Copertina
Autore Georgi Gospodinov
Titolo Romanzo naturale
EdizioneVoland, Roma, 2007, sírin 34 , pag. 154, cop.fle., dim. 14,5x20,4x1 cm , Isbn 978-88-88700-74-8
OriginaleEstestven Roman [1999]
TraduttoreDaniela Di Sora, Irina Stoilova
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa bulgara
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Pagina 7

1



In ogni istante a questo mondo c'è una
lunga fila di gente che piange e una
più corta di gente che ride. Ma anche
una terza fila, che non piange più e
non ride più. La più triste delle tre.
È di questa che voglio parlare.



Ci stiamo separando. Nel sogno la separazione è legata soltanto all'andar via di casa. Nella stanza tutto è imballato, gli scatoloni arrivano al soffitto, ma resta comunque molto spazio. Il corridoio e le altre stanze sono pieni di parenti, miei e di Ema. Si sussurrano qualcosa tra loro, bisbigliano e aspettano di vedere cosa faremo. Io ed Ema stiamo vicino alla finestra. Ci rimane da dividerci soltanto un mucchio di dischi. All'improvviso lei tira fuori dall'involucro il primo disco della pila e lo lancia con forza dalla finestra. Questo è mio, dice. La finestra è chiusa, ma il disco la attraversa come se fosse fatta di aria. D'istinto tiro fuori il successivo e lo lancio anch'io. Vola come un disco volante, gira sul suo asse come se fosse su un grammofono, ma più veloce. Si sente il sibilo. Arrivato all'incirca sopra i cassonetti dell'immondizia si dirige minacciosamente verso un sudicio piccione che vola basso. In un primo momento sembra che la collisione possa essere evitata ma subito dopo vedo con orrore il bordo affilato del disco affondare morbidamente nel pasciuto collo del piccione. Tutto avviene a un ritmo rallentato e questo accresce l'orrore. Si sentono chiaramente alcuni brevi suoni mentre il disco taglia il collo. L'osso appuntito della gola del piccione suona per un attimo mentre passa sul solco del disco. Appena l'inizio della melodia. Una canzonetta. Non ricordo. Les parapluies de Cherbourg? Oh, Paris? LAuberge des Trois Canards? Non ricordo. Ma la musica c'era. La testa tagliata vola ancora qualche metro per inerzia, mentre il corpo cade molle nella polvere vicino ai cassonetti. Non c'è sangue.

Nel sogno è tutto infinitamente limpido. Ema si china e lancia il disco successivo. Poi io. Lei. Io. Lei. A ogni disco si ripete la stessa cosa successa con il primo. Il marciapiede sotto la finestra è pieno di teste di uccello, grigie, uguali, gli occhi coperti dalla membrana. A ogni testa che cade, i parenti applaudono energicamente. Miza sta sul davanzale della finestra e si lecca avidamente i baffi.

Mi sono svegliato con il mal di gola. All'inizio pensavo di raccontare il mio sogno a Ema, ma poi ci ho rinunciato. È solo un sogno.

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Pagina 25

oo



– Vivevo con una che passava tutto il suo tempo al cesso. Almeno quattro volte al giorno per un'ora e mezza a volta, ho controllato. Me ne stavo come un cagnolino in corridoio davanti alla porta, e chiacchieravamo. Abbiamo avuto conversazioni molto serie proprio in questo modo. Di tanto in tanto quando si zittiva, guardavo dalla toppa.

– Il cesso è un posto cupo, bello mio, un buco!

– Lascialo continuare, dài, e allora?

