Copertina
Autore Elena Gorokhova
Titolo Una montagna di briciole
EdizionePiemme, Milano, 2011, Voci , pag. 386, cop.ril.sov., dim. 14x22x3,2 cm , Isbn 978-88-566-1446-6
OriginaleA Mountain of Crumbs [2009]
TraduttoreFranca Genta Bonelli
LettoreLuca Vita, 2012
Classe narrativa russa , paesi: Russia
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Indice


 1. Ivanovo                               7
 2. I mariti di mia madre                19
 3. Vranyo, la finzione                  36
 4. Dacia                                52
 5. Lenin e Scoiattoli                   65
 6. Teatro                               85
 7. Simple past                          93
 8. Funghi                              119
 9. A proposito dell'amore              131
10. Anatomia umana                      143
11. I pericoli dei grandi fiumi         158
12. Una lezione sui classici russi      182
13. Un tour di Leningrado               202
14. Lavoro                              226
15. Notte bianca                        256
16. Crimea                              271
17. Facilitatrice di acquisizioni       294
18. In attesa                           316
19. Matrimonio                          336
20. Addio                               361

Epilogo                                 378
Ringraziamenti                          383


 

 

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Pagina 7

Capitolo Uno
IVANOVO



Vorrei che mi madre fosse nata a Leningrado, vorrei che venisse dal mondo di Pushkin e degli zar, dei grandi viali lungo il fiume e dei merletti in ferro battuto, delle cupole perlacee che sembrano puntellare il suo basso cielo. Ed ecco che, nel momento stesso in cui esalò il suo primo respiro, sarebbe stata contagiata dalla sofisticata raffinatezza di Leningrado, per non parlare delle facciate armoniose e dei ponti monumentali che, marinati per oltre due secoli nell'aria salmastra della città, avrebbero lasciato un'indelebile impronta di eleganza sulla sua anima.

E invece no. Mia madre nacque nella provinciale cittadina di Ivanovo, nella Russia centrale, dove i polli razzolavano in cucina e i maiali grufolavano sotto le scale, dove le strade non erano asfaltate e dove le case erano di legno. Mia madre proviene da un ambiente dove c'era l'usanza di leccare i piatti.

Nata tre anni prima che la Russia diventasse l'Unione Sovietica, mia madre divenne l'immagine speculare del mio paese natale: autoritaria, protettiva, difficile da lasciare. La nostra casa era la sede del politburo e mia madre il suo inamovibile segretario. Nella nostra cucina "presiedeva" al di sopra di una pentola di borsch: brandendo il mestolo, ci ordinava di mangiare con lo stesso tono di voce con cui faceva rabbrividire i suoi studenti del corso di anatomia. Sopravvissuta alla carestia, al terrore staliniano e alla Grande Guerra Patriottica, ci controllava e ci proteggeva, con feroce determinazione. Non avrebbe permesso che a noi accadesse ciò che era accaduto a lei.

Ci proteggeva dai pericoli, dalle esperienze e dalla vita stessa con un ferreo abbraccio che ci rendeva innocenti e boccheggianti per mancanza d'aria.

Ci deportava nella cadente dacia di famiglia, sotto il piovoso cielo del Baltico, per seminare, sarchiare, raccogliere e conservare per l'inverno tutto ciò che cresceva sotto íl raro e pallido sole che non saliva mai oltre il porcile del vicino. Nelle brevi estate nordiche sguazzavamo attraverso una palude per raggiungere le acque poco profonde del Golfo di Finlandia, tiepide e giallognole come tè poco concentrato; cercavamo funghi in mezzo al muschio della foresta e li appendevamo a una corda tesa sopra la stufa per farli essiccare, così da metterli in serbo per l'inverno. Mia madre pianificava, dirigeva, sorvegliava, innaffiando cetrioli e finocchi, sgomitando nelle code per procurarsi lo zucchero necessario per conservare i frutti con cui preparare gli sciroppi utili a curare i raffreddori invernali. Quando arrivava settembre, eravamo di ritorno in città, pronti a rovistare in dispensa alla ricerca di marmellata di uva spina per alleviare la mia tosse o di sciroppo di ribes nero per abbassare la pressione di mio padre. Ed eravamo nuovamente pronti a sorbirci i discorsi della nomenclatura del partito, a indossare i cappotti imbottiti e a prepararci per quando sarebbe arrivato il mese di aprile e sarebbe stato necessario curare l'orto.

