Copertina
Autore Maksim Gor'kij
Titolo Varen'ka Olesova
EdizioneVoland, Roma, 2011, sírin classica 5 , pag. 168, cop.fle., dim. 10,4x15,4x1,1 cm , Isbn 978-88-6243-100-2
OriginaleVaren'ka Olesova [1898]
PrefazioneDaniele Morante
TraduttoreDaniele Morante
LettoreElisabetta Cavalli, 2012
Classe classici russi
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Pagina 7

I



Qualche giorno dopo la nomina a libero docente in un'università di provincia, Ippolit Sergeevič Polkanov ricevette un telegramma della sorella dalla sua proprietà in un lontano distretto forestale, sul Volga. Il telegramma recava una breve comunicazione: "Marito morto, per amor di Dio vieni subito, serve aiuto. Elizaveta"


Questo preoccupante appello turbò sgradevolmente Ippolit Sergeevič, venendo a guastarne i propositi e la disposizione d'animo. Già aveva deciso di recarsi per l'estate in campagna da uno dei colleghi e di lavorare là per preparare onorevolmente i propri corsi, ed ecco che gli toccava correre a mille e più verste da Pietroburgo — nonché dalla sua sede di nomina — per portar conforto a una donna che aveva perduto il marito, col quale, a giudicare dalle sue stesse lettere, la vita non era stata rose e fiori.


Aveva visto la sorella l'ultima volta un quattro anni prima, si scrivevano di rado e fra loro erano invalsi da tempo quei rapporti puramente formali così comuni fra parenti separati dalla lontananza e dalla difformità degli interessi di vita. Il telegramma risvegliò in lui il ricordo del cognato. Era un uomo bonario, amante del bere e del mangiare. Aveva guance paffute coperte da una trama di venuzze purpuree, due occhietti vivaci; strizzava maliziosamente il sinistro e, con un sorriso affabile, canticchiava in un pessimo francese: — Regardez par ci, regardez par là...

A Ippolit Sergeevič riusciva in qualche modo difficile credere che un simile cuorcontento fosse morto, visto e considerato che le persone ordinarie sono normalmente longeve.

Sua sorella era venuta a patti con le manchevolezze di quest'uomo con una condiscendenza a metà sprezzante; da donna non stupida qual era, capiva che "a voler cavar sangue da una rapa..." C'era da dubitare che la morte del marito l'avesse afflitta oltre misura.

E tuttavia, sottrarsi alla sua richiesta sarebbe stato sconveniente. Quanto a lavorare, si poteva farlo da lei non peggio che da qualunque altra parte...

Ippolit Sergeevič decise di andare, e circa due settimane dopo, in una calda serata di giugno, spossato dalle quaranta verste di viaggio in vettura dall'imbarcadero fino alla sua destinazione, sedeva a tavola di fronte alla sorella sull'ampio terrazzo affacciato sul parco, sorseggiando un buon tè fragrante.

A ridosso della balaustra del terrazzo spuntavano rigogliosi arbusti di lillà e di acacia; i raggi obliqui del sole, penetrando attraverso il fogliame, palpitavano nell'aria come esili nastri dorati. Ombre arabescate s'indugiavano sulla tavola ricolma di leccornie campagnole; l'aria era impregnata dell'odore dei tigli, del lillà e della terra umida scaldata dal sole. Nel parco gli uccelli cinguettavano rumorosamente, e di quando in quando arrivava sul terrazzo un'ape o una vespa svolazzando in cerchio sopra la tavola con un ronzio indaffarato. Elizaveta Sergeevna dava di piglio a un tovagliolo e, agitandolo stizzosamente per l'aria, la cacciava.


Polkanov aveva già avuto modo di osservare che la sorella — come del resto aveva presagito — non era particolarmente afflitta per la morte del marito, che rivolgeva al fratello certi sguardi indagatori e che, parlandogli, gli nascondeva qualcosa. S'era aspettato di trovarla nervosa, pallida, esaurita; mentre ora, osservando l'ovale del suo viso piacevolmente abbronzato, calmo, deciso e animato dal balenio intelligente degli occhi chiari, sentiva di essere incorso in un felice errore e, prestando orecchio ai suoi discorsi, cercava di cogliervi o di sorprendervi ciò che lei gli taceva.