– Niente, parlavamo. Lei se ne stava comunque chiusa a chiave lì dentro, e io cercavo di tirarla fuori, mi inventavo varie fesserie, ce la mettevo tutta per convincerla ad aprire e guardarla finalmente in faccia. Le occhiate dalla toppa non contano, e qualche volta lei lo otturava con la carta igienica. Quando non vedi con chi parli ti lasci andare e dici cose che in un altro momento non avresti neanche pensato. Una volta però che insistevo per farla uscire, lei ha aperto la porta e mi ha chiesto di entrare. Non ne è venuto fuori niente. Un cesso è troppo stretto per due persone, ve lo dico io. La guardo, seduta con le mutande calate, come se fosse sprofondata nella tazza, insomma, come ingoiata. Spuntavano fuori solo le ginocchia e le gambe. Non siamo riusciti a fare una conversazione decente.

Magari ti faceva schifo, no?

– Ve l'ho detto, il cesso è un posto cupo, un grande buco!

– Ma no, no, solo che non ci è riuscito, mica puzzava. Eh, appena un po'...

- Aspettate, proprio questo è il punto, il vero problema è qua. Se riesci a sopportare la puzza della tua ragazza che sta cacando davanti a te, se non ti fa schifo, se la accetti come accetti la tua propria puzza, perché la tua non ti fa schifo, no? Allora vuol dire che potete stare insieme. Vi è chiaro? Lo puoi chiamare grande amore, la tua mezza mela, la donna giusta, con cui potrai passare almeno alcuni anni, ecc. È così. Cose del genere non succedono spesso. Una volta sola. È il vero test.

- Cheers! Le hai brevettate queste cose o stai vedendo che effetto fa il tuo prossimo romanzo agli ascoltatori?

- Ma no, sono cose serie ma i froci come te fanno test diversi. Alla salute.

- Smettetela con i cessi. Siamo a tavola, a mangiare e a bere, da dove spuntano tutti questi gabinetti e puzze...

- No, no, aspetta un attimo. Perché le persone a tavola non dovrebbero parlare di cessi? Perché vai al gabinetto? Ci vai perché prima sei stato a tavola, ti sei strafogato come un maiale, hai bevuto a volontà, e allora corri al cesso. È naturale, no? Però dirlo a tavola, no. Esiste forse qualcosa, pensaci bene, di più legato alla tazza del cesso della tavola? Non a caso ci sono tazze in tutti e due i posti, e sono pure di porcellana, lo dice la parola stessa, taz-ze di porcellana!! Ci ho riflettuto, io, su questi problemi, e ti dirò, le cose sono molto legate. Devi essere molto scemo, un vero minorato per non capire l'importanza del cesso. Vuoi sapere cosa farò un giorno? Raccolgo tutte le storie sui gabinetti, le metto in ordine, ci aggiungo qualche nota storica, gli indici e pubblico una Grande storia del gabinetto...

- Con copertina morbida e stampata su carta igienica.

- Buona idea. Però la storia sarà divisa in due parti. Il gabinetto di casa è qualcosa di molto diverso dal bagno pubblico. E adesso vi spiego la differenza.

- Non è che prima posso mangiarmi la mia coratella? Perché sento che presto tutto finirà in merda...

- La grande differenza consiste nel fatto che quando entri in un bagno pubblico tutto si riduce a un processo meccanico. Ti chiudi dentro, slacci i pantaloni, finisci, tiri su le mutande e te ne vai. Fai tutto il più in fretta possibile.

- Perché i gabinetti fanno schifo.

- Anche. Però è un processo. Nel gabinetto di casa invece ci puoi entrare in ogni momento, anche se non ne hai bisogno. Puoi perderci delle ore, leggerti un libro o sfogliare un giornaletto. Puoi anche solo tenerti la testa e pensare. In nessun altra stanza uno rimane tanto tempo solo con se stesso... Questa, sentimi bene, è la stanza più importante. La più importante.

- Allora nel gabinetto pubblico entri in modo procedurale e a casa in modo rituale.

- Qualcosa del genere. E sono riti personali, riti solo per te stesso, per nessun altro. Perché lì non ti vede nessuno. Credo che neanche Dio sbirci nel cesso.