Forse, se non avessi trascorso tutte le domeniche di primavera affondando fino alle caviglie nel fango, non mi sarei lasciata sedurre con tanta facilità dai suoni decadenti della lingua inglese provenienti dai solchi di un disco intitolato Audio-Lingual Drills, orgoglio del mio insegnante. Mi sarei iscritta alla facoltà di medicina, come mia madre, o di ingegneria, come facevano tutti. Magari avrei sposato un russo.

Forse, se avessi collegato la parola intelligentsia alla sua imponente persona, infagottata in un vestito di poliestere confezionato da una fabbrica denominata Donna Bolscevica, non sarei fuggita in America su un volo dell'Aeroflot, con in mano un passaporto corredato dalla fotografia di un viso stralunato e trascinando una valigia messa a soqquadro da un agente del KGB, valigia in cui avevo infilato venti chili di quella che era stata la mia vita.


Mio nonno, Konstantin Ivanovich Kuzminov, era un contadino. Sentendosi in colpa per i secoli di schiavitù, la contessa proprietaria del suo villaggio sulle rive del Volga, a cinquecento verste da Mosca, gli aveva concesso una borsa di studio grazie alla quale poté studiare ingegneria. Mia nonna era invece la figlia del proprietario di una fabbrica tessile. In quella fabbrica, situata nella cittadina di Ivanovo, specializzata nell'industria tessile, lavorava la maggior parte degli uomini del villaggio. Si sposarono due anni prima che scoppiasse la Prima guerra mondiale e cinque prima che i bolscevichi facessero irruzione nel Palazzo d'Inverno e il paese fosse dilaniato dalla guerra civile.

Nel 1918, quando, insieme a un gran numero di nobili atterriti, la generosa contessa si era rifugiata in Crimea e di lì si era imbarcata per la Turchia, i miei nonni avevano già tre figli, mia madre e due fratellini più piccoli. La rivoluzione, con la sua promessa di liberazione dal giogo dell'assolutismo e di raggiungimento del paradiso per tutti i lavoratori, sembrava offrire la speranza che in Russia le cose sarebbero migliorate, che secoli di ingiustizie e di schiavitù fossero finalmente alle spalle e che pace e prosperità fossero ormai a portata di mano. Invece, nel 1920 le razioni alimentari furono nuovamente ridotte e l'incubo della carestia tornò ad aleggiare sul paese, mentre sei decenni di terrore stavano ormai per affacciarsi all'orizzonte.

Fu allora che mia nonna inventò il gioco della "montagna di briciole". A sei e cinque anni, mia madre e suo fratello Sima erano grandi abbastanza per ignorare i crampi di fame che attanagliavano il loro stomaco e accontentarsi di un pezzo di pane nero e di un cubetto di zucchero, ma il fratellino più piccolo, mio zio Yuva, che di anni ne aveva solo tre e che sarebbe morto nei primi istanti della "guerra lampo" del 1941, stringeva i pugnetti e si lamentava per la fame.

«Guarda quanto cibo ti ho dato,» diceva allora mia nonna sbriciolando un pezzo di pane e un cubetto di zucchero, «un'intera montagna di briciole.» Mia madre e Sima, più grandi e più saggi, si scambiavano un'occhiata colma di pietà nei confronti del fratellino, che si lasciava ingannare così facilmente. «Due montagne» precisava mia nonna. A quel punto Yuva smetteva di piagnucolare e si asciugava le guance, soddisfatto per l'apparenza di abbondanza, per quelle due montagne di briciole che davano l'illusione di contenere più pane e più zucchero del misero pezzo di pane che compariva nel piatto di tutti gli altri, briciole che per essere raccolte una a una, e messe in bocca, richiedevano un'ora buona.

Nel 1928, i miei nonni, la loro unica figlia femmina e i figli maschi, che nel frattempo erano diventati tre, abitavano in una casa di legno a due piani insieme a Baba Manya, la sorella zitella della nonna, ingegnosa, paciosa e gentile. Baba Manya adattava abiti vecchi per i bambini che crescevano troppo in fretta, allevava tre galline in cucina fino al brutto giorno in cui furono mangiate da un gatto e successivamente, quando scoppiò una nuova carestia dopo la Seconda guerra mondiale, acquistò l'ultimo macilento maialino da un carretto che si era fermato per pochi minuti lungo la strada antistante la loro casa. Il maiale visse sotto la scala e l'anno successivo li salvò dal morire di fame.

Nel 1929 nacque la sorella minore di mia madre, Muza, quinto e ultimo nato della famiglia.

