Copertina
Autore Fabio Giovannini
CoautoreM. Brando, al.
Titolo Cattivissimi
SottotitoloRacconti alle origini del neo-noir italiano
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2012 [1995] , pag. 180, cop.fle., dim. 12x19x1 cm , Isbn 978-88-6222-298-3
CuratoreFabio Giovannini, Antonio Tentori
LettoreGiovanna Bacci, 2013
Classe narrativa italiana , noir
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Indice


  5 PREFAZIONE
    di Fabio Giovannini e Antonio Tentori


 11 CACCIA di Massimo Brando

 15 FRANZ KRIEG GROUP PRESENTA FOGLIE AL VENTO
    di Marco Minicangeli

 24 LA CARNE di Luigi Seviroli

 31 POLAROID di Antonio Tentori

 42 LA FINESTRA SULLA NOTTE di MArzia Bonato

 48 LA VOGLIA di Aldo Musci

 55 RADIO BLACK CHAT di Sabrina Deligia

 61 CAPRICCI di Alda Teodorani

 74 IL PALAZZO di Ivo Scanner

 92 SPOSI di Elisabeth Donatello

 95 TUTTI LA NOTTE DORMONO, E IO NON DORMO MAI...
    di Claudio Pellegrini

110 PIRATA DELLA STRADA di Loredana Fayer

118 FORMALDEIDE O DELLA CONSERVAZIONE
    di Tiziana Colusso

126 MYRNA di Nicola Lombardi

152 NOTTE OSCURA di Pino Blasone


169 BIOGRAFIE
173 NOTA SULL'ATTIVITΐ DEL GRUPPO NEONOIR

 

 

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Pagina 5

PREFAZIONE



Sono passati quasi vent'anni. Era il luglio del 1993 quando un gruppo di scrittori, critici, sceneggiatori e registi si incontrò in una birreria di Roma, a Trastevere, insieme a Dario Argento e sua figlia Asia, per dare vita a un "movimento" (che pure non aveva le caratteristiche tipiche dei movimenti letterari o culturali). Il gruppo si autobattezzò Neonoir, prendendo spunto da un saggio dell'americana Maitland McDonagh su Dario Argento (Broken Mirrors/Broken Minds, Sun Tavern Fields, London 1990).

Da quella chiacchierata in birreria è nata un'esperienza molto particolare, una "banda" Neonoir che ha proseguito fino a oggi la sua attività, con alterni momenti di visibilità. Nel corso degli anni la "banda" ha prodotto collettivamente soprattutto antologie di racconti, ma anche eventi teatrali e radiofonici, happening culturali e altre iniziative.

L'antologia decisiva per l'identità del gruppo risale al 1995, intitolata Neonoir: deliziosi raccontini col morto, e appariva con una confezione molto particolare, nello stile dei "cofanetti" di Stampa Alternativa: una scatola di cioccolatini che sparì presto dalle librerie per le proteste della Nestlè, proprietaria dei Baci Perugina, perché l'immagine di copertina riproduceva i classici innamorati dei Baci, ma con un coltello nelle mani dell'uomo.

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Pagina 11

CACCIA
di Massimo Brando



tump... Tump... TUMP!!!

Cominciava a battere così, forte forte, il cuore quando entrava in zona di caccia, tump... Tump... TUMP!!!

E non lo sentiva solo nel petto, ma gli rimbombava nella testa, negli occhi, nelle vene del collo, nei polsi. E il respiro gli si faceva sempre più affannoso, e rischiava di perdere il controllo del diaframma: questo non poteva permetterselo, proprio no. L'autocontrollo, l'autodisciplina: questi erano i motivi principali che lo inducevano a sottoporsi alla Caccia (proprio così, con la C maiuscola, gli piaceva pensare alla sua attività). Ci aveva pensato molte volte, sia poco prima di farlo, sia dopo averlo fatto, nella tranquillità della sua vita di tutti i giorni: lo faceva principalmente per mettersi alla prova, perché occorreva il cosiddetto sangue freddo, precisione, determinazione e anche attenzione per i particolari, dato che un minimo dettaglio tralasciato avrebbe potuto farlo scoprire. Oh, naturalmente poi c'era il piacere, tanto piacere, e diverso da quello che era capace di dargli sua moglie, che lui pur amava: lui era un uomo fedele, in fondo. E in più c'era l'elemento potere; aveva sotto controllo quelle creature, quegli animaletti non potevano credere di fare quelle cose senza che lui lo sapesse.

