Copertina
Autore Franck Goddio
CoautoreChristoph Gerigk [fotografie]
Titolo Egitto. Tesori sommersi
EdizioneAllemandi, Torino, 2009 , pag. XXX+364, ill., cop.fle., dim. 24x28x2,7 cm , Isbn 978-88-422-1729-9
CuratoreFranck Goddio, David Fabre
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe paesi: Egitto , storia antica , fotografia , mare
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Indice


    I. LA REGIONE E LA SUA STORIA

  2 Siti riscoperti
 25 La storia di Alessandria e dell'area circostante


    II. RELIGIONE E CULTI

 34 Miti e leggende

 38   Un vaso che dà speranza per la vita eterna.
      L'Osiride,Canopo
 45   Di nuovo insieme dopo decenni di separazione.
      Iside e Harpocrate
 57   Grigio come l'alveo fertile. Il padre Nilo
 63   Dall'osservazione astronomica alla mitologia
      e all'astrologia. Il Naos delle Decadi

 67 Dei, dee e regalità faraonica

 76   Colossale e fertile. Hapi, l'inondazione del Nilo
 92   Più grande del vero. Una coppia di sovrani tolemaici
 97   Una bellezza dalle profondità. La regina nera
100   Bella come Afrodite. Una regina tolemaica
110   Proclamare le buone azioni di un sovrano.
      La stele di Tolomeo VIII

114 Culti e rituali
116   Oro per la dimora degli dei.
      Piastra di fondazione di Tolomeo III
136   Il timore di un contatto proibito.
      Sacerdote con Osiride-Canopo
150   Un garante di fertilità. Serapide e il calathos

170 Monasteri e botteghe
176   Testimonianze della presenza islamica. Le monete


    III. CITTÀ, PORTI E PALAZZI

195 Heracleion-Thonis: stazione doganale ed Emporion
202   Che sia riconoscibile a tutti.
      La cresta decorativa dell'elmo di Atena
212   Una straordinaria coppia di gemelle.
      Le stele del faraone Nectanebo I
217 Excursus: Alessandria, il pilastro del commercio mondiale
220 Excursus: Le monete
222 La vita quotidiana nella regione canopica
232   Il profumo degli dei. Un incensiere
240 Excursus: I ritrovamenti di oggetti in metallo
              a Heracleion-Thonis
241 Excursus: la lavorazione dei metalli in Egitto
242 Il Portus Magnus di Alessandria
252   Lo spirito buono che vigila sulla città e sul paese.
      L'Agathodaimon


    IV. DALLO SCAVO ALLA MOSTRA

258 Il restauro e la conservazione


    V. CATALOGO

268 Canopo
280 Heracleion
320 Alessandria


    VI. APPENDICI

330 Cronologia
334 Dei e dee
336 Glossario
340 Note
345 Bibliografia
360 Gli autori


 

 

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Pagina XX

Alessandria, Canopo, Heracleion-Thonis...

Restituite perfette dal mare

Franck Goddio


Nel luglio del 1984, quando fui invitato a prendere parte agli scavi che dovevano portare alla luce i resti della nave ammiraglia della flotta di Napoleone, L'Orient, affondata dall'ammiraglio Nelson nella baia di Abukir, le mie prime immersioni archeologiche segnarono l'inizio di una straordinaria avventura scientifica. Il sito di questa epica disfatta della storia francese avrebbe infatti svelato le meraviglie delle città perdute dell'antico Egitto. Situate a nord-est di Alessandria a coprire un'area di considerevole estensione, le acque relativamente poco profonde della baia di Abukir avevano celato monumenti e vestigia di qualcosa che fino a quel momento conoscevamo soltanto attraverso generici indizi. La copiosa letteratura, la documentazione epigrafica e papirologica, le testimonianze dei primi esploratori e le informazioni archeologiche fornite dal Consiglio Superiore delle Antichità d'Egitto lasciavano supporre che potessimo aspettarci molto da questa regione. Canopo, Thonis, Heracleion... benché nei secoli i nomi di queste città, giunti fino a noi dai testi antichi, avessero dato origine a un immaginario di grandi splendori, gli archeologi non erano mai riusciti a localizzarle. Anche nel caso della stessa Alessandria, del resto, le mappe dell'antico Portus Magnus si erano rivelate puramente teoriche, e per delineare i contorni precisi del grande porto cittadino era stato necessario partire da zero.

