Copertina
Autore Elisa Giunchi
Titolo Afghanistan
SottotitoloStoria e società nel cuore dell'Asia
EdizioneCarocci, Roma, 2007 , pag. 150, dim. 132x214x10 mm , Isbn 978-88-430-4068-1
LettorePiergiorgio Siena, 2007
Classe paesi: Afghanistan , storia: Asia , storia contemporanea
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Indice

Prefazione                                   11
Nota sui caratteri di trascrizione           14
Introduzione                                 15

1.  Struttura sociale e identità religiosa   19

Un luogo di passaggio                        19
La frammentazione etnica                     22
La struttura tribale                         27
L'isiam afgano                               28
La tradizione sufi                           32
Onore e controllo sociale                    34

2.  Da confederazione tribale a monarchia
    costituzionale                           37

La nascita del regno durrani                 37
Il "grande gioco"                            39
Abdur Rahman e la formazione dello stato
moderno                                      42
II periodo delle riforme                     44
La reazione di Baccà-ye Saqqao               47
Zahir Shah e la fase costituzionale          49
Il dissidio sulla Durand Line e i suoi
riflessi internazionali                      50

3.  La diffusione dell'islamismo e
    il progetto comunista                    57

La nascita del PDPA                          57
Il movimento islamista                       59
La repubblica presidenziale di
Mohammed Daud                                61
La rivoluzione di Saur                       67
Le riforme di Taraki e Amin                  68
La rivolta dilaga                            71

4.  Dai mujaheddin ad al-Qaeda               75

L'invasione sovietica: «aggressione al
mondo libero» o risposta a un
«complotto reazionario»?                     75
L'internazionalizzazione del conflitto       81
I partiti di Peshawar                        85
Da Karmal a Najibullah                       88
I volontari del jihad                        91
L'espansione del jihad fuori dai confini
afgani                                       92
Il ritorno della guerra civile               94
Alleanze e tradimenti                        97

5.  Dai talibani a Enduring Freedom         101

L'ascesa dei talibani                       101
Un'autenticità inventata                    103
Alla conquista del paese                    106
La politica dei gasdotti e degli oleodotti  107
Washington prende le distanze dai talibani  110
Verso un'economia "criminalizzata"          111
Sotto l'influenza di Osama ben Laden        113

6.  La ricostruzione post-talibana:
    dilemmi e sfide future                  115

Enduring Freedom                            115
La road map di Bonn                         117
Instabilità e violenze                      118
Il ritorno dell'oppio                       121
La nuova Costituzione                       122
Il "trionfo della democrazia"?              125
Le donne: il barometro della democrazia
afgana                                      127
La politica ambigua del Pakistan            129
Il contesto regionale                       131

Cronologia                                  133

Glossario                                   135

Riferimenti bibliografici                   137

Indice analitico                            147

 

 

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Pagina 19

1. Struttura sociale e identità religiosa



Un luogo di passaggio
L'Afghanistan è un paese povero di risorse naturali, privo di sbocchi al mare e con un'economia rurale di sussistenza. Eppure si è trovato più volte, nel corso degli ultimi secoli, a ricoprire un ruolo geostrategico di tutta rilevanza agli occhi di grandi e piccole potenze. Nell'Ottocento è stato oggetto delle mire espansionistiche di Russia e Gran Bretagna e trasformato in uno "stato cuscinetto" tra i loro imperi coloniali. Negli anni ottanta del XX secolo, all'apice della Guerra fredda, ha costituito il principale terreno di scontro tra le due superpotenze, Unione Sovietica e Stati Uniti, e tra ideologie allogene: il marxismo-leninismo, anche nella sua variante cinese, il liberismo capitalista, il wahhabismo saudita e il radicalismo khomeinista. Nel decennio successivo, dopo la disintegrazione dell'Unione Sovietica e la scoperta di ingenti giacimenti di petrolio e gas naturale nell'area caspica, l'Afghanistan ha assunto improvvisa importanza agli occhi delle compagnie petrolifere e dei loro governi quale potenziale rotta per il transito degli idrocarburi centro-asiatici. Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, ha ricoperto un ruolo fondamentale, insieme al Pakistan, nella "guerra al terrorismo" guidata dagli Stati Uniti ed è diventato luogo di sperimentazione di un processo di democratizzazione che, nelle intenzioni dell'amministrazione Bush, avrebbe dovuto essere replicato in altre aree del mondo musulmano, in primis l'Iraq.

