Copertina
Autore Stephen Jay Gould
Titolo I Have Landed
SottotitoloLe storie, la Storia
EdizioneCodice, Torino, 2009 , pag. 452, ill., cop.fle., dim. 14x21,6x2,8 cm , Isbn 978-88-7578-121-7
OriginaleI Have Landed. The End of a Beginning in Natural History [2002]
CuratoreTelmo Pievani
TraduttoreIsabella C. Blum
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe evoluzione , scienze naturali
PrimaPagina


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Indice

 XI Prefazione

XXV Prefazione all'edizione italiana

  3     Parte I. Una pausa nella continuità

  5  1. I Have Landed (11 settembre 1901 - 11 settembre 2001)

 21     Parte II. Connessioni interdisciplinari

 23  2. Non esiste scienza senza fantasia, né arte senza fatti:
        le farfalle di Vladimir Nabokov
 54  3. La lettera di Jim Bowie e le gambe di Bill Buckner
 76  4. L'arte incontra la scienza in The Heart of the Andes

 99     Parte III. Darwin: antefatti e ricadute

Ioi  5. Il gentiluomo darwiniano al funerale di Marx
121  6. Il preadamita in un guscio di noce
141  7. La fantasia evoluzionista di Freud

157     Parte IV. Saggi sulla paleontologia delle idee

159  8. L'ebreo e la pietra della Giudea
176  9. Quando i fossili erano giovani
197 10. La sifilide e il pastore di Atlantide

217     Parte V. Lanciare il dado: sei epitomi evoluzioniste

221 11. Darwin e un Kansas fuori dal mondo
225 12. Una più nobile dimora
228 13. Un Darwin per ogni bandiera
235 14. Quando di meno è veramente di più
239 15. La cultura, Darwin e le differenze di grado
243 16. Topi intelligenti: uno sguardo da fuori e uno da dentro

247     Parte VI. Evoluzione: significato e rappresentazione

251 17. Ma che significa, infine, la temibile parola
        che comincia con la "e"?
271 18. Il primo giorno del resto della nostra vita
288 19. Il nartece di San Marco e il paradigma pangenetico
307 20. La fortuna di Linneo?
329 21. Abscheulich! (Infame)
348 22. Racconti su una coda piumata

363     Parte VII. Valore naturale

365 23. Una prospettiva evoluzionista sul concetto
        delle piante indigene
379 24. Odore e pensiero: pregiudizi antichi
390 25. Il geometra della razza
403 26. Il grande fisiologo di Heidelberg

423     Parte VIII. Trionfo e tragedia nell'esatto centenario
                    di I Have Landed

425     Dichiarazione introduttiva
427 27. La brava gente di Halifax
432 28. Apple Brown Betty
435 29. Il grattacielo Woolworth
439 30. 11 settembre 2001

443     Bibliografia
447     Indice dei nomi e delle opere

 

 

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Pagina XI

Prefazione


Un suffisso per iniziare una prefazione

Il titolo di questo paragrafo preliminare suona contraddittorio, tuttavia descrive in modo veritiero una triste necessità e un'appropriata collocazione. Il materiale del paragrafo ha le caratteristiche di un suffisso tanto per la sua effettiva posizione cronologica, quanto per la sua sistemazione come finale inevitabile che tiene unito tutto il libro, riprendendo il saggio introduttivo da cui deriva il titolo della raccolta - una sistemazione non deliberata, questo è ovvio, ma comunque misteriosamente priva di soluzioni di continuità. Ho scritto la prefazione che segue nell'estate del 2001, partendo da alcune riflessioni sulle coincidenze numeriche della mia carriera, compreso il completamento di questa serie con il saggio numero 300, pubblicato - caso volle - nel mese di gennaio 2001: il primo mese del nuovo millennio e, al tempo stesso, il centesimo anniversario dell'inizio del viaggio americano intrapreso dalla mia famiglia (inizio segnato dall'arrivo a Ellis Island di mio nonno e da lui stesso annotato sulla grammatica inglese che acquistò, tredicenne, appena sbarcato: «I have landed. September 11th, 1901»). Per adesso non occorre che io dica altro, giacché nessuno, che quel giorno fosse vivo e senziente, dimenticherà mai il dolore e la trasformazione associati all'11 settembre 2001. Ho poi aggiunto - in primo luogo perché doveroso nel senso più generale e morale del termine; ma anche perché la gioia e la speranza contenute nelle parole scritte da Papa Joe nel 1901 non devono essere soffocate dalla spettacolare malvagità dell'evento opposto, accaduto esattamente 100 anni dopo - ho poi aggiunto, dicevo, una sezione conclusiva, contenente quattro pezzi brevi che ripercorrono la mia personale odissea emotiva, insieme al messaggio di tragica speranza che un biologo evoluzionista poteva legittimamente indicare in mezzo alle macerie e alle lacrime del nostro momento storico.


