Copertina
Autore Sergio Givone
Titolo Il bibliotecario di Leibniz
SottotitoloFilosofia e romanzo
EdizioneEinaudi, Torino, 2005, Biblioteca 208 , pag. 212, cop.fle., dim. 135x208x13 mm , Isbn 978-88-06-17805-5
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe filosofia , critica letteraria
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Indice

VII Premessa
XII Avvertenza

    Il bibliotecario di Leibniz


    Parte prima   Filosofia

    I.  Il bibliotecario di Leibniz
  5     Tutti i libri del mondo
 10     La sola storia vera

    II. Andata (all'inferno) e ritorno
 17     Ritornare dove?
 21     Le molte forme della follia
 28     La potenza che obbliga al rito

    III.La storia della verità
 32     Apocalisse per uno spettatore solo
 37     Demonismo senza contenuto
 44     L'ospite

    IV. La storia dell'errore
 49     «Guai a chi non ha casa!»
 53     Quel baccano indiavolato

    V.  Il libero dispiegarsi degli eventi
 59     Tempo e (è) follia
 67     «Io sono chi mi pare»

    VI. Figure, pieghe e margini
 78     Pensare insieme l'eternità e la morte
 87     Che cosa si cerca nel tempo perduto?
 96     Postilla sul dono

    VII.Perché raccontare?
102     Il linguaggio come specchio del mondo
113     Scrittura fra le scritture
119     Il concetto, la storia e le storie

    Parte seconda   Romanzo

    I.  Profilo
131     Prima che il mondo diventasse favola
133     Economia della disperazione
136     Formarsi alla scena
138     Interiorità tutta d'imitazione
141     Ipertrofia della coscienza
144     L'infinita barbarie dell'io
146     Memoria dell'eterno sepolto in noi
149     «Il pensiero attraverso i miei occhi»
152     Quale salvezza?

    II. Schede
155     Vangelo secondo Marco
161     Bartleby
165     Delitto e castigo
168     Nella colonia penale
172     La repubblica dei sogni
175     L. T. I.
178     Cancroregina
184     Invito a una decapitazione
189     La casa delle belle addormentate
192     Il Giorno del Giudizio
196     La notte dell'oracolo
201     Elizabeth Costello

205 Riferimenti bibliografici


 

 

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Pagina 5

Capitolo primo

Il bibliotecario di Leibniz


Tutti i libri del mondo.

Nella biblioteca c'erano tutti i libri possibili e immaginabili. Ossia tutti quelli che erano stati scritti e anche tutti quelli che avrebbero potuto esserlo. Siccome si trattava evidentemente d'una biblioteca dell'altro mondo, il bibliotecario, che nessuno disturbava mai, ebbe modo di leggersi l'intera collezione. Non solo, ma poté anche esprimere delle valutazioni di merito, procedere a opportune comparazioni e fare delle scelte. Addirittura giunse a indicare, fra tutti, il libro che meglio di qualsiasi altro raccontasse come stavano le cose. Quaggiú, naturalmente, in questo mondo.