- Per questo vi ho detto che il cesso è un posto cupo. Uno dei miei nonni si è impiccato nel gabinetto dietro casa. Si è tolto la cintura dai pantaloni e l'ha legata a una trave del tetto. Ha infilato i piedi nel buco per potersi appendere. E i pantaloni gli erano scivolati fino alle caviglie, senza cintura non si reggevano.

- Io invece da piccolo quando andavo al cinema del paese, non riuscivo a spiegarmi perché nei film nessuno andava mai al gabinetto. Ci sono indiani, cowboy, intere legioni romane e non ti fanno vedere nessuno che caca o piscia. Io dopo due ore di film correvo al cesso come un matto, mentre quei duri dei film in tutta la vita nemmeno una volta. Ecco, mi sono detto, i veri uomini non stanno accoccolati con i loro culi caldi sulla tazza, e ho deciso di vedere quanto reggevo senza fare almeno il bisogno più grande. Mi sono trattenuto tre giorni. Avevo orrende fitte allo stomaco, camminavo un po' piegato, i miei si sono spaventati e volevano portarmi dal medico. La sera del terzo giorno non ho retto più. Mi sono chiuso al gabinetto e mi sono liberato. Mi sentivo come un palloncino slegato che si affloscia, fa rumore, pluff, e non rimane più niente di lui. Fu allora che per la prima volta mi vennero dei dubbi sul cinema. C'era qualcosa di sbagliato, qualcosa... come dire... di disonesto.

– Solo perché andavi a vedere dei film scemi. Ti dico una cosa: puoi capire se un film è buono o no solo se la cinepresa entra nel gabinetto. Vedi per esempio in Pulp fiction quando Bruce Willis torna indietro per prendersi l'orologio, e decide di tostarsi due fette di pane, mentre Travolta sta al cesso. Il tostapane scatta facendo spaventare Bruce che spara a quell'altro. Vuol dire che è il tostapane a premere il grilletto e la cucina rompe il culo al cesso. Vedi come li collega?

— E lo sbirro nelle Iene, come si chiamava, Mister Orange, che racconta la storia della droga nel cesso, con tutti i dettagli per mascherare la cosa. Mentre cercava di imparare la storia, il suo capo gli diceva: devi ricordarti bene i dettagli. Solo così ti crederanno. L'azione, dice, si svolge nel bagno degli uomini. Devi sapere tutto: se per asciugarsi le mani c'è la carta o il phon, che sapone c'è. Se puzza. Se qualche bastardo non ha lasciato tracce di merda sui muri... Tutto.

– Mi viene da vomitare...

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Un certo K. Knaute congelò delle rane.
Alcune si ruppero con facilità ma
quelle che rimasero intere le portò in
un ambiente caldo e dopo sette, otto
ore si ammorbidirono e tornarono in
vita.
Rivista "Natura", 1904



Quando avevo 9 anni Dio mi si rivelò sotto forma di una lampadina. Ecco come successe. Ci portarono in gita a Sofia. Dopo che eravamo stati allo zoo ci fecero entrare nella cattedrale Alexander Nevski, forse perché era lì vicino e cominciava a piovere. Ci spiegarono che il posto dove saremmo entrati non era una chiesa ma un tempio-monumento. Della strana combinazione di queste due parole avevamo capito solamente la seconda parte, e comunque i monumenti non ce li immaginavamo così. Dentro era davvero impressionante, avevamo paura di perderci. Mentre aspettavamo che gli altri uscissero, a un lato della porta del 'monumento' apparve un vecchietto storpio e noi curiosi lo circondammo. Gli insegnanti erano ancora dentro e il vecchio cominciò a raccontarci di Dio. I più svegli di noi cominciarono subito a spiegare che Dio non esisteva, altrimenti da tempo Gagarin e gli altri cosmonauti lo avrebbero incontrato in cielo. Il vecchio scosse la resta e disse che Dio è come l'elettricità: esiste ma non si vede, scorre e si manifesta in ogni cosa. Dopo un po' riapparvero le maestre e ci allontanarono dal vecchietto. Ma le sue parole ci fecero seriamente riflettere. Dio e l'elettricità ci erano ugualmente oscuri. Subito però buttai lì alla maestra che Dio vive nelle lampadine. L'anno seguente portarono di nuovo tutta la classe in gita. Questa volta alla più grande centrale idroelettrica del paese, a fini scientifici. Ci fecero vedere enormi bobine, strutture di ferro, motori, e ci spiegarono che è da lì che nasce l'elettricità. La maestra mi prese da una parte e mi chiese con voce molto seria se pensavo ancora a quelle stupidaggini sull'elettricità e Dio. Ero ormai grande e dissi di no. A casa però stavo sempre molto attento quando accendevo la luce o il fornello elettrico. Dio illuminava e scottava.