Se si guarda più indietro nel tempo, si vede che la collocazione geografica di questo paese, situato all'incrocio tra le steppe centro-asiatiche, la catena himalayana e l'altopiano iraniano (quello che il poeta Mohammed Iqbal chiamava «il cuore dell'Asia»), ha determinato anche la sua storia antica. Da tempi immemorabili le terre che oggi costituiscono l'Afghanistan sono state attraversate da spostamenti di popoli, a partire dagli Arya che verso la metà del II millennio a.C. attraversarono queste terre per dirigersi verso l'India; sono state percorse da pellegrini, missionari e mercanti e più volte contese dai regni circostanti. Nel IV secolo a.C. Alessandro Magno conquistò i territori dell'attuale Afghanistan, allora sottoposti al dominio achemenide, portandovi la cultura ellenistica, e da lì procedette a invadere l'India, finché le sue truppe si rifiutarono di proseguire e lo obbligarono a tornare indietro. Alla sua morte, avvenuta nel 323 a.C., i territori conquistati dai macedoni passarono sotto la giurisdizione seleucide, per essere di lì a poco smembrati: le regioni nordoccidentali furono incluse nel regno dei parti; quelle orientali poste a sud dell'Hindu Kush furono inglobate nell'impero indiano dei maurya, mentre nella Battriana, tra il fiume Amu Darya (l'antico Oxus) e la catena dell'Hindu Kush, venne fondato un regno greco-battriano che arrivò a comprendere nel III-II secolo a.C. parte della Persia orientale e l'alto corso dell'Indo. Il regno greco-battriano si frantumò in seguito all'invasione dei saci e poi, nel II secolo d.C., con l'arrivo degli yueh-chi, provenienti dal Turkestan cinese.

Gli yueh-chi diedero vita all'impero kushan, che nel suo momento di massima espansione arrivò a comprendere l'area tra il Mar Caspio e la vallata indo-gangetica. Oltre a stimolare gli scambi commerciali tra Cina ed Europa attraverso la Via della seta, l'impero kushan incoraggiò la fioritura di una sintesi culturale, l'arte greco-buddista del Gandhara, i cui semi erano già stati gettati da Alessandro Magno. L'impero kushan fu distrutto sul finire del V secolo dagli unni eftaliti, di origine turca. L'impero eftalita, che nel suo momento di massima espansione arrivò a coprire l'area tra il Sinkiang cinese e la Persia, tra l'Asia centrale e il Panjab, fu distrutto dai sasanidi intorno alla metà del VI secolo.

L'impero sasanide fu a sua volta distrutto nel VII secolo dalle truppe arabe, che dalla Persia entrarono in Afghanistan portando con sé una nuova religione, l'islam, che nel giro di pochi secoli avrebbe soppiantato altre tradizioni religiose, dallo zoroastrismo, che era stato introdotto dagli achemenidi, al buddismo, che era fiorito sotto i maurya. La conversione all'Islam della popolazione locale fu completata sotto due dinastie turche pervase di spirito persiano, i ghaznavidi, che tra il X e l'inizio del XII secolo giunsero a controllare l'intero Afghanistan, l'India nord-occidentale e il Panjab, e i ghoridi, che regnarono nel secolo successivo.