Il potenziale storico rappresentava per me la più eccitante delle sfide, avendo per giunta ereditato da mio nonno - il navigatore Eric de Bisschop - la passione per le avventure marine e sottomarine. Per risolvere il mistero delle città perdute d'Egitto e intraprendere un'esplorazione finalizzata allo scopo, nel 1987 fondai l'Institut Européen d'Archéologie Sous-Marine (IEASM Istituto Europeo di Archeologia Sottomarina). Si tratta di un'organizzazione indipendente sostenuta da finanziamenti privati, il cui obiettivo è quello di localizzare siti archeologici non ancora individuati e condurvi degli scavi, nonché di studiare, restaurare e presentare al pubblico i reperti rinvenuti. La mia esperienza di consulente economico al servizio delle Nazioni Unite e di vari governi mi ha consentito di raccogliere risorse finanziarie e di creare un team multidisciplinare di sommozzatori archeologi professionisti, di esperti nel restauro e di ricercatori, e allo stesso tempo convincere i governi dei Paesi interessati ad autorizzare la conduzione di scavi subacquei.

Lo IEASM iniziò le sue attività in Egitto nel 1992, nel Portus Magnus, optando per un approccio scientifico già sperimentato durante l'esplorazione del relitto del San Diego, al largo delle coste filippine. Inoltre, erano stati messi a punto nuovi metodi di lavoro, adatti a un bacino di acque estremamente inquinate e soggette a un'intensa sedimentazione naturale. Le ricerche hanno prodotto risultati inattesi. Sulla base delle testimonianze di antichi autori greci e latini e di una serie di scoperte precedenti, è stato possibile redigere una mappa dettagliata del porto orientale di Alessandria e del suo circondario, nonché studiare la struttura delle installazioni e degli edifici un tempo ubicati nei pressi dei palazzi.

Con il sostegno, sin dal 1996, della Fondazione Hilti, i progetti dello IEASM in Egitto si sono poi concentrati anche sulla baia di Abukir. Come già nel caso del porto orientale di Alessandria, il programma archeologico aveva come obiettivo quello di determinare la precisa topografia delle porzioni oggi sommerse dell'antica Canopo, ed era inoltre mirato a compiere esplorazioni geofisiche e geologiche che avrebbero assunto maggior significato grazie ai dati archeologici derivanti dagli scavi. Lo studio ha consentito di determinare i confini della regione di Canopo attualmente sotto le acque, di localizzare i principali oggetti archeologici e di tracciare il corso dell'antico ramo occidentale del Nilo. È nell'area sommersa che, secoli or sono, le città di Canopo e Heracleion-Thonis, citate nei testi antichi, conobbero la prosperità. Una dopo l'altra, le immersioni effettuate dai membri del team hanno fatto sì che la coltre di mistero caduta su queste città perdute dell'Egitto si diradasse sempre di più. Poco alla volta, sono stati svelati sedici secoli di una storia tra le più ricche del mondo Mediterraneo.

Sono state scoperte opere straordinarie, di Alessandria, di Canopo e di Heracleion: la statua monumentale del dio Hapi, il corpo senza testa di Ermete, i resti di una sfinge, la statua di un sacerdote che delicatamente regge un vaso canopico simbolo di Osiride, strumenti rituali, statuette e gioielli d'oro... Ognuna di queste scoperte fa storia a sé. Tutti i membri del team si sono immersi nelle tenebre sotto-marine per ammirare l'incredibile statua di una regina ritratta con gli attributi di Iside-Afrodite. O la stele di Nectanebo, che, svettante negli abissi della baia di Abukir, costituiva, a un tempo, un messaggero del passato e una fonte di preziose informazioni scientifiche, ed era intrigante come il monolito nero di 2001 Odissea nello spazio. È con grande orgoglio che abbiamo condiviso con gli egiziani i retaggi della loro civiltà. Per le strade di Abukir e di Alessandria, sulla via lungo la quale le gigantesche statue del re e della regina venivano trasportate al deposito, abbiamo assistito a scene di giubilo certamente simili a quelle che nell'antichità dovevano verificarsi per l'erezione delle statue dei templi. La folla applaudiva e gridava: «Lunga vita a Ramesse! Lunga vita a Cleopatra!».

