Copertina
Autore Peter Gomez
CoautoreMarco Travaglio
Titolo Inciucio
EdizioneRizzoli, Milano, 2005, BUR Futuropassato , pag. 578, cop.fle., dim. 130x200x37 mm , Isbn 978-88-17-01020-7
PrefazioneGiorgio Bocca
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe paesi: Italia: 2000 , media , destra-sinistra
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Indice

Prefazione di Giorgio Bocca                     VII
Introduzione                                     IX
LE MANI SULLA TV
1. Rai, la grande abbuffata 3 L'importante è partecipare, p. 4 Lucia senza se e senza ma, p. 7 Il teorema della bicicletta, p. 8 I Magnifici Sette, p. 10 Authority, altra abbuffata, p. 15 Un Monorchio fra le ruote, p. 19 Prodi investito da una bici, p. 21 Benvenuti a Villa Arzilla, p. 23 Malgara, la comica finale, p. 27 Quel comunista di Cattaneo, p. 30 Caro Silvio, caro Claudio..., p. 32 Trappolon dei trappoloni, p. 34 Salto con l'asta, p. 37 Petruccioli, il Biscione Rosso, p. 39 Trasporti pesanti, p. 41 Il vigilante dormiente, p. 43 Meocci, un obbediente di successo, p. 50 Incompatibile, dunque direttore, p. 52 Sì, anzi no, anzi nì, p. 59 Vespa, uno e quattrino, p. 65 Piccoli Gelli crescono, p. 69 Affari suoi, p. 73 Prima lo scippo, poi il furto, p. 77 Fucilate i cani sciolti, p. 80 Note, p. 85 2. Rainvest 88 1993, bancarotta dietro l'angolo, p. 89 Prendi Rai, salvi Fininvest, p. 91 Proposta indecente, p. 93 Politica pubblicitaria, p. 96 Ma quanta bella pubblicità, p. 101 L'amico americano, p. 104 Come nasce un monopolio, p. 108 Il Cavallo suicidato, p. 112 Note, p. 118 3. Querciaset 120 Caro Silvio, caro Massimo, p. 122 «Affossate i referendum», p. 125 Il grande bluff, p. 128 D'Alema, la prima svolta, p. 131 La sconfitta, p. 135 L'impero dei falsi, p. 138 Il governissimo che fa benissimo, p. 142 Tesi 51, alla memoria, p. 145 Pellegrinaggio a Stranamore, p. 148 Arrivano gli americani, p. 151 Maccanico Riparazioni, p. 154 La legge non c'è più, p. 158 L'uomo che credeva nella concorrenza, p.161 Interessi di conflitto, p. 167 E lui si fa un'altra tv, p. 169 Gasparri, una legge tinta di giallo, p. 172 Note, p. 179
LE MANI SULLA LIBERTΐ
4. CensuRai 185 Girone di ritorno, p. 186 Enzo Biagi si è cacciato da solo, p. 189 Oliviero Beha: mai in Rai, neanche se paga, p. 198 Massimo Fini, apolide e lebbroso, p. 203 Carlo Freccero e i desaparecidos, p. 207 Sabina Guzzanti, viva Zapatera!, p. 208 Hendel e Guerritore, censura doppia, p. 222 Daniele Luttazzi, o muto o niente, p. 230 Masotti, il censore censurato, p. 234 Quando la coppia scoppia, p. 236 Ultimo round, p. 239 Punto e kappaò, p. 243 Vaselino Diaco, p. 250 Anna La Garofana, p. 252 Report, la mafia non si tocca, p. 254 Paolo Rossi e le parolacce di Molière, p. 257 Michele Santoro: scusate se esiste, p. 267 Tg1, la Pravda del Cavaliere, p. 275 Sorrisi e bidoni tv, p. 277 Panini e bidoni Tv, p. 280 E la Vigilanza? Dorme, p. 303 Note, p. 306 5. Inciucio Boys 309 Bruno Vespa, l'insetto portaportese, p. 310 Il trucco c'è, e si vede, p. 315 L'eroe dei due mondi, p. 320 Enrico Mentana, lo scomodino da notte, p. 328 Figlinvest, p. 332 E il Tg5 salvò Dell'Utri, p. 334 Chicco si astiene, il Tg5 no, p. 340 Il pacifista guerrafondaio, p. 348 Talis Matrix, talis Silvius, p. 353 Giovanni Floris, il Vespino «de sinistra», p. 357 Barbara Palombelli, si porta su tutto, p. 368 W Craxi, "Abbasso" i giudici, p. 372 Una vita difficile, p. 378 Agostino Saccà, il forzista dalemiano, p. 384 Una vita da fiction, p. 394 La lunga marcia, p. 399 L'uomo che sussurrava a D'Alema, p. 400 Note, p. 408
LE MANI SULLA STAMPA
6. Uniti contro «l'Unità» 415 Storia di un giornale rinato, p. 420 Si ricomincia, p. 425 Natale in casa Cuperlo, p. 435 Prime gocce di stillicidio, p. 437 La merchant bank, p. 439 I testimoni di Genova, p. 450 Il regime e l'orticaria, p. 452 Mascalzone bavoso sarà lei, p. 467 Vola, Colombo, vola, p. 468 E il modo ancor l'offende, p. 470 Tutte quelle lettere, p. 473 Ritanna tutta panna, p. 478 «l'Unità» di Padellaro, p. 487 Missione compiuta, p. 489 Note, p. 492 7. I furbetti del Corrierone 495 Bondi di tutt'Italia, unitevi, p. 500 Una scalata, anzi tre, p. 502 Due banche, nessun arbitro, p. 504 Sogno di una notte di mezza estate, p. 507 Storia di un odontotecnico, p. 512 Il doppio gioco del Cavaliere, p. 516 Capitali coraggiosi, p. 519 «Ti bacio in fronte», p. 522 Il Consorte e la consorte, p. 526 A cena con Silvio, p. 528 Uno spezzatino chiamato Rcs, p. 532 Il telefono rosso, p. 534 Il principe Consorte, p. 537 Nessuno mi può intercettare, p. 541 Mi faccio la banca, p. 545 L'altra sinistra, p. 550 Note, p. 554 Appendice 557  