La prefazione vera e propria

Nel 1977, in modo del tutto accidentale, il mio primo volume di saggi (Questa idea della vita), scritti per il lettore non specialista e pubblicati su "Natural History", vide la luce contemporaneamente al mio primo volume tecnico, scritto per i colleghi che si occupano di teoria dell'evoluzione (Ontogeny and Phylogeny). Il "New York Times", ritenendo tale coincidenza profondamente insolita, se non del tutto anomala, mi presentò pertanto nella sua "Book Review" come una «curiosità» letteraria - e non posso negare che quell'articolo contribuì a dare impulso a una carriera che stava allora muovendo i suoi primi faticosi passi. Probabilmente anch'io consideravo al tempo stesso strana e fortuita quella coincidenza (la pubblicazione di Ontogeny and Phylogeny, per motivi che non dipendevano da me, era stata ritardata di oltre un anno provocandomi soltanto frustrazione, giacché all'epoca non avevo la benché minima idea del potenziale vantaggio comportato dalla simultaneità in questi due diversi ambiti).

[...]

Le otto categorie in cui sono suddivisi i 30 saggi di quest'ultimo volume riflettono gli interessi generali dell'intera serie, sebbene con qualche variazione peculiare (forse l'autore lo proclama con troppa foga; a ogni modo, quando arriva il momento di raccogliere questi saggi in un volume, rimango sempre piacevolmente sorpreso nello scoprire che ricadono in un ordine abbastanza coerente di categorie bilanciate - e questo malgrado io scriva ogni pezzo indipendentemente da tutti gli altri e senza pensare di sviluppare un edificio costituito di stanze vuote in attesa di essere riempite con un arredamento verbale). Il primo saggio, quello che dà il titolo a tutto il volume, è uno scritto a sé stante - un finale concentrato su un principio - nato per esaltare la continuità della vita personale attraverso le famiglie, e della vita sulla Terra attraverso l'evoluzione.

Il secondo gruppo di saggi esprime il mio esplicito interesse per le unioni significative tra i fatti, i metodi e gli oggetti di studio della scienza da una parte e delle discipline umanistiche dall'altra - una per ciascun saggio: la letteratura nel secondo, la storia nel terzo e l'arte nel quarto. Il terzo gruppo comprende tre delle mie mini-biografie intellettuali, in questo caso ciascuna dedicata a una persona e a un'idea dominante a cui la rivoluzione darwiniana diede rilevanza e forza di persuasione. Nel quarto gruppo, cerco di applicare la stessa strategia, fondamentalmente biografica, all'approccio intellettuale - alieno e (per noi) astruso - adottato nei confronti del mondo della natura dai pensatori del XVI e XVII secolo, ossia prima che la "rivoluzione scientifica" (questo è il termine generalmente usato dagli storici della scienza) messa a segno dalla generazione di Newton consolidasse definitivamente i concetti di empirismo e sperimentazione, che continuano a sembrarci fondamentalmente familiari. Venendo alle prese con questa "paleontologia intellettuale" fatta di concezioni del mondo affascinanti e potenti ma in larga misura estinte, sostenute da persone in possesso della stessa, identica dotazione mentale di cui disponiamo noi oggi, apprendiamo - a proposito della flessibilità e delle limitazioni della mente umana - molto di più di quanto ci possa insegnare un qualsiasi studio riconosciuto dalla scienza moderna.

La quinta parte del libro esplora un genere diverso, quello dell'articolo di opinione, che ha un tetto massimo di l000 parole. I saggi 11 e 12 affrontano il tema degli attacchi creazionisti allo studio dell'evoluzione con due approcci diversi: uno destinato al pubblico assolutamente profano di "Time", l'altro ai lettori specialisti di "Science". I restanti quattro pezzi brevi - tratti dalla pagina degli articoli d'opinione del "New York Times" e dalla rivista "Time" - mostrano con quale prepotenza l'evoluzione s'insinui nella nostra vita pubblica, forse (in senso filosofico e intellettuale e non esclusivamente pratico o tecnologico) più di qualsiasi altro insieme di concetti scientifici.

Nella sesta parte, poi, ogni saggio esamina un concetto autenticamente fondamentale o definitorio della teoria dell'evoluzione (il significato della parola stessa, la natura e le limitazioni delle storie della creazione in generale, il significato della diversità e della classificazione, la direzionalità - o non direzionalità - della storia della vita). Per organizzare il materiale ho fatto ricorso a una varietà di tattiche che spaziano dai miei interessi biografici (nel Saggio 20 su Linneo e nel 21 su Agassiz, Von Baes ed Haeckel) a una più convenzionale descrizione di organismi (il Saggio 22 sui dinosauri pennuti e i primi uccelli terricoli bipedi), a un racconto autobiografico sul perché questo biologo evoluzionista si sentisse così a proprio agio nel passare il 1 gennaio 2000, il giorno del millennio, a cantare in pubblico la Creazione di Haydn. La parte settima tratta delle implicazioni sociali, aspetti desiderabili e meno desiderabili dell'evoluzione osservati attraverso l'obiettivo sempre problematico delle pretese distinzioni di valore innate - false e spiacevoli - fra gli organismi: distinzioni che spaziano da quelle fra piante indigene e piante introdotte (Saggio 23) a quella fra le razze umane presunte superiori e inferiori, con tre ottimistici saggi finali su tre valenti scienziati, rispettivamente del XVII, XVIII e XIX secolo, che spiccano fra gli allora poco frequenti difensori di un'uguaglianza naturale.

[...]