— C'ero preparata, — stava dicendo con la sua ferma voce di contralto, piacevolmente vibrante sulle note alte — dopo il secondo attacco si lamentava quasi ogni giorno di fitte al cuore, di palpitazioni, di insonnia... Mi hanno detto che là s'è molto agitato, ha gridato... ah, sì, dimenticavo, alla vigilia era andato in visita da Olesov, qui da noi c'è un proprietario, un colonnello a riposo beone, cinico, devastato dalla podagra. A proposito, ha una figlia che è un vero tesoro, parola mia!... La conoscerai...

— Se non se ne può fare a meno... — interloquì Ippolit Sergeevič, sbirciando sorridente la sorella.

— No che non si può! Viene spesso, e ora, puoi starne certo, verrà ancora più spesso — gli rispose lei restituendogli il sorriso.

— È in cerca di fidanzato? Il ruolo non mi si addice.

Sua sorella scrutò attentamente il suo viso ovale, magro, dalla nera barbetta aguzza e l'alta fronte bianca.

— Perché poi non ti si addice? Naturalmente parlo in generale, non penso a questa Olesova, quando la vedrai capirai il perché, ma, insomma, non pensi forse a sposarti?

— Non per il momento — tagliò corto lui sollevando dal bicchiere gli occhi di un grigio chiaro, dai riflessi freddi.

— Sì, — disse pensosa Elizaveta Sergeevna — far questo passo a trent'anni, per un uomo, è troppo tardi e troppo presto insieme...

Gli faceva piacere che avesse smesso di parlare della morte del marito, ma... perché mai, allora, lo aveva tanto precipitosamente fatto accorrere?

— ... Ci si deve sposare a vent'anni, o a quaranta — proseguì sovrappensiero — così il rischio di ingannarsi e d'ingannare l'altro è minore... e anche se lo si inganna, nel primo caso lo si ripaga con la freschezza del sentimento, e nel secondo... quanto meno con la propria posizione nel mondo, che è quasi sempre ben solida in un quarantenne.

A Ippolit pareva che la sorella dicesse questo più per sé stessa che per lui, taceva buttato indietro sulla sua poltroncina, e inspirava profondamente l'aria balsamica.

— Come ti dicevo, il giorno prima era da Olesov e, si capisce, bevve, ed è qui che... — Elizaveta Sergeevna scrollò mestamente la testa. — E ora... sono rimasta sola... per quanto già dopo due inni di vita in comune avessi preso a sentirmi sola dentro di me. E tuttavia, ora, è una situazione così strana! Ho ventotto anni e non ho mai vissuto, vivevo solo per mio marito e per i bambini... e i bambini sono morti. Che ne sarà di me ora? Cosa devo fare, di che vivere? Avrei venduto questa proprietà e sarei andata all'estero, ma suo fratello accampa pretese sulla successione, può darsi che si vada a una causa. Io non intendo rinunciare al mio senza una ragione legittima, e nelle pretese di mio cognato non ne vedo. Tu cosa ne pensi?

— Lo sai che non sono un giurista, — replicò Ippolit Sergeevič con un sorriso sornione — ma raccontami tutto, vedremo. Questo fratello... ti ha scritto?

— Sì, e in termini abbastanza brutali. È una specie di viveur, ha dissipato tutto ed è corrotto fin nel midollo. Mio marito non l'amava, anche se avevano molto in comune.

— Vedremo! — disse Ippolit Sergeevič, e si fregò le mani compiaciuto. Gli era gradito l'esser venuto a sapere per quale motivo sua sorella aveva bisogno di lui: non amava tutto ciò che non fosse chiaro e ben determinato. La sua prima preoccupazione era quella di preservare l'equilibrio interiore e, se qualcosa di non ben chiaro veniva a turbarlo, gli si destavano nell'animo una sorda inquietudine e un'irritazione che lo spronavano ansiosamente a chiarire quel punto non compreso per collocarlo nel quadro della propria visione del mondo.