Il senso della favola è in tutto e per tutto leibniziano — e infatti chi se non Leibniz, come avrebbero ben visto Deleuze e prima di lui Borges, non cessò mai di vagheggiare quel modello di biblioteconomia totale, tracciandone variamente e a piú riprese la figura, e ricorrendo ad essa nei punti cruciali della sua opera? A tal proposito bisogna ricordare che verso la fine della sua vita Leibniz scrisse un frammento sull'apocatastasi e cioè sulla reintegrazione finale di tutte le cose. In questo frammento, Apokatastasis panton, destinato a rimaner sepolto nella Niederschsische Landesbibliothek di Hannover (una delle biblioteche che Leibniz aveva curato prendendo a modello quel suo bibliotecario ideale) dal 1715, anno della sua redazione, al 1921, anno della sua scoperta, si legge: «Definiri potest Numerus omnium librorum possibilium determinatam magnitudinem non excedentium ex vocabulis significantibus vel non significantibus constantium, qui proinde etiam omnes Libros sensum habentes comprehendet». È dunque possibile secondo Leibniz stabilire il numero di tutti i libri possibili che non eccedano una certa grandezza: tale numero comprenderà anche tutti i libri dotati di senso. E se il numero di tutti i libri possibili è un numero finito - cosí argomenta Leibniz - posto che tra di essi ci siano anche libri che ci dicono come va il mondo (non potrebbero non esserci), a un certo punto della storia universale tutte le forme di esistenza che i singoli libri descrivono saranno esaurite. Non resterà che ricominciare da capo. Diremo perciòche la storia universale è destinata a ripetersi infinitamente o almeno a ripetersi finché ci sarà storia? Leibniz dissente anticipatamente da un'idea del genere - quella che come sappiamo prenderà la figura dell'eterno ritorno dell'eguale. Secondo Leibniz nella storia (in ogni storia) ci sono dei salti, dei varchi, dei momenti di sospensione, ed è lí che si nasconde Dio, pronto ad agire secondo un suo disegno lungimirante. Ciò che sembra un continuum in realtà è un discretum. Al punto che l'apparente ripetizione dell'identico non impedisce lo sviluppo di piccolissime virtualità nascoste. «E per questa ragione potrebbe avvenire che le cose, gradualmente per quanto impercettibilmente, progredissero verso il meglio in seguito a rivoluzioni». Conclusione: nulla vieta di pensare che la circolarità della storia si tramuti in una spirale che ascende verso l'apocatastasi.

Naturalmente per pensare questo, e cioè per pensare che il grande bibliotecario in persona intervenga nella storia e ne sprigioni quell'«impercettibile» da cui essa riceve la spinta verso un futuro tutto nuovo, autenticamente libero e non ripetitivo - per pensare questo bisogna mettere in campo forme di conoscenza alquanto complesse e soprattutto diverse, come Leibniz aveva fatto nella Teodicea. Leibniz dalle molte competenze disciplinari: di lui si tratta, di lui giurista, economista e teologo allo stesso tempo. Nella biblioteca arcana e sublime che è la mente di Dio - cosí ragionava Leibniz - non può non esserci il libro che racconta la storia del mondo quale è accaduta veramente, la sola storia vera, che è poi la sola storia vera in quanto è la sola che, da possibile che era, sarebbe dovuta diventar reale. Se questa storia non esistesse, almeno come possibilità, se essa non fosse da qualche parte, per esempio nella mente di Dio, Dio non sarebbe Dio. Ma Dio è Dio, e dunque il libro c'è. E poiché c'è, Dio non può non averlo «letto» come quello che non è soltanto un libro, ma infinitamente di piú che un libro: ossia realtà, mondo, la storia del mondo secondo verità. Alla base della scelta di Dio infatti c'è un principio interamente volto a ottenere il massimo vantaggio, ossia il massimo bene, al minimo costo, quindi con il minimo male.

La sola obiezione ragionevole - è sempre Leibniz a suggerirla - è di ordine economico piuttosto che giuridico o teologico, ed è che il nulla sembra garantire un tasso di economicità maggiore rispetto al mondo cosí com'è, nonostante si abbia a che fare, evidentemente, con il migliore dei mondi possibili. Dove c'è qualcosa, c'è inevitabilmente spreco residuale, c'è discrepanza e asimmetria fra ciò che è bene e ciò che bene non è, e anzi, è male, benché male necessario. Il che è vero. Ma vero è anche che il nulla è il nulla. Ossia qualcosa di infinitamente povero e misero rispetto all'essere. Del resto, qualcosa c'è. Tanto basta per togliere di mezzo il nulla e la sua pretesa economicità. Ristabilendo l'essere sul suo fondamento. Se qualcosa c'è, ha la sua ragion d'essere. E dove convergono tutte le ragioni delle cose, se non nel fatto che Dio ab origine le ha concepite e volute?