Tempi fantastici, quelli dell'empirismo. Eravamo alunni delle medie quando qualcuno ci disse che l'urina umana possedeva proprietà curative e se uno la beveva poteva guarire da ogni malattia. Evidentemente la voce si era diffusa parecchio perché l'insegnante di biologia (un bel donnone biondo che di solito ci sedeva davanti accavallando le gambe e risvegliava in noi ragazzi dei primi banchi i primi tremori) durante una lezione si indignò e fece una tirata pazzesca contro questa voce, la annientò con un disgusto tale da far pensare che le fosse stata offerta proprio quella medicina. E finì di convincerci che la faccenda dell'urina non fosse solo una stupida invenzione, se la maestra si accalorava tanto. Il giorno seguente tre o quattro di noi avevano già assaggiato il liquido (come futuro naturalista ero uno di loro, è ovvio) e descrivemmo nel dettaglio il gusto: non troppo schifoso, leggermente acido e salato, simile all'acqua del mare secondo alcuni, e alla salamoia secondo altri. Sapevamo che era effetto dell'acido urico. Mai più avremmo gustato la vita così da vicino come durante l'infanzia, quando ogni cosa che sentivamo andava verificata senza ribrezzo.

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Tutto finisce in fumo...



Se qualcuno mi chiedesse cosa ho fatto durante l'ultimo anno, potrei tranquillamente rispondere: ho fumato. A niente altro mi sono dedicato con tanto zelo come alle sigarette. Uscivo di casa il meno possibile. Il lavoro me lo consentiva. Non rispondevo quasi mai al telefono. Me ne stavo in casa con i gatti e fumavo. Di tanto in tanto veniva a trovarmi una vecchia amica, con un sacco di problemi. Era appena uscita da una clinica per tossicodipendenti; sosteneva di essere ormai pulita, ma nessuno l'avrebbe mai presa a lavorare. Non credo che si fosse data molto da fare. Si faceva prestare da me un po' di soldi, che non mi restituiva mai. In compenso mi offriva sempre qualche canna. Forse la considerava una restituzione del prestito precedente. Un gesto apprezzabile. Per lei la droga era molto più preziosa del denaro. Sosteneva che in Occidente l'erba non era più considerata uno stupefacente. Mi raccontava di aver provato parecchio tempo prima certi funghi di bosco molto più forti dell'eroina.

Quando ne assaggi, raccontava Hasha (da Hristina o da hashish, a scelta), vedi subito ogni tipo di elfi, gnomi, spiriti del bosco, fate. Ti può apparire persino la regina Mab in persona. Questi funghi, diceva lei, ti fanno vedere cose che esistono, ma sono invisibili.