 

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Pagina VII

Prefazione
di Giorgio Bocca



Si intende per «inciucio» la perenne tentazione italiana all'unanimismo, al far mucchio, al camuffare l'adesione alla maggioranza come una opposizione. Con il berlusconismo al potere questa tentazione si è manifestata in modo irresistibile e impudico: gli oppositori di Berlusconi, la sinistra, hanno cercato di aiutarlo, di imitarlo, di giustificarlo. L'«Unità» antiberlusconiana di Furio Colombo si è fatto e si fa di tutto per smantellarla. Il leader della Rifondazione comunista Bertinotti è l'uomo politico ospitato più di ogni altro da Porta a Porta, informazione di regime. La letteratura forcaiola e antipartigiana di Giampaolo Pansa è la più recensita. Ed è di gran voga il berlusconismo malgré nous delle penne eleganti, a cui il Cavaliere piace da morire perché sarà un cafone, sarà un antidemocratico, ma come si batte, che tenacia, che volontà, ma sì, teniamocelo per altri cinque o dieci anni. E dall'inizio dell'èra Berlusconi che questa sinistra ipocrita fa campagna contro chiunque si opponga al suo bipartisanismo, al suo doppio gioco. Per anni Furio Colombo e la sua «Unità» sono stati considerati da questa sinistra i nemici numero uno, peggio degli eredi di Salò, peggio dei terroristi neri. L'argomento decisivo e sintetico usato dal riformismo cialtrone era: «Colombo fuori dai coglioni». Marco Travaglio e Peter Gomez non sono solo dei nemici, ma una malattia, fanno venire l'orticaria. La sinistra intransigente è una sorta di setta diabolica, da isolare, da emarginare, da confinare nel silenzio, da tener lontana dalle televisioni e dalle comunicazioni.

Il teorema del berlusconismo può essere questo: una società in transizione confusa e trasformistica si identifica nell'uomo che più le somiglia, che meglio la rappresenta; e ne fa un capo indiscutibile. Negli anni Venti quell'uomo è Mussolini e siccome è un tribuno, un violento, un istintivo, si può farne l'uomo del destino. Θ così nel contemporaneo con Berlusconi, che ha ripreso e rilanciato l'operazione politica perseguita anche da Craxi il cinghialone, l'uomo forte che va al potere, non importa se corrotto.

L' Inciucio di Gomez e Travaglio indulge anche a polemiche minori, come quelle su Giuliano Ferrara e la Armeni, ma è una raccolta precisa e seria sul trasformismo italiano. Θ anche una analisi seria degli errori e delle omissioni della sinistra negli anni in cui fu al governo e in cui non seppe fare le leggi antitrust e sul conflitto di interessi, consentendo a Berlusconi di durare e di riproporsi con protervia. L'accusa più forte che il campo «riformista», cioè trasformista, muove a Marco Travaglio non è politica, ma caratteriale: Travaglio è antipatico, fa venire l'orticaria al povero Bertinotti, e non solo a lui.