Una mossa davvero magistrale. Non solo il disordine e il male vengono riportati a un piú alto punto di vista, che è il punto di vista di Dio: Dio che si comporta da Dio, Dio che agisce in conformità della sua natura e opera in funzione del bene scegliendo ciò di cui non potrebbe darsi niente di meglio. Ma lo stesso gesto divino, che giustifica la divinità e l'assolve dall'accusa di corresponsabilità nel male, scopre nel fondo dell'essere una specie di doppiofondo. Tutto ciò che è, è giusto che sia, è bene che sia; ma che sia, è dovuto al fatto che Dio l'ha voluto, l'ha scelto, l'ha tratto fuori dal nulla liberamente. Sia pure il fondamento del mondo tutt'uno con la sua ragion d'essere, dunque col dover essere cosí e non altrimenti, tuttavia il mondo esiste in forza di una decisione divina. Se Dio non avesse deciso di trarre il mondo dal nulla in modo perfettamente razionale, perfettamente legittimo, ciò che appunto lo giustifica, il mondo non sarebbe. Ecco il doppiofondo. Fondamento di ciò che è è la sua ragion d'essere. Ma fondamento del fondamento è la libertà. Appeso com'è a una decisione e quindi a un atto libero di Dio, il mondo è fondato sulla libertà.

Perciò il mondo è la storia del mondo. In quanto realtà metafisica, o idea eterna, o manifestazione della necessità, il mondo non potrebbe avere storia. Ma non potrebbe neppure averla se fosse puro evento, frutto del caso, gratuità senza scopo, regno della libertà e basta. Il mondo è la storia del mondo a misura che è libertà e insieme necessità. Anzi, lo è a partire dal momento in cui la necessità in tutte le sue forme (fatalità, legge di natura, destino del vivente, ecc.) cade dentro la libertà, ossia diventa cosa dell'uomo o quantomeno qualcosa di cui l'uomo è chiamato a rispondere - esattamente come Dio è chiamato a rispondere del mondo che lui ha evocato e creato liberamente, ma nondimeno secondo ragione e quindi secondo necessità. Teatro di una paradossale vicenda che obbliga i protagonisti a farsi responsabili di ciò che tocca loro in sorte e che comunque ha la sua ragion d'essere, il mondo si fa storia, non è se non la sua storia.

Secondo Leibniz, però, l'unica storia possibile. O meglio, l'unica realmente possibile. Quella in cui possibilità e realtà vengono a coincidere. Ed è la variante leibniziana dell'argomento ontologico. Siccome nulla vieta di immaginare un mondo che sia non già perfetto ma, nonostante le sue imperfezioni e anzi in forza di queste, il migliore fra tutti, tale mondo esiste necessariamente. Dio non può non sceglierlo, non può non volerlo. Se agisse diversamente, non farebbe che negare se stesso. Il che è assurdo. Certo, l'idea di una scelta necessaria, l'idea di una volontà che vuole ciò che non può non volere, è al limite della contraddizione. Ma è proprio in questa idea che vediamo all'opera i tre principi (economico, giuridico, teologico) e soprattutto il «principio dei principi», che tutti li governa, e tutti riporta a sé, ossia il principio di ragione.