Nei secoli passati, in un mondo occidentale balcanizzato, quando ogni singola nazione giurava inimicizia alla maggior parte delle altre e le alleanze si spostavano veloci come maree e sorprendenti come tornado, gli studiosi immaginavano (e, per la maggior parte, praticavano nel loro "universale" latino) l'esistenza di una "Repubblica delle Lettere" che trasmettesse i frutti dello studio liberamente e con una generosità che andasse oltre qualsiasi divisione politica, militare o etnica. Io ho scoperto che questa Repubblica delle Lettere esiste ancora, non meno forte e vigorosa, e mi ha consentito di partecipare a qualcosa di davvero nobile e universale. Soprattutto per questo, io vi amo e vi ammiro tutti, individualmente e collettivamente. Dedico pertanto quest'ultimo volume "ai miei lettori".

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Pagina XXV

Prefazione all'edizione italiana


Erano i primi mesi del 2002, la malattia seguiva implacabile il suo corso e negli Stati Uniti uscivano contemporaneamente il suo testamento scientifico, la "mostrografia" dal titolo La struttura della teoria dell'evoluzione, e la decima raccolta di saggi, un testamento storico sentimentale, qui per la prima volta tradotto in italiano.. Strana coincidenza, perché 25 anni prima la sua carriera di autore era cominciata nello stesso duplice modo, con una raccolta per il grande pubblico, Questa idea della vita. La sfida di Charles Darwin, e una monografia teorica anticipatrice, Ontogeny and Phylogeny. Non meno bizzarre e improbabili sono le corrispondenze che legano il giorno di arrivo di suo nonno materno a Ellis Island - che scrisse, su una grammatica inglese appena acquistata, «I have landed. September 11th, 1901» - e il giorno dell'attacco alle Torri gemelle, esattamente un secolo dopo, come pure la data di chiusura dei suoi 300 saggi, e non uno in più, per la rivista "Natural History".

Spesso Stephen J. Gould giocava ironicamente con queste simmetrie occasionali di date alle quali non credeva affatto e alle quali non attribuiva alcun senso intrinseco, alcun destino cosmico, alcun messaggio cabalistico, prendendo così in giro se stesso e insieme, affettuosamente, la sua amata culla ebraica newyorkese. La numerologia diventa un pretesto probabilistico scherzoso per raccontare altre storie, per deviare verso nuove "stravaganze", per segnare i confini geometrici immaginari di una narrazione che finisce e ne annuncia un'altra. Solo noi sappiamo, leggendo questi ultimi suoi saggi, che un'altra storia non ci sarà affatto, che quelle astruse confluenze numeriche prenderanno loro malgrado una piega sinistra, che il punto fermo che chiude questa raccolta sarà senza ritorno. La dedica e il commiato dai lettori, così pieni di gratitudine, diventano definitivi. La fine di un inizio nella storia naturale, recitava il sottotitolo originale, ma sarà una fine e basta.

A meno di non lasciarsi consolare da un'evidenza, e da una speranza di continuità, non strettamente biologica né di calendario, ma culturale. Possiamo scommettere che gli sarebbe piaciuto enormemente commentare argutamente e partecipare agli eventi del 2009, anno del bicentenario della nascita di Charles Darwin, il suo eroe prediletto. Un'altra data, questa, che lo avrebbe indotto a scovare chissà quali imprevedibili connessioni fra i dettagli apparentemente senza importanza della storia naturale e dei suoi interpreti passati e presenti. In quest'ultima raccolta di saggi ritroviamo quella particolare tonalità scanzonata e anticonformista che in Gould rendeva qualsiasi "celebrazione" - la parola in sé, già, lo avrebbe mosso al sospetto - un'occasione per rimescolare le carte, per carpire un inedito, per rendere l'eredità di un autore, in questo caso del padre della teoria dell'evoluzione, un cantiere aperto, un centro di irradiazione di nuove idee.

In effetti, se pensiamo a quanto si è impoverito il dibattito pubblico attorno ai temi evoluzionistici da quel 2002, in certi casi arretrando persino verso reazioni ideologiche che sembravano archiviate, il punto di vista di Gould si fa sentire sempre più acutamente per la sua mancanza. Viene da sorridere immaginando le parodie che avrebbe potuto imbastire, a modo suo, sulle presunte argomentazioni dei sostenitori del "disegno intelligente". Ma avremmo bisogno anche delle sue lezioni sul pluralismo metodologico ed epistemologico originario di Darwin, che a suo avviso era il segreto per comprendere sia la flessibilità sia la potenza esplicativa della prima formulazione della teoria dell'evoluzione. Nel suo "darwinismo esteso", i meccanismi scoperti dal grande naturalista inglese rappresentavano il tronco centrale di un programma di ricerca che poi era andato ramificandosi e aggiornandosi, integrando nuovi fattori che avevano permesso di approfondire i modi e i tempi del cambiamento in natura.

I ragionamenti non convenzionali di Gould - snocciolati con quel peculiare stile di scrittura al contempo argomentativo e divagante - sfidano sì le ortodossie interpretative, ma quasi mai diventano eterodossie narcisistiche. La nascita delle idee evoluzionistiche, i filoni carsici delle intuizioni comparse troppo presto e riaffiorate poi al posto giusto al momento giusto, i cattivi della storia che avevano torto, ma per buone ragioni, e i trionfatori che avevano ragione, ma per i motivi sbagliati, le fasi aurorali di un'ipotesi che cresce quando le incertezze e le aperture non sono state ancora filtrate e bonificate dalle cristallizzazioni teoriche: questi erano i suoi interessi preferiti, perché mostravano la scienza per quello che è, un'impresa umana, individuale e collettiva, fatta di errori e di tenacia, di vicoli ciechi e di accelerazioni improvvise, di scoperte e di esplorazioni, di congetture e confutazioni, non un catalogo di teorie succedutesi inesorabilmente l'una all'altra.