Il trasformismo è attento alle buone maniere, al bon ton. Passa con grande stile dal laicismo all'obbedienza al cardinal Ruini, dal marxismo al gesuitismo, da Darwin ai creazionisti. E chi lo considera un male perenne del Paese è un essere infetto da isolare, da mettere a tacere. Ma che rispetto intellettuale e politico si può avere per gente che, in buona sostanza, se ne infischia della libertà di informazione e mira soprattutto e soltanto a stare nella stanza dei comandi e dei buoni stipendi?

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Pagina VIII

Introduzione



Dicono gli annali della politica che il primo a parlare di «inciucio» fu Massimo D'Alema. «Una cosa — disse a "Repubblica" — mi inquieta: l'inciucione, ma glielo racconto un'altra volta...» Era il 28 ottobre 1995, dieci anni fa. Poi, invece di raccontarlo, tentò di farlo. Con il governissimo Maccanico e poi con la Bicamerale. O forse — come ha rivelato nel 2002 in piena Camera Luciano Violante — l'aveva già fatto nel '94 promettendo a Silvio Berlusconi di non toccargli quanto ha di più caro: le televisioni.

Nel Dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro (Paravia), alla voce «inciucio» si legge: «Nel linguaggio giornalistico, accordo informale fra forze politiche di ideologie contrapposte che mira alla spartizione del potere».

Dieci anni dopo, in questo libro, raccontiamo gli inciuci che hanno portato alla spartizione della televisione pubblica da parte dei partiti di destra e di sinistra, e all'occupazione militare di quella privata da parte di un signore che, per inciso, è anche capo del governo. Con tanti saluti alla libertà d'informazione, alla libera concorrenza, alla separazione dei poteri. Quante volte ci siamo domandati: ma come ha potuto Silvio Berlusconi arrivare dove sappiamo? Lui dice che si è fatto da solo, ma pecca di ingratitudine verso i tanti che gli han dato una mano. Certo, la loggia P2. Certo, i suoi misteriosi finanziatori degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Certo, Bettino Craxi e tutto il Caf. Ma tutto questo è finito nel 1993. E poi? Negli ultimi dodici anni, dopo la «discesa in campo», il Cavaliere ha governato 7 mesi la prima volta e 54 la seconda. Cinque anni e poco più. In mezzo, per sei anni e poco più, ha governato il centrosinistra. E proprio in quei sei anni Silvio Berlusconi, dato politicamente per morto, ha risolto brillantemente tutti i suoi problemi finanziari, riservandosi di sistemare quelli giudiziari nel suo secondo governo. Missione compiuta.

Secondo Bill Emmott, direttore di un settimanale non proprio sovversivo come l'«Economist», «Berlusconi è una creatura dell'opposizione». E, aggiungiamo noi, viceversa. In questo libro, che è il seguito naturale di Regime, raccontiamo che cosa è accaduto nell'ultimo decennio: da quando quel cadavere politico fu rianimato dai suoi sedicenti oppositori con respirazioni bocca a bocca, promosso padre costituente, beneficiato prima con provvidenziali «distrazioni» che gli consentirono di quotare in Borsa i suoi debiti, poi con leggi su misura (vedi alla voce Maccanico) e leggi insabbiate (vedi alla voce conflitto d'interessi) che salvarono il suo monopolio dichiarato incostituzionale dalla Consulta fin dal '94. Lo facciamo mettendo in fila i fatti, con qualche retroscena e documento inedito. Per esempio i rapporti dei «Comitati corporate» del Biscione, cioè delle riunioni del 1993 a Milano2 in cui Berlusconi e i suoi boys pianificavano l'occupazione della Rai per salvare la Fininvest. Per esempio i carteggi segreti degli emissari in Italia delle major americane, che informavano allibiti i big boss di Hollywood di quanto stava accadendo con il duopolio che diventava monopolio.