La presentazione al pubblico di questi «tesori sommersi» ci ha imposto di superare le difficoltà poste dalla conservazione e dal restauro di oggetti che provenivano da un altro mondo (il mondo marino) durante il lungo viaggio che avrebbero compiuto da una sala espositiva all'altra. Lo IEASM ha sempre ritenuto che la conservazione e il restauro siano elementi indispensabili del processo di scavo, nell'assolvimento delle esigenze di inventariazione archeologica e nel rispetto dei termini dell'accordo stabilito con il Consiglio Superiore delle Antichità d'Egitto. Allo stesso tempo, queste attenzioni garantiscono la preservazione dei reperti rinvenuti e, all'occorrenza, una valorizzazione del loro aspetto per l'esposizione nei musei.

La mostra «Egitto. Tesori sommersi» è il frutto di un progetto strutturato secondo fasi a lungo ponderate, tali da consentirci di posare lo sguardo su una stele eccezionale, su colossi reali, su una splendida statua del dio Hapi. Nuovamente esposte alla luce del sole grazie alle nuove tecnologie, queste opere sono il riflesso di un lavoro che ha unito conoscenze approfondite e metodi di ultima generazione per rendere possibile la riscoperta di alcune autentiche meraviglie del mondo.

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Pagina XXVI

Una lezione di civiltà

André Bernard


Ci fu un tempo in cui studiosi francesi come Jean-François Champollion, il padre dell'egittologia, o Antoine-Jean Letronne, che subito seppe riconoscere l'importanza dell'Egitto nella conoscenza della storia umana, rivelarono al mondo le ricchezze della civiltà egizia. Oggi, in un'epoca in cui spesso le nazioni privilegiano il conflitto rispetto alla reciproca comprensione, i tesori dell'Egitto girano il mondo, contribuendo all'armonia fra i popoli. Le scoperte di Franck Goddio e del suo team non rimarranno nascoste in depositi inaccessibili, bensì raggiungeranno esperti e persone comuni desiderose di estendere le proprie conoscenze culturali e di soddisfare le proprie curiosità in merito a due città situate alle porte dell'Egitto - Canopo e Heraclion-Thonis - e alla città di Alessandria, che a ragione suscita da sempre interesse e passione. Questi tesori provenienti dagli abissi, finora presentati soltanto in fotografia, saranno ora visibili a tutti dal vero. Hanno viaggiato e viaggeranno per tutto il mondo e sapranno fornire alcune iniziali risposte all'enigma di una città, il cui faro e la cui biblioteca hanno affascinato il mondo moderno non meno di quello antico. È finita l'epoca di una conservazione d'impronta egoistica e nazionalistica: è tempo di consentire a tutti il libero accesso a un patrimonio che appartiene all'umanità.

Il primo caso di questo tipo risale niente meno che al XVI secolo. Nell'agosto del 1520, la città di Bruxelles celebrò l'incoronazione di Carlo I di Spagna a capo del Sacro Romano Impero. Per l'occasione, il giovane imperatore, subito rinominato Carlo V, trasportò dalla Spagna alcuni capolavori prelevati in Messico dal conquistador Hernàn Cortés. Albert Dürer fu ammaliato dallo splendore di queste opere messicane esibite a Bruxelles: «Ho visto gli oggetti che il re ha portato dalla nuova terra dell'oro [...]. In vita mia non ho mai visto nulla che colmasse di gioia il mio cuore come questi oggetti [...] e provo meraviglia per la finezza di mente di questi uomini di altre terre». Alcuni mesi prima, a Valladolid, Bartolomé de las Casas e Pietro Martire d'Anghiera avevano potuto studiare con agio questi strani oggetti d'oro: un disco solare, ma anche pelli di giaguaro ornate di piume di pappagallo, «un dono fatto di cose così ricche e lavorato con tale arte da sembrare il prodotto di un sogno e non il lavoro di una mano umana». Si trattò probabilmente della prima mostra itinerante in Europa, se escludiamo quella più modesta allestita da Cristoforo Colombo poco dopo il ritorno dal suo primo viaggio, nel 1493. L'ammiraglio, che solo pochi anni prima era considerato un pazzo visionario, aveva percorso la Spagna da Siviglia a Barcellona per esibire indiani delle Antille, pappagalli, gioielli d'oro e strane piante. In Francia, l'America fu nuovamente oggetto di esposizione per la corte e il popolo di Normandia in occasione della cerimonia d'ingresso di Enrico II a Rouen, il 1° ottobre 1550: cinquanta brasiliani e duecentocinquanta marinai, tutti nudi e dipinti con la polvere di genipa, offrirono al pubblico una colorita dimostrazione della vita dei «selvaggi».