«Dio ci ha dato un'altra bambina» annunciò Baba Manya dal portico, dove si era piazzata approfittando di uno sprazzo di estate di san Martino, asciugandosi le mani nel grembiule. «Sia lodata la Trinità che sta nei cieli, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.»

Non sapeva che, a Mosca, era stato emanato un decreto in base al quale si dichiarava che la religione era definitivamente defunta: un nemico debole e malaticcio, pugnalato a morte e definitivamente relegato nella soffitta del passato zarista.

«Non Dio» aveva protestato mia madre, all'epoca quattordicenne, spalleggiata dai tre fratelli più giovani, immersi fino alle ginocchia in un cespuglio di denti di leone. Tutti e quattro osservavano mia nonna fasciare una sgambettante Muza, che ben presto sparì sotto strati di vecchie lenzuola. «È stata la nostra mamma a darci un'altra bambina.»

«Possa cascarvi la lingua, a tutti e quattro, fooligani senza Dio!» gridò Baba Manya facendosi rapidamente il segno della croce. Voleva dire hooligani ("teppisti"), ma i casi erano due: o non riusciva a pronunciare la h o non conosceva la parola esatta. In ogni caso, mia madre e i suoi fratelli furono etichettati fooligani: focosi e ingenui, risoluti e incauti, ispirati da un nuovo dio, un incrocio tra hooligani e "folli".

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Pagina 65

Capitolo Cinque
LENIN E SCOIATTOLI



La mia maestra di terza elementare, Vera Pavlovna, è alta e ossuta, rigida come un attaccapanni, con il suo cardigan marrone che le scende dalle spalle. Insegna aritmetica, storia sovietica e russo. Nelle sue ore di lezione copiamo esercizi dal libro di testo e li trascriviamo su piccoli quaderni a righe mentre lei si aggira per l'aula, sbirciando al di sopra delle nostre teste, lodando le linee regolari della nostra scrittura.

La maggior parte delle volte la sua lode va tuttavia a Zoya Churkina, che siede nella fila alla mia sinistra, due banchi più vicino alla cattedra. Zoya è bionda e perfetta, i suoi lunghi capelli sono raccolti in due trecce impeccabili, legate alle estremità da due bei fiocchi, il suo grembiule nero, indossato su un elegante abito marrone, ha il colletto bianco sempre accuratamente inamidato. "Il nostro diamante" la definisce Vera Pavlovna, mentre Zoya arrossisce cercando di nascondere un sorriso.

Quanto a me, non mi definisce mai un diamante, anche se completo gli esercizi con la stessa velocità di Zoya. L'epiteto più lusinghiero che mi sia mai stato indirizzato è "la nostra pepita d'oro", di cui vengo gratificata ogni volta che declino tutti i participi senza un solo errore. La verità è che sono gelosa di Zoya, con le sue trecce esemplari e il suo perenne status di "diamante". Infatti, sebbene nessuno di noi abbia la più pallida idea di come siano diamanti e pepite d'oro, siamo tutti consapevoli della superiorità del diamante sulle pepite d'oro e dunque del fatto che io sia la numero due.

Quando suona la campana, Zoya cancella la lavagna e controlla che tutti escano in corridoio. Non solo: in quanto capoclasse, è l'unica cui è consentito restare in aula durante l'intervallo, l'unica cui spetta di assicurarsi che Dimka, il teppista di classe, non scateni qualche rissa.

Dimka è uno dvoechnik, uno che ottiene dvoika, l'insufficienza, in tutte le materie. L'opposto di dvoika è pyatorka, un cinque, il voto che meritiamo Zoya e io.

«Con tutta probabilità Dimka è il figlio di un idraulico» afferma mia madre, che proprio di recente ha avuto a che fare con gli idraulici. Dopo una settimana di visite quotidiane all'ufficio del responsabile tecnico del complesso in cui si trova il nostro appartamento, per segnalare una perdita d'acqua, mia madre ebbe finalmente la meglio e ottenne che due idraulici fossero inviati a riparare il guasto. Quando però arrivarono, erano già così ubriachi che, non appena mia madre aprì loro la porta, non poterono fare a meno di rotolare sul pavimento del pianerottolo, finendo con la testa contro il vano ascensore.


Oggi è il giorno che precede il 7 novembre, l'anniversario della Grande Rivoluzione Socialista di Ottobre, argomento di cui, nelle lezioni di storia, Vera Pavlovna parla con passione. Tenendo il braccio in avanti, come Lenin nelle statue sparse per tutta la città, ci spiega come l'incrociatore Aurora, che era stato usato durante la Prima guerra mondiale e che ora è permanentemente ancorato sulla Neva, abbia sparato un colpo a salve per dare il via all'assalto al Palazzo d'Inverno.