Era una splendida notte di un caldo settembre, con la luna quasi piena a illuminare la pineta della sua algida luce: le condizioni ideali per la sua attività. Sapeva che le sere di fine estate — soprattutto se erano come quella — avevano la capacità di insinuarsi fra gli abiti ancora leggeri, sotto i calzoni sulle gambe senza calze, o di scivolare sulle gambe nude o le pance semiscoperte... per far esplodere nelle femmine come nei maschi la voglia irrefrenabile di appartarsi a darsi piacere. Eh sì, lo sapeva come funzionava: li vedeva anche a scuola, durante gli ultimi giorni di lezione, quando a fatica riusciva a tenere concentrata la loro attenzione. Capiva che non vedevano l'ora di andarsene, per cominciare a toccarsi i centimetri di pelle che si erano scoperti: le braccia, le gambe (quelle gambe, soprattutto delle femmine, senza più nulla a nasconderle). E li vedeva anche alle riunioni della parrocchia che facevano tanti bei discorsi, ma i peli leggermente ritti sull'epidermide messa a nudo (li vedeva, certo, li vedeva come in una foto in macro) erano il segno della voglia di sentirsi addosso l'aria o il fiato o le mani... o la saliva... di qualcun altro. C'erano dei momenti in cui provava quasi tenerezza e riusciva per un po' a cancellare il fastidio per così tanta animalità.

Quella notte aveva fermato l'auto ai limiti della zona che sapeva essere frequentata. Come al solito s'era cambiato le scarpe: non poteva davvero rischiare di portare in casa anche la benché minima prova di dov'era stato. S'era anche messo degli abiti che lui considerava "da lavoro", una vecchia camicia senza maniche e un paio di jeans ormai scoloriti, mentre gli altri vestiti li aveva accuratamente piegati sul sedile posteriore della macchina: quando tornava a casa doveva essere immacolato proprio come era uscito. Aveva preso lo zainetto in cui metteva le cose che potevano tornargli utili (una torcia, una corda, un coltello, e – ne era fiero – un bellissimo binocolo a raggi infrarossi, anche se quest'ultimo quella notte probabilmente non gli sarebbe servito) e aveva cominciato la ricerca.

Camminava cautamente, cercando di fare meno rumore possibile, e dirigendosi verso le zone della pineta che per le loro caratteristiche attraevano chi voleva fare certe cose: un cespuglio più alto degli altri, una radura appartata, un anfratto della collina. Illusi, pensavano di essere protetti.

tump... Tump... TUMP!!!

Procedeva tendendo le orecchie, cercando di non ascoltare il battito del cuore nella testa, e il suono del suo respiro. Aveva letto che molti animali, anche predatori, vedono in bianco e nero: e così gli piaceva immaginarsi di vedere. Tutto in bianco e nero, ma con migliaia di toni di grigio, finché non li incontrava, e allora da loro – e solo da loro, ovunque fossero – emanava una violentissima iridescenza dorata e rossa, come in una foto di Kirlian, e non potevano più sfuggirgli. L'urlo dell'orgasmo della ragazza attirò la sua attenzione come uno schiaffo, e gli rimbalzò nella testa come il rintocco di una campana: corse da dove proveniva quell'oscenità, ma arrivò in ritardo.

L'auto aveva già acceso i fari e si stava allontanando piuttosto frettolosamente: la premura della coscienza sporca, pensò, osservando gli occhi rossi del mezzo che si allontanava fra la polvere. Pazienza, di sicuro ce ne sarebbero stati altri.