Raccontiamo come la rinata partitocrazia di destra e di sinistra s'è mangiata la televisione «pubblica» (per non parlare delle Authority) con un inciucione bipartisan che ha la faccia di Claudio Petruccioli, il presidente diessino della Rai scelto dal padrone di Mediaset. Raccontiamo le nuove censure del regime che declina, sempre più patetiche e disperate: le ultime (si spera) raffiche dei gerarchi in fuga contro Enzo Biagi, Michele Santoro, Massimo Fini, Oliviero Beha, Report di Milena Gabanelli, Carlo Freccero, i ragazzi di XII Round, Daniele Luttazzi, Corrado e Sabina Guzzanti, Beppe Grillo, Paolo Rossi, Dario Fo, Paolo Hendel, Monica Guerritore, Adriano Celentano e i tanti militi ignoti della fu informazione. Raccontiamo le nuove gesta del Tg1- Pravda di Clemente J. Mimun e degli altri Cine-giornali Luce anni 2000. Raccontiamo vita e miracoli degli Inciucio Boys, gli eterni galleggianti che piacciono a tutti perché servono a tutti, anzi servono tutti: i Vespa di destra, i Vespa di sinistra, i Vespa contemporaneamente di destra e di sinistra, buoni per tutte le stagioni. E dunque, oltre al capostipite di Porta a Porta, Enrico Mentana, Giovanni Floris, Barbara Palombelli, Klaus Davi, Lucia Annunziata e il forzista dalemiano Agostino Saccà con l'amico del cuore Claudio Velardi. Raccontiamo i talk show ridotti a salotti di chiacchiere fra politici e soubrettes, con il semiconduttore di turno che dirige il traffico delle opinioni e garantisce l'assenza di notizie e fatti.

Raccontiamo infine gli assalti a due giornali politicamente lontani mille miglia, ma ancora faticosamente liberi: la cacciata di Furio Colombo dall'«Unità», reclamata a gran voce da Berlusconi e prontamente concessa dalla Quercia; e la scalata al «Corriere della Sera» tentata dai «furbetti del quartierino» ben appoggiati dalla finanza berlusconiana, dalla finanza fazista e dalla finanza rossa, e fortunatamente fallita grazie alla Procura di Milano.

Ogni notizia, affermazione, citazione contenuta nel libro è accompagnata da una nota che ne indica la fonte. Sui fatti, dunque, chiediamo di essere giudicati ed eventualmente smentiti. Non su categorie dello spirito come «demonizzazione», «girotondismo», «riformismo», «radicalismo», che francamente sfuggono a noi umili cronisti.

Alla fine della lettura – è capitato a noi alla fine della scrittura – viene una gran voglia di usare le mani. Per fare qualcosa di buono, s'intende. Noi proponiamo un paio di esercizi semplici semplici. Sottoscrivere l'appello che Sabina Guzzanti e un gruppo di giornalisti, artisti e intellettuali hanno lanciato per liberare la televisione dal cancro dei partiti. E aderire al progetto di legge di iniziativa popolare per un sistema televisivo di respiro europeo che un gruppo di esperti, riuniti intorno a Tana de Zulueta, ha approntato per offrirlo ai leader del centrosinistra che si candidano a governare dal 2006.

Θ un libro contro Berlusconi e l'Unione? Un libro qualunquista che vuole dimostrare che, a destra come a sinistra, «sono tutti uguali»? No, non lo è. Θ un libro che racconta fatti (purtroppo) realmente accaduti. Con quali scopi? Soprattutto due.

Primo: tentare di spiegare come mai nel 2004 e nel 2005 l'Italia è precipitata nella classifica di Freedom House (letteralmente «Casa della libertà», ma americana) sulla libertà d'informazione fra i paesi «parzialmente liberi»: prima al 74° e ora al 77° posto, fra la Bulgaria e la Mongolia. E perché negli ultimi anni il nostro Paese è stato ammonito, redarguito, condannato dall'Onu, dal Parlamento europeo, dal Consiglio d'Europa, dall'Osce e da Reporters sans frontierès.

Secondo: descrivere le nostre classi dirigenti di destra e di sinistra per quel che sono e per quello che han fatto. Sappiamo che la libertà d'informazione ha un nemico pubblico numero uno: si chiama Silvio Berlusconi e l'abbiamo vivisezionato in tanti, forse troppi libri. Finché c'è lui in politica, sappiamo almeno per chi non votare. Ma siamo certi che, caduto lui, l'Italia riconquisterà come per incanto le libertà perdute? Sarebbe disonesto raccontare simili fiabe della buonanotte. Se Berlusconi è arrivato fin qui, è perché a sinistra tanti, troppi gliel'hanno permesso. Non sappiamo perché l'han fatto. Ma sappiamo che l'han fatto. Non sappiamo se l'han fatto gratis oppure no. Ma, nell'un caso e nell'altro, c'è poco da stare allegri.