«Operai e contadini,» dice «spietatamente sfruttati dallo zar, si arrampicarono sulle cancellate del palazzo, corsero per la Scalinata d'Ottobre e arrestarono i membri del governo provvisorio.»

La parte riguardante il governo provvisorio resta poco chiara. Non solo non spiega mai in che modo questo governo abbia sostituito quello dello zar, ma soprattutto non chiarisce perché anch'esso dovesse essere rovesciato dal momento che aveva già detronizzato lo zar, colpevole di aver fatto precipitare il paese nell'abisso che impose l'intervento rivoluzionario.

Mentre le trema la voce nel descrivere l'arresto, io cerco di immaginarmi una folla di operai e contadini all'interno del Palazzo d'Inverno, sede dell'Hermitage; li immagino salire la Scalinata d'Ottobre, con i suoi pavimenti di marmo intarsiato e i dipinti di artisti italiani, calzando i loro pesanti stivali; li vedo fare irruzione dietro il trono di Pietro il Grande brandendo martelli e falci. Non posso fare a meno di pensare che, nonostante l'ardore di Vera Pavlovna, oggi non si permetterebbe nulla del genere, dal momento che, anche soltanto per mettere piede nell'Hermitage, bisogna calzare soprascarpe di feltro, legarle attorno alle caviglie e scivolare silenziosamente sotto l'occhio vigile di migliaia di babushke appostate negli angoli delle varie stanze, attente a impedire che ci si avvicini troppo alle porcellane reali o ai dipinti di inestimabile valore.

«Domani 7 novembre, in tutta l'Unione Sovietica, dalla nostra gloriosa capitale al permafrost della taiga siberiana, celebreremo l'anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d'Ottobre» esclama Vera Pavlovna.

«Perché è la Rivoluzione d'Ottobre se la festeggiamo in novembre?» chiede Dimka, il teppista, dall'ultimo banco.

Vera Pavlovna si ferma nel bel mezzo della sua appassionata declamazione e lo guarda incredula. L'abolizione del calendario giuliano-gregoriano rientra nel programma di prima elementare, ma evidentemente anche allora Dimka non ascoltava.

«Vergogna,» dice la maestra puntando il dito contro di lui stile statua di Lenin «vergognati della tua ignoranza!»

Si concede una pausa per consentire a ognuno di noi di meditare sulla vergognosa ignoranza di Dimka. Dopo un minuto di silenzio, quando l'appassionato slancio iniziale è ormai venuto meno, passa a questioni molto più recenti.

«Tra due giorni, quando rientrerete dalle vacanze, ci sarà una cerimonia tutta nostra. Vi sarà concesso un grande onore: diventerete tutti Giovani Pionieri.»

Ogni anno, nella palestra della scuola, tre sezioni di alunni di terza, schierati in file perfette, pronunciano il giuramento del Giovane Pioniere: attorno al collo viene loro legato un fazzoletto rosso dai compagni di settima, che, essendo ormai quattordicenni, smettono di far parte dei Pionieri per entrare nella Lega dei Giovani Comunisti. Fa parte del rituale della scuola, proprio come la visita annuale alla clinica dentistica, fissata inesorabilmente per la metà di marzo e odiata da tutti noi.

«Tra due giorni ciascuno di voi pronuncerà il giuramento, primo passo sulla strada che consente di diventare comunisti» continua Vera Pavlovna senza smettere di fissare Dimka. Scuotendo la testa ci fa capire che, nonostante la prassi della nostra scuola, si tratta di un onore che Dimka non merita affatto.

Il Codice del Giovane Pioniere, appeso a una parete della nostra aula, impone che tutti coloro che aspirano a diventare Pionieri abbiano un comportamento corretto e buoni voti, e dunque tecnicamente per Dimka le porte dovrebbero essere sbarrate; in realtà, però, a tutti gli alunni di tutte le classi viene dato il fazzoletto rosso e Vera Pavlovna non può far nulla per impedire che Dimka lo ottenga. Naturalmente, sappiamo benissimo che non ci proverebbe mai: sa perfettamente che la pratica non può evitare di scostarsi da quanto sta scritto sulla carta, che le regole sono qualcosa che è opportuno recitare, ma non rispettare. È chiaro a tutti che non sarebbe affatto bello se, durante la cerimonia, qualcuno restasse senza fazzoletto rosso, sollevando ogni sorta di interrogativi sulla sua lealtà e affidabilità.