Ebbene, nel mondo i conti tornano. I benefici ripagano ampiamente i costi. Quanto si riferisce al segno «meno» rappresenta un'inezia o comunque un esborso ragionevole rispetto al segno «piú», al punto che perfino il nulla, cosí sobrio, cosí pulito, e soprattutto cosí perfettamente in pareggio, deve cedere di fronte all'essere. Questo dice il principio di economicità. Ed è come dire che il mondo ha senso. Ossia che tutto ciò che è, è giusto che sia. Nel rispetto del principio giuridico di legittimità. Attenendosi al quale, Dio lo trasforma nel principio teologico della giustificazione. Come imputare a Dio alcunché, cominciando dal male che è nel mondo, se Dio non ha fatto altro che rispettare i criteri deducibili dal principio di ragione? Una trama segreta ma luminosa tiene insieme tutti gli eventi che accadono nel gran teatro del mondo e ne rappresentano la storia. La sola storia vera. Quella che il grande bibliotecario conosce perfettamente. E che perciò trae fuori dal nulla, o meglio dalla sua mente come già preformata, in forma di romanzo. «[...] ce Roman de la vie humaine, qui fait l'histoire universelle du genre humain, s'est trouvé tout inventé dans l'entendement divin avec une infinité d'autres, et que la volonté de Dieu en a decerné seulement l'existence, parce que cette suite d'evenements devoit convenir le mieux avec le reste des choses pour en faire resulter le meilleur» (Essais de théodicée, ed. Gerhardt, VI, p. 198).

Leibniz però si guarda bene dal raccontarla questa storia, evita di scriverlo, il «romanzo». Per farlo, intanto, dovrebbe mettersi al posto di Dio. Quantomeno identificarsi col grande bibliotecario - cosa che contraddice il presupposto dell'intero ragionamento, cioè che non solo l'uomo non è Dio, ma Dio non è l'uomo. E poi nel momento in cui la storia venisse effettivamente raccontata, il paradosso che ne rappresenta il punto di forza perderebbe significato e trascinerebbe nell'insensatezza e nell'assurdo la storia stessa. Che storia può mai essere quella che, risultando in definitiva la sola realmente possibile, ricaccia tutte le altre nella dimensione dell'irrealtà, della finzione senza verità? Ed è ancora storia, una storia che si sviluppa necessariamente e ad ogni snodo non fa che mostrare come il negativo si converta nel positivo nonostante le apparenze? Non è, puramente e semplicemente, la realtà, la realtà che non ha ragion d'essere se non com'è, e dunque tutto è meno che storia? D'accordo, quella storia presupposta come vera è pur sempre una storia, non fosse che per il fatto di essere una storia fra tutte le altre possibili, e soprattutto per il fatto di essere oggetto di una scelta, e quindi qualcosa che ha a che fare con la libertà, che è ma poteva non essere - ciò che darebbe a tutte le altre storie una certa legittimità, visto che il loro muto star lí attesta inconfutabilmente la loro indegnità rispetto alla sola degna di essere. Ma ciò conferma che la storia è storia unicamente se accanto ad altre storie: e infatti i libri sono li, nella grande biblioteca, ad attestare che la storia del mondo è storia in quanto infinite altre avrebbero potuto sostituirsi o subentrare ad essa. Raccontare la storia del mondo come se fosse la sola e di conseguenza abrogare le storie al plurale proprio non ha senso. Pena l'identificazione della storia del mondo con il mondo: ossia con un tutto solido, compatto, intrascendibile, privo di crepe e fratture entro cui spiri il vento dell'infinito. E della libertà non resterebbe che l'ombra di un'ombra.

Leibniz si astiene dal compiere un passo che risulterebbe fatale.


La sola storia vera.

Eppure ci sarà, a distanza di qualche decennio, chi prenderà Leibniz alla lettera. E si installerà nella biblioteca che è la mente di Dio. Donde trarrà fuori quel singolarissimo volume che è la storia universale in forma filosofica. Ossia la sola storia vera, la sola storia reale. Costui è Hegel.

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Pagina 78

Capitolo sesto

Figure, pieghe e margini


Pensare insieme l'eternità e la morte.

Sostiene Ricoeur: fra l'attività di raccontare una storia e il carattere temporale dell'esperienza umana c'è una correlazione essenziale, necessaria. Infatti il tempo - è lo stesso Ricoeur a precisare questa sua «ipotesi di base» in Tempo e racconto — diviene tempo umano in quanto declinato secondo paradigmi e stilemi narrativi, mentre non c'è racconto che non trovi il proprio significato nel fatto di essere una condizione dell'esistenza temporale.