Nel XVI secolo, anche l'Egitto fornì materiali da esibire in mostra, dalle mummie ad animali esotici come parrocchetti, macachi e babbuini, o anche strani talismani e prodotti bizzarri come pietre dell'aquila (etiti), pietre di stella, pietre di serpente, terra lemnia, egagri, legni pietrificati, triache e così via... souvenir che catturavano l'Oriente e i suoi colori, che evocavano paesi situati al di là dell'istmo di Suez, l'Estremo Oriente e l'Africa continentale. Ma vi erano anche degli oggetti che si supponevano dotati di poteri tali, che la loro sola presenza a bordo poteva causare catastrofi irreversibili. Nel XX secolo, lo sviluppo della museografia e dei trasporti agevolò le esposizioni itineranti di oggetti artistici e meravigliosi, il più celebre dei quali è certamente la «Gioconda», che ha girato tutto il mondo, suscitando straordinari entusiasmi negli Stati Uniti e in Giappone. Oggi molti paesi si sono resi conto di non dover aspettare che il pubblico venga a visitare le proprie mostre, ma di doverle invece portare loro al pubblico. Nell'ambito della pittura, come pure della scultura e dell'architettura, le opere si avvicinano a chi già le ammira e risvegliano nuove passioni in chi non le conosceva. Stiamo assistendo a un fiorire di conoscenza che non può che favorire tanto gli artisti quanto gli amanti dell'arte.

Un oggetto è sempre più evocativo di una fotografia, per quanto perfetta quest'ultima possa essere. Benché vi fossero nel Rinascimento non pochi eccellenti pittori, si comprese tuttavia che, se si voleva che la gente credesse all'esistenza di un Nuovo Mondo, le si doveva mostrare qualcosa di reale. Anche i tesori sommersi del porto di Alessandria, così come fu per le meraviglie degli aztechi, sono oggetti mai visti prima d'ora e così, allo stesso modo, la possibilità di poterli ammirare in tutta Europa va considerata un vero e proprio viaggio di scoperta, e non semplicemente un fenomeno di mero turismo culturale. Al di là del loro intrinseco interesse estetico e archeologico, queste pietre strappate al mare costituiscono anche la testimonianza di un luogo, un insediamento urbano che ora giace sotto le onde, sono una collezione di monumenti che ci consente di ricostruire parte di quella che fu la più famosa città del mondo antico, il cui fascino non è mai venuto meno.

Grazie alla presentazione dei suoi tesori sepolti, il Nuovo Mondo diventa davvero tale, e rende lo spettatore a un tempo sostenitore, patrocinatore e difensore del non ancora visto.

Oggi si tende a incoraggiare gli sforzi attivi di coloro che non vogliono limitarsi ad ammirare, ma che intendono esplorare e spendere il loro entusiasmo per qualcosa che non deve rimanere avvolto nei sudari di porpora in cui riposano divinità defunte. I nuovi Musei - Curiosità, Immaginazione, Comprensione - danno il benvenuto ai visitatori e spalancano le porte della cultura universale.

Il Vecchio Mondo forse può essere ingiustamente denigrato, ma non cessa di commuoverci e di dispensare a tutti noi un'alta lezione di civiltà.