E poco dopo li trovò. Rimase sconvolto da tanta spudoratezza, non gli era mai capitato di vederlo fare così. Se ne stavano fuori dalla macchina, sull'erba, completamente nudi, lui sopra di lei, avvolti nella loro aura di sangue. Lei teneva le gambe larghe, così larghe come mai s'era immaginato fosse possibile, e poi c'era quel forsennato movimento su e giù, su e giù.

Ebbe subito un'erezione e cominciò ad avvicinarsi lentamente.

tump... Tump... TUMP!!!

Il cuore cominciò a battere foltissimo, mentre lui continuava ad avvicinarsi.

Tump...

E un passo.

Tump...

E un altro passo.

Tump...

Sempre più vicino. Dio, era così vicino: poteva vedere tutto. Il sesso aperto di lei... e il pene lucido ed eretto di lui. Dio, poteva vedere anche l'altro buco di lei.

TUMP TUMP TUMP!!!

Il cuore sembrava scoppiargli, e quasi non riusciva più a controllare il respiro.

L'autocontrollo...

L'autocontrollo...

Si trovò vicinìssimo: oh Dio, poteva sentire... poteva...

TUMPTUMPTUMPTUMPTUMPTUMPTUMPTUMPTUMPTUMPTUMP!!!!!!!

TLANG! CRACK!

Un lampo rosso di dolore, una sensazione di fuoco nero. Questo provò quando l'enorme bocca della tagliola dai denti affilati si chiuse scattando e gli maciullò la gamba destra quasi fino all'altezza del ginocchio. Si ritrovò a terra, a faccia in giù, e sentiva un caldo liquido spandersi sotto di lui. Rosso, con schegge di bianco: il mondo era tornato a colori. Non riusciva a urlare, tanto era sopraffatto dal dolore, ma ce la fece a sollevare il collo per tentare di mettere a fuoco la presenza che intuiva davanti o sopra di sé.

Lultima cosa che vide – A.B., severo professore delle scuole superiori, colto, socialmente impegnato, rispettato da tutti, padre di famiglia, marito esemplare, guardone per diletto – prima di essere macellato, furono i due ragazzi nudi – la pelle azzurrina e fluorescente di luna – in piedi sopra di lui. Avevano un sorriso soddisfatto sul volto eccitato, tutti e due.

In mano, un paio di enormi cesoie da giardiniere, tutti e due. Ancora una volta l'esca aveva funzionato.

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Pagina 61

CAPRICCI
di Alda Teodorani



Ho la stessa età di Sharon Stone e di Madonna. E non so di chi altro. Potrei anche azzardarmi a dire che il nostro anno di nascita sia stato molto buono, per dare alla luce quelli che sarebbero stati simboli internazionali del sesso. E anche donne che, nonostante l'età, sanno sempre mantenersi giovani... e vive.

Sono una scrittrice, di medio successo. Non vendo milioni di copie dei miei libri, ma in un panorama desolante riesco ancora a trovare qualcuno che li pubblica, e qualcun altro che poi li legge. Non ho mai dato la fica ai miei editori, come alcuni (che non scrivono, o comunque non pubblicano) potrebbero pensare. Riesco persino a essere pagata. Per le scopate che descrivo, però, vengo retribuita molto di meno di una telefonista addetta a linee erotiche. Di meno, persino, di una vecchia battona schifosa. Ma siamo in Italia, la gente non legge. Almeno, così si dice. Personalmente, sono contenta di avere i miei apprezzatori. Anche se non sanno niente di me. O il meno possibile.

Ho fatto un po' di strada innanzitutto perché sono una donna. E una donna che racconta di crimine e di sesso è eccezionale. Ma non conosco autori maschi che scrivano in maniera così fané come faccio io. E poi sono unica: ho saputo usare il genere a mio uso e consumo. L'ho personalizzato, e ho eliminato il plot. Che cos'è il plot? Non è il rumore della goccia che cade. Θ un termine tecnico, l'intrigo narrativo nel racconto o nel romanzo poliziesco, giallo o nero, che quattro cretini si ostinano ancora a credere sia importante per la buona riuscita di un romanzo. Niente di più falso. Se una volta era necessario, per andare avanti nel racconto, tenere il lettore con il fiato sospeso perché non riusciva a capire chi cazzo fosse l'assassino, oggi non lo è più, specialmente se la violenza e il sesso regnano ovunque sovrani. Bastano quelli a mozzare il fiato, anzi, se sai chi è l'assassino e quando colpirà, l'attesa dell'omicidio diventa ancora più sofferta e spasmodica. Alcuni dicono che ho ragione. Fatto sta che i succitati quattro cretini sono rimasti tali, e io invece sono salita più su di loro. Ed è forse proprio per riuscire a svergognare pubblicamente qualcuno di questi, che oggi vi voglio far godere, e non solo mentalmente, raccontandovi parte della mia vita. Quella che voglio voi conosciate, beninteso.

