Copertina
Autore Georgi Gospodinov
Titolo ...e altre storie
EdizioneVoland, Roma, 2008, sírin 37 , pag. 112, cop.fle., dim. 14,4x20,6x0,8 cm , Isbn 978-88-6243-003-6
OriginaleI drugi istorii [2001]
TraduttoreGiuseppe Dell'Agata
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa bulgara
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Indice


L'ottava notte                                9
L'uomo dai tanti nomi                        17
Prima passi                                  27
Una seconda storia                           33
Storia con stazione                          39
Cristina che saluta tutti dal treno          41
La mosca nel pisciatoio                      45
Sul gusto dei nomi                           47
Sul furto di storie                          51
Un regalo arrivato tardi                     53
L. (un racconto giallo)                      S9
L'anima natalizia di un maiale               63
L'incubo di una signora                      67
Il terzo                                     71
Peonie e pansé                               75
Vajsa la cieca (una storia incompiuta)       79
Anima viva                                   83
L'orecchino bulgaro (un sogno)               89
Le mutande della storia                      91
Ultima storia sugli anni Novanta             97
Gaustìn                                      99


 

 

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Pagina 9

L'OTTAVA NOTTE



Una notte il suo bisnonno stava pascolando le pecore lontano dal paese, in un prato isolato, proprio vicino al boschetto. Si era assopito quando dopo la mezzanotte, all'ora delle streghe, qualcosa lo aveva colpito alla spalla. Dalla paura diventò sordo e muto all'istante. Dietro di lui non c'era nessuno. Una pecora si era mossa e lo aveva urtato sulla schiena. Rimase sordomuto per il resto dei suoi giorni.

Da bambino questa storia lo aveva sempre fatto sorridere. Una pecora.

In seguito la raccontava come la cosa più terribile mai sentita. Perché ci dimostra che la morte non ce l'ha scritto in fronte che è lei... una pecora.


Una sera tornò a casa dal lavoro come al solito. Già allora lo tormentava il pensiero di stare gradualmente perdendo l'udito. Capitava che non sentisse la sveglia, il telefono o parole dette a bassa voce. Cominciarono addirittura a prenderlo in giro per questo suo timore. Aprì la porta, da dentro lo investì la puzza di tre portacenere stracolmi di mozziconi (la sera prima aveva invitato dei colleghi), si stese sul divano e accese la radio proprio vicino alla testa. La radio era in funzione, ma non ne usciva alcun suono. Accese il televisore, un'annunciatrice leggeva le notizie del telegiornale della notte, ma non si sentiva niente. Non si sentiva niente. Niente...

E proprio allora, un secondo prima di morire dal terrore, gli giunsero chiare le parole: Ma che cavolo, fai finta di non sentirmi?

Venivano dall'alto, dal piano di sopra, da parte del vicino sempre ubriaco, che picchiava regolarmente sua moglie. Ne fu folgorato. Girò la manopola del volume della televisione e udì chiaramente la speaker che gli augurava Buona notte! Poi capì che l'esclusione del volume era stato solo uno scherzo dei suoi ospiti.

Sette mesi dopo diventò davvero completamente sordo. Come per scherzo.


Signore e signori,

nel corso delle mie tante, troppe conferenze, ho notato che si preferisce il privato al sociale, il concreto all'astratto.

Così il signor Jorje iniziò la sua settima conferenza serale, riferendosi alla propria "modesta cecità personale". Quest'uomo, con molta preveggenza, aveva scelto la cecità come tema della sua settima serata ma, se proprio volete saperlo, anche di quelle precedenti e successive. La cecità, signore e signori, come voi stessi vi rendete conto, offre molti diritti a colui che ne fruisce. A differenza della sordità, e ve lo dico sulla base della mia modesta esperienza personale di sordità, con la quale vi intratterrò durante l'ottava serata, aggiunta in via eccezionale al programma di questo seminario che si avvia felicemente alla sua conclusione.

