Copertina
Autore Fabio Giovannini
Titolo Musi gialli
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2011, Eretica , pag. 320, ill., cop.fle., dim. 12x17x1,8 cm , Isbn 978-88-6222-167-2
LettoreLuca Vita, 2011
Classe storia sociale , storia contemporanea , storia letteraria , cinema , paesi: Cina , paesi: Giappone , paesi: USA
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Indice


Introduzione                                                  3


Breve storia del razzismo e del pregiudizio antiorientale    12

Figure dell'immaginario antiorientale                        87

Il tema antiorientale nella cultura popolare                192

Miscellanea antiorientale                                   262


Bibliografia essenziale                                     313


 

 

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Pagina 3

INTRODUZIONE


"Musi gialli". Un insulto che allude al colore della pelle, massimo dato di diversità per i razzisti, e che trasforma i volti in musi, come quelli degli animali. "Musi gialli" (chinks o gooks, in inglese) venivano chiamati gli asiatici in tante pellicole hollywoodiane di guerra, dove John Wayne faceva strage di "formiche" nipponiche. Così, come "musi gialli", sono tuttora e troppo spesso definiti popoli dalle antichissime tradizioni e culture: i cinesi, i giapponesi, i coreani, i vietnamiti, i cambogiani.

Agli abitanti dell'estremo oriente è stata attribuita da noi occidentali l'identità del colore. Sarebbero "gialli", anche se – come vedremo più avanti – in realtà diventano gialli nella nostra percezione distorta solo dal Settecento.

Non comprendiamo il volto inquietante degli asiatici, il loro sorriso. Hanno gli occhi a mandorla che per gli occidentali sono gli occhi dei cattivi, espressione di doppiezza o malvagità: l'occhio per noi diventa a mandorla quando le sopracciglia si inarcano per la rabbia.

Riteniamo poi che siano tutti piccoli di statura (anche se i cinesi in particolare non differiscono molto dagli europei, soprattutto dell'Europa meridionale) e tutti uguali (solo perché noi non li riconosciamo).

Secondo gli occidentali, i "gialli" parlano in modo buffo, sostituendo alla erre la elle (anche se i giapponesi, in realtà, hanno la difficoltà opposta, cioè pronunciano difficilmente la elle).

Non riusciamo a capire perché sono così silenziosi, così gentili, o perché ostentino ridicole riverenze. Ci appaiono impenetrabili. Freddi, riservati. Non se ne capivano i comportamenti, nei primi approcci dei missionari o del colonialismo, quindi ci si domandava: cosa nascondono? cosa c'è dietro il loro sorriso? ci prendono in giro?

I luoghi comuni sugli asiatici sono infiniti. Li consideriamo subdoli, imprevedibili, sinistri, loschi, infidi, furbi, crudeli, dediti al complotto, mentitori, propensi all'intrigo e alla falsità. Sono saggi, ma nello stesso tempo enigmatici. Sono cortesi, ma nello stesso tempo si dilettano nelle torture. Sorridono sempre, ma sono pronti a pugnalarti alla schiena. E poi sono sessualmente depravati, si riuniscono in società segrete, rubano le nostre idee e i nostri successi industriali.

Da quasi due secoli il Pericolo giallo è regolarmente presente nel nostro immaginario sociale e antropologico. Abbiamo la sensazione di essere minacciati da razze inferiori e "inassimilabili". Temiamo che gli asiatici possano sopraffare i bianchi e dominare il mondo. Le loro migrazioni sono vissute come "inondazione" e "invasione". La paura della decadenza occidentale crea allarmismi, inventando pericoli economici, sociali e culturali. Volta a volta ci facciamo terrorizzare dal Giappone e dalla Cina esattamente come dall'Islam. Di conseguenza gli asiatici sono stati demonizzati, così come sono demonizzati da tempo musulmani e arabi.

Sono stati i Paesi occidentali che avevano colonie in Asia a usare lo spauracchio del Pericolo giallo nel tentativo di conservare il proprio dominio. Mentre l'Europa proseguiva nel colonialismo in diversi continenti, accusava la Cina o il Giappone di sognare l'espansione.

La paura dell'invasione era soprattutto britannica, perché Londra temeva di veder messa in discussione da una Cina più forte la propria egemonia imperiale sull'Asia, e francese, perché Parigi aveva una presenza coloniale in Indocina. Gli americani, invece, erano terrorizzati soprattutto dal contagio delle comunità immigrate, alle quali rimproveravano di voler destabilizzare gli Stati Uniti tramite l'oppio (dimenti- cando che furono gli inglesi a destabilizzare il Giappone con la stessa droga), di fare concorrenza sleale accettando bassi salari e di minacciare sessualmente la razza bianca.

La paura dello straniero induce a sollevare allarmi che colpiscono le emozioni, anche se non esiste nessuna minaccia concreta. Chi è diverso è estraneo, alieno, nemico. Le differenze culturali e politiche sono viste come un pericolo, non come una risorsa. Prevale la logica del "noi" e "loro". E "noi" ci sentiamo vulnerabili.

Anche i "gialli" hanno i loro difetti. Molti cinesi sono etnocentrici, hanno avuto a lungo il culto per il loro Impero di mezzo (Zhongguo). I giapponesi, è noto, sono stati accesi nazionalisti. Però né Pechino né Tokio ci hanno mai minacciati davvero, non hanno mai progettato di invaderci. Loro, sì, sono stati aggrediti brutalmente in innumerevoli guerre. E ogni nostra aggressione è stata spiegata come difesa: l'Occidente è sempre attaccato e deve reagire. Mentre noi ci siamo spostati dalle nostre lontanissime coste per invaderli e colonizzarli, loro, i "gialli", quando hanno colpito lo hanno fatto nel loro territorio (Pearl Harbor, la guerra di Corea, ecc.). In questo differiscono dalla minaccia islamica, che ha inferto invece un colpo nel cuore dell'America con l'attentato alle Torri gemelle del 2001.

Gli asiatici non ci hanno mai attaccato alle nostre frontiere o nelle nostre città, eppure abbiamo creato il mito del Pericolo giallo, che ha il suo periodo di maggior forza tra il 1890 e il 1914, poi risorge potentemente negli anni Venti e Trenta, per aumentare ancora durante la Seconda guerra mondiale (i giapponesi alleati di Hitler) e la guerra fredda (i "rossi" cinesi, vietnamiti e cambogiani). Si è infine ripresentato in forme nuove e a volte meno esplicite di fronte all'espansione economica giapponese degli anni Settanta-Ottanta e oggi di fronte a quella cinese all'alba del nuovo millennio. Nell'era della globalizzazione antiche paure si ripresentano in forme nuove. La paranoia anti-asiatica c'è anche oggi. Muove dagli Usa e lambisce l'Europa, per quanto spesso non ne siamo consapevoli.