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Pagina 34

DAVID FABRE

Miti e leggende


«I FELICI CAMPI DEGLI EGIZI»

«Fra tutti i miti del nostro tempo, le leggende dell'Egitto hanno una speciale valenza». Egitto: l'ispirazione per le mode e le arti francesi del XVIII secolo, il luogo d'origine dell'alchimia - la scienza delle scienze -, l'ambientazione di numerosi poemi romantici, la civiltà che ha sostenuto se stessa senza sforzo... quell'Egitto è solo un miraggio. La sua immagine poliedrica riflette innumerevoli punti di vista ed è profondamente radicata nel nostro immaginario collettivo. Questa nozione idealizzata del paese, fondata sulle concezioni greche della Valle del Nilo, è una metafora molto familiare alla nostra cultura occidentale.

Queste percezioni erano già ben radicate nei versi di Omero, il cui eroe Aegyptos (Egitto) diede il nome al paese. Il termine omerico [...] deriva infatti dall'etnico ai-ku-pi-ti-jo inscritto in Lineare B su una tavoletta di Cnosso, una trascrizione dell'egiziano Hut ka Ptah («la dimora del ka di Ptah»), che si riferisce al tempio di Ptah a Menfi. Il vocabolo omerico per Egitto derivò quindi da un nome della capitale del paese. Aegyptos si riferiva anche al Nilo, l'unico modo di penetrazione in Egitto e insieme la caratteristica distintiva del paese. Questa associazione anticipò il famoso detto di Erodoto «L'Egitto è il dono del Nilo» (Erodoto, Storie, 2, 5, 1). È vero che sia la storia sia la leggenda evocano un Egitto misterioso, dove eroi e dei agivano apparentemente di propria volontà. Allo stesso tempo, queste storie alludono alle realtà della vita egiziana, negli ambiti tecnici, artistici e religiosi. Al principio, vi era il terrificante viaggio dalla Grecia all'Egitto, attraverso la «via lunga e difficile» (Omero, Odissea, 4, 483). Ricordiamo anche le parole di Nestore, che descrisse, forse con qualche esagerazione, i venti prevalenti che soffiavano da nord e nord est, favorendo o ostacolando il viaggio del marinaio «[...] in Egitto [...] donde mai spererebbe nel cuore di tornare chiunque le procelle spingessero in mare tanto vasto, dove neppure gli uccelli lo stesso anno ripassano, perché è vasto e terribile» (Odissea, 3, 319-322, trad. di R. Calzecchi Onesti, Torino 1963). Per tornare dall'Egitto, Menelao fu costretto a invocare l'aiuto di Proteo e Zeus. La geografia dell' Odissea descrive un Egitto remoto e quasi inaccessibile, ma profondamente affascinante e opulento. L'unico riferimento all'Egitto che sopravvive nell' Iliade è nelle riflessioni di Achille, che respinge le offerte di Agamennone e allude alle leggendarie ricchezze di Tebe in Egitto. Parlando di Agamennone, Achille urla: «Mi sono odiosi i doni, lo stimo quanto un capello. Anche se dieci, venti volte di più mi donasse di quanto ora possiede, e se altro guadagni, quanto affluisce ad Orcòmeno, o quanto a Tebe egizia, ove son nelle case ricchezze infinite, Tebe che ha cento porte, e per ognuna duecento armati passano, con i carri e i cavalli; nemmeno se tanto mi desse quant'è la sabbia o la polvere, nemmeno così potrà più persuadere il mio cuore Agamennone» (Iliade, 9, 378-386, trad. di R. Calzecchi Onesti, Torino 1990).

L'Egitto era una destinazione agognata.

[...]

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Pagina 92

Più grande del vero

Una coppia di sovrani tolemaici

Ci troviamo in presenza di un re e di una regina in granito rosa, rappresentati in piedi e gradienti, entrambi con la schiena contro un pilastro. Questa coppia regale non è la più grande, ma è invero la meglio conservata delle immagini in stile faraonico monumentale che abbiamo dei sovrani tolemaici. Queste statue sono due varianti creative di questa tipologia, e per il loro eccellente stato di conservarzione e la nostra conoscenza del contesto archeologico in cui furono trovate, hanno un posto importante nella ricerca sull'iconografia e la deificazione tolemaiche. Lo scopo è lo stesso dei colossi eretti dai re del Nuovo Regno davanti alle facciate dei templi. Il re vegliava sul tempio e mostrava se stesso nella sua grandezza, cosicché i suoi sudditti potessero adorarlo. Il parallelo più utile è quello dei colossi di Ramesse II e della sua consorte Nefertari, scolpiti nella facciata del tempio piccolo di Abu Simbel.