E così, ho capito molto tardi che siamo noi ad affannarci tutta la vita, con inspiegabile zelo, per procurarci le disgrazie che la sorte (o qualunque nome vogliate dare a questa istanza) ci riserva con generosità impressionante. Ricordo che da piccoli ci eravamo inventati un gioco in cui bisognava scegliere tra due sciagure. Preferisci rimanere senza una gamba o senza un braccio? Era naturale che scegliessimo di conservare la gamba, anche se oggi non sono in grado di dirvi perché questa scelta ci sembrasse tanto ovvia. L'altra scelta disperata era tra l'occhio e l'orecchio. Cosa preferisci: rimanere per sempre cieco o per sempre sordo?

Diciannove anni dopo, avendo perduto del tutto l'udito da un orecchio e in parte, ma progressivamente, dall'altro, mi sono reso conto con quale crudele leggerezza avevo una volta preferito la sordità.

Signore e signori,

riflettete adesso: non avete forse mai desiderato di spegnervi lentamente e inappellabilmente, di affrontare con dignità e stoicismo quello che deve accadere, l'ineffabile impressione delle vostre ultime parole, la lacrima sul ciglio del mondo, in questo caso versata per voi. Ebbene, questo desiderio sarà esaudito, signore e signori. Dio ascolta tutte le nostre preghiere, ma di rado fa differenza tra il bene e il male.

E così, avendo scelto un tempo la sordità, nel corso di molti anni, ho tentato di riparare l'irreparabile, di liberarmene. La diagnosi era stata "neuritis acusticus" accompagnata da un ronzio continuo nelle orecchie, dalla perdita progressiva dell'udito e da probabili ripercussioni sull'apparato vestibolare. I medici, che ho consultato durante quegli anni, si dividevano in due categorie: quelli sinceri e quelli che ti davano speranze. I primi: "A questo punto non può venirti in aiuto nemmeno il Padreterno." Gli altri: "È vero che le terminazioni nervose sensoriali si rigenerano con difficoltà, ma noi disponiamo di una vasta gamma di rimedi farmacologici, che dilatano i vasi sanguigni e favoriscono la circolazione. Il cervello umano è..." Ovviamente ho scelto i secondi, malgrado la loro sospetta logorrea. Così ho sottoposto il mio corpo a lunghe terapie con farmaci sempre diversi, sempre più forti e che di conseguenza mi lasciavano sempre più frustrato. Li assumevo come un elenco di nomi. Cercavo di convincermi che proprio nei loro nomi risiedeva la loro efficacia, li inserivo in singolari pratiche di meditazione ripetendo all'infinito: nivalin, duzodril, dibazol, tanakan, betaserc, vastarel... E ancora: nivalin, duzodril, dibazol... Li pronunciavo ad alta voce perché dall'orecchio esterno giungessero direttamente a quello medio (auris media), per infilarsi nella tromba di Eustachio e attraversare, ancora integri, il martelletto, l'incudine e la staffa, e offrissero i loro fonemi medicamentosi all'orecchio interno (auris interna) dalla complessa morfologia. Là, all'ingresso del labirinto membranaceo, era di guardia, come un Minotauro, una Chiocciola (coclea) che pure doveva essere oltrepassata, senza recarle danno, per giungere infine all'organo di Corti, dove albergano le cellule morte dell'udito. Qui avrebbe dovuto verificarsi una resurrezione miracolosa. Ma chiaramente l'energia fonologica di quei nomi non era sufficiente. Per questo passai a farmaci più esotici, alternativi alle denominazioni citate, come il ginseng e il latte di api delle montagne della Cina settentrionale, il mumijo della Mongolia, l'olio d'oliva greco scaldato e i cristalli d'incenso, fino al rimedio, geograficamente più familiare, della merda secca di bue (intiepidita). Tornai indietro al XVII secolo e, spulciando un libro di medicamenti, scoprii quanto segue: "Se vi fischia l'orecchio, sminuzzate foglioline di more fresche, mescolatele con miele e olio d'oliva, scaldatele e aggiungete alcune gocce di grasso d'oca..." E un'altra ricetta, ancora più categorica: "In caso di sordità, mischia sangue di capro e sego di anitra e versa il tutto nell'orecchio."