«Guardate un eroe, un eroico pioniere del passato» dice Vera Pavlovna, indicando il ritratto di Pavlik Morozov, appeso alla parete accanto a quello di Pushkin. La sua storia è su tutti i testi scolastici, ma Vera Pavlovna ce la racconta per l'ennesima volta.

«Figlio di contadini ricchi, Pavlik Morozov scoprì che suo padre nascondeva alcuni sacchi di grano in cantina mentre il popolo moriva di fame. Di notte, questo ragazzo coraggioso corse attraverso i campi per raggiungere il soviet locale e rivelare quanto aveva scoperto. L'indomani mattina i soldati bussarono alla porta di casa sua e confiscarono il grano. A Pavlik Morozov il commissariato locale concesse una medaglia.» Vera Pavlovna piega il capo per sottolineare l'ultima parola.

Quanto a me, lancio un'occhiata al viso solenne di Pavlik che ci guarda dall'alto in basso, con il fazzoletto rosso attorno al collo e un'aura di irraggiungibile superiorità, perfetto come Zoya Churkina.

«E al padre, che cosa successe?» chiede Dimka dall'ultimo banco.

Vera Pavlovna fa una pausa e lo fissa con un sorriso di commiserazione, come se dicesse: anche se tu non sai che cosa successe al padre di Pavlik, tutti sanno che cosa gli dovesse accadere per aver nascosto il grano.

«Per questo grave crimine e per aver violato l'ordine di Stalin di dare tutto il raccolto al popolo affamato, il cittadino Morozov fu arrestato e condannato a sette anni di lavori forzati» annuncia trionfante Vera Pavlovna.

Non sono certa che tradire il proprio padre e farlo deportare in Siberia sia un'azione eroica, anche se può salvare qualcuno dalla morte per fame. Tuttavia non dico nulla e altrettanto fanno i miei compagni, che si guardano bene dal contraddire Vera Pavlovna quando loda l'eroismo di Pavlik. Tutti noi sappiamo che ci sono cose così ovvie che non vale la pena di discuterne. Non si discute di ciò che sta scritto sui libri di storia, si finge di pensare che Pavlik Morozov sia un vero eroe che merita una medaglia, esattamente come, alla scuola materna, fingevamo di masticare il pane imburrato con burro rancido.

Ma Dimka, vuoi per ignoranza o per stupidità, non conosce le regole non scritte. A differenza del resto della classe, prima di parlare non valuta se ciò che sta per dire sia opportuno o meno. Non lo ripete mentalmente per essere certo che le parole che gli escono di bocca siano conformi al Codice dei Giovani Pionieri. E così, di tanto in tanto, fa una domanda interessante.

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Capitolo Nove
A PROPOSITO DELL'AMORE



In quinta, la nostra insegnante di letteratura, Ludmila Ivanovna, è bassa e tonda, e non fa che spostarsi da un capo all'altro dell'aula a piccoli passi. La chiamiamo "Bidone". Ludmila Ivanovna è l'esatto opposto della professoressa di inglese, che è alta, ossuta e non si muove quasi mai.

Con Bidone, stiamo studiando Pushkin, il padre della letteratura russa, lo Shakespeare della lingua russa. In Pushkin c'è ben poco che si presti a essere ammantato di ideologia: è semplicemente un poeta classico, il cui profilo spigoloso e i cui capelli ricciuti sono famigliari a tutti gli studenti che vivono entro i confini dell'Unione Sovietica. Ma Ludmila Ivanovna, il cui viso paffuto è circondato da ricciolini ottenuti ricorrendo alla permanente, sta facendo qualcosa di non autorizzato e addirittura audace: ci sta intrattenendo con un'analisi extra-curricolare delle preferenze, nel campo della lettura, di Tatiana, la virtuosa eroina dell' Evgenij Onegin.

«Tatiana adorava i romanzi d'amore» dichiara Ludmila, il Bidone, beandosi della nostra attenzione, per altro insolita. «Leggeva il francese, come all'epoca facevano tutti i russi della buona società, e si appassionava alle avventure amorose dei giovani duchi e delle dame di compagnia.»

Drizziamo le orecchie non appena sentiamo pronunciare la parola "amore", che a scuola non viene mai pronunciata, quanto meno nel suo significato romantico. In effetti, ci riempiono le orecchie con l'amore per la patria e con l'amore per il Partito comunista, ma si tace rigorosamente sull'amore tra esseri umani. E dunque è scandaloso che Tatiana, esempio di castità nella letteratura russa, amasse questi romanzi decisamente sconvenienti.