La fobia per il Pericolo giallo ha diverse componenti fondamentali:


a) La minaccia economica

La principale paura, sottintesa e spesso implicita, è di natura economica. I gialli minacciano la nostra economia e quindi il nostro benessere. Da decenni si paventa il rischio di invasione dei mercati europei da parte dei meno costosi prodotti cinesi, giapponesi e coreani. L'accusa è di concorrenza sleale, tra l'altro aggravata dalla incredibile capacità di "imitare" i nostri prodotti. A questo si aggiunge l'afflusso di migranti, destinati a diventare lavoratori sottopagati (nell'Ottocento americano era l'accusa principale agli orientali) e quindi a sfidare la mano d'opera nostrana. Insomma, i gialli provocherebbero perturbazioni economiche nei Paesi occidentali.


b) La minaccia demografica

La seconda componente del Pericolo giallo è demografica. Sono tanti, troppi. Ci invadono silenziosamente. L'immensa popolazione dell'Asia viene vissuta in Europa e in America come un pericolo di per sé. Il tema del numero si fa angosciante di fronte a un'Asia sovrappopolata, mentre si assiste al declino demografico dell'Europa fin quasi al collasso. Le folle asiatiche ci insidierebbero e avrebbero cominciato a infiltrarsi in Europa e America con l'immigrazione. La paura per la loro superiorità numerica si cumula al timore del loro espansionismo.


c) La minaccia militare

C'è anche una componente militare del Pericolo giallo. Era stata dominante nei due secoli scorsi, incoraggiata dalla guerra russo-giapponese, poi dalla presenza del Giappone nell'Asse durante la Seconda guerra mondiale, infine dal ruolo della Cina maoista nelle guerre di Corea e Vietnam. A poco a poco questo timore si era attenuato, di pari passo con il consolidarsi dell'unica superpotenza sullo scenario mondiale, gli Usa. Oggi, con la crescita economica inarrestabile della Cina, torna a riaffacciarsi accanto alle altre componenti del Pericolo giallo.


d) La minaccia culturale

La civiltà degli asiatici appare inaccostabile. Gli ideogrammi per noi incomprensibili contribuiscono ad accentuare il mistero della loro cultura. Li abbiamo ritenuti per secoli dei popoli primitivi, ma sappiamo che possiedono una cultura millenaria. E allora, incapaci di capirla, vediamo tutta la cultura orientale come una minaccia. Appena arrivano in Occidente scampoli della loro cultura è subito polemica: l'iperviolenza dei film di kung fu, i cartoni animati giapponesi che insidierebbero l'infanzia occidentale, fino agli allarmi per giochi come Pokémon e Tamagotchi.


Sono tutte minacce percepite come attuali, ma che affondano nel passato. Per questo, nel corso del libro che state per leggere, ci dedicheremo più a scandagliare il passato che il presente. Nell'immaginario di oggi è sedimentato l'immaginario di ieri.

Quando "Il Giornale" definisce in un titolo "musi gialli" i giapponesi, e quando Vittorio Feltri su "Libero" insinua che i nonni venuti dalla Cina siano cucinati nei ristoranti cinesi, ci si deve domandare dove e quando nascano pregiudizi così radicati. Affondano nel nostro immaginario veicolato da romanzi, film, fumetti, spettacoli teatrali. È allora importante capire come appaiono gli orientali nell'immaginario collettivo occidentale, intendendo per immaginario collettivo "un linguaggio simbolico universale attraverso il quale diamo forma a emozioni, immagini, idee e azioni".

La nostra immagine odierna dei cinesi, dei giapponesi e degli orientali più in generale soffre di tutti i luoghi comuni razzisti che vengono dal passato, da una lunga consuetudine "antiorientale". La cultura popolare e la memoria individuale si sono nutrite per secoli di diffidenza, di sospetto e di ostilità verso un Oriente che andava dalla Cina alle sponde del Mediterraneo.

Come hanno insegnato gli studi di Edward W. Said , l'Oriente è stato creato dagli occidentali, che attraverso la propria egemonia culturale si sono incaricati di "rappresentare" l'Oriente stesso. L'incontro tra Oriente e Occidente è sempre stato difficile. L'Oriente è considerato minaccioso fin da quando si inventarono i "barbari", fin da quando si temevano le orde di Attila e Gengis Khan o quelle degli ottomani. Abbiamo paura di essere invasi dagli orientali, attraverso gli immigrati oppure gli eserciti. Oggi la loro invasione che ci preoccupa di più avviene attraverso le merci, feticcio del nostro modo di vita. Ci insidiano, dunque, nel cuore del nostro sistema (le merci, il consumo). Gli astuti orientali sanno fare imitazioni perfette delle merci occidentali. Prima l'accusa era rivolta essenzialmente ai giapponesi, che si volevano sempre armati di macchina fotografica per rubarci i segreti dei nostri successi commerciali. Poi la stessa accusa è passata ai cinesi, capaci di riprodurre perfettamente le nostre griffe, le nostre merci di lusso quanto quelle di massa.

Nel nostro immaginario i "musi gialli" sono stati discriminati e diffamati almeno fin dall'Ottocento. Le rivolte dei Boxers e la Guerra russo-giapponese mettevano l'Occidente di fronte a popoli che non sembravano disposti a subire passivamente il colonialismo. Negli Usa l'immigrazione cinese e giapponese provocò reazioni esasperate. I pregiudizi si sono alimentati con Pearl Harbor e la Seconda guerra mondiale e poi con i conflitti in Corea, Vietnam e Cambogia, passando attraverso il terrore occidentale per le Guardie rosse del presidente Mao.

Lo sviluppo di questo particolare razzismo è evidente nel nostro immaginario: da Turandot al Grand Guignol, dove i cinesi sono associati a torture ed efferatezze, ai romanzi su Fu Manchu, "il diabolico cinese" che anticipa il ritratto del cattivo per eccellenza dei nostri anni, bin Laden, fino ai fumetti su Ming, il nemico giurato di Flash Gordon dai tratti chiaramente orientali e dalla pelle gialla, oppure alle schiere di villain asiatici (o eurasiatici) nei film su 007.

La nostra opinione sui "gialli", insomma, è forgiata da quei luoghi comuni razzisti veicolati dall'immaginario. Scontiamo un'ignoranza diffusa verso l'Asia, nota solo attraverso stereotipi: spesso della Cina conosciamo solo i ravioli al vapore o l'anatra laccata, o del Giappone sappiamo solo che è un Paese di vulcani e fiori di ciliegio.

Rudyard Kipling nel 1899 dava una sua definizione dei filippini e degli asiatici in generale: "Per metà diavoli e per metà bambini". Tali sono rimasti, nel nostro retro-pensiero. Stupidi e/o cattivi. Pericolosi e/o infantili. Effeminati (quindi inferiori al sesso dominante tra i bianchi) o stupratori. Prigionieri di questa ambigua dualità, gli europei sono stati contemporaneamente attratti dall'esotismo orientale e terrorizzati dalle sue caratteristiche imperscrutabili.

Ne è derivato un misto di terrore e di sottovalutazione, contribuendo a lasciarci impreparati ogni qual volta gli asiatici smentivano la nostra convinzione che fossero essenzialmente primitivi, infantili o semplicemente crudeli. Quando il Giappone degli anni Settanta e Ottanta conosce uno straordinario sviluppo economico o quando la Cina del Duemila sfida gli Usa nella supremazia economica e politica, l'Occidente resta attonito. Scrive Sergio Romano: "Quando criticano l'Islam per il suo fanatismo e la Cina per il suo regime poliziesco, molti europei sono convinti di rappresentare posizioni illuminate: i valori della democrazia, la tutela dei diritti umani, la condanna della 'violenza di Stato'. Ma non si accorgono di dare in tal modo una nobile giustificazione a pregiudizi e diffidenze che si sono radicati da molti secoli. (...) Crediamo di essere moderni e non ci accorgiamo di essere soggetti alla tirannia di idee e pregiudizi che abbiamo inconsapevolmente ereditato".