— Per parlarti con franchezza — spiegò sommessamente Elizaveta Sergeevna, senza guardare il fratello — questa pretesa impudente mi ha spaventata. Sono così stanca, Ippolit, ho tanto desiderio di riposare, ed ecco che mi tocca ricominciare da capo.

Trasse un profondo respiro e, versato dell'altro tè al fratello, proseguì su un tono mesto, che gli dava sgradevolmente sui nervi:

— Otto anni di vita con un uomo come il mio povero marito danno diritto a riposarsi, mi sembra. Un'altra al mio posto, una donna con un senso del dovere e dell'onore meno sviluppato, si sarebbe scrollata di dosso da tempo questa pesante catena, mentre io l'ho sopportata, per quanto spossata sotto il suo peso. Ma la morte dei bambini... Ah, Ippolit, se sapessi cosa non ho dovuto passare quando li ho persi!

La guardava in volto con espressione di compianto, ma le sue lamentazioni non lo toccavano nell'intimo. Non gli piaceva il suo modo di parlare, in cui avvertiva un che di libresco, non confacente a una persona dominata da un sentimento profondo, mentre gli occhi chiari vagavano stranamente in qua e là, senza soffermarsi a lungo su nulla. I gesti erano languidi, cauti, e da tutta la sua snella figura spirava un'intima freddezza.

Sulla balaustra del terrazzo si posò un gaio uccellino, saltellò in qua e là e riprese il volo. Fratello e sorella, dopo averlo accompagnato con lo sguardo, restarono in silenzio per alcuni secondi.

— Viene a trovarti gente? Leggi? — chiese il fratello accendendosi una sigaretta, e pensando nel contempo come sarebbe stato bello, in questa magnifica serata di pace, starsene in silenzio seduti sulle comode poltrone del terrazzo, prestando ascolto al quieto stormire del fogliame e aspettando la notte, che sarebbe sopraggiunta a smorzare ogni suono e ad accendere le stelle.

— Viene Varen'ka, e di tanto in tanto la Banarceva. Te la ricordi? Ljudmila Vasil'evna. Anche lei se la passa male col marito... ma è una che non si priva di niente. Il mio venivano a trovarlo in molti, ma di uomini interessanti... neanche uno! Insomma, nessuno con cui scambiare due parole. Le proprietà, la caccia, le beghe dello zemstvo, pettegolezzi... e questo è tutto. A dire il vero, uno ce n'è... un neolaureato in giurisprudenza, Benkovskij, giovane, notevolmente colto. Ti ricordi i Benkovskij? Ma aspetta un momento! Mi pare che stia venendo...

— Venendo chi, questo Benkovskij? — chiese Ippolit Sergeevič.

La sua domanda divertì per qualche motivo la sorella; rise, si alzò dalla sedia ed esclamò con una voce che non le conosceva:

— Varen'ka!

— Ehi!

— Sono curiosa di sapere cosa ne dirai... qui ha conquistato tutti. Ma dal punto di vista spirituale, è una specie di scherzo di natura! D'altronde lo vedrai presto da solo!

— Ne farei volentieri a meno — replicò lui con indifferenza, stiracchiandosi sulla poltroncina.

— Torno subito — disse Elizaveta Sergeevna accingendosi a rientrare in casa.

— Ma arriverà e non ti troverà! — si inquietò lui. — Non allontanarti, ti prego, piuttosto me ne vado io!

— Ma torno tra un attimo! — gli gridò la sorella da dentro.

Con una smorfia di disappunto Ippolit si risistemò sulla sua poltrona, guardando verso il parco. Da qualche parte gli perveniva il lesto scalpiccio di un cavallo e lo stridere delle ruote sul terreno.