«Credi che sapesse come ci si bacia?» bisbiglio a Larissa, la mia compagna di banco. Sediamo in banchi a due posti: in tutto siamo una trentina, stretti in un'aula poco ventilata, dove nel raggio di luce primaverile che filtra attraverso la finestra si vedono turbinare granelli di polvere. «Voglio dire, prima di sposare quel generale?»

Larissa sogghigna, poi inarca le sopracciglia per lo stupore. Di chi mai ci si può fidare se persino la Tatiana di Pushkin può dar prova di tanta incredibile frivolezza?

Bidone, crogiolandosi nella luce sempre più vivida della nostra attenzione, agita le corte braccia e strabuzza gli occhi per raccontarci nel migliore dei modi la tragica storia di una contessa francese. Con occhi scintillanti e scuotendo i riccioli, Ludmila appare indignata e contemporaneamente trionfante nel rivelarci questo amore inconfessabile.

Naturalmente io so dell'esistenza di questo tipo di amore, anche se mia madre, proprio come la mia scuola, finge che non esista. Dopo tutto, il prossimo settembre avrò dodici anni e frequenterò la sesta. Nel mio cortile, dove le cose sono molto più reali, vedo questo genere di amore accanto ai radiatori arrugginiti, posizionati tra un piano e l'altro, dove i sedicenni pizzicano le corde di una chitarra e cantano di cuori spezzati, illuminando il buio con le loro sigarette.

Nel bel mezzo di quest'estasi indotta da Pushkin, mentre la nostra attenzione è stimolata da una Ludmila che si avvia verso il momento culminante della storia, la porta si apre e, con la consueta solennità, entra la nostra preside. È alta e austera, con un impeccabile chignon sulla sommità della testa. Non conosco nessuno che l'abbia mai vista sorridere. La preside si siede in un banco vuoto in fondo all'aula per ascoltare la lezione, come sempre avviene nel corso delle sue ispezioni a sorpresa.

Bidone smette immediatamente di andare avanti e indietro sull'improvvisato palcoscenico e la nostra attenzione svanisce. Sotto il banco allungo un calcio a Larissa, che si volta verso di me corrugando la fronte. Con la preside in fondo all'aula, nessuno osa dire una parola, nessuno osa lasciarsi sfuggire il benché minimo bisbiglio.

L'imbarazzo di Bidone è palpabile. Trasuda dai pori del suo viso paonazzo e il sudore le inumidisce i capelli, incollandole i ricciolini alle tempie. Dopo un minuto di plumbeo silenzio, Ludmila si lascia alle spalle gli appassionanti intrighi amorosi della corte francese per passare, così come prescrive il programma, a illustrare con voce monotona il ruolo delle donne nella società dell'epoca.

Io scarabocchio il banco con la stilografica, il che è particolarmente deplorevole se si considera che l'inchiostro rosso è indelebile. Scrivo la parola "amore", premendo la penna sul legno in modo che le lettere emergano con chiarezza in mezzo ai commenti di altri studenti su insegnanti e compagni. Con linee marcate e appariscenti, le lettere rosse pulsano come i cuori dei giovani amanti della storia che Ludmila è stata costretta a interrompere.

La lezione sul ruolo delle donne nella Russia dell'Ottocento scivola silenziosamente oltre le mie orecchie e dalla finestra aperta esce all'esterno, dove il sole disegna frammenti di arcobaleni sui ghiaccioli che si stanno sciogliendo. Non appena la lezione sarà terminata, correrò giù dalle scale a rotta di collo e poi, trattenendo il fiato per l'emozione, camminerò lungo íl corridoio passando davanti all'Aula 11 dove, ogni giovedì, gli alunni di settima hanno una lezione di zoologia. Se sarò fortunata, potrò vedere Nikolai Gromov, il ragazzo che, due settimane fa, mi ha sorriso mentre eravamo negli spogliatoi.

Nikolai ha appena sostituito il fazzoletto rosso del Giovane Pioniere con il distintivo del Komsomol. Questo vuol dire che ha compiuto quattordici anni, l'età che garantisce a ogni studente il passaggio al Komsomol, la Lega dei Giovani Comunisti. Non riesco a credere che un quattordicenne sorrida a una semplice ragazzina di quinta!

