Copertina
Autore Enrico Giusti
Titolo La matematica in cucina
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004, Saggi Scienze , pag. 226, cop.fle., dim. 146x220x15 mm , Isbn 978-88-339-1527-2
LettoreLuca Vita, 2004
Classe matematica , giochi
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Indice


  9 1. Avanti prego, e accendete la luce

 37 2. Acqua calda

 61 3. Spaghetti

 91 4. Arrosto con patate

104 5. Insalata

138 6. Il rubinetto

155 7. Qualcuno vuole il caffè?

180 8. Focaccia per pane

205 9. Lotterie

 

 

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Pagina 9

1.

Avanti prego, e accendete la luce


- E così quando dico «se vinco al superenalotto mi compro una barca e me ne vado ai tropici» faccio della logica?

- Ma se non giochi nemmeno!

- Non gioco perché me l'hai detto tu che le probabilità erano contrarie.

- Ma che t'importa delle probabilità! Mica ci vai con le probabitilà ai Caraibi!


Gli attori di questo bizzarro dialogo erano due giovani tra i venti e i venticinque anni, noti come «i gemelli siamesi», tanto era difficile vederli separati. Si erano conosciuti alle elementari e da allora erano sempre stati insieme; prima avevano frequentato le stese scuole fino alla maturità classica, poi quando le loro inclinazioni li avevano portati a scegliere strade differenti, avevano continuato a passare insieme tutto il tempo che potevano rosicchiare dai loro studi. I loro amici li consideravano la prova inconfutabile dell'unità degli opposti, tanto erano diversi l'uno dall'altro. Il primo, un ragazzo alto, magro e di una bruttezza con pochi uguali, si era dedicato a studi letterari con l'obiettivo dichiarato di fare il giornalista e quello meno esplicitamente ammesso ma non per questo meno noto, di diventare scrittore. L'altro al contrario, piuttosto rotondo e con un viso ancora da bambino, dopo un paio di anni spesi infruttuosamente alla facoltà di economia, era passato a studiare matematica con minore soddisfazione dei genitori che lo avevano già immaginato avviato a una folgorante carriera nell'alta finanza, ma con maggiore suo gusto, più portato a esercitare la sua immaginazione attorno ai problemi astratti della geometria o dell'algebra che a entusiasmarsi per le delizie dei bilanci consolidati. Entrambi trovavano in un periodo della vita in cui non si sa ancora se e come i loro progetti, o forse sarebbe più adatto dire i loro sogni, si sarebbero realizzati nella realtà, un momento in cui la bilancia dell'esistenza si trova ancora in bilico e non riesce a decidersi se pendere dalla parte della fantasia o da quella della routine.

Nel frattempo, quando non erano occupati con gli studi o con altre attività strettamente private, li si poteva vedere discutere animatamente sulle questioni più disparate, che spesso dopo aver oscillato senza una meta precisa, andavano a finire sulla bellezza e sull'importanza delle scelte rispettive, la letteratura e la matematica.

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Pagina 34

- E che c'è di male?

- Forse nel linguaggio comune nulla, e anzi può fare anche comodo lasciarsi la possibilità di distinguere tra un un'affermazione che è vera perché quello che asserisce si verifica, e una che lo è perché le premesse non si sono avverate. Ma in matematica questo ipotetico vantaggio sarebbe ottenuto a un prezzo esorbiante.

- E perché, scusa?

- Perché in matematica molte delle dimostrazioni si fanno «per assurdo». Cioè davanti all'enunciato del teorema si dice: «Supponiamo che non sia vero», e poi da questa ipotesi si tirano tutte le conseguenze logiche, finché si arriva a un'affermazione contraddittoria. A questo punto il teorema è dimostrato. Infatti l'aver supposto che fosse falso ha condotto a una contraddizione; quindi non è falso, e pertanto è vero. Ora questo ragionamento sta in piedi perché come ogni altra proposizione, l'enunciato del nostro teorema può essere o vero o falso; siccome non può essere falso, perché ciò porterebbe a una contraddizione, sarà necessariamente vero. Se invece si ammettesse la possibilità di una terza alternativa, quella di non essere né vero né falso, le dimostrazioni per assurdo crollerebbero, e con esse verrebbe meno uno strumento importante di dimostrazione. Davanti a questa minaccia, i matematici preferiscono tenersi stretti all'alternativa vero-falso, anche a costo di accettare delle conseguenze che possono sembrare un po' dure al senso comune.

- Sarà, ma non mi convince troppo; quantomeno il termine «implica» è scelto male. Mettiamo che il mio gatto miagoli e che io vada al cinema; solo per questo la proposizione «il miagolio del gatto implica che io vada al cinema» sarebbe vera? Ma il termine «implica» sottintende quanto meno una relazione tra i due fatti, se non un rapporto di causa a effetto. Con la tua interpretazione invece si rischia di favorire la superstizione: un gatto nero traversa la strada, tu scivoli, ed ecco che «se un gatto nero attraversa la strada succede una disgrazia» diventa una proposizione vera. Scusami, sai, ma mi pare che stai commettendo un errore classico: post hoc, ergo propter hoc.