Di per sé il tempo è una realtà indipendente dall'uomo, cosí come il racconto può essere definito nei suoi tratti peculiari prescindendo dal tempo. E quanto si vede esemplarmente in Agostino e in Aristotele. Che Agostino sviluppi i suoi celebri paradossi sull'esperienza del tempo è cosa che riguarda l'uomo, la percezione che l'uomo ha di sé nel mondo, ma non il fatto che la sua esistenza sia oggetto di racconto. Sappiamo quali siano, tali paradossi: il tempo non è mai quello che è, non è presente quando è presente, non è passato quando è passato, e quindi pretendere di misurarlo è come pretendere di misurare ciò che si sottrae a qualsiasi misura, tanto piú che l'anima, per un verso è assoggettata al tempo, per l'altro ha la possibilità di mettere ordine nel contraddittorio flusso temporale abbracciandolo tutt'intero e quindi dominandolo, assoggettandolo. Ciò tuttavia non ha direttamente a che fare con il concetto di narrazione autobiografica, né l'idea agostiniana di filosofia come autobiografia (le Confessioni) è ricavabile da quei paradossi, quasi ne rappresentasse la sola risposta possibile. A sua volta, che Aristotele ponga alla base della sua Poetica un concetto temporalmente determinato qual è quello di imitazione, non solo non comporta alcun riferimento alla rappresentazione che la fisica dà del reale, ma semmai la sospende o la stravolge. È bensí vero che l'imitazione è anzitutto imitazione di azioni che per loro natura scorrono lungo l'asse del tempo, ma azioni il cui contenuto è il mito, vale a dire il racconto scandito come intrigo, come peripezia e come agnizione. La poetica e la fisica appartengono a due regioni ontologicamente separate. Perciò la poetica, dove il tempo tesse l'ordito di eventi che sono per l'uomo senso, valore e destino, non rinvia alla fisica, dove invece il tempo è misura del movimento dei corpi nello spazio. E tuttavia sia in Aristotele sia in Agostino, benché da punti di vista lontanissimi e difficilmente confrontabili, viene in luce e si impone come la cosa decisiva qualcosa che né l'uno né l'altro mettono espressamente a tema: ossia il farsi tempo umano del tempo.

Il tempo diviene tempo umano in virtú dell'esperienza che l'uomo fa del tempo. Ma l'uomo fa esperienza del tempo essendo l'esperienza nient'altro che temporalità. Donde un circolo vizioso. Il che è tanto piú evidente se si pensa che, da una parte, l'uomo fa esperienza del tempo raccontando l'accaduto e cioè disponendo gli eventi secondo l'ordine di una narrazione possibile, ma dall'altra gli eventi sono già da sempre fatti di materia narrativa, sono già narrazione in quanto tali. Non solo. Per quanto racconto di finzione e storiografia vengano rigorosamente distinti, com'è giusto, tuttavia essi presentano una sostanziale identità di struttura: sono cosa umana e soltanto umana, né la storia naturale vi si confonde in alcun modo, e infatti non può mai essere racconto di finzione o storiografia, mentre è vero che la storiografia è sempre almeno un po' racconto di finzione e viceversa.

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Pagina 102

Capitolo settimo

Perché raccontare?


Il linguaggio come specchio del mondo.

Un'idea s'insinua nel corpo del pensiero contemporaneo e inevitabilmente lo disarticola, anzi lo spacca, come infatti è accaduto. Da una parte un'ontologia identitaria e monistica, per cui la realtà è quella che è ed è compito delle scienze descriverla, via via scoprendola, portandola alla luce. Alla filosofia non resta che dichiarare finito il suo compito. Prendere atto della sua inattualità. E scivolare dietro le quinte, come chi ha fatto la sua parte e non ha piú niente da dire. Dall'altra un'ermeneutica della differenza e della contraddizione, per cui il senso della realtà si mostra negli opposti come altro da sé, non solo inesauribile, ma capace di negarsi. Estasi della filosofia. Affacciata sul mondo della vita, la filosofia né lo rispecchia né tantomeno lo produce. Semmai lo interroga. Assecondando l'infinito trascorrere delle sue forme.