Signore e signori, la malattia ci trasforma in bambini pronti a correre dietro a ogni aquilone. Dopo sette anni di cure, destinate fin dall'inizio all'insuccesso, sospesi ogni trattamento e mi arresi al male. Fino ad allora nessuno aveva desiderato così a lungo il mio corpo e io non potevo più oppormi. Il mio orecchio si raccolse in sé stesso, all'interno del proprio corpo, e senza più essere turbato da nulla continuò a produrre i suoi fischi e i suoi ronzii. Se accostate una conchiglia all'orecchio, ne avrete una vaga idea. Chissà se l'orecchio captava qualcosa che rimaneva impercettibile a un udito sano, o se invece, a causa di alterazioni patologiche, si era trasformato da organo di percezione in organo generatore di una qualche nuova lingua, di un nuovo idioma, in un orecchio parlante?

In tal modo, signori, l'orecchio volta la schiena alla società come un vero fighetto, un dandy annoiato, un romantico schiacciato dal dolore del mondo. Si richiude, signore, come quei tulipani che rinserrano la loro corolla la sera e in caso di cattivo tempo. Questo orifizio del corpo diventa uno scudo, uno scudo morbido e roseo, un busto che avvolge il nostro universo interiore.

Capii anche un'altra cosa: la perdita dell'udito riporta il mondo entro confini prossimi, visibili, in un'epoca antecedente alle telecomunicazioni. Il telefono e la radio non sono più utilizzabili, il sordo perde il suono non visibile. La consolazione è in un mondo nuovo, percepibile, con confini che si estendono fino alla visibilità delle labbra, della mimica e dei gesti. Allora, signore e signori, l'occhio diventa il vero orecchio.

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Pagina 41

CRISTINA CHE SALUTA TUTTI DAL TRENO



Aveva deciso così – di salutare tutti.

Il treno attraversava l'Europa Centrale, da qualche parte al di là dei monti Tatra, in un paesaggio di una totale slavicità, ampi prati appena falciati di erba medica, piscialletto e margherite. I papaveri lungo i binari erano come impazziti. Avevo la sensazione che le compagnie ferroviarie centroeuropee si sostenessero principalmente con la vendita dell'oppio. Il sole stava tramontando e il tramonto in queste pianure promette di essere eterno. Cristina, affacciata al finestrino, scintillava come stagnola. Mi venne in mente che secondo alcuni solo il battere d'ali di una farfalla può cambiare il mondo.

Lei si voltò e mi dichiarò di non essere una farfalla... e men che mai di stagnola. Talvolta aveva davvero capacità incredibili. Si sporse di nuovo dal finestrino e salutò energicamente agitando le braccia un anziano contadino, che era al contempo un mitteleuropeo. L'uomo la notò, tentennò un attimo, mi parve che gettasse un timido sguardo all'intorno e rispose al saluto.

– Eh, – si rivolse a me Cristina – penso di averlo fatto molto felice.

– Hai davvero scombussolato la sua vita – replicai. – Immaginati che ora quell'uomo rientra a casa dalla moglie vecchia e parecchio petulante, getta il fieno all'asino, dà il pappone al maiale, fa rientrare le pecore nell'ovile e si siede davanti casa su un vecchio sedile di camion. E durante tutto questo tempo tu non gli esci dalla testa. Per giunta, gli ricordi terribilmente un'altra donna da lui confinata nel profondo della memoria al punto che per 38 anni si è impedito da solo di pensare a lei. E quanto più riflette e sorseggia mastika, nel frattempo ha preso con sé una bottiglia, tanto più gli risulta chiaro come tutto gli sia passato accanto, proprio come questo treno. I treni qui non si fermano, qui nella sua vita meschina, malandata, giallo-sporca come la parete del pisciatoio di una stazione. E proprio in quel momento la moglie esce sulla soglia in una vestaglia scolorita a fiori rosa e gli dice di smettere di bere e di venire a cena. Lui non la guarda, sta talmente male che non desidera nemmeno tirarle la bottiglia addosso. E ora, proprio come fosse lo stesso di 38 anni prima, il treno ritorna e gli passa sopra molto lentamente. Con una lentezza terrificante...