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BREVE STORIA DEL RAZZISMO E DEL PREGIUDIZIO ANTIORIENTALE


QUANDO I CINESI DIVENTANO GIALLI

Questo libro si intitola Musi gialli e si riferisce ai popoli orientali che spesso, in modo sprezzante, vengono così definiti. Per tutti noi occidentali, anche per chi non ha attitudini razziste, quegli abitanti del pianeta all'est estremo hanno la pelle gialla. Poco importa che cinesi e giapponesi (ma anche coreani, cambogiani e vietnamiti) non si siano mai considerati di pelle gialla (per quanto il giallo fosse un colore molto diffuso alla corte imperiale di Pechino). Noi siamo bianchi e loro sono gialli.

Eppure non è sempre stato così, c'è stato un tempo in cui i cinesi non erano gialli e quindi il titolo del nostro libro sarebbe stato incomprensibile. Ha provveduto a dimostrarcelo uno studioso tedesco, Walter Demel, docente universitario di Storia moderna a Monaco di Baviera, nel suo saggio Come i cinesi divennero gialli.

Per secoli i cinesi sono stati bianchi, proprio come noi. I viaggiatori del Cinquecento riportavano notizie sui popoli incontrati a oriente, e sottolineavano che di carnagione erano uguali agli europei, "un popolo di pelle bianca", addirittura simile ai tedeschi secondo i resoconti portoghesi.

I cronisti elogiavano l'ingegno di quei popoli, qualche missionario ne sottolineava la "bruttezza" e chi si spingeva fino alle zone settentrionali della Cina scriveva di aver incontrato abitanti di pelle "olivastra". Ma gialli, no.

"Sino alla fine del XVIII secolo la stragrande maggioranza dei testimoni oculari europei di cui la stampa ci ha tramandato le notizie dava per scontato il fatto che gli abitanti della Cina – con l'eccezione dei cantonesi – fossero bianchi".

Tutto cambia nel corso del Settecento, e non a caso. Nasce il concetto di razza, si tenta una classificazione biologica dell'uomo. L'obiettivo diventa quello di caratterizzare i popoli (le "razze") in base a un determinato colore della pelle. E quando si parla di "razze" si cercano caratteristiche mentali e fisiche correlate e trasmesse ereditariamente.

Per secoli l'umanità era vissuta senza il concetto di razza. Si preferiva descrivere le popolazioni attraverso i loro vestiti, acconciature, ornamenti, abitudini, usi e costumi. È vero che le crociate avevano fatto sorgere, in modo primordiale, il concetto di razza, ma Marco Polo dava importanza alle culture dei popoli che incontrava piuttosto che alle loro caratteristiche somatiche.

Sono state le esigenze del colonialismo e dello schiavismo che hanno portato alla elaborazione di teorie razziste, dove alla classificazione per razze si aggiunge la gerarchizzazione delle razze: esisterebbero, quindi, razze superiori e inferiori. Inutile ricordare che gli europei e i bianchi si autoconsideravano in testa alla lista e provavano a dimostrare la superiorità della razza bianca con immaginifiche spiegazioni.

Gli orientali (che fino ad allora non erano "gialli") verranno catalogati dallo svedese Linneo: li colloca tra le 4 varietà di specie umana, rifacendosi ai 4 generi di Ippocrate. Ed ecco che, nella necessità di attribuire un colore a ogni razza, i cinesi diventano gialli. La loro caratteristica sarebbe, secondo Linneo, quella di essere "apatici" (mentre i bianchi sono definiti "ottimisti", i bruni "collerici", i neri "malinconici"). In verità nelle prime edizioni del suo Systema Naturae (ad esempio in quella del 1740), l'uomo asiatico è definito "fuscus" (scuro), ma nel 1756 diventa "luridus" (giallastro).

A codificare ulteriormente la classificazione delle razze umane secondo il colore della pelle ci pensò negli ultimi decenni del Settecento Johan Friedrich Blumenbach, usando per gli asiatici il termine "gilvus" (giallo) e aggiungendo alla razza mongola o gialla quella malese o bruna.

Per gli europei il colore giallo (da Goethe in avanti) ha indicato a lungo ambivalenza e ha suscitato associazioni mentali negative. Gli americani usano il termine yellow-belly per indicare codardia (nell'Ottocento venne applicato inizialmente ai messicani). E sull'origine del carattere negativo del "giallo" si è pensato all'associazione con la pelle dei malati o al colore di serpenti e altri rettili. E il giallo a fine Ottocento era il colore del decadentismo: si intitolava "Yellow Book" la rivista di Aubrey Beardsley nata nel 1894 e lo scrittore Robert W. Chambers pubblicò nel 1895 la raccolta di storie macabre The King in Yellow. Indipendentemente dal ruolo avuto nell'attribuzione del colore giallo agli abitanti dell'Estremo Oriente, è chiaro che tante connotazioni negative non potevano che rafforzare un uso discriminatorio di quel colore applicato a una razza.

Secondo Demel, il primo ad affermare l'esistenza di una "razza gialla" nel quadro di una teoria razziale sarebbe stato Immanuel Kant. Nella sua lezione del 1775 Delle diverse razze umane il filosofo tedesco definiva i cinesi una "semirazza", dove però scorreva sangue unnico (presunta razza che avrebbe incluso diversi popoli dell'Asia centrale).

Perché avvenne quel cambiamento di colore nella considerazione occidentale degli asiatici? Spiega Demel: "Nel Settecento si escludeva che i cinesi fossero 'bianchi' in quanto non se ne riconosceva più la pari dignità culturale. La convinzione che esistesse per forza un nesso fra il colore della pelle da un lato e il carattere di una razza o di un popolo dall'altro, e che vi fosse altresì una gerarchia culturale, nella quale il primo posto spettava ai bianchi europei e l'ultimo ai neri dell'Africa, implicava non solo che una carnagione scura dovesse comunque corrispondere a un'inferiorità di cultura e di carattere, ma anche, per converso, che quanti non erano adeguati allo standard delle 'nazioni progredite dell'Europa' non potessero, appunto perciò, essere bianchi".

La classificazione delle razze e il razzismo sono ineluttabilmente congiunti, perché si fondano entrambi sull'ineguaglianza tra le etnie. Così quando nel 1799 il medico inglese Charles White sostenne, in An Account of the Regular Gradation in Man, l'esistenza di 4 razze, fornì ovviamente una precisa gerarchia tra le razze, ponendo gli asiatici subito dopo gli europei in quanto a intelligenza.

