che era quasi una parolaccia."

Lei ha difeso Veronica Lario, definendola una "figura innovatrice nel paesaggio politico". Perché?

"Semplice: perché non ha parlato da femminista, ma neanche da moglie subordinata. Lei è entrata da signora in un paesaggio politico che comincia appena a prendere forma. Ha detto le cose che pensava in totale autonomia, muovendo all'uomo critiche politicamente molto gravi. L'ha accusato di fare un uso indecente della cosa pubblica e ha detto che certi suoi comportamenti fanno pensare a uno stato di malattia. Ha dimostrato una libertà di giudizio sconosciuta ai politici, compresi quelli dell'opposizione. Però ha anche detto che vuol bene a quell'uomo e ha chiesto che venga aiutato. Io, che mi riconosco una punta di asprezza e polemica verso l'altro che è uomo, sono rimasta colpita dalla forza senza asprezza di Veronica. A mio avviso, è una figura emblematica di quello che sta cambiando nel mondo delle donne e nei rapporti con gli uomini. 'Ho la libertà di andare avanti', ha detto. Riconoscerlo e offrirle uno specchio valorizzante, è un passo decisivo nella difficile partita che stiamo giocando oggi, donne e uomini."

Come mai allora è stata così poco sostenuta e valorizzata?

"È mancata la mediazione politica delle donne di sinistra, che avrebbero avuto interesse nell'appoggiarla. Non lo hanno fatto subito perché non hanno capito il valore politico di quella presa di posizione. Il Pd ha dato risposte sbagliate per una ragione semplice, perché non ha ancora registrato la fine del patriarcato. Sono state invece le femministe autonome a prendere posizione. Ma noi non abbiamo i giornali, le tv. Il nostro sostegno c'è stato, ma fatalmente poco visibile."

Berlusconi è un vecchio maschilista demodé, oppure incarna un modello tuttora attuale?

"Non ha inventato niente, occorre dirlo? Nella bottega sempre aperta del potere dove tutto si compra e tutto si vende, lui si è distinto per certi comportamenti che sono un'esplicita caricatura di quello che lì avviene. Il contrasto fra un certo successo popolare che ha in Italia e lo scandalo che suscita all'estero si riduce in fondo a una questione di distanze. Da lontano si vede quello che esce dalle righe. Da vicino si vede anche la cerchia dei tanti che gli somigliano, sui quali lui riesce a spiccare per una schiettezza di uomo furbo, come quando ha replicato 'non sono un santo'. Da vicino si vede anche che l'indignazione suscitata in Italia non è tutta di buona marca. Ci sono uomini, e sono tanti, che si sentono offesi nella loro dignità di facciata. Vogliono che la bottega funzioni ma con un certo decoro. In che cosa questo consista, esattamente, non lo so."

In compenso, le parole di due donne, Veronica Lario e poi Patrizia D'Addario, hanno smascherato questo mercimonio.

"Anni fa ho scritto alcune lezioni sul femminismo per l'università di Barcellona. La prima s'intitolava 'La verità delle donne'. Gli uomini ne hanno paura. Le donne sanno la verità sulla sessualità maschile, per esempio la D'Addario ha dato l'impressione di una persona che non ha niente da nascondere e bisogna dire che fa la sua bella figura rispetto ai poveri uomini di potere, pieni di imbrogli, sotterfugi e avvocati che devono difenderli."

Il privato è pubblico, si diceva negli anni Settanta. È ancora così?

"La famosa parola d'ordine femminista è diversa, dice che il personale è politico. In effetti, la rivoluzione femminista è stata fatta in prima persona. Quanto a pubblico/privato, si tratta di una separazione che abbiamo messo sotto accusa non in assoluto, ma nella misura in cui significava il confinamento delle donne nel privato. Era un comodo sistema per separare le parvenze pubbliche, ufficiali e dignitose, da un privato dove capitava di tutto, dalla prevaricazione sulla moglie, e anticamente sui figli, fino al libertinaggio corrente. Il femminismo, ha voluto rompere con questo. Nelle epoche migliori per le donne quella separazione non valeva. Mi riferisco alle classi alte della società francese del Seicento e a quella civiltà della conversazione ottimamente studiata da Benedetta Craveri. Oggi è tutto diverso, oggi il privato, spesso nei suoi aspetti più volgari o miseri, è diventato uno spettacolo pubblico."

Ragazze, spesso laureate, fanno la fila per diventare veline. Qualcuno ha sostenuto che sia un effetto perverso dell'emancipazione femminile. Cosa ne pensa?

"Non diciamo sciocchezze. Io difendo regolarmente queste ragazze. Se non ne fanno l'anticamera della prostituzione, il loro è un lavorare onesto, un guadagnarsi il pane. Punto e basta. Quelle che vogliono intraprendere una carriera televisiva, hanno altre strade? Comunque, io non giudico mai le singole persone, a parte quelle che hanno ruoli, poteri e doveri non comuni. Giudico il contesto e le responsabilità di chi dirige, è la televisione italiana che dovrebbe cambiare, quanto alla rappresentazione del femminile."

Perché è difficile trovare una giovane che si definisce "femminista"?

"Per me quello che è stato guadagnato in questi decenni è tantissimo, ma ha ancora bisogno di essere assimilato ed elaborato dalla società italiana, e il discredito gettato sulla parola 'femminista' fa parte di questa arretratezza. L'autonomia di una donna è sempre stata combattuta anche con il ridicolo. La parola 'femminismo' e 'femminista' fa antipatia tra gli uomini, tra i preti, tra gli intellettuali. Ma qualcuno mi ha detto: in realtà abbiamo paura di voi. Quando gli uomini digeriranno tranquillamente questa parola, allora non ci sarà più bisogno di ondate femministe. C'è ancora una misoginia e un risentimento maschile che covano. Aggiungo che ogni generazione deve ereditare e reinventare il mondo con le proprie parole. Capisco che una giovane donna voglia essere creatrice del suo cammino."

C'è bisogno di un nuovo femminismo?

"Il femminismo va a ondate. È accaduto nell'Ottocento, nel Novecento. Noi siamo state protagoniste e abbiamo assistito a una straordinaria mareggiata che comincia alla fine degli anni Sessanta, viene avanti negli anni Settanta e arriva fino ai nostri giorni. Dalle ragazze di oggi vorrei vedere più energia nel far valere quello che è cultura e pensiero di donna. Troppo spesso cerchiamo di ottenere ciò che ci interessa senza farci vedere, senza conflitto. La tendenza è questa. Io invece credo che i conflitti aperti facciano bene, tanto alla società quanto alle persone."

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