COLOSSO DI UN RE INCORONATO CON LO «PSCHENT»

Trovato in cinque frammenti separati e alto 5 metri, il re è praticamente completo. Le sue braccia ricadono lungo il corpo. Il pugno destro tiene un minuto cilindro enigmatico, sempre presente nelle mani di un uomo importante nella statuaria egizia. Il suo abito è estremamente semplice e classico: il re dal petto nudo indossa il tradizionale gonnellino shen-dir o perizoma. Porta sul capo lo pschent (corona doppia), decorato sulla fronte con un ureo il cui corpo è semplificato nella forma di due anelli laterali.

La doppia corona, che esprime l'unificazione delle Due Terre, ovvero l'unione necessaria del paese sotto il dominio del faraone, si trova di frequente sulle figure regali di grandi dimensioni scolpite a tutto tondo durante il Nuovo Regno, ma è normalmente rappresentata sopra il velo nemes, ed è insolito per questo trovarla direttamente posta sul capo. Lo pschent appare sopra il nemes su quattro delle statue in pietra rappresentanti diversi re tolemaici, tutte da datare al II secolo a.C. e caratterizzate da una frangia di capelli ricci alla moda greca che si estende oltre l'orlo del nemes sulla fronte. Tuttavia, vi è un altro esempio di re ellenistico che indossa lo pschent direttamente sul capo: un «piccolo» colosso di diorite, sicuramente attribuito a Tolomeo VIII.

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Pagina 100

Bella come Afrodite

Una regina tolemaica

La postura è diritta, le braccia lungo il corpo, il piede sinistro in avanti: questa regina che avanza presenta la stessa tranquilla dignità condivisa da tutta la statuaria tolemaica. Quando era completa, questa statua femminile di qualità scultorea sorprendente doveva essere stata leggermente più grande del vero. Non sono stati rinvenuti né la testa né i piedi, che sono spezzati a livello delle caviglie. Il braccio destro è fratturato a livello del polso, e quello sinistro è danneggiato al gomito; una traccia dell'attacco della mano resta nella forma di una minima protuberanza sul lato della coscia sinistra. Non possiamo dire se la donna premesse semplicemente i palmi contro le cosce o se tenesse degli oggetti nei pugni chiusi. La statua non rappresenta la dea Iside di Menutis, come pubblicato da alcuni giornali al momento della scoperta. Questa identificazione si fondava sul nodo che connette le estremità dello scialle della donna. Questo nodo si trova su innumerevoli statue di regine tolemaiche, o posto sopra il seno sinistro, come in questo caso, oppure tra i seni. Dal momento che queste spose-sorelle, madri dell'erede al trono, erano assimilate in particolare a Iside, la sposa-sorella del re Osiride e madre di Horo, gli studiosi lo hanno talvolta designato come «nodo di Iside». Questo non dovrebbe essere confuso con un differente «nodo di Iside»: l'amuleto conosciuto come tit, formato di nastri annodati a occhiello, che è attestato dal principio del periodo dinastico e doveva rappresentare originariamente la fibbia della cintura indossata sul basso addome di una donna.

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Pagina 110

Proclamare le buone azioni di un sovrano

La stele di Tolomeo VIII

Alta oltre sei metri, questa stele monumentale, che era collocata presso il tempio di Heracleion, è stata sfortunatamente vittima delle avversità del tempo. Rotta in numerosi frammenti, la sua superficie inscritta con testi geroglifici e greci non poteva resistere all'acqua marina. Su alcuni pezzi il testo è irrimediabilmente perso e su altri rimangono solo tracce indistinte. È conservato un quarto del documento, in particolare l'angolo superiore sinistro della stele; il principio di ogni linea geroglifica è andato perso; del testo greco, rimangono solo poche lettere. Non di meno, malgrado le numerose lacune di cui questo documento è cosparso, si possono dedurre ancora elementi significativi del suo contenuto.