La scienza raccontata da Gould, "adoratore del dettaglio", passa sempre attraverso frammenti di biografie, vezzi idiosincratici, eccentricità rivelatrici, inattese genealogie intellettuali, geografie disciplinari promiscue, che non si perdono nell'aneddotica particolaristica soltanto grazie all'effetto coagulante dei suoi "temi ricorrenti": la contingenza storica, la continuità della vita, l'unità nella diversità, l'eguaglianza naturale, la pluralità dei ritmi e dei livelli del cambiamento, i bricolage opportunistici dell'evoluzione. I concetti generali a loro volta sono tenuti insieme da quella filigrana filosofica che in Gould oscilla fra due espressioni speculari: le storie della natura hanno qualcosa da insegnarci circa la natura della storia.


Avremmo bisogno di molto altro di Gould nei dibattiti di questi anni. Per esempio, della sua insofferenza verso gli "ultradarwinismi" ingenui e totalizzanti, che si imbarcano nell'impresa impossibile di colonizzare una volta per tutte i regni della mente umana usando un algoritmo funzionalista che non è universale nemmeno più in biologia, vanificando così l'opportunità di una più saggia naturalizzazione pluralistica della cultura. Avremmo bisogno della sua visione della scienza come impresa permeabile e sconfinante, storicamente e socialmente influenzata ma non per questo priva di oggettività (al francescano idillio per la natura, Gould dichiara di preferire la galileiana risoluzione di enigmi intellettuali). Avremmo bisogno di un'idea antica, ma costantemente sotto minaccia, di "filosofia naturale", dove la scienza è cultura tout court, lo scienziato un intellettuale e il tema scientifico un tassello di quella Repubblica delle Lettere «sempre piena di vita». Le simbiosi fra la scienza e le altre forme del sapere in Gould non sono motivate da banali sincretismi interdisciplinari, ma dall'ipotesi forte che esista una «natura unitaria della creatività umana».

Da questa consapevolezza derivava per lui un assunto prezioso: l'impegno nel comunicare la scienza al pubblico, nel renderla un'avventura di conoscenza condivisa e partecipata, non è meno importante, meno dignitoso e meno originale della ricerca teorica e sperimentale più avanzata. Anzi, raccontare la scienza ai non specialisti è in sé un'attività di ricerca che richiede rigore e immaginazione.

La generosità intellettuale di Gould è tutta inscritta nella sezione finale, dove reagisce all'11 settembre non con "la rabbia e l'orgoglio" di tanti militanti dello scontro, ma al contrario fronteggiando la barbarie con la sobrietà controintuitiva di "Quattro variazioni sullo stesso tema della speranza incrollabile e dell'umana risolutezza". Ripensando con commozione al nonno sbarcato lo stesso giorno di 100 anni prima, all'inizio di quella storia che lo aveva condotto fino al suo trecentesimo saggio di storia naturale, scrive: «L'albero della vita in senso lato e la genealogia di ogni famiglia condividono la medesima topologia e lo stesso segreto del successo nell'armonizzare due temi apparentemente contraddittori: quello della continuità senza la minima interruzione, e quello del cambiamento senza perdere neanche per un istante un potenziale che - malgrado non debba essere necessariamente sfruttato in ogni occasione - deve però rimanere sempre a portata di mano» (p. 18). Forse anche la genealogia delle idee condivide la medesima topologia di continuità generazionale e, insieme, di cambiamento. In tal caso, un libro come questo ci aiuterà a non spezzare il ramoscello e a tenere sempre a portata di mano il potenziale creativo di un evoluzionista senza eredi, che se n'è andato troppo presto.

Telmo Pievani, gennaio 2009

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Pagina 23

2. Non esiste scienza senza fantasia, né arte senza fatti: le farfalle di Vladimir Nabokov


Il paradosso della promiscuità intellettuale

Nessuno ha mai tacciato Francesco Bacone di modestia, ma, quando il Lord Cancelliere d'Inghilterra proclamò la sua "grande instaurazione" della conoscenza umana e si ripromise di considerare come proprio dominio tutto il sapere, in fondo non sembrava che per un grande pensatore dell'epoca di Shakespeare questo obiettivo fosse assurdo in termini di tempo e competenze. Ma quando le conoscenze umane esplosero per poi frammentarsi in discipline dai confini sempre più rigidi e ben sorvegliati dall'interno, l'infaticabile studioso che avesse cercato di operare in campi diversi del sapere divenne oggetto di diffidenza. Era forse uno sbruffone - uno che simulava, senza possederle, troppe abilità in molti settori (il classico tuttofare capace di arrangiarsi ma mai in grado, stando a un vecchio cliché, di esprimersi in prestazioni magistrali)? Oppure si trattava di un fastidioso dilettante che, abile in un dominio d'oltreconfine, tentava d'imporre i metodi del suo campo di autentica competenza ai temi non pertinenti di un altro mondo?