- Ammetto che non hai tutti i torti; d'altra parte te l'avevo detto che l'interpretazione matematica dell'implicazione era un po' dura al senso comune. Per fortuna, quando si esce dagli esempi, che quale più quale meno sono tutti artificiali, e si fa sul serio, le cose sono molto più ragionevoli. Infatti se guardi a tutti gli esempi che abbiamo fatto, le proposizioni riguardavano sempre questioni di fatto: il gatto nero traversa la strada, tu vai al cinema, e così via. Ora la matematica non è interessata a questioni di fatto, o meglio, le proposizioni matematiche non sono del tipo che si decidono confrontandole con i fatti. Per essere più chiari, una proposizione del tipo «se questo triangolo è rettangolo, allora il quadrato dell'ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei cateti», che si può decidere andando a misurare gli angoli e i lati del triangolo in questione, non ha nessun interesse in matematica. Quello che conta, è una proposizione generale: «In ogni triangolo rettangolo il quadrato dell'ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei cateti», e questa non si può verificare andando a misurare tutti i triangoli rettangoli; bisogna dimostrarla. E così, anche se tra l'ipotesi «il triangolo è rettangolo» e la tesi «il quadrato dell'ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati del cateti» non ce una relazione di causa ad effetto, non si può negare che le due sono legate da una sorta di necessità logica, che il termine «implica» descrive ragionevolmente bene. Sei convinto?

- Mah, replicò Gianni. E poi, scusa, quando ho detto «se vinco al superenalotto mi compro una barca e me ne vado ai tropici», non sei tu quello che ha risposto «ma se non giochi nemmeno?»

- Io razzolo male.

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Pagina 57

- Un momento. I radiatori di casa o della macchina devono dissipare il calore; invece i pannelli solari devono assorbirlo.

- Ma è lo stesso, che diavolo! come il calore viene diffuso attraverso la superficie, allo stesso modo penetra attraverso la superficie del corpo. Dunque a parità di volume, e naturalmente di materiali, un oggetto che ha meno superficie si riscalda più lentamente, e se è caldo si raffredda più lentamente, di uno con molta superficie. Per esempio, quando entri in un letto freddo, non ti rannicchi tutto, in modo da restare caldo? E quando invece fa caldo, non ci si stende al massimo in modo da raffreddarsi più che si può? Ma di esempi se ne possono trovare quanti ne vuoi, basta guardarsi intorno. C'è anche una legge, che credo che si chiami legge di Allen, che dice che nella stessa specie, gli animali che vivono nell'artico, o in genere in climi più freddi, hanno una forma più tondeggiante, con orecchie e zampe più corte, di quelli dei climi temperati. E questo sempre per lo stesso motivo: conservare il calore. Guarda.

E come al solito si materializzarono due fotografie, una di una volpe artica grassoccia e impellicciata, l'altra di una volpe mediterranea snella e con le orecchie a punta, che Pinotto pose direttamente sotto il naso dell' amico.

- D'altra parte - continuò - chissà quante volte hai avuto occasione di verificare questa semplice verità mentre cucinavi, ovviamente senza accorgertene.


Queste parole colpirono Gianni sul vivo: passi la scarsa conoscenza della matematica (delle fredde formule matematiche, come le chiamava), ma questo accenno al far da cucina senza vedere al di là del proprio naso era particolarmente velenoso, e il nostro amico che la maggior parte delle volte evitava di raccogliere le insinuazioni di Pinotto, stavolta non la lasciò passare, e cominciò a prendere tempo mentre cercava disperatamente di farsi venire in mente una situazione appropriata.

- Lo dici tu che non me ne sono accorto! credi forse che mi metta lì a cucinare senza rendermi conto di quello che faccio? questo magari lo farai tu, che stai sempre a pensare ai tuoi stupidi conti, invece di tenere d'occhio la carne per evitare che bruci.


E qui improvvisamente l'accenno alla carne gli fece balenare qualcosa che ovviamente aveva sempre saputo ma alla quale non aveva mai pensato:

- Prendi per esempio l'arrosto. È chiaro che il tempo di cottura dipenderà dalla forma della carne: una cosa è cuocere un bel pezzo di arista, un'altra fare il rollè. Ci vuole almeno il doppio del tempo.

- Bravo, ci sei arrivato! E ti sei mai chiesto il perché? perché l'arista è un pezzo di carne tozzo, una specie di scaldabagno, mentre il rollè è un tubo, come il radiatore. E quindi ha una superficie molto maggiore dell'arista, e assorbe molto più calore. Non parliamo poi del roast-beef: nel tempo che un chilo di salsicce ci mette a cuocere completamente, un chilo di roast-beef riesce appena a rosolarsi all'esterno, mentre all'interno resta quasi crudo.