Davanti agli occhi di Polkanov si ergevano filari di vecchi tigli nodosi, già avvolti dall'oscurità serotina. I rami degli uni e degli altri si intrecciavano formando una fitta copertura, e nel loro insieme, rinseccoliti com'erano dall'età, coi loro tronchi scortecciati e le fronde spezzate, parevano una concorde famiglia di creature viventi, strettamente unita nella tensione verticale verso la luce. Ma la corteccia dei tronchi era interamente ricoperta di una patina giallastra di muffa, alla radice erano cresciute fitte le galle, e a causa di tutto ciò dai vecchi alberi possenti pendevano in aria una quantità di rami secchi, come carcasse senza vita. Ippolit Sergeevič li guardava e aveva voglia di addormentarsi lì sulla poltrona, dentro il respiro dell'antico parco.

Frammezzo ai tronchi e ai rami tralucevano chiazze purpuree di orizzonte, e su questo sfondo lucente gli alberi parevano ancora più cupi, isteriliti. Sul viale, che slontanava dal terrazzo nell'oscurità, ombre dense si spostavano lentamente, e il silenzio si faceva di minuto in minuto più profondo, destando inquiete fantasticherie. L'immaginazione, soggiacendo alla malìa della sera, delineò nell'ombra la figura di una donna che aveva conosciuto in altro tempo, e al suo fianco quella di lui medesimo. In silenzio loro due camminavano lungo il viale laggiù, allontanandosi, mentre lei si stringeva a lui e lui avvertiva il calore del suo corpo...

— Salve! — risuonò una voce profonda, di petto. Balzò in piedi e si guardo attorno, un po' turbato. Dinanzi a lui stava ritta una ragazza di media statura in abito grigio, con qualcosa di bianco ed etereo gettato sulla testa, simile a un velo da sposa: fu tutto quello che rimarcò di primo acchito. Gli tese la mano chiedendogli:

— Ippolit Sergeevič, vero? Olesova. Sapevo che sareste venuto oggi, e ho fatto una puntatina qui per vedere come siete. Non avevo mai visto studiosi, e... non sapevo che possono essere così.

Sentiva la propria mano nella forte stretta di quella manina calda e vigorosa e, un po' smarrito per l'irruenza, le si inchinò in silenzio, irritato nel contempo con sé stesso per il proprio imbarazzo, e pensò che, quando l'avesse guardata in viso, vi avrebbe scorto l'espressione della più sfacciata e ordinaria civetteria. Ma, come le rivolse lo sguardo, scorse due grandi occhi scuri ridenti di una schietta affabilità, tanto da illuminare il bel viso. Ippolit Sergeevič si rammentò che un viso così, fiero nella sua vigorosa bellezza, l'aveva visto in un vecchio quadro italiano. La stessa piccola bocca dalle labbra carnose, la stessa fronte alta e convessa sugli enormi occhi sgranati.

— Permettete... vado a dire che accendano... sedetevi, prego — la invitò.

— Non preoccupatevi, qui sono proprio di casa — disse lei, sedendosi sulla poltrona che Ippolit aveva occupato.

Lui restò in piedi accanto al tavolo guardandola in silenzio, pur consapevole di quanto questo atteggiamento fosse goffo, e che avrebbe dovuto parlare. E tuttavia la ragazza, senza scomporsi sotto il suo sguardo intento, prese lei per prima a interrogarlo su come fosse andato il viaggio, e su come e quanto gli piacesse la campagna, e su quanto si sarebbe trattenuto. Lui rispondeva a monosillabi, come colto da paralisi: il suo pensiero, sempre così lucido, si annebbiava sotto l'urto di sentimenti sollevatisi in maniera improvvisa e caotica. L'ammirazione per lei contrastava con l'irritazione verso sé stesso e la curiosità, dando luogo a qualcosa di simile a un timor panico. La fanciulla, nel pieno del suo rigoglio giovanile, gli sedeva di fronte abbandonata sulla poltrona, stretta nella veste attillata che lasciava scorgere le forme opulente del petto e delle spalle, mentre con voce sonora, ricca di note imperiose, gli parlava delle inezie più insignificanti, come d'uso al primo incontro di persone che non si conoscono. I capelli castano scuri si inanellavano con bell'effetto, le sopracciglia erano alquanto più scure. Sul collo abbronzato, laddove si profilava l'orecchio diafano e rosato, la pelle palpitava mettendo in evidenza il rapido fluire del sangue nelle vene e, ogniqualvolta un sorriso le scopriva i denti minuti, le compariva sul mento una fossetta, e da ogni piega della veste emanava una seduzione irresistibile. V'era qualcosa di rapace nella dentatura minuta, che traluceva tra le labbra carnose, e i movimenti, colmi di una grazia noncurante, richiamavano alla mente le moine delle gatte troppo coccolate.