In questione è il rapporto della verità con il tempo. Dove non si tratta di decidere se la verità sia figlia del tempo (storicismo classico e materialismo dialettico) o madre del tempo (idealismo, spiritualismo, esistenzialismo). Ma se sia sensato dire che la verità è la verità e tuttavia diviene. Identica a se stessa, una e soltanto una: altrimenti non sarebbe la verità. E però in divenire. Ossia evento, nient'altro che evento, e per giunta evento che differisce da qualsiasi altro evento l'abbia preceduto. Poniamo che sia sensato dirlo. Allora il senso della verità sarebbe che esso è riconoscibile in proposizioni antitetiche. C'è verità là dove si sostiene ad esempio che il mondo ha senso e c'è verità là dove si sostiene che il mondo non ha senso.

Su un'ipotesi del genere (quella che appunto viene delineandosi nell'opera di autori come Ricoeur, Deleuze, Derrida, come s'è visto) pende il piú antico interdetto filosofico. «Tu non penserai l'impensabile». Ossia: «Tu non penserai l'essere che è e insieme l'essere che non è, tu non penserai l'essere che diviene, pena la contraddizione e dunque il totale oscuramento della verità». E che cos'altro è l'ammonimento di Wittgenstein a tacere su ciò che non si può dire sensatamente, se non l'ultima riformulazione dell'interdetto parmenideo? Con una differenza. L'interdetto di Parmenide inaugura la metafisica, ossia il pensiero che pensa l'essere. L'interdetto di Wittgenstein con la metafisica non ha piú nulla a che fare. E la scienza, non è la metafisica, che pensa l'essere, la realtà. Con ciò la filosofia ha risolto il suo problema: sa a chi deve passare il testimone. Non le resta che prendere congedo.

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Pagina 131

Capitolo primo

Profilo


Prima che il mondo diventasse favola.

Completamente fuori di sé, e tuttavia sprofondato in se stesso, vittima delle proprie allucinazioni — ecco don Chisciotte. È bastato distrarsi un po', lasciarsi andare, e Alonso Quijano «un tempo soprannominato il Buono» non è piú lui. Tutta colpa, come si sa, della sua smodata passione per la lettura dei libri di cavalleria. Cui si dedica con tale trasporto che presto «la fantasia gli si empí di tutto quello che leggeva nei libri, sia d'incantamenti, che di contese, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste ed altre impossibili assurdità; e gli si ficcò in testa a tal punto che tutta quella macchina d'immaginarie invenzioni che leggeva fossero verità, che per lui non c'era nel mondo altra storia piú certa».

Una specie di doppio senso confonde il protagonista di quello che può essere considerato il primo romanzo moderno. Quanto piú il mondo si fa per lui, sognatore irrecuperabile, miraggio, tanto piú esso appare verosimile e carico di molti segreti nascosti, e viceversa quanto piú il sublime e lo straordinario lo inquietano, tanto piú lui, povero demente, si smarrisce nella sua estasi fantasticante. Ne è una riprova la necessità di dar nuovi nomi alle persone, agli animali e perfino alle cose. Quijano diventa don Quijote de la Mancha, in attesa d'essere incoronato quantomeno imperatore di Trebisonda, Aldonza Lorenzo, un tempo da lui amata in incognito, è ora Dulcinea del Toboso; il ronzino fino a quel momento anonimo vien chiamato Ronzinante, e cosí via. Ma non tanto di un nuovo battesimo si tratta, o di una rigenerazione, quanto di un'anamnesi che da profondità immemoriali trae fuori significati già da sempre lí, ma finalmente riconosciuti e compresi. Di modo che il quotidiano sia consegnato alla favola. E dunque liberato dalla banalità e dall'insignificanza, poiché la favola è piú vera del vero.