La storia dei funghi mi piaceva, ma rimanevo fedele al fumo. Mi sono sempre sentito un po' in colpa con Hasha. Da studenti abbiamo cominciato insieme con le prime sigarette. Lei non si è fermata lì. Non so se aveva rinunciato ai funghi, ma sono certo che ormai vivesse con gli elfi. Davanti a lei mi sentivo come uno studente che aveva deciso di fare forca insieme ai compagni, e poi all'ultimo momento era entrato in classe. Gli altri avrebbero certamente detto che mi ero messo al sicuro. Chissà. A me era Hasha a sembrare al sicuro. Da due anni ripeteva che sarebbe fuggita in Israele. Se durante i nostri sporadici incontri accennavo a questo argomento, lei rispondeva sempre la stessa cosa: be', io sono già a Gerusalemme. Ed era sicuramente così, mentre io non mi ero mosso dal mio soggiorno, a Mladost-4.


Il posacenere di mio padre è finlandese, con un coperchio. Somiglia piuttosto a una piccola urna in cui c'è posto solo per una sigaretta. Mi piaceva l'idea del posacenere personale, come fosse lo spazzolino da denti e il rasoio. Su uno dei lati del posacenere erano incise parole a me assolutamente ignote (neanche mio padre ne conosceva il significato). Parecchio più tardi quando mi decifrarono la scritta, mi colpì la sua pregnanza letterale: "Tutto è cenere."

Quando fumavo, ripetevo inconsciamente gli atteggiamenti di mio padre. I colpi energici alla sigaretta con l'indice, l'aggrottare delle sopracciglia mentre inspiravo; e in genere tutta la concentrazione e la solennità dei gesti. Mi fu più difficile acquisire la leggera e naturale inclinazione dell'indice e del medio che reggevano la sigaretta. Io li tenevo rigidi e tesi in modo innaturale.

Sfogliando una rivista illustrata di prima della guerra, ho trovato una breve notizia su un tipo che aveva stabilito un record di sigarette fumate in un giorno. Quando gli chiesero perché le accendeva con fiammiferi invece di utilizzare un accendino, l'ultima novità nel campo, lui aveva risposto che non intendeva rovinarsi i denti con i gas bruciati dall'accendino. Il vero fumatore è un esteta che ai propri denti ci tiene.

Bene, dalla vita non ho mai desiderato altro se non di starmene nel giardino dietro casa, fra l'ortica e la cicuta, sulla mia sedia a dondolo, con un pacchetto di sigarette da quattro soldi. E insieme al fumo inspirare tutto quello che mi passa davanti agli occhi — nuvole, tegole, aerei, la via lattea, tutto. Tutto può andare giù con un po' di fumo. Voglio sentire il fumo scendermi nei polmoni e inciderci insistenti telegrammi di nicotina. E riuscirsene fuori grigiastro ed estenuato.

C'è qualcosa di angelico nel finire proprio così, nel morire fumando molto lentamente una sigaretta dopo l'altra, nel giardino posteriore di una casa. Nell'urna di un posacenere finlandese speciale, solo tuo, dove un giorno scopriranno le tue ceneri. Niente altro. Niente a cui si possano afferrare, nessun corpo, niente dita con la nicotina, polmoni fottuti o denti ingialliti. Un po' di cenere. Se fossi un fumatore perfetto non ci sarebbero nemmeno le ceneri. Solo fumo. Tutto finisce in fumo...

Magari su quel posacenere c'era scritto in realtà che tutto è fumo. Ci sarebbero più speranze. Sarebbe più ecologico.

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PER UNA STORIA NATURALE DELLE MOSCHE