A Polkanov pareva di essersi sdoppiato: una metà del suo essere come fagocitata da questa bellezza sensuale e intenta a contemplarla con servile adorazione, mentre l'altra metà prendeva nota meccanicamente dello stato della prima. Rispondeva alle domande della ragazza e le chiedeva lui stesso di questo e di quello, senza poter distogliere lo sguardo dalla sua seducente immagine. Già la chiamava dentro di sé una "splendida femmina", ridendo nell'intimo di quest'epiteto, ma ciò non bastava a far svanire il suo sdoppiamento.

La sorella ricomparve sul terrazzo dicendo:

— Ma dite un po', la furbacchiona! Io la cerco di là, e lei è già...

— Ho fatto il giro dalla parte del parco.

— Vi siete presentati?

— Oh, sì! Pensavo che Ippolit Sergeevič fosse come minimo calvo!

— Ti verso del tè?

— Ma sì, magari.

Ippolit Sergeevič si trasse in disparte, presso la scalinata che scendeva al parco. Si passò la mano sul viso e poi, con la punta delle dita, sulle palpebre, quasi a toglierne via la polvere. Gli era presa vergogna di sé per aver ceduto a un trasporto dei sensi, e alla vergogna era subentrata l'irritazione verso la ragazza. Nel suo intimo aveva ribattezzato la scena che si era svolta con lei un "assalto all'arma bianca al fidanzato", e avrebbe voluto farle intendere che aveva a che fare con un uomo indifferente alla sua provocante bellezza.

— Passerò la notte da te e mi tratterrò tutto domani... — stava dicendo alla sorella.

— Ma come farai con Vasilij Stepanovič? — chiese questa con sorpresa.

— C'è da noi la zia Lučickaja... Lo sai, papà la ama molto.

— Scusatemi, — disse Polkanov — sono molto affaticato, andrò a riposare.

S'inchinò e si avviò, sentendo riecheggiare alle sue spalle l'energica approvazione di Varen'ka: — Avreste dovuto farlo già da tempo!

Nel tono di questo sonoro viatico non si poteva percepire altro che una benevola premura, e tuttavia lui lo giudicò insinuante e artificioso.

Gli avevano allestito una camera in quello che era stato lo studio del cognato. Nel mezzo troneggiava una pesante e tozza scrivania con davanti una poltroncina di rovere; addossata a una delle pareti, occupandola per quasi tutta la sua lunghezza, era sistemata un'ampia ottomana, e sull'altra un armonium e due librerie. Qualche sedia imbottita, un tavolinetto da fumo accanto al divano e uno da scacchi sotto una finestra completavano l'arredamento della camera. Il soffitto era basso e annerito dal fumo, mentre dalle pareti occhieggiavano le macchie scure di non so che quadri o stampe dalle rozze cornici dorate: tutto era greve, antiquato, ed esalava un odore sgradevole.

Sul tavolo poggiava una grossa lampada schermata da un paralume azzurro, la cui luce ricadeva sul pavimento. Ippolit Sergeevič si fermò sul limite del circolo di luce, provando una sensazione spiacevole di vaga agitazione, e allungò lo sguardo verso le finestre. Ve n'erano due: al di là di esse, fra le ombre della sera si delineava il profilo scuro degli alberi. Si avvicinò e spalancò le imposte. D'un tratto la stanza fu invasa dalla fragranza dei tigli fioriti e, al tempo stesso, vi irruppe il lieto suono di un fragoroso, salutare scoppio di risa.