Nel XIII secolo le orde mongole di Gengis Khan dilagarono in Afghanistan causando morte e devastazione. Dopo avere attraversato l'Oxus nel 1220, le sue truppe saccheggiarono Herat; avanzarono quindi verso Balkh, allora un fiorente centro artistico, e la rasero al suolo. La stessa sorte toccò a Ghazni e a Peshawar. Alla morte di Gengis Khan il suo impero, che includeva tutta l'Eurasia dall'Europa centrale al Pacifico, si frantumò in seguito alle lotte per il potere tra i suoi discendenti. Nella seconda metà del secolo successivo Timur-e Leng, o Tamerlano come viene chiamato in Occidente, creò un nuovo vasto impero che comprendeva la Persia, l'India settentrionale, l'Anatolia e la Siria settentrionale. La dinastia timuride a cui diede vita continuò a governare nei territori dell'attuale Afghanistan, in Turchestan e in Persia fino all'inizio del XVI secolo, dando vita a una nuova fusione, quella tra cultura persiana e centro-asiatica, e a una nuova fase di fioritura delle arti, che aveva in Herat un importante centro.

Nel Cinquecento e nel Seicento le aree occidentali e centrali dell'attuale Afghanistan furono inglobate nell'impero safavide, mentre quelle meridionali e orientali furono occupate nel Cinquecento dalle truppe di Zahiruddin Mohammed, detto Babur ("tigre"), un discendente di Tamerlano e, forse, di Gengis Khan che si vide costretto dalla pressione degli uzbeki shaibanidi a lasciare la valle di Ferghana e a dirigersi verso sud. Da Kabul, conquistata nel 1504, Babur procedette nel 1525 a invadere l'India settentrionale, dove diede vita all'impero Moghal, che si sarebbe steso sotto i suoi successori a gran parte del subcontinente indiano.

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3. La diffusione dell'islamismo e il progetto comunista



La nascita del PDPA
La fase costituzionale di Zahir Shah permise a nuovi partiti di nascere e ad altri, che fino ad allora avevano operato in clandestinità, di uscire allo scoperto. Questi partiti sorsero e si svilupparono in ambito urbano, dove più che altrove circolavano nuove idee, a cui si mostrava sensibile un gruppo in particolare, i giovani che frequentavano le scuole superiori e le università, frutto dell'espansione della rete scolastica avvenuta nei decenni precedenti. All'effervescenza intellettuale delle città contribuiva l'esperienza liberatoria dei campus universitari, dove i giovani potevano discutere liberamente ed essere esposti a nuove idee, lontano dalle pressioni del proprio ambiente di origine.

L'intellighenzia che si formò in questi ambienti, pur non appartenendo più alla società tradizionale, che anzi disprezzava in quanto arretrata, non sarebbe tuttavia riuscita, se non in una fase iniziale e in maniera limitata, a entrare nei gangli del potere, che rimasero nelle mani di un'elite ristretta. Anche l'ascesa economica rimase bloccata da logiche di potere tradizionali, che sembravano resistenti a ogni tentativo di cambiamento. E da queste speranze di rinnovamento e da queste delusioni che negli anni sessanta e settanta si svilupparono, complice la limitata apertura di Zahir Shah, i movimenti islamisti e comunisti, in maniera analoga a quanto accadeva nello stesso periodo, e per motivi analoghi, in quasi tutto il mondo musulmano.

Nel 1965 fu fondato per iniziativa di alcuni membri della Gioventù risvegliata il Partito popolare democratico dell'Afghanistan (PDPA). Il partito, a cui al momento della fondazione non aderirono più di 300 membri, era strutturato secondo il modello del Partito comunista sovietico e sin dall'inizio utilizzò, secondo la testimonianza di Mitrokhin, finanziamenti provenienti da Mosca (Mitrokhin, 2002, p.20). Indubbia era anche la sua ispirazione marxista-leninista: secondo la sua costituzione, «il PDPA è il più alto organo politico e l'avanguardia della classe operaia e di tutti i lavoratori in Afghanistan» e ha lo scopo di «costruire una società socialista in Afghanistan basata sull'adattamento [...] dei principi rivoluzionari marxisti-leninisti alle condizioni prevalenti in Afghanistan».