In genere noi mostriamo una benevola tolleranza nei confronti di grandi pensatori e artisti che perseguono attività disparate a titolo di innocui passatempi, sottraendo così un po' di tempo alle loro fondamentali attività. Può darsi che Goethe (come anche Churchill e molti altri) fosse un pessimo pittore della domenica, ma Faust e Werther di sicuro non ne soffrirono. Einstein era un violinista mediocre (per lo meno, così ho sentito dire da chi ebbe occasione di ascoltarlo), ma di certo il tempo che sottrasse alla fisica gingillandosi con la musica fu ben poca cosa.

D'altra parte, quando abbiamo la sensazione che un interesse secondario sottragga risorse preziose a un'attività primaria di grande valore, ce ne rammarichiamo. Gli scritti di argomento teologico cui Dorothy Sayers mise mano in età matura possono forse compiacere gli appassionati di religione, ma la maggior parte dei suoi affezionati lettori avrebbe preferito qualche romanzo poliziesco in più, con il suo inimitabile Lord Peter Winsey. Non c'è dubbio: Charles Ives rese a molti un buon servizio vendendo polizze assicurative; quanto a Isaac Newton, avrà anche previsto un paio di eventi studiando l'Apocalisse e i testi profetici di Daniele ed Ezechiele; tutto sommato, però, l'umanità avrebbe tratto un maggior beneficio da un po' di musica o di matematica in più.

Pertanto, quando ci rendiamo conto che una passione secondaria ha sottratto una sostanziale quantità di tempo a una più importante fonte di celebrità, cerchiamo di smorzare il nostro rimpianto per la forzata rinuncia a romanzi, sinfonie o scoperte scientifiche convincendoci che l'attività secondaria debba aver dato forma a quella primaria o che l'abbia in un modo o nell'altro arricchita: in altre parole, tentiamo di convincerci che la perdita in quantità sia probabilmente compensata da un guadagno in qualità. Formulare e difendere questi ragionamenti, tuttavia, può essere un'impresa difficilissima. In che senso possiamo dire che il polacco Paderewski divenne un pianista migliore perché servì come primo ministro il suo paese (o un miglior politico perché suonava Chopin, suo compatriota)? E ammesso che in questo caso ce ne importi qualcosa, come si può pensare che la precedente carriera di Billy Sunday nella major league del baseball avesse migliorato il suo stile di predicatore evangelico estemporaneo? (A volte — non me lo sto inventando — Sunday cominciava i suoi sermoni entrando sul podio in scivolata).

Nessun genio moderno ha ispirato più commenti di questo genere di quanti ne abbia suscitati Vladimir Nabokov; l'"altra" sua carriera di tassonomista delle farfalle ha fatto da spunto a pagine e pagine di critica, non meno di quante lui stesso ne abbia profuse in Ada, Lolita e tutti gli altri suoi personaggi messi insieme. In questo caso particolare — giacché Nabokov non era un dilettante che passava qualche ora nei boschi la domenica armato di retino, ma uno scienziato serio che aveva al suo attivo un lungo elenco di pubblicazioni e un'importante carriera di entomologo — vorremmo con tutto il cuore scorgere qualche legame fra le sue due vite, così da poter dire a noi stessi: "Avremo anche qualche romanzo in meno, ma Nabokov spese bene il tempo che dedicò all'entomologia, sviluppando una visione e un approccio che poi valsero a illuminare e addirittura a trasformare la sua opera letteraria". (Peccando un po' di campanilismo, naturalmente, i tassonomisti professionisti — compreso chi scrive — potrebbero provare un maggior rimpianto pensando alla perdita di diverse monografie scientifiche, immolate all'attività letteraria!).

Tanto per dissipare ogni sospetto residuo fra i cultori delle lettere, voglio assicurare quanti mi leggono che nel mio ambiente scientifico le opinioni sono unanimi: Nabokov non era un dilettante (inteso nel senso peggiorativo del termine), ma un tassonomista che lavorava come tale, qualificato e dotato di un chiaro talento, riconosciuto in tutto il mondo come specialista della biologia e della classificazione di un importante gruppo di lepidotteri, i Polyommatini dell'America Latina, volgarmente noti fra gli appassionati come farfalle "blues".

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Pagina 51

Un epilogo su scienza e letteratura

La maggior parte degli intellettuali vede di buon occhio un dialogo fra i professionisti della scienza e delle arti. D'altra parte, noi diamo anche per scontato che, nella geografia dell'erudizione, questi due ambiti si trovino ai poli opposti e che il contesto di un tale dialogo sia fondamentalmente quello di un contatto diplomatico fra avversari che cercano di capirsi. Nella migliore delle ipotesi, speriamo di dissipare gli stereotipi e di diventare amici (o almeno neutrali): ci auguriamo di riuscire a metter da parte le nostre effettive differenze per stabilire un legame temporaneo al servizio di qualche problema di ampio respiro che richieda l'azione congiunta di tutte le persone colte.

Un insieme di stereotipi governa tuttora la percezione di "alterità" in questi due domini: sebbene siano immagini fondate su poco più che l'ignoranza e la paura meschina, rimangono comunque potenti. Gli scienziati sono tecnici senz'anima, interessati soltanto ai loro strumenti; gli artisti sono sbruffoni arroganti, illogici e tutti assorbiti in se stessi. Il dialogo rimane una buona idea, ma i due campi, e le personalità che vi sono rispettivamente attratte, restano autenticamente e profondamente differenti.