Sul divano gli era stato preparato un letto, che ne occupava poco più della metà. Gli gettò un'occhiata e cominciò a disfare il nodo della cravatta, ma poi con gesto brusco spinse la poltrona verso la finestra e si sedette, accigliato.

L'impressione lasciatagli dall'inesplicabile agitazione provata lo turbava e lo indispettiva. Quel sentimento di scontentezza di sé gli si manifestava di rado e, quando si manifestava, non lo dominava con forza né troppo a lungo, ché anzi riusciva rapidamente ad averne ragione. Era convinto che l'uomo dovesse comprendere le proprie emozioni e dar loro alimento oppure sopprimerle, e quando in sua presenza si parlava delle misteriose complessità della vita psichica, con un sorrisetto ironico bollava simili opinioni come "metafisica".

Si chiedeva: ma davvero l'incontro con questa bella ragazza piena di salute — e di sicuro anche molto sensuale e molto stupida — aveva potuto avere una tale inesplicabile influenza su di lui? E, ripassando meticolosamente la successione delle impressioni provate quel giorno, era costretto a rispondere in modo affermativo. Sì, era successo perché lei lo aveva colto di sorpresa, perché era molto affaticato dal viaggio e, al momento in cui gli era apparsa, si trovava in una disposizione d'animo, inconsueta per lui, di sognanti fantasticherie.

Queste riflessioni l'avevano già tranquillizzato, quando lei gli riapparve vivamente davanti agli occhi nella sua bellezza rigogliosa. Indugiò a contemplarne l'immagine, a occhi chiusi e inspirando nervose boccate di fumo, ma mentre continuava a contemplarla la criticava.

"Si tratta alla fin fine di una persona volgare," pensava "sangue copioso, tanti muscoli, e pochi nervi. Il viso ingenuo è privo della luce dell'intelletto, e l'orgoglio che traluce nello sguardo aperto dei suoi scuri occhi profondi è l'orgoglio di una donna persuasa della propria bellezza e viziata dall'adorazione degli uomini. Mia sorella dice che questa Varen'ka ha conquistato tutti. Di sicuro, sta provando a conquistare anche me. Ma io sono venuto qui per lavorare, non per fare certi giochetti, dovrà prenderne atto al più presto."

"Ma non sto pensando troppo a lei dopo un solo incontro?" gli balenò per la testa.

Il disco della luna, ciclopico, rosso sanguigno, sorse oltre gli alberi del parco: si guardava attorno come l'occhio di un mostro. Dalla parte del villaggio giungevano per l'aria suoni indecifrabili. Sull'erba, sotto la finestra, si udiva di tanto in tanto un fruscio, certo una talpa o un riccio che uscivano a caccia. Da qualche parte un usignolo cantava. E la luna saliva nel cielo con tanta lentezza che pareva che la fatale necessità di questo suo moto le fosse nota, e le procurasse stanchezza.

Gettata dalla finestra la sigaretta ormai spenta, Polkanov si alzò, si spogliò e spense la lampada. Allora dal giardino la tenebra irruppe nella stanza, gli alberi si fecero più accosto alle finestre come a voler scrutare dentro, sul pavimento si deposero due lame di luce lunare flebile e incerta.

Le molle del divano cigolavano lamentosamente e, avvolto nella piacevole frescura delle lenzuola, Polkanov allungò le gambe e giacque immobile, supino. Stava già prendendo sonno quando udì sotto la sua finestra i passi cauti di qualcuno e un bisbiglio di basso:

— Mari-j-a... Sei qua?

Sprofondò nel sonno con un sorriso.

La mattina, destatosi nella luce smagliante del sole che inondava la stanza, di nuovo sorrise, rammentandosi della fanciulla. Si presentò per il tè vestito con cura, nell'attitudine sobria e seria che conveniva a uno studioso; ma quando si avvide che la sorella sedeva a tavola da sola, si lasciò sfuggire un involontario:

— E dov'è...

Il sorriso malizioso della sorella lo bloccò prima che avesse terminato la domanda, e in silenzio sedette a tavola. Elizaveta Sergeevna esaminava il suo vestito senza smettere di sorridere. Questo sorriso lo stizzì.

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