Ma la convinzione della superiorità bianca era anche foriera di terrori. Se la purezza etnica si fosse corrotta, le conseguenze sarebbero state catastrofiche. Di questi terrori si fece interprete tra i primi Arthur de Gobineau, sostenitore della distinzione delle razze umane in gialla, nera e bianca nel suo Essai sur l'inégalité des races humaines del 1853-54. Gli ariani contaminandosi con altre razze si erano corrotti e i rischi di conseguenza erano enormi. Poiché Gobineau considerava la razza gialla materialista e abile specialmente nel commercio, provava timore per l'accumulo di denaro in Asia orientale, in Cina soprattutto. Un giorno o l'altro, per cause imprevedibili, secondo Gobineau l'Asia avrebbe messo l'Europa in pericolo. Là c'era abbondanza di materie prime, operai a buon mercato. Il razzismo cominciava a sposarsi esplicitamente con le fobie di natura economica.

Da parte sua nel 1876 Cesare Lombroso, in L'uomo delinquente, elabora la teoria della criminalità innata, sostenendo che il crimine fosse più alto nelle razze nere e gialle.

La scienza occidentale si attivò senza tregua per individuare le differenze tra le razze, studiando i gruppi sanguigni e addirittura le secrezioni aminoacide delle diverse etnie. L'obiettivo era sempre lo stesso: trovare la prova che la razza bianca è superiore. Nei primi decenni del Novecento si sviluppa così il movimento eugenista americano, con diversi seguaci anche in Europa (come il premio Nobel per la medicina Alexis Carrel, chirurgo francese) e vette razziste in Germania (con il biologo Alfred Ploetz, fondatore della Società tedesca per l'igiene della razza).

Linferiorità di certi popoli era sostenuta anche dal fisiologo francese Charles Richet, premio Nobel per la medicina nel 1913 (casualmente, l'anno in cui compare per la prima volta Fu Manchu). Nel suo saggio L'homme stupide, Richet dedica un capitolo ai "pellerossa e i cinesi, rappresentanti mediocri della specie umana" e "decisamente inferiori ai bianchi". I gialli sono descritti "piccoli, laidi" e "semi-barbari". E quel che è peggio, "ora eccoli che imitano i bianchi". L'abilità di imitare e copiare, dunque, veniva attribuita ai gialli ben prima che sui nostri giornali si parlasse di furti giapponesi o di merci contraffatte di provenienza cinese. Richet aveva dato spiegazioni di natura razzista alla guerra tra russi ("civilizzatori") e giapponesi ("fisicamente sottosviluppati") ed era convinto non solo dell'inferiorità di gialli e neri, ma anche avversario degli "incroci razziali" reputati nocivi per la specie umana. I mulatti, i mezzo-sangue, sono ancora più invisi ai "normali": lo stereotipo vuole che anche se parzialmente bianchi, questi individui mantengano gli istinti della loro componente non-bianca, pronta a riemergere.

Il sociologo Edward A. Ross, dichiaratamente razzista, agli inizi del secolo divenne uno strenuo avversario dei cinesi, mettendosi addirittura contro i proprietari della sua università, la Stanford University, che viceversa si erano arricchiti con la costruzione delle ferrovie proprio grazie all'immigrazione cinese.

Nel 1908 parlava di minaccia del "terrore giallo" Alfred Paul Karl Eduard Schultz, molto apprezzato dai nazisti per le sue tesi contro i matrimoni misti e per la convinzione che la forza delle nazioni proverrebbe dalla purezza razziale. Un altro sostenitore del razzismo scientifico, Lothrop Stoddard, in The Rising Tide of Color Against White World-Supremacy (1920) affermava che per il mondo non c'era un immediato pericolo da parte del "sangue nero", mentre era imminente la minaccia costituita dal "sangue asiatico". Era quindi legittimo invadere le terre pericolose.

Persino il biologo britannico Julian Huxley, che pure professava un'eugenetica "moderata", nel suo pamphlet "Race" in Europe (1939) dava il proprio benestare alle restrizioni dell'immigrazione di razze asiatiche in Usa e Australia.

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La ribellione dei Boxers aveva i caratteri di un movimento contro l'occupazione occidentale e tra i primi obiettivi dei ribelli c'erano i missionari e i commercianti. Soprattutto nel nord del Paese centinaia di missionari e migliaia di convertiti vennero uccisi. A Pechino furono assediate e distrutte ambasciate (eccetto quella inglese che riuscì a resistere fino all'arrivo delle truppe occidentali). Cadde anche un diplomatico tedesco, Clemens von Ketteler.

Prima i cinesi erano fastidiosi e nocivi, perché si installavano con i loro migranti nelle nostre città, ma dal 1900 diventano direttamente pericolosi: ci ammazzano, ci odiano. In realtà era evidente che i rivoltosi non avessero alcuna mira espansiva, ma volessero solo cacciare gli stranieri dal loro territorio. Xenofobi forse, ma certo non con l'ambizione di conquistare il mondo. Eppure le paure occidentali andarono proprio in quella direzione, ritraendo sempre più spesso i "gialli" come una minaccia spaventosa che si protendeva ben oltre le terre asiatiche.

Per fronteggiare la rivolta dei Boxers, una spedizione internazionale a guida britannica venne organizzata dalla cosiddetta Alleanza delle Otto Nazioni: Giappone, Russia, Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Germania, Austria-Ungheria, Italia. La spedizione si tradusse in una vera e propria invasione: Pechino venne occupata, costringendo alla fuga l'imperatore cinese, e le truppe occidentali iniziarono il saccheggio del Paese.

Pochi sanno, o ricordano, che contro i Boxers intervennero anche gli italiani, con una spedizione che partì il 13 luglio da Napoli. Fu una delle prime "missioni di pace" del nostro Paese (all'epoca si chiamava "corpo di soccorso"), naturalmente ieri come oggi con intenti coloniali: il Parlamento italiano votò per offrire un contributo militare all'invasione di un Paese lontano, supportando l'iniziativa di potenze più grandi con un corpo di spedizione formato soprattutto da alpini, bersaglieri e carabinieri, in tutto circa 2.000 uomini. Come nelle ben più recenti missioni militari all'estero (dalla ex Jugoslavia all'Afghanistan) si trattava di volontari che ricevevano una paga superiore a quella consueta.

A bordo di piroscafi e incrociatori raggiunsero la Cina dopo più di un mese di navigazione. Il contingente internazionale era sotto comando tedesco e agli italiani vennero assegnati compiti di repressione degli insorti e controllo di alcune zone. Mal equipaggiati (in tenute estive, mentre in Cina si soffriva il freddo), gli italiani registrarono 18 caduti. Dopo un anno iniziò il rientro, ma alcune compagnie rimasero per diversi anni. Del resto, la piccola Italia che aveva dato la sua carne da cannone all'impresa venne ricompensata dalle potenze maggiori con un fazzoletto di terra: la Concessione italiana di Tientsin. E così anche noi ottenemmo un pezzo, microscopico, di Cina, nella spartizione coloniale. Non durò poco la presenza degli italiani in Cina: solo il 10 settembre 1943 le truppe giapponesi occuparono Tientsin e fecero prigionieri civili e militari italiani.