Non ho alcuna intenzione di dar vita a una falsa unione in un'artificiosa celebrazione d'amore. I due domini sono diversi, in modo reale e distinto, sia per la materia di cui scelgono di occuparsi, sia per le loro convenzionali modalità di validazione. Il magistero della scienza (la sua autorità) spazia sullo status fattuale del mondo naturale e sullo sviluppo di teorie formulate per spiegare come mai questi fatti e non altri caratterizzino il nostro universo. I magisteri delle singole arti e delle materie umanistiche trattano invece questioni etiche ed estetiche relative alla moralità, allo stile e alla bellezza. Poiché i fatti della natura non possono, logicamente o idealmente, portare a conclusioni etiche o estetiche, su tali criteri i domini devono rimanere formalmente distinti.

Tuttavia, fra noi che lavoriamo in entrambi i domini (anche se in uno dei due solo a livello amatoriale) siamo molti ad avere la forte sensazione che una preponderante unità della mente dia vita a una somiglianza più profonda rispetto alla divisione operata dalla diversità delle rispettive materie. La creatività umana sembra lavorare in larga misura come un tutto coordinato e complesso, quale che sia la diversa enfasi richiesta da materie molto diverse — e se ci limiteremo a sottolineare le distinzioni esterne di queste ultime ignorando l'unità della procedura interna, finiremo per lasciarci sfuggire l'aspetto comune di fondo. Se non riconosceremo gli interessi e le caratteristiche comuni a tutta l'attività creativa umana, non riusciremo a comprendere diversi aspetti importanti dell'eccellenza intellettuale - ivi compresi il tema intellettuale della necessaria interazione fra immaginazione e osservazione (teoria ed empirismo) e il tema psicologico della confluenza di bellezza e fattualità - perché tradizionalmente entrambi i campi tendono a sminuire l'una o l'altra faccia della necessaria dualità.

Inoltre, se vogliamo studiare e comprendere la quintessenza umana alla base delle nostre diverse attività, dobbiamo usare il metodo della "replicazione con differenza". Per ricavare gli universali della creatività umana, io non riesco a immaginare un test migliore dello studio delle profonde somiglianze esistenti nelle procedure intellettuali di arti e scienze.

Nessuno aveva capito la portata di questa unità di fondo meglio di Vladimir Nabokov, che lavorò come professionista completo in entrambi i domini mettendo in campo diversi livelli di eccellenza. Nabokov spesso insisteva nel dire che le sue due attività, letteraria ed entomologica, condividevano un terreno mentale e psicologico comune. In Ada, mentre da un lato uno dei personaggi evoca un comune anagramma per insect, dall'altro esprime splendidamente l'unicità dell'impulso creativo e la bellezza pervasiva della materia prescelta: «Se sapessi scrivere», rifletteva Demon, «cercherei di dimostrare, senza dubbio con troppe parole, con quanta passione, incandescenza e incestuosità - c'est le mot - l'arte e la scienza si incontrano in un insetto».

Ritornando al suo tema centrale della bellezza estetica, presente sia nell'esistenza esterna del dettaglio scientifico, sia nella conoscenza interna che abbiamo di esso, nel 1959 Nabokov scrisse: «Io non posso separare il piacere estetico che provo nel vedere una farfalla dal piacere scientifico di sapere che cosa è». Quando Nabokov parlava della «precisione poetica nella descrizione tassonomica» — senza dubbio con l'intento consapevole di dissipare un paradosso che induce moltissima gente a considerare arte e scienza inesorabilmente distinte e contrapposte —, usava le sue abilità letterarie al servizio della generosità intellettuale (una virtù elevata, anche se poco apprezzata, alla base di qualsiasi tentativo di riconciliare campi in guerra). Pertanto, cercava di chiarire quale fosse il terreno comune di questi due universi professionali, e di illustrare le componenti inevitabilmente appaiate di qualsiasi concezione integrata potesse meritare l'etichetta del nostro sogno più ingenuo e più antico: l'ideale biblico di "saggezza". Così, in un'intervista del 1966, Nabokov abbatté il confine fra arte e scienza affermando che il più prezioso desideratum di ciascun dominio dovesse caratterizzare anche ogni esempio di eccellenza nell'altro — perché dopotutto la verità è bellezza, e la bellezza è verità. Non mi è riuscito di immaginare un titolo più adatto per questo saggio, né riesco a immaginare per esso un miglior finale:

Il piacere tattile del disegno meticoloso, il paradiso silenzioso della camera lucida e la precisione poetica nella descrizione tassonomica rappresentano il lato artistico dell'emozione offerta, a chi per primo la contempla, dall'accumulo di nuova conoscenza assolutamente inutile agli occhi del profano. [...] Non esiste scienza senza fantasia, né arte senza fatti.

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Pagina 197

10. La sifilide e il pastore di Atlantide


Di solito riusciamo a contenere il nostro desiderio di recriminazione reciproca confinandolo a rimproveri poco importanti o vagamente faceti. Fra gli anglofoni, levare il disturbo senza preavviso (soprattutto lasciando conti da pagare) o, nel caso dei militari, assentarsi senza permesso, sono comportamenti descritti con l'espressione "andarsene alla francese". D'altra parte, un francese si riferisce alla medesima tendenza umana, che presumibilmente è universale, dicendo s'en filer à l'Anglaise, ovvero "squagliarsela all'inglese". Durante un anno di università in Inghilterra, appresi che per i miei compagni di studi i profilattici che avevo comprato (senza che purtroppo l'obiettivo dell'acquisto arrivasse a concretizzarsi) erano "lettere francesi". Quell'estate, in Francia, i miei colleghi di un'altra nazione si riferivano allo stesso articolo chiamandolo chapeau Anglais, o "cappello inglese".