Quali siano queste profondità immemoriali, naturalmente nessuno può ancora dire, e dunque non solo non lo può don Chisciotte, ma neppure Cervantes, semplicemente perché mancano le parole per dirlo. L'io: che cos'è l'io? Certo per la grammatica è un pronome, un sostantivo. Ma l'emancipazione del soggetto dal tessuto del linguaggio fino al suo farsi principio psichico non soltanto autonomo, ma produttivo di senso e di realtà, è un processo ancora agli inizi. Se la teologia aveva pensato l'anima in opposizione al mondo, seme divino messo a germogliare nel mondo ma per trovare infine il compimento del suo destino nel luogo della sua provenienza, ossia nell'aldilà, adesso letteratura e filosofia (la letteratura prima e la filosofia poi) lavorano a ristabilire un nesso non meramente antitetico fra l'anima e il mondo. E se il mondo fosse cosa dell'anima? Se l'anima fosse la scaturigine del mondo? Sono domande che daranno da pensare nei secoli a venire. Episodio non secondario di questa vicenda, la vita di don Chisciotte. Ma che cosa ne sa l'«ingegnoso hidalgo» di quel che gli sta accadendo, di quel che in lui si annuncia e prende forma? La concezione chisciottesca dell'anima è in tutto e per tutto quella che la tradizione teologica ha elaborato - e Cervantes la fa sua, non importa se in funzione romanzesca o per intimo convincimento. L'anima, o la si perde o la si salva. La si perde lasciando che il mondo la seduca e la catturi con i suoi raggiri, le sue illusioni, le sue chimere. La si salva ridestando in essa la memoria di ciò a cui è destinata. Come la stessa ragione, che è cosa divina, indica.

Alla fine della sua vita (alla fine del libro della sua vita) don Chisciotte ritrova la ragione e, con la ragione, la salvezza dell'anima - quella salvezza che è tutt'uno con il solido ancoraggio della mente alla realtà terrena. A don Chisciotte lo insegna, molto paradossalmente, la morte. «Quelle [pazzie] fatte finora - replicò don Chisciotte - e che sono state cosí vere a mio danno, la morte le muterà, con l'aiuto del cielo, in mio profitto. Io sento, signori, che me ne vo morendo rapidamente: mettano da parte gli scherzi, e mi facciano venire un confessore che mi confessi e un notaio che mi scriva il testamento; che in momenti come questi l'uomo non deve scherzare con l'anima; prego perciò che intanto che il signor curato mi confessa vadano a chiamare un notaio». Il male che uccide don Chisciotte è la malinconia; ma piú profonda della malinconia, che punisce colui che ha creduto nel mondo togliendogli il senno, e con il senno la pace, è la presa di coscienza del proprio smarrimento. A chi tocca in sorte di «morire saggio e vivere pazzo», la morte, leggiamo nell'epitaffio funebre del cavaliere, non può nuocere neppure con la morte. Semmai può accadere l'opposto.

Intanto però se Alonso Quijano si libera di don Chisciotte, don Chisciotte si libera di Alonso Quijano. E vive per sempre quella sua vita favolosa della quale nessuna appare «piú vera». Don Chisciotte non ha alcun bisogno di rientrare in se stesso. Il suo sé piú intimo è nel mondo e il mondo è l'espressione del suo sé piú intimo: errante è il cavaliere. Senza fine il movimento dall'interno all'esterno e dall'esterno all'interno. Parafrasando sant'Agostino diremo che per don Chisciotte (e non per Alonso Quijano, naturalmente) il mondo è piú intimo a lui di quanto lui non lo sia a se stesso.

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