Questa stele fu eretta sotto il regno congiunto di Tolomeo VIII Evergete II e delle sue due consorti, Cleopatra II e III, ovvero durante il periodo 141/140-131 o 124-116 a.C.; la data esatta dell'iscrizione è persa. I tre dei Evergeti sono rappresentati nella parte sinistra dell'angolo ancora conservato, officianti di fronte ad Amon, Mut e una linea di Lagidi divinizzati a cominciare dagli dei Adelfi. La presenza di Tolomeo Neo Filopatore (Memphites) permette una datazione precisa: il documento fu probabilmente creato poco dopo il 118 a.C.

Il testo è presentato in modo tradizionale: titolature regali (linea I), encomio regale che sottolinea i doni del re ai templi e il suo valore in guerra (linee 2-11), topoi di fraseologia regale. La linea 12 segna la fine dell'elogio regale e il principio della parte narrativa. La linea 13 ci informa che il Lagide portò «la statua di Amon-Ra, re degli dei, verso Tebe del nord», un toponimo che descrive Diospolis Kato-Tell el-Balamun più che Tanis, le due città considerate le controparti settentrionali di Tebe. Non si è conservato nessun testo concernente le ragioni di questa escursione processionale. L'interesse di Evergete II per i templi egizi continua con la menzione del dono annuale di grano agli dei in generale e al «dio, signore delle acque», ovvero Amon, in particolare (linee 13-14).

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Pagina 212

Una straordinaria coppia di gemelle

Le stele del faraone Nectanebo I

Sotto i saiti, i persiani e le ultime tre dinastie indigene, Thonis fu la frontiera, la stazione doganale e l' emporion da cui i prodotti greci passavano nel loro tragitto verso i posti commerciali greci di Naucrati. Quando fu fondata Alessandria, Thonis perse queste funzioni, in quanto la nuova capitale gestì il passaggio delle importazioni e delle esportazioni e la riscossione di tasse e dazi sull'importazione. Per i cittadini di Alessandria, il nome di Thonis rimase solo un ricordo di tempi epici, mentre la conoscenza della sua posizione rimase vaga. Solo il nome greco del santuario locale sopravvisse: Heracleion, legato alla memoria prestigiosa dell'amato eroe.

Durante il regno di Psammetico I (664-610 a.C.), i soldati greci erano stati dislocati vicino alla città che portava il nome egizio di Nokratj (trascritto in greco Naukratis). Questa città si trovava sul canale canopico, a circa un centinaio di chilometri dalla foce del Nilo. Inclusa nel nomo di Sais, era solo a una ventina di chilometri dai quartieri generali della colonia commerciale della XXVI dinastia e dal suo tempio di Neith, divinità patrona della monarchia saitica. Molto presto, un insediamento greco divenne un sito attivo di commercio e industria. Diverse città ioniche, doriche ed eoliche ottennero concessioni la cui organizzazione e attività furono regolamentate sotto il faraone Amasi (570-526 a.C.).

Il percorso naturale per le merci importate dai greci per i loro porti di scambio e centri di produzione era quello di entrare dalla bocca canopica e navigare nel braccio canopico. Dopo che le ribellioni contro i persiani nella parte occidentale del Basso Egitto interruppero il commercio, Naucrati riprese la sua prospera attività, debitamente regolamentata dall'amministrazione faraonica sotto le ultime dinastie indigene, come dimostrato dalla celebre stele di Naucrati, che è stata trovata in situ nel 1899 ed è conservata nel Museo Egizio del Cairo.