L'adattamento a cui si faceva riferimento nel documento era inevitabile, poiché la classe operaia era quasi inesistente in Afghanistan: alla metà degli anni sessanta gli operai non erano più dell'1% della popolazione. I membri del PDPA provenivano dalla classe media, un altro gruppo che aveva scarsissimo peso nel paese. La maggior parte della popolazione svolgeva attività agricole e agiva non in base a considerazioni di classe, ma secondo l'appartenenza al proprio qaum. Sarà proprio l'incapacità di comprendere l'importanza delle relazioni di solidarietà primordiali e clientelari che caratterizzano la società afgana a votare al fallimento le riforme, astratte e ideologiche, che l'ala radicale del PDPA, una volta al potere, tenterà di imporre alla fine degli anni settanta.

Sin dal 1966 il PDPA si trovò ad essere diviso in due correnti, una guidata da Nur Mohammed Taraki, a cui si aggiungerà in un secondo momento Hafizullah Amin, e l'altra da Babrak Karmal. La divisione seguiva non tanto linee ideologiche quanto tattiche. Karmal, pienamente consapevole delle peculiarità della società afgana, privilegiava un approccio graduale che non spaventasse l'esigua classe media ed era favorevole alla collaborazione con il sovrano e il suo entourage. Taraki sosteneva, invece, che il sistema dovesse essere cambiato senza arrivare a compromessi con il potere costituito e con la realtà afgana che annacquassero la purezza degli obiettivi originari. Era una differenza dovuta, forse, a differenze caratteriali: Taraki era un intellettuale introverso, portato a seguire un corso solitario, mentre Karmal, che aveva guidato il movimento studentesco di sinistra, era più estroverso e pragmatico. I due avevano anche un diverso background: Karmal, come gran parte dei suoi seguaci, proveniva dal ceto medio urbano, mentre Taraki e i suoi accoliti provenivano da ceti medio-bassi rurali. Non solo: sebbene entrambi fossero pashtun, la corrente di Karmal, più cosmopolita, attirava anche molti non pashtun, soprattutto fra i tagiki, mentre la corrente di Taraki era prevalentemente costituita da pashtun. La rottura definitiva avvenne nel 1967, quando il partito si divise in due raggruppamenti che divennero noti col nome dei loro giornali: il Parcham ("Bandiera"), guidato da Karmal, e il Khalq ("Popolo") guidato da Taraki.

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Pagina 101

5. Dai talibani a Enduring Freedom



L'ascesa dei talibani
In Occidente si iniziò a parlare dei talibani (da talib, "studente") quando, all'inizio del novembre 1994, liberarono vicino a Kandahar un convoglio di autocarri di proprietà dei servizi segreti pakistani che proveniva da Quetta ed era destinato all'Asia centrale. Secondo la leggenda costruita intorno a questa vicenda, il convoglio era stato bloccato da un gruppo di comandanti che chiedevano come pedaggio denaro e una parte della merce. Secondo alcuni non si sarebbe trattato, in realtà, di un semplice atto di banditismo, ma di un tentativo da parte di milizie governative di indurre Islamabad a cessare di sponsorizzare la nuova forza, che originava nelle madrasa pakistane di frontiera. Comunque sia, quella sera stessa i talibani mossero su Kandahar, che conquistarono rapidamente senza quasi incontrare resistenza. Da lì si sarebbero mossi alla conquista del resto del paese, insieme a migliaia di simpatizzanti pashtun.

Le circostanze in cui i talibani apparvero sulla scena afgana sono significative: gli "studenti" presentavano agli occhi degli autotrasportatori di Quetta e Chaman, in Pakistan, e di Kandahar, la possibilità di facilitare i commerci, leciti e illeciti, con l'Iran e con l'Asia centrale, che erano ostacolati dai continui posti di blocco che arricchivano signori della guerra e comandanti locali. Alla liberazione delle vie di transito verso l'Asia centrale, che con la disintegrazione dell'URSS nel 1991 si era aperta alla competizione tra le potenze regionali, era naturalmente interessato anche il governo pakistano. Benazir Bhutto, che era andata al potere nel 1988, dopo la morte di Zia, era interessata a controllare Kabul anche per altri motivi, che avevano già caratterizzato la politica estera del suo predecessore: mettere a tacere la questione del Pashtunistan e assicurarsi alle spalle una "profondità strategica" in funzione antiindiana. La Bhutto, pur tentando di ridurre l'autonomia dell'esercito e dei servizi segreti in politica estera, ne sposava, quindi, gli imperativi.