Ho ucciso il plot. Ce l'hai già raccontato, direte voi. Ma la parola più importante è "ho ucciso". Già, tutto parte proprio dall'omicidio. Che per essere ben raccontato va prima ben sperimentato. Anche se non lo confesserei mai a Costanzo. Ecco, mi piace uccidere. E fare sesso.

Il mio primo amore, o quel che credevo tale, era fidanzato con un'altra. Gli ci vollero mesi per convincermi a farmi scopare. Ero molto più giovane di lui, e in compenso lui era molto bello. Non fosse stata per la voce, un po' sottile. Qualcuno di tendenza volgare l'avrebbe definita una voce "da frocio". Ma questo non era un problema. Io poi ero una ragazzina, e restavo incantata dai suoi occhi. Che a me, negli uomini, piacciono azzurri. O comunque, chiari. E lui li aveva così. Un po' slavati, per la verità, ma aveva mietuto molte vittime, con quegli occhi. Una sua ex fidanzata aveva addirittura cercato di uccidersi, tagliandosi le vene, quando lui l'aveva lasciata.

La prima volta che mi convinse a fare un po' di petting con lui (qualche toccatina e molti baci) riuscì a convincermi anche a prendergli l'"uccello" (come lo chiamava lui, un termine che non mi piace particolarmente) in mano. Diceva che le mie mani parevano fatte apposta per prenderlo. Aveva un cazzo – che ora so – di media grandezza, ma con una grossa cappella. Mi spaventai, mi sembrava enorme.

Non abbiamo mai fatto l'amore in maniera completa, io e lui. Mi sverginò, questo è vero, però, mentre lui godeva subito dopo avermi penetrata, io mi sottrassi in fretta all'abbraccio, per paura di restare incinta e per il dolore. Ed eccola là persa, quella verginità che tanto affascina e tanto fa discutere gli uomini, in una pozza di sangue dal rosso vivissimo, una pozza che mi pareva dover contenere litri e litri. Tornai da mia madre pallida e dolorante, dopo un intero pomeriggio con la fica a bagno in un bidet di acqua ghiacciata. Non è molto romantico, vero? Ma sono convinta che il romanticismo della prima volta sia tutto una balla. Fatto sta che quel ragazzo, Giulio, si chiamava, fu la prima vera cotta che mi presi per un maschio. E, con lui, per la prima volta capii che non volevo amare.

Non so quale fosse il motivo vero del mio rifiuto. Non so se si potesse collegare col fatto che, già a undici, dodici, tredici anni e finché me l'hanno permesso, avrei voluto restare bambina, con dolci sogni di bambole e giochi, regali e feste. Anche se c'erano cose, in quell'infanzia, che mi terrorizzavano, ma erano sempre paure legate, in qualche maniera, al comportamento dei grandi. A nulla valeva il fatto che il mio corpo si mutasse in quello di una donna. I cambiamenti fisici facevano parte della natura, ma sentivo altrettanto innaturale il dover per forza trasformare anche la mia mente in qualcosa di adulto. Come, avevo appena imparato a vivere e mi piaceva tanto. Essere grandi significava, essenzialmente, per me, provare dispiaceri. Ricordavo ancora il silenzio triste di mio padre, dopo i funerali della nonna, quando s'era chiuso nella camera matrimoniale, al buio, e io ero corsa subito a sollevargli la testa, per vedere cos'aveva fatto, trovandogli il viso inondato di lacrime. E anche il dolore pallido di mia madre, tornata da Ferrara dov'era morta la sua sorellina, il suo raccontare senza posa dell'incidente, del coma, della morte. No, non doveva essere così, per me. E invece, ci fui costretta, a cambiare. Da tutti: i professori, che si lamentavano del mio comportamento antisociale; la famiglia, da cui non ricevevo più i doni che preferivo; i compagni di scuola e le amiche della mia stessa età, che, forse involontariamente, mi emarginavano, coi loro giochi che non capivo. La bibliotecaria fu l'ultima, e quella più crudele: mi negò un libro per ragazzi, mettendomi in mano un mattone verde senza illustrazioni in copertina, e dicendomi che ormai ero troppo grande per leggere ancora Salgari e la Alcott. Passai ai romanzi rosa.