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Ma l'ipotesi di aggredire le truppe nemiche in Asia con delle specifiche malattie, durante la Seconda guerra mondiale, non si limitò all'antrace. Altri medici e antropologi suggerirono di diffondere il virus della peste tramite topi infetti, oppure il tifo attraverso dei pidocchi da applicare sul corpo di volontari che poi si sarebbero fatti catturare. Si propose inoltre l'uso di acari infettati e venne preso in esame il progetto di innalzare il tasso di mortalità causato dalla malnutrizione affondando i pescherecci nemici e distruggendo tutte le scorte di riso, anche introducendo morbi e funghi nelle coltivazioni.

Giapponesi e tedeschi non furono certo da meno nelle ricerche di questo tipo: ma la vulgata post bellica ci ha fatto credere che i vincitori fossero "umani" e rispettosi dei diritti fondamentali, mentre solo gli sconfitti si sarebbero dimostrati feroci e spietati. Quello che colpisce è quanto fossero simili gli antagonisti: appaiono identici nel razzismo e nell'assenza di scrupoli morali di fronte all'obiettivo di sconfiggere il nemico. A questo proposito va ricordato che la Seconda guerra mondiale ha portato a una persecuzione parallela, in Occidente, di giapponesi e cinesi. In America il Pericolo giallo si era spostato dai cinesi ai giapponesi. Anzi, i cinesi cominciarono a essere ritratti come un nobile popolo, perseguitato dagli "imperialisti" nipponici, tanto che Pearl S. Buck nel 1943 chiese di cancellare il Chinese Exclusion Act. Ma se in America erano i giapponesi a finire in prigionia, la stessa sorte toccava ai cinesi nello schieramento avverso. Anche in Italia.

Il 10 giugno 1940 nel nostro Paese era entrato in vigore il regio decreto sull'applicazione della legge di guerra nei territori dello Stato, poi il 27 settembre l'Italia aveva firmato l'alleanza con Germania e Giappone. Il Giappone aveva invaso la Cina, quindi i cinesi diventavano automaticamente nemici dell'Italia. E così dal settembre 1940 si apre il primo campo di concentramento per cinesi, in provincia di Teramo. Il nome della località è tutto un programma: Tossicia. "Si stima che circa 200 cinesi, su una popolazione di quasi 400, finirono nei campi insieme a ebrei, zingari, slavi, greci, italiani antifascisti".

Nel 1942 i prigionieri cinesi vennero trasferiti a Isola del Gran Sasso (si registravano 116 maschi tra i 24 e i 50 anni). Il Vaticano mandò un prete cinese per catechizzarli. Finirà arrestato perché aiutava i prigionieri inglesi (e non i suoi conterranei cinesi, si noti), ma riuscì a evadere. Insomma, tutto quello che potevano avere i poveri cinesi detenuti era un prete incaricato di sradicare le loro credenze e le loro tradizioni culturali, dedito per di più a collaborare con gli inglesi. Prima che la guerra finisse e li restituisse alla libertà, nel 1943 altri cinesi vennero rinchiusi a Ferramonti di Tarsia, una zona malarica vicino a Cosenza.

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I giapponesi, insomma, se non sono bestie o insetti, sono anonimi. Non sono persone. Dopo essere stati de-umanizzati dalla propaganda, i nemici giapponesi potevano essere sterminati. Dipingere il nemico come non umano diminuisce anche il senso di colpa nel discriminare o eliminare l'altro.

"L'unico giapponese buono è un giapponese morto", recitava un adagio dell'epoca. L'ammiraglio William F. Halsey, comandante delle forze statunitensi nel South Pacific, modificò ulteriormente il detto durante una conferenza stampa del 1944: "L'unico jap buono è un jap morto da sei mesi". Pearl Harbor scottava ancora, e le ulteriori perdite americane nel Pacifico negli anni successivi legittimavano la logica del "Facciamo a loro quello che hanno fatto a noi". Anzi, qualcosa di più e di definitivo. La bomba atomica. Hiroshima e Nagasaki, tra i 100.000 e i 200.000 morti, quasi tutti civili.

Dopo la vittoria gli Usa diventano paternalistici verso i giapponesi: ora sono scimmiette, bambini da educare. L'armamentario razzista più aggressivo però rimane, pronto a essere riutilizzato per la prossima guerra. Quella contro altri "musi gialli", in Corea.


I GIALLI DIVENTANO ROSSI

Dopo la rivoluzione bolscevica del 1917, nella percezione europea dell'Asia si moltiplica come un'ossessione l'idea delle masse minacciose. La paura per il proletariato che chiede diritti e potere si unisce alla paura per l'Oriente misterioso, fatto di massificazione che trama contro l'individualismo tipico del pensiero occidentale.

Anche se i russi erano reputati di razza bianca, i tratti somatici di alcuni di loro li avvicinavano ai "gialli". Lenin veniva ritratto nelle vignette anticomuniste accentuando la forma a mandorla degli occhi e la barbetta a punta quasi fosse un mandarino pechinese. L'associazione tra comunismo ed Estremo Oriente pericoloso era facile. Proletari e comunisti diventano i nuovi barbari, e i "gialli" erano considerati barbari per definizione. L'unione di comunismo e Oriente si trasforma quindi in una miscela esplosiva per le fobie occidentali. Ai Barbari interni (i proletari) si aggiungono i Barbari esterni (i "gialli").

Madison Grant, avvocato americano con la passione dell'eugenetica, scriveva nel 1921 che "l'Asia, sotto spoglie bolsceviche con direzione semitica e boia cinesi, sta organizzando un assalto all'Europa occidentale". Tutte le paranoie razziste si trovavano unificate: avversione al comunismo, antisemitismo, Pericolo giallo. Grant, che si batteva contro l'immigrazione asiatica in America e contro i matrimoni misti, curò un decennio dopo anche una raccolta di saggi dove Lothrop Stoddard affermava che il comunismo russo era pericolosissimo per motivi razziali: le popolazioni slave, infatti, sarebbero "impregnate di sangue asiatico mongolo e turco".

Negli anni Trenta Oswald Spengler vedeva il governo bolscevico come l'Orda d'oro dei mongoli, "con un'orda dominante (chiamata Partito comunista), dei capi-clan, un Khan onnipotente e una massa sottomessa". Convinto che politica, guerra ed economia fossero legate, Spengler considerava l'Europa in pericolo, minacciata sul piano militare da Russia e Giappone, sul piano economico dai lavoratori che accettavano bassi salari: "In trent'anni, i giapponesi diventeranno tecnici di prim'ordine. (...) In Estremo Oriente grazie ai bassi livelli dei salari ci metteranno di fronte a una concorrenza mortale. I privilegi intangibili delle razze bianche sono stati dispersi, sprecati, divulgati".

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Anche Jack London, un autore molto caro alla cultura progressista, rimase scosso dalla guerra russo-giapponese. Nonostante fosse un intellettuale legato al socialismo, subiva pienamente le paure dei californiani della sua epoca. Nello stesso anno in cui scoppia la guerra tra Russia e Giappone, il 1904, London scrisse un resoconto di viaggio in Estremo Oriente che intitolò significativamente "The Yellow Peril".

Nelle descrizioni sommarie di coreani, cinesi e giapponesi si coglie la preoccupazione di avere di fronte popoli incomprensibili, troppo diversi da noi. Questa paura la trasformerà in racconto fantascientifico dieci anni dopo, nel 1914, con "The Unparalleled Invasion", dove si immagina un futuro contrassegnato dall'aggressione cinese all'Occidente.