Questa forma di meschinità, tuttavia, può andare incontro a pericolose escalation. I nomi e i simboli c'infiammano, e per una bandiera o una partita di calcio sono state combattute diverse battaglie. Così, quando la sifilide cominciò a devastare l'Europa negli anni Ottanta o Novanta del XV secolo (la distinzione, come vedremo, è fondamentale) divampò un acceso dibattito per decidere a chi spettasse il diritto di dare un nome al nuovo flagello, o piuttosto a chi spettasse il diritto di dare alla malattia il nome del proprio nemico. La prima grande epidemia si era verificata a Napoli a metà degli anni Novanta e quindi per alcuni la malattia divenne il "morbo italiano" o "napoletano". Secondo una teoria diffusa, di fatto ancora dibattuta, la sifilide era arrivata dal Nuovo mondo, portata in Europa dai marinai di Colombo che avevano continuato a espletare le loro consuete attività avvantaggiandosi di nuovi scenari: di qui il nome di "morbo spagnolo". L'infezione era stata alquanto virulenta anche un po' a nord-est rispetto al sito del rientro di Colombo, così ci fu chi la chiamò "morbo tedesco". Secondo l'etichetta più diffusa di tutte (giacché la Francia ha sempre vantato un'impressionante disponibilità di nemici), la sifilide divenne il "mal francese" (o morbus gallicus nella letteratura medica del tempo, solitamente scritta in latino); in tal modo se ne scaricava la colpa sui soldati del giovane sovrano francese, Carlo VIII, che aveva conquistato Napoli, ovvero la prima città in cui, nel 1495, la malattia raggiunse proporzioni epidemiche. I sostenitori di questa teoria attribuivano quindi la diffusione del morbo nel resto d'Europa alle attività dei numerosissimi mercenari di Carlo, í quali, una volta smobilitati gli eserciti, tornavano alle rispettive case disperdendosi a ventaglio su tutto il continente.

M'imbattei per la prima volta in questo dibattito nella forma d'un succinto resoconto scritto da Lodovico Moscardo, che, nel catalogo del suo museo, pubblicato nel 1682, descriveva potenziali rimedi erboristici: «Ne sapendo, a chi dar la colpa, li Spagnuoli lo chiamarono mal Francese, li Francesi mal Napolitano, e li Tedeschi, Mal spagnuolo». Moscardo aggiunge poi che altri, senza chiamare in causa alcun agente umano specifico, attribuiscono le origini della sifilide ai miasmi generati nel cielo notturno dalla congiunzione dei tre pianeti più remoti: Marte, Giove e Saturno.

Ma allora com'è che il nuovo morbo ricevette il suo moderno e universale appellativo di "sifilide"? E in ogni caso, che significa questa parola? La storia particolarissima e affascinante dell'origine di quel nome può aiutarci a comprendere due principi fondamentali dell'attività intellettuale che, sebbene inizialmente possano sembrare contraddittori, devono tuttavia essere amalgamati in un quadro coerente se vogliamo sperare di capire sia le teorie di chi ci ha preceduto, sia la capacità della scienza di superare gli errori del passato. In primo luogo, le idee degli antichi scienziati, oggi palesemente assurde, ai loro tempi avevano un senso e possono quindi insegnarci a rispettare i loro grandi cimenti; in secondo luogo, quelle antiche convinzioni erano effettivamente erronee: la scienza non solo progredisce (in tutte le accezioni significative del termine), ma al tempo stesso promette anche di recare immensi benefici all'umanità (emendando gli errori e scoprendo autentiche verità naturali).

La parola "sifilide", dal nome latino di un leggendario pastore, comparve per la prima volta in un lungo componimento poetico in 1300 versi, scritto in eleganti esametri latini dal più grande medico della sua generazione (e, dopo Leonardo, il mio personaggio preferito di quell'epoca): Girolamo Fracastoro (1478-1553), gentiluomo di Verona (la città che diede i natali anche a Romeo e Giulietta). Fracastoro s'interessò di astronomia (aveva stretto amicizia con Copernico quando, nel 1501, studiavano entrambi medicina a Padova), fece alcune fondamentali osservazioni geologiche sulla natura dei fossili, scrisse densi trattati filosofici, mise mano a lunghi componimenti poetici classici e godette di un grandissimo prestigio come il più stimato medico della sua epoca (nel suo ruolo di archiatra pontificio, per esempio, supervisionò il trasferimento del Concilio di Trento a Bologna nel 1547, sia per onorare le preferenze politiche di Sua Santità, sia per sfuggire a una minaccia di epidemia). Per farla breve, fu un uomo rinascimentale, figlio della sua epoca.