La campanella salva Ludmila da ulteriori tentativi di infondere un po' di vita nel mortorio dell'ordine sociale nella Russia prerivoluzionaria. Nessuno però si muove. Infatti non è permesso alzarsi dal banco fino a quando l'insegnante dà il permesso, e la presenza della preside costituisce un tacito ammonimento al rispetto di questa regola non scritta. Con un unico, maestoso movimento, la preside si alza, raccoglie i fogli su cui ha riportato le proprie annotazioni e in silenzio esce dall'aula. Non penso di averla mai sentita parlare, se non al microfono in occasione delle cerimonie ufficiali.

«La lezione è terminata» sospira Ludmila, che si siede alla cattedra e comincia a sfogliare il registro, riparandosi gli occhi con la mano paffuta. Uscendo dall'aula, passo davanti alla cattedra e noto che le sue dita tozze sono scosse da un tremito.

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Pagina 260

Zia Mila ha una sessantina d'anni e abita a Minsk, dove le notti sono nere tutto l'anno. Indossa eleganti abiti di seta ed è solita farsi seria e alzare il mento ogni volta che si guarda allo specchio per incipriarsi il viso con un piumino demodé che sparge nuvolette di cipria. La zia non è sposata e abita con il fratello nell'appartamento di lui, in una stanza in cui c'è posto solo per il suo letto a una piazza. Per altro, quello del fratello potrebbe essere considerato un appartamento in coabitazione, dice; infatti è costretta a nascondere nella propria stanza il cibo che compra onde evitare che sparisca immediatamente. Non ho mai vissuto in coabitazione, ma dai discorsi degli amici e da quanto si legge sui libri conosco quel mondo eterogeneo fatto di cucine anguste e fornelletti traballanti, di un unico bagno (se si è tanto fortunati da averne uno!) con una vasca arrugginita macchiata da una striscia di sudiciume, di vicini che si sputano a vicenda nella pentola della minestra e di frigoriferi che torreggiano accanto al letto perché nessuno vuol rischiare di lasciare il proprio cibo in cucina, alla mercé dell'ingordigia altrui. Zia Mila non ha la possibilità di mettere un frigorifero nella propria cameretta, non c'è spazio, perciò nasconde il proprio cibo nel comodino. Non ama parlare della sua vita in casa del fratello, della necessità di camminare in punta di piedi e nascondere il cibo, perciò, quando mia madre cerca di saperne di più o alza le braccia al cielo, indignata per l'impudenza dei parenti, la zia cambia discorso e parla di Pushkin.

«Si può essere una persona utile e preoccuparsi della bellezza delle proprie unghie» declama, citando una poesia che non è mai entrata nei nostri programmi scolastici. Mi piace la zia Mila, proprio come mi piace la saggezza di Pushkin. Si può essere seri ed efficienti come mia madre e nel contempo passare un'ora lisciandosi i capelli o applicando un ombretto appena acquistato, mescolando gli unici due colori disponibili in modo da non sembrare un cadavere, il tutto senza sentirsi in colpa perché, invece di indugiare davanti allo specchio, si sarebbe dovuto curare l'orto o mettersi in fila per il latte.

Ma dai discorsi della zia si capisce che, in fin dei conti, Pushkin, con la sua casta Tatiana, e Tolstoj, con l'innocente Natasha, non erano poi così virtuosi come li descrivono i testi scolastici. La zia Mila, che prima di andare in pensione, all'età di cinquantacinque anni, era stata una scrittrice e aveva lavorato come critico letterario, mi racconta cose che i libri di testo non dicono. Pushkin, che a suo dire seduceva tutte le donne che incontrava, non ha scritto soltanto Evgenij Onegin, ma un volume di poesie così indecenti che nessuno ebbe il coraggio di pubblicare! Altro che citarle sui libri di scuola! In compenso, il Pushkin ufficiale, che, dopo aver brillato in un prestigioso istituto scolastico a trenta miglia da San Pietroburgo, a trentasette anni fu ucciso in duello, divenne un esempio di virtù letteraria, impegnato nel rivoluzionare la poesia russa e nel combattere contro l'oppressione zarista. Si tratta dunque di due uomini diversi? Uno sarebbe il pilastro di serietà e moralità che campeggia nei ritratti ufficiali, l'altro il debosciato, il libertino impenitente? Questo nuovo, svergognato Pushkin è lo stesso poeta che ha scritto la scena in cui Tatiana dice all'amato Onegin di aver sposato un altro uomo, cui sarà fedele per tutta la vita? Zia Mila scuote le spalle e mi indirizza un vago sorriso.