Questi imperativi dovevano però essere perseguiti al di fuori del Jamaat-e islami, inviso per motivi personali (all'insistenza di questo partito si deve l'impiccagione del padre di Benazir, avvenuta nel 1979). Si trattava quindi di trovare un nuovo partito pakistano che avesse accesso privilegiato al contesto afgano: fu così che il Jamiat-e ulama-e islam, un partito tradizionalista che aveva grande seguito tra i pashtun pakistani delle aree tribali, e dalle cui madrasa provenivano importanti figure religiose afgane, entrò a far parte nel 1993 della coalizione di governo. Il secondo passo da fare era trovare una forza politica afgana che corrispondesse agli interessi pakistani: l'Hezb era troppo legato al Jamaat, mentre il Jamiat-e islami era troppo legato all'Iran e, per la sua composizione etnica, era comunque poco propenso a risolvere la questione del Pashtunistan in senso favorevole ai desideri di Islamabad. Occorreva trovare una forza pashtun (pashtun era, tra l'altro, Nasrullah Babar, il ministro degli Esteri della Bhutto), ma in Afghanistan il panorama politico pashtun era eccessivamente frammentato in gruppuscoli diversi, nessuno dei quali aveva largo seguito.

Fu così che, tramite il Jamiat-e ulama-e islam, si creò una nuova forza afgana: nel 1994 la Bhutto e Babar presero la decisione di fornire sostegno logistico, denaro, armi e i rudimenti di un addestramento militare ai rifugiati afgani pashtun che erano ospitati nelle madrasa del Jamiat-e ulama-e isiam. L'ISI appoggiò, e secondo alcuni promosse, questi piani, ma per un certo tempo continuò a sostenere anche l'Hezb-e islami, finché, intorno al 1995, dinnanzi alla rapida avanzata talibana e all'evidente inaffidabilità di Hekmatyar, che come si è visto si era avvicinato agli hazara e all'Iran, fornì agli "studenti" sostegno incondizionato.

Vi era, però, un problema: il Pakistan, che in quella fase era oggetto delle sanzioni americane e intratteneva una costosa corsa agli armamenti con l'India, non poteva sostenere da solo la creazione di una nuova forza afgana. In qualità di presidente del Comitato permanente dell'Assemblea nazionale per gli Affari esteri, Fazlur Rahman, il leader del Jamiat-e ulama-e islam, si prodigò per fare ottenere ai talibani generosi finanziamenti dai paesi del Golfo e in particolare dall'Arabia Saudita. Non fu difficile convincere i Saud: Ryadh non aveva rinunciato a espandere il credo wahhabita e a impedire che si installasse a Kabul un governo legato all'Iran. Il suo sostegno si concretizzò in centinaia di milioni di dollari.