Ritorna nel racconto il timore di fronte all'incomprensibile. Mentre i giapponesi gli apparivano "ricettivi" all'Occidente, London era convinto che gli occidentali non fossero in grado di capire i cinesi: "Non c'era un linguaggio psicologico comune. I rispettivi processi mentali erano radicalmente dissimili. Non v'era un lessico mediante il quale comunicare". E a questo si aggiunge la ricorrente paura per la superiorità demografica della Cina: "Il vero pericolo era la prolificità dei cinesi. (...) E non c'era nulla da fare. Non si potevano erigere dighe contro quella montante, mostruosa marea umana". La guerra scatenata dalla "fiumana gialla" dei cinesi, nella fantasia di London si conclude con un massacro: grazie a micidiali armi batteriologiche l'Occidente stermina i nemici e invade la Cina, disinfestandola e ripopolandola "felicemente" con individui di diversa nazionalità.


Le torture cinesi di Emilio Salgari. Il nostro principale scrittore di avventura, Emilio Salgari, aveva fondato il suo successo sulle ambientazioni esotiche. Tutti sanno che di preferenza erano le Indie a essere sfondo delle sue storie, ma anche l'Estremo Oriente dei "gialli" ricorre più volte.

In almeno due occasioni, poi, Salgari sceglie come contesto per le sue storie il riferimento a fatti della cronaca di allora: Le stragi della China, firmato da Salgari con lo pseudonimo Cap. Guido Altieri, edito nel 1901 e ambientato nell'estate 1900, nei momenti più caldi della rivolta dei Boxers; e L'eroina di Port Arthur, 1904, scritto in occasione della guerra russo-giapponese e sempre firmato con lo pseudonimo Cap. Altieri. È soprattutto il primo dei due romanzi che ci offre materiale per la nostra analisi del pregiudizio antiorientale. Le stragi della China (in seguito ristampato con il titolo Il sotterraneo della morte) contiene "tutte le buie, raffinate, agghiaccianti ritualità dell'orrore e del tormento che, ancora all'inizio del secolo, abitavano, nella convenzione esotista degli europei, l'idea mitografica di Estremo Oriente e in particolare di Cina".

I protagonisti del romanzo sono due fratelli siciliani, Giorgio Muscardo, missionario, e Roberto, ex bersagliere in cerca di lavoro in terra cinese con il figlio Enrico. Inevitabilmente, il missionario si trova nell'occhio del ciclone, durante la rivolta dei Boxers.

Il romanzo ha anche il suo "grande cattivo" cinese: è Ping-Ciao, un mandarino crudele che odia il figlio Wang, perché si è convertito al cristianesimo. Ping-Ciao vive meditando vendetta e ha come massimo desiderio quello di strappare il cuore ai suoi nemici. Altra figura minore è Sum, ufficiale della guardia imperiale che detesta i bianchi perché gli hanno ucciso un fratello.

Non c'è però troppa indulgenza per i rancori dei cinesi. La Cina è descritta come un Paese di violenza illimitata e di misteriose sette segrete (il Giglio azzurro, avverso agli europei, ma anche la Croce gialla, filocristiana).

Non è dato capire perché, ma una parte di cinesi è in rivolta. E proprio i rivoltosi sono i nemici contro cui si battono i nostri conterranei. Del resto, è chiaro il disprezzo per le credenze religiose locali. Quando un pescatore mette la sua giunca a disposizione degli italiani, si fa notare che "era stato uno dei primi a dare un calcio alle vecchie istorie di Confucio e di Buddha; ed abbracciare la religione cristiana".

Se confucianesimo e buddismo sono così liquidati, il romanzo esprime ribrezzo anche per i costumi orientali in generale: "Immaginatevi che hanno una vera frenesia per i prosciutti di cane, per i topi saltati, per le uova stantie, vecchie di parecchi anni, per i vermi di terra in salamoia, per le pinne di pesce cane e per gli zucchetti cotti nell'olio rancido. Potete quindi farvi un'idea della squisitezza della cucina cinese!...".

Le contumelie sulla cucina cinese, care a Vittorio Feltri, sono dunque di lunga data. A parte le abitudini alimentari, per Salgari i cinesi sono barbari e selvaggi, non c'è dubbio, come confermano gli italiani a commento di una sparatoria con i Boxers:

"Ah, quale atroce guerra d'esterminio! Non avrei mai creduto che questi cinesi potessero giungere a tal punto.

— Sono barbari, fratello.

— Eppure avevano una civiltà più vecchia della nostra.

— Infatti si vede! Non ho mai veduto canaglie simili!".

Gli italiani non risparmiano insulti ai cinesi che si trovano di fronte. "Cannibali!", gridano in un'occasione. E ai ribelli fanno la predica: "Voi vi disonorate dinanzi alla civiltà europea".

Non mancava la paura per il numero, per l'eccesso demografico, per le orde troppo fitte che minacciano l'Occidente:

"I cinesi sono pessimi soldati, avendo una organizzazione militare infelicissima; però calcolano, mio caro, sul loro numero. Gli europei hanno da fare i conti con trecentocinquanta milioni di abitanti, i quali potrebbero mettere in campagna venti o trenta milioni di combattenti e anche di più, se lo volessero. Immaginati un così sterminato esercito fanatizzato da un odio terribile! Sia pure male armato, in gran parte, ma che tromba devastatrice, che uragano tremendo! Chi potrebbe resistere all'urto di tali masse? Fortunatamente non tutti i cinesi odiano gli europei, né si lasceranno trascinare dai boxers. Guai se questo colosso dovesse montare tutto in furore! L'Europa passerebbe forse dei tristi giorni".

Per accentuare la crudeltà cinese, Salgari si dilunga in descrizioni davvero estreme di torture e supplizi, quasi eccessive soprattutto se si considera il destinatario in gran parte giovanile dei suoi romanzi. E sottopone ai lettori una sorta di vademecum delle torture cinesi:

"Alcuni condannati subivano la pena della fustigazione. Per bastonare meglio, i carnefici cinesi stendono a terra il paziente, gli scoprono le reni e il sedere e l'uno dirimpetto all'altro, seduti sul collo e sulle gambe del condannato, lo percuotono con gran vigore, adoperando dei bambù che vengono sempre tenuti in acqua perché rimangono elastici.

I colpi si succedono con una rapidità prodigiosa e conviene di quando in quando fermarsi perché il torturato possa rifiatare, correndo altrimenti il pericolo di morire soffocato.

La pena minore arriva ai venti colpi; per la grave a cento e anche a centocinquanta ed allora il suppliziato diventa un ammasso di carne sanguinolenta.

Ad altri cristiani infliggevano invece pene più atroci, facendo sfoggio di una crudeltà inaudita. Ve ne erano di quelli che subivano il supplizio degli schiaffi, pel quale si adoperava una specie di suola formata da quattro lamine di cuoio.

Basta un colpo per rompere i denti o fracassare la mascella. Ve ne erano di quelli che avevano le gambe rinchiuse in morse di legno che i carnefici stringevano fino a schiacciare la noce dei piedi; altri che subivano la scorticazione, la quale consiste nel fare delle leggere incisioni sul corpo del paziente per poi strappare la pelle a listelle piccolissime".