Ma non si limita a Pushkin. Conosce storie inedite su quasi la metà degli autori i cui ritratti ornano le pareti dell'aula di letteratura. Prendiamo per esempio il testo ufficiale scritto da Turgenev sul conflitto morale tra la felicità e il dovere, e sui lishnie lyudi, le persone inutili. Come tutti, anch'io ho dovuto imparare a memoria le storie narrate nelle Memorie di un cacciatore. Le descrizioni delle candide betulle russe e del limpido fumo che fuoriesce dalle capanne dei contadini — descrizioni che riempiono pagine e pagine, stampate a spazio singolo — potevano essere state scritte soltanto da un autore russo, come insisteva la mia professoressa, Nina Sergeevna, da un vero russo, visceralmente legato alla sua patria, da un uomo con un'anima profondamente russa. In realtà, secondo zia Mila, da adulto il vero Turgenev visse sempre all'estero, inseguendo da un capo all'altro dell'Europa una cantante d'opera, ovviamente sposata con un altro, infischiandosene delle condizioni dei servi della gleba, chiamati dushi, la stessa parola che in russo significa "anima". Il Turgenev di mia zia aveva un sacco di "anime", costrette a sgobbare nella sua tenuta nella vecchia Russia.

La zia ama le notti bianche e la sera, quando le nuvole che di solito coprono il cielo di Leningrado sono spazzate via verso la Finlandia, facciamo una passeggiata dopo che mia madre ha spento la televisione e se ne è andata a letto. Mia zia infatti non riuscirebbe comunque a dormire, così dice, perché anche a mezzanotte la luce le ferisce gli occhi come a mezzogiorno. Quando superiamo la cattedrale di Sant'Isacco e l'Ammiragliato, il sole illumina i tetti e sparisce dietro le facciate di Nevskij, solo per sorgere di nuovo ancor prima che abbia fatto in tempo a parlarmi di Herzen. Infatti, mentre passeggiamo lungo via Herzen, passiamo di fronte all'istituto pedagogico che porta il suo nome. Come tutti sanno, dal suo esilio in Siberia questo Herzen ha rovesciato il regime zarista scrivendo un interminabile libro di memorie, Passato e pensieri, compiendo così il proprio destino storico «di scatenare l'insurrezione rivoluzionaria» dopo che la rivolta decabrista del 1825 lo svegliò dall'amnesia aristocratica: così almeno recita una citazione di Lenin che all'inizio dell'ottavo anno di scuola tutti noi abbiamo dovuto imparare a memoria.

Ma l'Herzen di zia Mila, invece di scatenare l'insurrezione rivoluzionaria, faceva la spola tra Parigi e Londra, dapprima con la prima moglie, Natasha, e poi con l'amica della moglie, che anche lei si chiamava Natasha, mettendo al mondo un figlio dopo l'altro. Dovremmo provare compassione nei confronti di Alexander Herzen, sostiene mia zia. Viveva all'estero, come Turgenev, Bunin e tu gli altri, emigrati per scelta o perché la tirannia zarista costringeva all'esilio. Tutti avevano nostalgia del proprio paese, aggiunge con un sospiro, a tutti mancava la Russia e le loro anime (da non confondere con i loro servi della gleba) erano rivolte verso est.

Non so perché zia Mila, costretta, nel proprio paese, a nascondersi il cibo nel comodino, pensi che i russi emigrati all'estero fossero tutti infelici. Sarei infelice se fossi costretta a vivere a Parigi o a Londra? Se invece di fare la fila per comprare la salsiccia o i cetrioli, dovessi scegliere tra un prodotto chiamato "carciofo" e uno chiamato "gamberetto"? Se potessi entrare in una libreria e sugli scaffali trovare qualsiasi libro, qualsiasi titolo mi venisse in mente, persino i romanzi di Nabokov o i versi di Mandelstam, persino le poesie indecenti di Pushkin?

Tuttavia la zia non appare toccata dalle mie domande. È dal vivere all'estero che deriva la parola "nostalgia', insiste, dal sentire la mancanza del proprio paese, delle betulle e delle capanne dei contadini, dal descriverle in storie che gli studenti del secolo successivo dovranno imparare a memoria. Deriva dal ripensare a cose considerate banali e insignificanti: per esempio, un filo di fumo che da un camino sale verso il cielo invernale, o la figura di tua madre che diventa sempre più grande davanti alla dacia finché ti ritrovi con il viso affondato nel suo morbido seno, coperto da un vestito di poliestere su cui è stampata una bella mela rossa.

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