Se chi ha fatto inciuci nella passata legislatura e poi, nel 2001, ha perso le elezioni fosse andato a casa, come avviene dappertutto fuorché in Italia, potremmo permetterci il lusso di attendere con fiducia il ricambio, l'alternanza. Non è così: quanti si candidano a governare l'Italia dopo Berlusconi (ammesso che il dopo Berlusconi non si chiami più Berlusconi) sono gli stessi che, messi alla prova per sei anni e più, si sono ben guardati dal liberare il mercato della televisione, cioè della magna pars dell'informazione. Rivedendoli all'opera retrospettivamente, appare chiaro che non si erano «sbagliati», non si erano «distratti». Erano scelte consapevoli: è la loro politica. Non è che non siano riusciti a risolvere il conflitto d'interessi, a varare una legge antitrust e a levare le zampe dalla tv per una congiunzione astrale sfavorevole o per le avverse condizioni meteorologiche. Non hanno voluto farlo. Perché trovano assolutamente normale che sia la politica a comandare sulla Rai. Tramite direttori-manutengoli a cui telefonare gli ordini di scuderia, o a cui nemmeno telefonare perché gli ordini li conoscono già. E tramite carrozzoni turbolottizzati modello commissione di Vigilanza e Authority per le Comunicazioni.

Se Bertinotti è il politico più invitato a Porta a Porta, se nei salotti trash di Masotti e La Rosa non manca mai una folta rappresentanza del centrosinistra, se l'opposizione non è riuscita ad assentarsi nemmeno per un giorno dagli strapuntini della Rai mentre ne venivano cacciati i giornalisti e gli attori liberi, se nei programmi fin qui abbozzati dall'Unione non c'è una parola sulla libertà d'informazione (a parte quelle solitarie di Romano Prodi), se le uniche proteste contro la tv riguardano un mancato invito nel salotto di turno o un sondaggio sgradito, un motivo c'è. E non è, purtroppo, la distrazione. Θ l'allergia alla libertà, un'allergia paurosamente contagiosa. Come il conflitto d'interessi «epidemico» di cui parla Guido Rossi.

Ora gli stessi leader invecchiati di un lustro, messi di fronte agli stessi problemi incancreniti da cinque anni di regime mediatico, tenderanno naturalmente a riprodurre gli stessi comportamenti. Cioè a non fare la legge sul conflitto d'interessi, la legge antitrust, la legge che libera la tv dal giogo dei partiti. Chi pensa che, appena la sinistra vincerà le elezioni, automaticamente i partiti usciranno da Viale Mazzini con le mani alzate, si illude. Dovranno essere i cittadini a costringerli, pretendendo impegni precisi prima delle elezioni. E, dopo, evitare di sedersi sugli allori, ma vigilare giorno per giorno per evitare che vada a finire come l'altra volta.

Mentre si discetta sul pericolo di un «berlusconismo senza Berlusconi», se ne trascura un altro: il berlusconismo di parte del centrosinistra con Berlusconi, sia esso all'opposizione (come nel 1995-2001) o al governo (come dal 2001 a oggi). Perché il Cavaliere, anche se dovesse perdere, non se ne andrà a Tahiti né alle Bermuda: resterà come la volta scorsa in Parlamento o – potendo – al Quirinale. Per condizionare la maggioranza (la riforma elettorale serve a garantirgli quantomeno un'ampia minoranza) e salvare un'altra volta la sua roba, seduto su un patrimonio di almeno 10 milioni di euro e – se non cambierà nulla – su tre reti Mediaset e una rete e mezza della Rai. Così, a chiunque tentasse eventualmente di scalfire il suo monopolio incostituzionale, tremerebbero ancora le gambe. E sarebbe inevitabile un nuovo inciucio.

Tutti i dibattiti pelosi degli ultimi mesi su «quanto conta la tv nella politica», che di solito si concludono con la risposta «la tv nella politica non conta, infatti Berlusconi ha perso le elezioni europee e regionali», sono finalizzati a questo: a spianare la strada all'ennesimo inciucio, assicurando una congrua «buonuscita» a chi peraltro non ha alcuna intenzione di uscire. Nessuno in possesso delle sue facoltà mentali può davvero pensare che «le tv non contano»: anzi, tutti sanno che contano moltissimo. Contano per dettare l'agenda unica ai cittadini, espellendo gli argomenti scomodi dal teleschermo e dunque dalle nostre teste. Servono per tenere artificialmente in vita partiti e uomini politici che, senza «apparire» in tv, sarebbero già spariti da un pezzo. Servono per premiare i «buoni» e punire i «cattivi». Servono per firmare contratti con gli italiani senza gli italiani, e poi per farli dimenticare quando li si è platealmente traditi. Servono – lo dicono gli esperti veri – a spostare dal 3% (secondo Alessandro Amadori) al 6% (secondo Giovanni Valentini e Renato Mannheimer) dei voti di quei milioni di italiani che s'informano (si fa per dire) soltanto azionando il telecomando, senza mai sfogliare un giornale, leggere un libro, navigare su internet.