Sentii che la mia immaginazione si alimentava di sadica inerzia, e tacqui. Cristina si era seduta accanto al finestrino e mi guardava quasi spaventata.

– Parli sul serio?

– Ti ho avvisata. Non puoi intrometterti nelle vite degli altri neanche con un saluto. A volte, senza volerlo, ti trasformi nel loro destino.

– Sciocchezze. È disgustoso il tuo modo di trasformare tutto in storie.

E, per far vedere quanto fosse convinta delle sue parole, si girò di colpo verso il finestrino e agitò a posta le braccia verso un casellante, che se ne stava tranquillo sul binario, nella sua divisa un po' larga, mentre il treno transitava. Il casellante rimase impassibile, sollevò eloquentemente le sopracciglia e, per quanto poté, seguì con lo sguardo Cristina che salutava. Sono sicuro che ha continuato almeno per qualche minuto a starsene lì sull'attenti, nella stessa posizione, col viso rivolto a sinistra. Cristina sembrava davvero irresistibile in quel tramonto che pareva non avere fine.

– Perché quel tale non mi ha risposto, eh?

Dalla voce traspariva una tale sensazione di offesa e dagli occhi un'accusa nei miei confronti, come se io tenessi la risposta nascosta in una storia nota solo a me. Le spiegai che in quel momento lui era in servizio, e che il suo saluto per il macchinista poteva avere tutt'altro significato.

– Malgrado tutto gli sei piaciuta, – osservai io – e posso dirti con sicurezza che è riuscito a stento a trattenersi dal risponderti.

Fece una faccia che esprimeva totale disinteresse per il fatto di essere piaciuta o meno al casellante. Ma subito dopo buttò lì:

– Eppure, se gli sono piaciuta così tanto, avrebbe potuto rispondere qualunque cosa avesse potuto costargli.

— Sono sicuro che è già pentito. Immagina però se non si fosse trattenuto e avesse cominciato ad agitare le braccia come... — stavo per lasciarmi scappare "un pagliaccio", ma l'avrei offesa e continuai cautamente. – Il macchinista avrebbe subito interpretato quel gesto Dio sa come. Forse avrebbe cambiato binario e ora noi due staremmo per schiantarci con un treno che viaggia in senso contrario. E così il tuo casellante avrebbe perso ogni possibilità di incontrarti nuovamente. Suppongo che tutto questo gli sia passato per la testa in una frazione di secondo e lo abbia trattenuto.

Questa versione le piacque visibilmente, ma aspettava di ascoltare il resto della storia.

– Ma non provare a propinarmi gli orrori di prima.

La tranquillizzai dicendole che si trattava di una storia completamente diversa, questa volta si era felicemente immischiata nel destino del giovane casellante. Fui costretto a raccontare con dettagli precisi come per lui, d'ora in avanti, nessun treno avrebbe potuto più essere semplicemente un treno, ma un nunzio della cosa più bella che avesse visto in vita sua. E tutti i viaggiatori potranno scorgere un casellante innamorato che passa in rassegna con lo sguardo i finestrini dei treni in transito...

Mentre ascoltava la mia storia Cristina mancò l'occasione di intrufolarsi nel destino di una famigliola con una carrozzina, di tre zingarelli che agitavano le braccia vicino a un passaggio a livello, di una vecchia con due cani.

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