- Al sangue come deve essere il roast-beef.

- Naturalmente. E questo vale per tutte le cose che cuociono ricevendo il calore da rutte le parti, cume gli arrusti o i bolliti. Per esempio, i capellini e gli spaghettini cuociono prima degli spaghetti, e le zucchine lunghe prima delle tonde. Ma anche fuori della cucina opera lo stesso meccanismo. Prendi i serpenti.

- Serpenti?

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Pagina 104

5.

Insalata


- Qualcuno crede che sia facile preparare una buona insalata - disse Gianni vedendo Pinotto che entrava in cucina - ma non è vero niente. Preparare un'insalata, questo sì che è facile, ma una buona insalata è diverso. Per prima cosa, bisogna pulirla e lavarla bene, e togliere tutte le parti più dure o meno che freschissime; guai a lasciare anche una sola foglia un po' passata, rovina tutta l'insalata. Poi bisogna usare solo olio, aceto e sale, mai farsi tentare da questi dressing prefabbricati e superreclamizzati. Naturalmente l'olio deve essere rigorosamente di oliva e di prima qualità...

- Extravergine.

- Molto più che extravergine, si deve sapere da dove viene e con che olive è fatto; l'ideale sarebbe farselo da sé, ma anche quello del frantoio può andare, soprattutto se si conosce da dove vengono le olive. Lo stesso vale per l'aceto, che deve essere fatto solo con vino proveniente da uve scelte, e per il sale, che deve essere marino e non rettificato. Naturalmente il sale va sciolto nell'aceto e messo per primo, perché se si comincia con l'olio si ungono le foglie dell'insalata, l'aceto scivola sul fondo, e ti ritrovi con l'insalata che sopra è dolciastra e sotto è tutta aceto. Ma soprattutto bisogna asciugarla bene, anzi benissimo. Non c'è niente che nuoccia all'insalata come l'acqua che rimane attaccata alle foglie e si mescola con il condimento.


Mentre diceva queste parole, Gianni aveva preso dalla madia una centrifuga asciugainsalata e aveva cominciato a caricarla con le foglie di lattuga che aveva lavato e risciacquato a lungo e con attenzione. Una volta finita l'operazione, e stando attento che nessuna foglia sporgesse dal bordo, il recipiente venne chiuso accuratamente con il coperchio e Gianni cominciò a girare la manovella facendo ruotare il cestello per una diecina di secondi. Dopo poco l'apparecchio aveva terminato di girare, e Gianni poté aprirlo e cominciare a estrarre l'insalata perfettamente asciutta: tutta l'acqua, una quantità invero cospicua, era finita sul fondo del recipiente.

Via via che le operazioni procedevano Pinotto, che per qualche tempo aveva mostrato il più assoluto disinteresse, cominciò a osservare quanto accadeva con attenzione crescente, che diventò impazienza quando Gianni, la cui calma proverbiale aumentava in proporzione alla fretta del suo amico, cominciò a tirar fuori l'insalata foglia a foglia, per di più osservandole una a una per vedere, diceva, se tutta l'acqua era effettivamente finita nel recipiente o se non ne fosse restata una parte anche microscopica attaccata alla verdura. Alla fine Pinotto non resse, e dopo aver quasi strappato dalle mani di Gianni il cestello, lo vuotò delle ultime foglie rimaste e si mise a guardarlo girandola da tutti i lati.

- Interessante, molto interessante questo aggeggio.

[...]

- Bravo. Dunque a ogni giro della ruota grande, cioè a ogni giro della manovella rossa, corrispondono sette giri della ruota piccola, cioè sette giri del cestello. E siccome noi possiamo facilmente fare due giri al secondo, questo significa che nell'asciugare l'insalata il cestello farà 14 giri al secondo, giro più giro meno. Sapendo il numero di giri al secondo, non è difficile calcolare l'accelerazione centrifuga utilizzando la formula che avevamo trovato: a = 360 N^2. Nel nostro caso N vale 14, e quindi N^2 è 196 e l'accelerazione è circa 360 X 196 = 70560, cioè più di 70 g. In altre parole, una goccia d'acqua che pesa mettiamo un grammo è come se pesasse più di 70 gr; un peso che non va verso il basso, ma verso l'esterno. Questa forza è così grande che supera la forza di adesione dell'acqua all'insalata, e spinge l'acqua verso la parete esterna del recipiente, al di là del cestello che contiene l'insalata.

- Ma è veramente così grande questa forza?