Questa stele di grovacca, di 210 centimetri di altezza, si è perfettamente conservata. Essa reca quattordici colonne di un testo geroglifico, incise con solenne eleganza e sapiente composizione, secondo un insolito sistema di scrittura che era divenuto di moda durante il periodo saitico. Questo testo consacra in egiziano una decisione presa dal fondatore della XXX dinastia, Nekhtnebef di Sebennito (alias Nectanebo I), nel corso del primo anno del suo regno (novembre 378 a.C.), vale a dire poco dopo la sua salita al trono, a favore del tempio di Neith, divinità patrona di Sais e protettrice delle precedenti dinastie. Una decima sarebbe stata d'ora in avanti riscossa sul volume delle imposte che erano regolarmente raccolte a beneficio dello Stato, sia per le merci e le produzioni dei greci di Naucrati sia per quelle provenienti da oltremare attraverso il ramo canopico. La decima sarebbe servita a finanziare un servizio complementare di offerte per il tempio di Neith, in altre parole, un introito delle risorse a favore del clero locale, che il nuovo sovrano intendeva propiziarsi. Nella parte superiore della stele, al di sopra delle quattordici colonne di testo, vi è un'incisione del re che offre a Neith un vassoio con il cibo da un lato e una grande collana d'oro dall'altro. I greci erano molto familiari con l'immagine egiziana della dea (che avevano da tempo assimilato ad Atena) e il messaggio dato dall'immagine doveva essere perspicuo a questi stranieri, così come per gli egiziani incapaci di leggere.

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Pagina 232

Il profumo degli dei

Un incensiere

Questo incensiere in calcare è una prova preziosa della presenza greca a Heracleion. È composto da un piatto rotondo sostenuto dalla figura di una sfinge. Il piatto reca tracce di colature di diversi colori. Il basamento e le zampe anteriori della figura sono rotti. Il fianco destro è quello che ha subito la maggiore corrosione a causa della sua permanenza in acqua di mare. Questo oggetto illustra una forma abbastanza comune di sfinge in stile greco, o meglio di sfinge femminile, come è mostrato dai capezzoli sul suo petto. Il mitico animale alato poggia sulla parte posteriore, distendendo le zampe anteriori. Le lunghe ali curve sostengono un piatto circolare poco profondo. Le piume a forma di ventaglio sono indicate da lunghe linee incise. La testa, cinta da una corona, costituisce il terzo punto di appoggio del piatto. La testa è sormontata da un alto copricapo in stile ionico ed è composta da quattro file orizzontali di grani, sulla cui sommità è incisa una merlatura triangolare. La sfinge indossa alla base del collo un collare fatto di pendenti allungati a forma di losanga. Le caratteristiche del viso sono particolarmente ben rifinite: un naso lungo e sottile, grandi occhi a mandorla, bocca ben modellata con labbra che accennano un sorriso, tutte caratteristiche delle sculture greche del periodo arcaico. Sulla fronte i capelli sono corti, mentre ai lati formano corti e larghi ricci verticali. Le lunghe trecce ritorte che ricadono sulle spalle, ottenute attraverso incisioni oblique, ricordano una sfinge in ceramica da Atene (circa 540 a. C.), così come la resa delle piume, che è eseguita con l'aiuto d'incisioni lineari. D'altro canto, il volto e il collo, con lo stesso tipo di acconciatura, sono riconducibili alla cosiddetta sfinge di Nasso a Delfi, che è di un periodo leggermente più antico (circa 580 a.C.). Sembra che l'aspetto lineare e rigido dell'oggetto derivi dalla sua natura di manufatto d'uso. La sua iconografia è simile a quella delle sfingi funerarie ateniesi conservate al Metropolitan Museum di New York, risalenti al 540 a.C. circa. È ragionevole attribuire l'oggetto alla regione dell'Attica o della Ionia e datarlo attorno alla metà del VI secolo a.C. È da notare che le due sfingi in pietra calcarea provenienti dall'Alto Egitto, attualmente conservate al British Museum di Londra (inv. EA 1604 e 1605), appartengono a una versione più tarda delle stesse convenzioni stilistiche e iconografiche e datano a partire dal II secolo a.C.

Sebbene le zampe appartengano a uno stile puramente classico, il volto tradisce uno stile arcaizzante. D'altronde, l'acconciatura, consistente in trecce ritorte, e le ali ricurve con le piume modellate attraverso incisioni lineari derivano dai modelli greco-arcaici, ai quali l'incensiere da Heraclion eloquentemente si ispira.

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