Accade che padre Giorgio sia condannato al "supplizio dei pettini", che Salgari ci avverte essere "uno dei più atroci inventati dalla crudele fantasia dei cinesi, veri maestri in simili efferatezze". Anche in questo caso non si trascurano dettagli macabri per sottolineare il sadismo dei cinesi:

"Questo supplizio consiste di due pali, lontano l'uno dall'altro una quindicina di metri e che portano, ad una data altezza, delle traverse armate di lance taglientissime e di forma leggermente ricurva.

Per mezzo di una corda attaccata alle estremità superiori dei pali, si imprime al paziente una spinta che diventa sempre più vigorosa, fino a che va a toccare i due pettini.

Ad ogni colpo le punte aguzze gli penetran ora nel dorso ed ora nel petto, lacerandogli atrocemente le carni.

Questo supplizio dura però parecchie ore, perché i carnefici si guardano bene dal guastare troppo la vittima e fanno il possibile per prolungare l'agonia.

All'ultimo slancio lo si lascia poi infilzare su l'uno o l'altro dei pettini e lo si abbandona ai corvi".

Sono pagine che rivelano il consueto alternarsi di orrore e fascinazione per le presunte crudeltà orientali. Il compiacimento è indubbio: si rabbrividisce per le atrocità, ma si gode nell'enumerarle e descriverle, trasformandole in intrattenimento macabro per i lettori.

Forse le culture e le tradizioni orientali avevano davvero sedotto fatalmente Emilio Salgari: lo scrittore si uccide il 25 aprile 1911 alla maniera giapponese, squarciandosi il ventre con una lama in una sorta di harakiri.

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IL CINEMA

Yellowface. "Yellowface", faccia gialla. Così era definita, già prima dell'avvento del cinema, la consuetudine di far interpretare personaggi orientali ad attori bianchi. "Blackface" (per interpretare le facce scure dei neri) e "yellowface" erano diventati sottogeneri dell'operetta e del vaudeville a inizi Ottocento. L'abitudine di utilizzare attori bianchi per parti di asiatici non faceva che rafforzare gli stereotipi e il cinema centuplicherà questo meccanismo fino a raggiungere esiti grotteschi. Nelle prossime pagine scopriremo quanto sovente Hollywood abbia affidato i ruoli di asiatici ad attori bianchi truccati con modalità più o meno efficaci.

Quando nasce il cinema, la California si tramuta rapidamente nel cuore dell'industria cinematografica. Ma nello stesso Stato della West Coast era anche vivissima la militanza razzista contro i gialli, foraggiata dagli agrari che non gradivano la concorrenza dei migranti orientali, cinesi e giapponesi. Non stupisce quindi che fin dagli esordi il cinema di Hollywood abbia offerto ritratti degli asiatici segnati fortemente dal pregiudizio.

Un tema presente fin dall'alba del cinematografo era quello delle fumerie d'oppio dei cinesi. La compagnia di Thomas Edison già nel 1894 produsse un breve corto di un minuto e mezzo intitolato Chinese Opium Den. Del 1905 è invece Reuben in the Opium Joint, imperniato su un turista in visita a una fumeria d'oppio.

Un evento che influì apertamente anche sul neonato immaginario cinematografico a proposito di asiatici e orientali è senz'altro la rivolta dei Boxers del 1900. In Occidente quella rivolta, come abbiamo già detto, venne vissuta con terrore ed è stato uno dei primi conflitti a essere "mediatizzato", attraverso la narrativa popolare, il teatro, la fotografia, e naturalmente il cinema. L'immaginario era piegato alle esigenze di mobilitazione del fronte interno europeo e americano contro i "barbari". Così la cronaca venne "messa in scena" accentuando soprattutto le crudeltà dei cinesi ribelli ed enfatizzando la bontà degli occidentali, altruisti, dediti a portare civiltà e progresso a un popolo primitivo.

La rivolta dei Boxers si prestò dunque a essere trasformata in spettacolo. Nei primi passi del cinema era difficile distinguere documentario da finzione, e su questa ambiguità giocarono molti registi. È il caso di James Williamson, che ottenne notorietà con un cortometraggio pionieristico e considerato una pietra miliare del neonato cinematografo, Attack on a Chinese Mission, girato a ridosso delle rivolte dei Boxers (le riprese avvennero a Brighton nell'inverno 1900-1901). Nei 4 minuti del film c'è solo azione, non c'è storia. Lo spettatore bianco, però, si identifica immediatamente con la famiglia missionaria, formata da anziani, mogli, mariti e figli. Una micro-comunità occidentale aggredita dai "gialli". Asserragliati nella missione, i bianchi subiscono l'attacco di un'orda cinese inferocita, selvaggia (interpretata ovviamente da caucasici truccati). Mentre i barbari già saccheggiano la missione, l'arrivo dei soldati britannici salva la vita dei bianchi sotto assedio.

L'impatto della rivolta dei Boxers sull'opinione pubblica occidentale si protrarrà per almeno vent'anni. A quell'avvenimento era dedicato anche The Red Lantern (1919): nonostante sia un film tutto ambientato in Cina e con personaggi cinesi, nell'intero cast non c'è un solo attore cinese o asiatico. Veri orientali furono utilizzati solo come comparse (tra le quali Anna May Wong).

La storia è incentrata su Mahlee (interpretata da Alla Nazimova), un'eurasiatica figlia di un inglese e della sua amante cinese, educata ai costumi occidentali (non ha avuto i piedi bendati, per esempio). Si innamora del figlio di un missionario americano, ma quando il giovane le preferisce un'occidentale, Mahlee decide di vendicarsi dell'intera razza bianca e si pone alla testa dei Boxers rivoltosi. Diventa nota come "la dea della lanterna rossa", lancia profezie che si rivelano false e finisce (nella più consueta tradizione per le cinesi dell'immaginario occidentale) per suicidarsi.

Dai vendicativi Boxers ai cattivi orientali il passo era breve. Nel cinema (ma anche nel fumetto e nei cartoni animati) i "negri" di solito rivestivano il ruolo di servitori (maggiordomi, cameriere, facchini, ecc.), e venivano dipinti come stupidi, ma non pericolosi. Ai gialli, pur rappresentati spesso come sciocchi, era attribuita una maggiore pericolosità. Non si erano fatti ridurre in schiavitù, rimanevano insidiosi e pericolosi. Un tema ricorrente diventò quindi quello delle eroine bianche minacciate da crudeli asiatici. Tra il 1914 e il 1916, dal romanzo a puntate The Romance of Elaine di Arthur B. Reeve vennero tratti tre serial, incentrati sul personaggio di Elaine Dodge. Il cattivo principale era un bianco, ma accanto a lui si faceva notare per crudeltà Wu Fang (interpretato da Edwin Arden, attore del Missouri truccato da cinese), criminale e ipnotizzatore. Nello stesso periodo, nel serial a basso costo The Yellow Menace (1916), l'attore di teatro Edwin Stevens, californiano, interpretava Ali Singh, fanatico mongolo. A fargli da sicario era un crudele cinese, in realtà impersonato da un attore di origine libanese, Frank Lackteen, che grazie al volto particolare si specializzerà in ruoli di cattivi "stranieri" (orientali, ma anche arabi e pellerossa).