Se le tv non contassero il Cavaliere, che almeno di tv s'intende, non le terrebbe tutte per sé, non farebbe epurare tutti i personaggi più scomodi, non tenterebbe di smantellare la par condicio. Lui sa bene che, senza le tv, nel '93 non avrebbe nemmeno pensato di fondare un partito e oggi nessuno parlerebbe più di lui. E non avrebbe mai vinto le elezioni del '94 (quando, secondo Luca Ricolfi, la tv influenzò il 10% degli elettori). E nel '96 non avrebbe portato in Parlamento una minoranza così nutrita e minacciosa da poter ricattare, politicamente, l'esigua maggioranza di Prodi. Anche la famosa «Rai dell'Ulivo» era per metà controllata da berlusconiani (Rai1 a Saccà e Vespa, Tg2 a Mimun), oltre a tutta Mediaset, anche se oggi molti smemorati raccontano che «nel 2001 Berlusconi vinse senza le televisioni».

Ma quella frase demente – «le tv non contano» – è il ritornello preferito di chi, a destra e a sinistra, spera di perpetuare il sistema anacronistico che consente a pochi eletti (da se medesimi) di continuare a occupare abusivamente la Rai, chiudendosi in una stanza e giocando a Risiko con la nostra libertà.

Anche le recenti campagne di alcuni commentatori del «Corriere» e delle maestrine dalla penna rosso-nera come Lucia Annunziata contro il ritorno dei «demonizzatori», dei «radicali», dei «Michael Moore italiani», dei giornalisti e attori di denuncia che «spaventano le classi medie» e «fanno perdere le elezioni alla sinistra» a questo puntano: a livellare la siepe a colpi di cesoie, a segare i rami sporgenti, cioè i pensieri forti e dunque diversi, i personaggi autorevoli e dunque incontrollabili, siano essi di destra, di centro o di sinistra, o magari di nessuna parrocchia. Una guerra preventiva a chi non ha guinzaglio e non accetta bavaglio, perché i soliti quattro gatti possano seguitare a gestire nelle solite quattro stanzette ciò che è pubblico, cioè del pubblico. Perché c'è ancora chi pensa, sovieticamente, che l'informazione e la satira servano a far vincere (o perdere) le elezioni, e non semplicemente a informare, con linguaggi diversi, i cittadini.

Per impedire questo, è giusto raccontare e sapere tutto. Scendere fino in fondo al baratro in cui ci hanno sprofondati. Per sapere che bisognerà risalire molto, e con gran fatica. Guai a pensare che l'Italia sia la stessa di cinque anni fa e che quello attuale sia il livello-base dal quale ripartire. Dieci anni fa chi accendeva la televisione – pur lottizzata – poteva trovare in prima serata Biagi e Montanelli, Santoro e Ferrara, Deaglio e Minoli, Riotta e Funari, Feltri e Guzzanti (padre), Zavoli e Augias, Vespa e Beha, Lerner e Annunziata, oltre a quasi tutti i comici oggi desaparecidos. Ce n'era per tutti i gusti. Oggi si dice che la punta più avanzata sia il povero Floris, e il guaio è che forse lo è davvero: il che la dice lunga su come siamo caduti in basso. Fermo restando che dev'esserci spazio per chiunque abbia qualcosa da dire e qualcuno che lo stia ad ascoltare, pensare di «ripartire da Ballarò» sarebbe triste e deprimente. Significherebbe perdere la partita in partenza. Una parte importante dell'opinione pubblica, molto più avanti dei suoi presunti rappresentanti, l'ha capito da un pezzo. Il boom di film come Viva Zapatero! e di programmi come Rockpolitik, ma anche i 4 milioni e mezzo di votanti alle primarie dell'Unione, per citare tre casi recentissimi, indica una gran voglia di partecipazione, di democrazia, di libertà. La censura è già stata sconfitta nella società. Ora bisogna cancellarla dai palazzi del potere. Per non morire berlusconiani, con o senza Berlusconi.

P.G. e M.T.

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