Giulio. Voleva lasciare la fidanzata, per me. Investirmi ancor più di responsabilità che non volevo. Fu al mare, che lo uccisi. Era ormai autunno. Le coste romagnole sono stupende in quel periodo, e non c'è mai nessuno, nei giorni feriali, in spiaggia. Come se la gente si fosse già stancata per tutto il sole di cui ha goduto nell'estate appena trascorsa.

Stavamo stesi sugli scogli del molo. Lui teneva gli occhi spalancati al sole, in quel modo che aveva, spaventoso, di fissarlo senza batter ciglio.

Pareva immortale.

Poi, si tuffò, diede qualche bracciata e mi urlò di raggiungerlo.

C'era anche qualche grossa pietra, in mezzo agli scogli; nuotai fino a lui con una di quelle in mano, con un po' d'impaccio.

Chi conosce l'Adriatico sa che, però, si sta a galla con niente.

Lo raggiunsi mentre mi dava le spalle, e colpii di lato, alla tempia.

Affondò senza un grido, senza nemmeno un gemito.

Il pomeriggio si inoltrava, le onde si stavano facendo più forti. Mi guardai velocemente intorno. Immaginai il bel corpo morto di Giulio sbattere contro i sassi del molo, e me ne dispiacque un po'. Però non importava: mi sentivo salvata da un grande pericolo. Mi rivestii in fretta, lasciando la sua roba sul molo, e me ne andai di corsa verso il centro, e la fermata del pullman che mi avrebbe riportata a casa.

Il giorno dopo il Carlino raccontava del suo ritrovamento, senza diffondersi troppo in particolari. Fatti del genere, ne succedono tanti. Specie se uno fa il bagno dopo mangiato. Il giornale dava la colpa a un malore.

Ora, per carità, non pensate subito che se uno scrive certe cose, come quelle presenti nei miei romanzi – sono pieni di sangue e di violenza – deve averle fatte per forza. Anche se, mi secca ammetterlo, uccidere sul serio aiuta molto a scrivere di delitti.

Chissà se sono pazza. Questa fortissima pulsione di vita che c'è dentro me, non mi pare esserci in nessun altro. E uccidere, è stato come se avesse un po' nutrito la mia parte immortale. Avrei potuto anche cercare altri modi. Potevo negarmi completamente all'amore, se solo avessi voluto. Lasciar perdere, smettere di illudermi che, prima o poi, avrei trovato l'uomo giusto. Avrei evitato tante sofferenze... agli altri. Ma non a me. E poi, c'era mamma. Lei sembrava quasi felice, quando trovavo un nuovo ragazzo. I problemi venivano in seguito. Per un motivo o per un altro, le persone che sceglievo non le piacevano mai. Non potevo fare diversamente.

Il secondo che ho eliminato era uno zingaro.

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Pagina 92

SPOSI
di Elisabeth Donatello



Giuseppe amava Maria.

Maria amava Filippo.

Filippo amava Giuseppe.

Se ne era accorto a forza di frequentare la loro casa.

La casa di Giuseppe e Maria.

Marito e moglie regolarmente sposati.

Una casa normale:

ingresso, corridoio, cucina, soggiorno, camera da letto, sgabuzzino

che Filippo rivedeva ogni mercoledì ormai da tre anni.

Da quando cioè conosceva Giuseppe e Maria.