Le mosche appartengono all'ordine dei ditteri e possiedono una coppia di ali anteriori ben sviluppata. Dai tempi più remoti la maggior parte delle mosche vivono accanto all'uomo, sono legate alla sua attività e per questo motivo sono dette sinantropiche (syn 'legame', anthropos 'uomo'). Abitano la dimora dell'uomo, vicino ai suoi escrementi, nei letamai ecc. In questo senso possiamo supporre che le tipiche mosche sinantropiche, che conosciamo oggi, siano state involontariamente create dall'uomo. O dalla sua attività escrementizia. Alcuni studiosi affermano che esse esistono da molto tempo prima della comparsa dell'uomo e che si sono sempre nutrite di cadaveri e di escrementi. Non negano però che, dalla comparsa dell'uomo, abbiano subito riconosciuto in lui il loro padrone e si siano appiccicosamente infilate nella sua dimora. Da quel momento fino a oggi il padrone non si rassegna ai suoi invadenti ospiti, anche se non chiedono che le briciole della sua tavola, e cerca di scacciarli in tutti modi. Utilizza lunghe strisce appese alle porte per tenerle fuori, bastoncini con in fondo attaccati pezzi di stoffa per colpirle, coppette con l'aceto per affogarle; le cattura con la mano e le mette nelle scatole dei fiammiferi. Come agiscono i bambini fa ancora più effetto. Acchiappano una mosca e le strappano tutte e due le ali, di modo che essa perde immediatamente il suo statuto di dittero e si trasforma in un insetto pedestre per servire da lezione e impaurire le altre mosche. La gente agisce in questo modo, per fortuna senza ottenere grandi successi, perché non si rende conto di quanto sia importante la mosca e quanto possa essere utile.

In primo luogo essa è un riducente, cioè un organismo che fa decomporre le materie organiche complesse: cadaveri, carogne, escrementi, in non organiche, che vengono assimilate di nuovo dalle piante. Così la comune Musca domestica oppure la mosca dei luoghi di decenza, la Eristalis tenax, e anche quella blu della carne, la Calipbora si rivelano riduttori naturali di una incontrollata evoluzione organica.

La struttura dei ditteri è molto bizzarra, in particolare nelle mosche. L'occhio delle mosca è una vera rivelazione. È ben sviluppato e occupa quasi tutta la testa. L'occhio in effetti è composto da migliaia di piccoli ocelli, faccette, ognuna delle quali è un esagono leggermente convesso. Ogni faccetta percepisce solo un punto dell'immagine, e l'immagine intera si compone nel cervello. Così la mosca vede il mondo come un mosaico, sfaccettato. In generale si ritiene che le mosche siano miopi, ma possiamo forse immaginare un modo di guardare il mondo più dettagliato, più particolareggiato? Il metodo della frammentarietà adottato da alcuni romanzieri è in effetti un'imitazione dell'occhio della mosca. Chissà che romanzo salterebbe fuori, se riuscissimo a convincere una mosca a raccontare...


Che romanzo salterebbe fuori, se riuscissimo a convincere una mosca a raccontare?... Non dubito affatto che essa possieda una lingua, naturalmente diversa dalla nostra. Dal momento che nel caso specifico io sono interessato alla mosca (perché lei, invece, la mosca se ne frega di me?), devo essere io a scoprire il meccanismo della sua lingua. Per quanto ne so, la lingua delle api è legata alle figure che tracciano durante il loro volo. Le mosche potrebbero presentare delle analogie. La mosca domestica è la più vicina alle persone, sempre a portata di mano. Ho detto "a portata di mano" automaticamente. Proprio in questo modo l'uomo ha dialogato con loro fino adesso. Quando cerchiamo un'altra lingua dobbiamo evitare gli automatismi e per questo dovremmo dire che teniamo le mosche sott'occhio. La tappa successiva dello studio di questa lingua può essere la capacità di parlare con una mosca. È necessario osservare per molti giorni un unico esemplare. Ogni mosca ha un suo volo specifico, cioè una lingua. Certe mosche sono più chiacchierone e girano più a lungo in aria, altre parlano piano, atterrano in mezzo a una frase, poi ripartono dall'inizio e alla fine perdono con facilità il filo del racconto. La cosa migliore è cercare mosche dal volo chiaro e pulito, che non abbelliscano troppo i loro racconti e sappiano dove fermarsi. Per i non iniziati tutte le mosche sono uguali. Se chi ha deciso di approfondire lo studio di questa lingua straniera trascurasse una fase tanto importante come l'osservazione concentrata su una sola mosca, confonderebbe facilmente i diversi esemplari ed entrerebbe di continuo da una storia in un'altra.

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