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Le donne: il barometro della democrazia afgana
All'indomani della sconfitta talibana i nostri mass media hanno annunciato in prima pagina che le donne afgane si erano tolte il burqa: erano tornate ad essere libere. La verità è più complessa e, purtroppo, meno rosea. Indubbiamente vi sono molti segnali incoraggianti: le restrizioni talibane più odiose sono state abrogate; le donne sono tornate a lavorare fuori casa, sono state aperte nuove scuole per bambine e sono sorte molteplici attività di formazione rivolte alla popolazione femminile. La Costituzione del 2004 sancisce che donne e uomini hanno uguali diritti e menziona nel preambolo l'obbligo di rispettare i trattati internazionali sottoscritti dal paese, tra i quali vi è la Convenzione delle Nazioni Unite sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, ratificata da Najibullah nel 1986. La Costituzione e la legge elettorale emanata nel 2005 prevedono che in Parlamento un certo numero di seggi sia riservato alle donne (il 27% dei seggi alla wolesi jirga e 17% alla meshrano jirga). La decisione di adottare queste "quote rosa" pone l'Afghanistan tra i paesi in cui maggiore è la presenza femminile in Parlamento, al di sopra degli altri stati musulmani e di molti stati occidentali che possono vantare una lunga tradizione democratica. Nel cuore pashtun, dove le consuetudini androcratiche sono particolarmente radicate, le candidature femminili sono state a dire il vero pochissime. Ma la speranza è che la presenza delle deputate in Parlamento possa aumentare la presenza femminile nello spazio pubblico anche nel sud e nel sud-est, aiutandole a vincere resistenze consuetudinarie. Molte restrizioni a carico delle donne continuano, tuttavia, a sopravvivere, e non c'è da meravigliarsene: sono legate non ai talibani, ma a consuetudini patriarcali centrate sull'onore che si ritrovano con gradazioni doverse presso tutti i gruppi etnici. Lo dimostra il caso della donna accusata di adulterio e lapidata per ordine degli ulama locali nell'aprile del 2005 a Badakshan, un'area del nord-est che i talibani non avevano mai occupato. Dovunque nel paese le donne continuano ad essere vittime di soprusi e violenze che raramente vengono denunciati alle autorità. Le dispute, soprattutto quelle relative all'onore, sono per lo più risolte in maniera informale, attraverso istituzioni tradizionali che applicano norme discriminatorie nei confronti della popolazione femminile. La soluzione non è, tuttavia, l'estensione dello stato e del suo sistema giudiziario al resto del paese. Persino i giudici dei tribunali statali utilizzano, infatti, le jirga per raccogliere informazioni e tendono a giudicare non in base ai testi di legge, che spesso non conoscono, ma alla propria interpretazione del diritto hanafita, mediata da considerazioni pragmatiche legate alla restaurazione dello statu quo ante. Occorre quindi formare giudici e procuratori, ma anche riformare il diritto vigente. Le leggi afgane non sono, infatti, in linea con gli obblighi internazionali che il paese sarebbe tenuto ad osservare secondo il suo testo costituzionale: per fare solo alcuni esempi, il codice penale del 1976 stabilisce che la violenza domestica, i matrimoni forzati e lo scambio di donne per risolvere dispute locali non costituiscono reato; prevede punizioni severe per qualsiasi forma di relazione sessuale fuori dal matrimonio, con l'effetto di scoraggiare le denunce di stupro, mentre le sanzioni penali per i delitti d'onore sono estremamente lievi. La legge sul matrimonio del 1971 non riconosce uguali diritti ai coniugi in relazione allo scioglimento del matrimonio, alla proprietà, alla custodia dei figli e al consenso al matrimonio. Uno dei pochi aspetti positivi di questa legge, la previsione di un'età minima per il matrimonio, non è osservato né è accompagnato da sanzioni penali. Da più parti si è espressa la speranza che le candidate neoelette sappiano fare blocco unico e promuovere l'emendamento di queste leggi. Ma la composizione del Parlamento e della magistratura inducono ad un certo pessimismo. La Costituzione garantisce, è vero, il rispetto delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, ma non specifica come possano essere decisi eventuali conflitti normativi tra queste convenzioni e il diritto islamico e quale debba essere l'interpretazione da dare alla sharia, lasciando così ampio spazio discrezionale ai giudici. Ed è poco probabile che il governo centrale rischi la propria legittimità sulla questione femminile, che più volte nella storia del paese ha costituito la scintilla e il pretesto della rivolta sotto la guida del settore religioso.

Il futuro delle donne afgane è ovviamente legato all'evoluzione dello stato. Solo un governo che sia capace di coagulare intorno a sé un largo consenso su un progetto incentrato sullo sviluppo sociale e i diritti umani potrà indebolire la natura patriarcale della società. Affinchè ciò avvenga occorrono due precondizioni, dipendenti entrambe dalla lungimiranza della comunità internazionale: che le condizioni di sicurezza migliorino e che siano fatti investimenti significativi nella ricostruzione delle infrastrutture fondamentali e dei servizi di base. La presenza dello stato potrà essere in tal modo associata a sviluppi positivi nella vita quotidiana della popolazione e quindi legittimata su basi che non siano quelle particolaristiche che hanno caratterizzato tutta la storia del paese.

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