In quegli anni esordirà al cinema anche Fu Manchu, un personaggio che in seguito, nel 1930, avrà uno degli interpreti più celebri nello svedese Warner Oland. La sua carriera di perfido cinese comincia in realtà qualche anno prima, proprio all'epoca del muto, con Tell It to the Marines (1926), dove Oland è il capo dei banditi cinesi, dal ghigno crudele. Il film, il primo dedicato al corpo dei marines, presentava anche altri stereotipi. In un episodio ambientato a Tondo, nelle Filippine, non solo nei testi è usato il termine goo-goo per definire i filippini, ma fa la sua apparizione anche Zaya, una seduttiva asiatica che rischia di rovinare la reputazione di un giovane marine. La nativa era interpretata da Carmel Myers, una bianca con una fisionomia ben lontana da quella di una filippina e con un trucco ben poco convincente. I banditi cinesi, poi, erano dipinti come selvaggi e tra loro spiccava un orribile cecchino cinese senza denti che spara al buon sergente O'Hara interpretato da Lon Chaney.

Proprio Lon Chaney, nel corso degli anni Venti, sarà uno degli attori che porterà il modello del "yellowface" alle estreme conseguenze.

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John Wayne, un nemico per i musi gialli. Nel cinema bellico americano c'è stato un attore che più di ogni altro ha raffigurato sullo schermo l'antitesi dei nemici orientali, John Wayne.

Il ruvido cow-boy di tanti western incarnava l'esatto opposto dell'immagine consuetudinaria che Hollywood offriva del giapponese, quando quest'ultimo non era ridotto ad anonima comparsa. L'ufficiale giapponese (e poi cinese o vietnamita, negli anni a seguire) era di solito ritratto come un uomo distinto e astuto, contemporaneamente feroce e sadico, mentre i soldati semplici erano presentati come mostri subumani.

Wayne si collocava agli antipodi di quell'immagine, era la concretizzazione anche fisica del populismo americano anti-intellettuale. L'eroe dei film bellici, come sostiene Harriett Hawkins, "impersonifica le virtù nazionali e naturali, in opposizione dialettica con il Nemico-Alieno-Altro (autocratico, aristocratico e sempre molto istruito) che impersona il vizio non-americano". Secondo questo stereotipo il massimo nemico dello stile di vita americano era "l'ufficiale giapponese sadico, sorridente, malvagiamente infido che parla un inglese impeccabile e raffinato".

Nella contrapposizione frontale tra americani rozzi ma generosi e nemici spietati, subito dopo i giapponesi c'erano i nazisti europei, colti e istruiti.

Per l'immaginario americano l'eroe vincente è sempre rozzo, incolto (Rambo ne è la massima espressione). Anche James Bond, mito anglo-americano, nei primi film si presentava come un bruto, che inveisce contro i Beatles, esperto solo di Martini e conoscitore esclusivamente di vini, rude con le donne.

Con queste premesse, John Wayne era destinato a dare volto e corpo all'antagonista antropologico dei giapponesi e dei gialli in generale. La lista di film in cui è impegnato a combattere i crudeli nipponici supera quella delle sue battaglie contro gli indiani d'America.

John Wayne combatte contro i giapponesi una prima volta in Flying Tigers (I falchi di Rangoon — Il comandante Jim, 1942), poi in The Fighting Seabees (I conquistatori dei sette mari, 1944), Back to Bataan (Gli eroi del Pacifico — La pattuglia invisibile, 1945), They Were Expendable (I sacrificati, 1945), Sands of lwo Jima (Iwo lima, deserto di fuoco, 1949), Operation Pacific (Lo squalo tonante, 1951), Flying Leathernecks (I diavoli alati, 1951), The Wings of the Eagles (Le ali delle aquile, 1957), In Harm's Way (Prima vittoria, 1965).

L'immagine dei giapponesi in quei film era quasi sempre simile: crudeli avversari, intravisti in scene di massa, quasi mai inquadrati a lungo, senza dialoghi, senza personalità. Si consideri, ad esempio, The Fighting Seabees, dove John Wayne non è un militare, ma un operaio specializzato, che lavora a fianco dell'esercito, Wedge Donovan. I giapponesi sono visti in alcune sequenze di battaglia. Un primissimo piano ritrae un pilota che ghigna mentre attacca con il proprio aereo gli indifesi operai. Poi si assiste allo sbarco dei soldati giapponesi sull'isola dove stanno lavorando gli operai di Wedge. I militari nipponici sono ripresi dall'alto, è difficile distinguerne le fisionomie. Qualche fotogramma dopo è inquadrato un ufficiale che dà ordini ai suoi, ma non c'è nessuno dei giapponesi che diventa "personaggio", che ha un'identità. In una seconda battaglia c'è un cecchino che abbatte gli operai e nel corso dei combattimenti che seguono si vedranno di nuovo ufficiali e soldati a distanza ravvicinata, ma per pochi istanti. Nel complesso restano nemici senza volto. E queste caratteristiche sono ricorrenti in tutti gli altri film citati.

Gli incontri di John Wayne con i gialli non si esauriscono però nelle pellicole belliche ambientate nel Pacifico. In periodo di anticomunismo, Wayne si batte contro i comunisti cinesi in Blood Alley (Oceano rosso, 1955), e in un'occasione torna addirittura al 1856 per impersonare un diplomatico americano in Giappone, suscitando gli abituali amori impossibili nella bella geisha Okichi, in The Barbarian and the Geisha (Il barbaro e la geisha, 1958). Dulcis in fundo il celebre film sulla guerra del Vietnam, The Green Berets (Berretti verdi, 1968), che Wayne interpreta e dirige. Basato su un romanzo di Robin Moore, il film era un progetto caldeggiato dall'attore direttamente al presidente Johnson, che a sua volta coinvolse il Pentagono.

I vietcong sono ovviamente crudeli, preparano trappole feroci agli americani, i loro ufficiali pasteggiano a champagne e caviale come i nazisti dei film sulla Seconda guerra mondiale. Poi, nella scena finale, Wayne tiene per mano un ragazzino vietnamita, su una spiaggia, mentre alle loro spalle il sole tramonta e risuona l'inno dei Berretti verdi. Sono ancora all'infanzia, quei popoli primitivi, e il buon padre americano con il volto rude di John Wayne può condurli sulla via della libertà e farli crescere.

Ma l'attore che sullo schermo combatteva senza tregua i musi gialli ha nella sua filmografia anche un episodio di "yellowface". Il temibile sterminatore di giapponesi ha dovuto accettare di farsi tirare gli occhi a mandorla dagli esperti di make-up per diventare il capo mongolo Temujin, cioè addirittura Gengis Khan, in The Conqueror (Il conquistatore, 1956). Il risultato non era molto credibile, ma ancora meno credibile era Susan Hayward nella parte della tartara dai capelli rossi Bortai. Il film, tra l'altro, non portò fortuna al cast. The Conqueror venne girato nel deserto dell'Utah, dove erano stati da poco compiuti dei test nucleari. Quasi la metà degli attori e della troupe negli anni successivi si ammalò di cancro, compresi Wayne e Hayward.

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