- Sì, è molto grande. Pensa, per fare degli esempi, che l'accelerazione di gravità su Giove, il più grande dei pianeti del sistema solare, è meno di 3 g, e sul Sole è «appena» 28 g. Una persona non allenata non può sopportare un'accelerazione maggiore di 4-5 g, e anche i piloti di formula 1, che sono molto allenati proprio per resistere alle accelerazioni rilevanti a cui sono sottoposti nelle curve, non superano i 6 g. Insomma con una semplice macchinetta a mano si può generare una gravità più del doppio di quella del Sole.

- Ora capisco perché certa insalata particolarmente tenera viene tutta spezzettata.

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Pagina 119

Non si deve interpretare l'interruzione di Gianni come un segno di insofferenza, e anzi possiamo testimoniare che questa saldatura tra problemi matematici di avanguardia (perché non bisogna dimenticare che anche se ora possono sembrare elementari, e in effetti fanno parte delle conoscenze di uno studente di matematica, magari non proprio all'inizio, nel momento in cui Huygens le applicò all'isocronismo del pendolo le evolventi e le evolute erano un campo di indagine completamente nuovo, ai limiti delle conoscenze matematiche) e innovazioni tecniche lo interessava molto di più dei concetti matematici che Pinotto gli faceva scoprire. Su questo punto, crediamo che avesse torto, perché per citare Abel, anche se non ci sentiremmo di sottoscrivere completamente la sua affermazione, la ricerca matematica si fa «per l'onore dello spirito umano, e da questo punto di vista un teorema sulla teoria dei numeri vale quanto una questione sul sistema del mondo».

In ogni caso, il tentativo di Gianni di riportare il discorso da dove era partito, cioè sulle ipocicloidi ed epicicloidi, era destinato almeno per il momento a fallire. Perché Pinotto continuò imperterrito:

- Tra un momemo. Prima finiamo con la cicloide, che pochi anni dopo fu protagonista di una delle tante sfide che i matematici dell'epoca si lanciavano per mettere alla prova le capacità e i metodi altrui e affermare le proprie. La sfida parti da Johann I Bernoulli, uno dei tanti matematici della famiglia Bernoulli di Basilea. Questa famiglia ha prodotto più matematici di quanti musicisti siano usciti dalla famiglia Bach, al punto che come per i re, bisogna mettere un numero dopo il nome, se no si confondono. Johann I Bernoulli, insieme al fratello Jacob, fu uno dei primi a capire e impadronirsi del calcolo infinitesimale, che era stato scoperto nella seconda metà del Seicento da Newton e da Leibniz.

- Il filosofo?

- Certo, il filosofo. Ma spesso i testi di filosofia ignorano questo aspetto, come succede anche per la Geometria di Descartes, o di Cartesio come si diceva un tempo, quando i nomi delle persone venivano tradotti da una lingua all'altra. Tra l'altro Cartesio è un'italianizzazione dal latino Cartesius, ma in italiano si diceva spesso «il signor Delle Carte», o anche più familiarmente Renato. Ma torniamo a Johann Bernoulli, perché se entriamo in questi discorsi non finiamo più.


Questo proposito non poté non incontrare l'approvazione di Gianni, che stava preparandosi a rintuzzare l'attacco del suo amico alla filosofia, ancorché nella sembianza dei testi scolastici, e che per amar di brevità rinviò a momenti migliori la sua difesa.

- Dopo l'invenzione del calcolo, ci fu per un breve periodo una certa tensione tra i matematici. Da una parte erano schierati i difensori delle nuove dottrine, che per la verità lasciavano alquanto a desiderare quanto al rigore dei fondamenti, e dall'altra un fronte camposito che includeva i cartesiani, rimasti ancorati ai metodi algebrici della geometria di Cartesio, insieme ai matematici puristi, che attaccavano gli uni e gli altri in nome della chiarezza e del rigore dei metodi della geometria classica. Così non era raro che da una parte e dall'altra si scambiassero vere e proprie sfide sotto la forma di problemi da risolvere. Per esempio Vincenzo Viviani, un matematico fiorentino che era stato allievo di Galileo, e che difendeva strenuamente la geometria classica sosteneva che il calcolo infinitesimale fosse una specie di gioco di prestigio, e che quelli che lo usavano se ne servivano per stupire i gonzi, ma in realta potevano risolvere solo i problemi che essi stessi avevano posto. E per dimostrare quanto asseriva fece distribuire in tutta Europa un problema geometrico, che poi ha preso il nome di «finestra di Viviani», invitando i matematici a risolverlo. La sfida di Viviani, che venne diffusa addirittura per via diplomatica, arrivò tra gli altri anche a Leibniz, che risolse il problema immediatamente e fece stampare subito un foglio con la soluzione, che mandò il giorno stesso al Granduca di Firenze. Ora, tornando a Bernoulli, nel 1696 propose il problema della linea brachistocrona, cioè della linea di tempo minimo.

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