Ma era sempre lei, ogni mercoledì alle 20.30 che apriva l'uscio di casa con indosso quelle assurde babbucce rosa a forma di elefante tra cui faceva capolino l'ennesimo gatto ospite di passaggio col suo carico di pulci.

Lei – Maria – che lo accompagnava lungo il corridoio ciabattando lenta effetto matrona e mentre saliva su, per le narici di Filippo sempre più intenso e inevitabile, l'odore inconfondibile del piatto forte della serata, di ogni mercoledì dei mercoledì di Filippo a casa di Maria e Giuseppe: cavolfiore in besciamella al forno. Arrivato in fondo al corridoio l'odore di cavolfiore, così tenace da rassomigliare inconfondibilmente a quello di cacca, aveva riempito la mente di Filippo e – varcando la soglia della cucina – lasciava tradizionalmente posto al secondo pensiero fisso di ogni mercoledì degli ultimi tre anni verso le 20.30 secondo più, secondo meno:

Filippo avrebbe ucciso Maria.

Di fronte al forno che si apriva come tutti i mercoledì tra le chiacchiere sempre perse di Maria, Filippo immaginava con occhi intelligenti e vivi, che convincevano Maria della bontà dei suoi discorsi, tutte le fasi dell'assassinio provando di volta in volta i diversi mezzi di eliminazione. Presa a colpi d'ascia all'angolo del vicolo che dava sul retro del supermercato in cui Maria si recava ogni giorno.

Impiccata a uno dei ganci che reggevano le scope nel ripostiglio.

Soffocata dalle piume d'oca del piumone matrimoniale.

Fulminata mentre cercava di far ripartire la vecchia lavatrice preparata con i fili appositamente scoperti.

La fantasia di Filippo era esaltata a tal punto quando si lasciava scivolare sul sofà del soggiorno di Maria e Giuseppe che vedere Giuseppe, seduto sulla poltrona, che lo salutava, gli faceva balzellare il cuore di un piacere sempre più vibrante.

Giuseppe gli sorrideva pigro come un gatto con quei suoi occhioni da miope, porgendogli il tradizionale bicchiere di frizzantino bianco, chiedendo notizie della settimana.

Filippo gli raccontava sempre tutto per filo e per segno, con dovizia di particolari assaporando il calice con rinnovata gioia e lasciando che lo sguardo scivolasse sul corpo dell'amato mentre sprofondava nel divano troppo morbido.

Quella sera gli pareva che il sofà fosse più lascivo del solito e che lo accogliesse con più voluttà, la stessa con cui Filippo avvolgeva Giuseppe.

Gli sembrava che i contorni dell'amato fossero indefiniti e la sensazione aumentava provocandogli un piacere sublime che mai aveva provato così intenso.

Giuseppe muoveva le labbra, ma Filippo non lo ascoltava.

Sorseggiava il liquido del suo calice e pensava che avrebbe voluto rendere eterno quell'attimo.

Il profilo di Giuseppe, la stanza stessa non avevano dimensione. Galleggiavano in un turbinio di colori e suoni.

Filippo vide Giuseppe venirgli di fronte, anzi no.

Quello che vedeva erano i suoi denti che si agitavano dentro quella bocca che tanto desiderava:

"...ucciso!".

Cosa diceva Giuseppe? Filippo non capiva.

Voleva scivolare ancora di più nel divano, lasciarsi andare come un foglio di giornale che ondeggia giù da una panchina.

...

"...ucciso?".

Improvvisamente la mente di Filippo si illuminava.

Giuseppe aveva detto che lo aveva ucciso mettendo del veleno nel frizzantino bianco.

Giuseppe amava Maria.

Maria amava Filippo.

Giuseppe odiava Filippo.

Ecco perché lo stava uccidendo.

Per difendere la pace della loro casa.

La casa di Maria e Giuseppe.

Marito e moglie regolarmente sposati.

Filippo guardava Giuseppe con gli occhi gonfi di un rosso innaturale:

"Giuseppe, ti amo...".

E dicendolo scivolò definitivamente giù dal sofà.

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