Non posso immaginare un contrasto più netto (contrasto che, per inciso, mi ha ispirato questo saggio) fra il battesimo del morbo da parte di Fracastoro nel 1530 e il sequenziamento del genoma del batterio Treponema pallidum - la spirocheta effettivamente responsabile della sifilide - nel 1998. Fracastoro non riuscì a individuare le origini della sifilide e al principio non riconobbe neppure la sua modalità di trasmissione venerea. Scrisse allora un componimento in versi ed escogitò un mito, nel quale nominava la malattia dandole il nome di un pastore leggendario di sua invenzione. In nettissimo contrasto, il serio documento pubblicato dalla rivista "Science" il 17 luglio 1998 - un articolo firmato da 33 autori - identifica le 1138006 coppie di basi disposte in sequenza a formare i 1041 geni del genoma di T. pallidum, indiscussa causa biologica della sifilide.

Il pastore di Fracastoro, donando al morbo il proprio nome neutrale, avrebbe potuto mettere fine a un aspro dibattito; lo stesso Fracastoro, invece, da patriota veronese qual era, mise bene in chiaro le proprie simpatie nel titolo completo del suo componimento epico: Syphilidis sive de Morbo Gallico - Sifilide, ossia del Mal Francese. Per riassumere alcuni spaventosi intrighi della politica locale: Verona era da lungo tempo controllata dalla vicina e più potente città di Venezia. L'Italia non esisteva ancora come nazione e il Regno di Napoli, separato, non aveva alcun legame formale con Venezia. Tuttavia, le affinità di lingua e interessi spinsero i veronesi ad allearsi con Napoli contro le forze dell'invasore francese, Carlo VIII; le generali mire francesi sui territori italiani scatenarono quasi mezzo secolo di guerre e - in seguito alla temporanea occupazione di Napoli messa a segno da Carlo VIII - suscitarono una forte inimicizia da parte italiana.

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11. Darwin e un Kansas fuori dal mondo


Nel 1999 il Board of Education del Kansas stabilì, con sei voti a favore e quattro contrari, di togliere l'evoluzione - e anche la teoria del Big Bang - dai programmi di scienze delle scuole statali. Così facendo, il Board ha portato la sua giurisdizione fuori dal mondo, dove una Dorothy del nuovo millennio potrebbe esclamare: "Lo chiamano sempre Kansas, ma non credo che siamo più nel mondo reale". I nuovi standard non vietano l'insegnamento dell'evoluzione, ma la materia non sarà più inclusa negli esami di stato per la valutazione degli studenti - il che, considerando la realtà dell'istruzione scolastica, costituisce virtualmente una garanzia del fatto che questo concetto scientifico fondamentale sarà annacquato o eliminato, avvicinando i corsi di biologia a quello che si otterrebbe eliminando la tavola periodica dall'insegnamento della chimica oppure omettendo Lincoln da quello della storia americana.

La schermaglia che ha avuto luogo in Kansas segna l'ultimo episodio di una lunga battaglia combattuta dai fondamentalisti religiosi e dai loro alleati per limitare o cancellare l'insegnamento dell'evoluzione dalle scuole pubbliche: un tentativo fondato su premesse improprie, tentativo che i nostri tribunali hanno vanificato in tutte le sue fasi e che amareggia la vasta maggioranza dei teologi non meno degli scienziati. Nessuna teoria scientifica, compresa l'evoluzione, può costituire minaccia alcuna per la religione, poiché questi due formidabili strumenti dell'intelletto umano operano in modo complementare (e non contrapposto) nei loro domini totalmente separati: la scienza in quanto ricerca sullo stato fattuale del mondo naturale, la religione come ricerca di significato spirituale e valori etici.

Al principio degli anni Venti, diversi stati proibirono esplicitamente l'insegnamento dell'evoluzione, inaugurando così un'epoca che ispirò l'infame processo Scopes del 1925 (terminato con la condanna di un professore delle scuole superiori del Tennessee) e che si concluse soltanto nel 1968, quando la Corte suprema dichiarò tali proibizioni incostituzionali sulla base del Primo emendamento. Alla fine degli anni Settanta, in un secondo round, gli stati dell'Arkansas e della Louisiana prescrissero che, qualora si fosse insegnata l'evoluzione, un ugual tempo avrebbe dovuto essere dedicato all'interpretazione letterale del libro della Genesi, spacciata come un'ossimorica "scienza della creazione". Nel 1987 la Corte suprema respinse anche queste leggi.

La decisione del Kansas rappresenta il primo successo, sicuramente soltanto temporaneo, riscosso dai creazionisti grazie all'adozione di una terza strategia per sovvertire un imperativo della Costituzione: limitandosi stavolta a cancellare l'evoluzione dalla scuola, senza tuttavia proibirne ufficialmente l'insegnamento e senza pretendere l'introduzione di un'"alternativa" costituita da un'interpretazione letterale della Bibbia, i creazionisti speravano che le loro motivazioni religiose, ristrette e di parte, non vanificassero ancora una volta i loro sforzi attirando su di loro un'altra sconfitta legale.

Visto il protrarsi di questa battaglia, gli americani di buona volontà avrebbero le loro brave giustificazioni se supponessero che a motivare tutta la questione sia un'autentica disputa scientifica o filosofica. L'evoluzione è forse un'idea speculativa priva di fondamento? Oppure minaccia i nostri valori etici? O magari la nostra percezione del significato della vita? Paleontologo di formazione e sempre rispettoso delle tradizioni religiose, vorrei introdurre tre riflessioni per attenuare questi timori.

In primo luogo, nessun'altra nazione occidentale ha dovuto tollerare un movimento simile, che avesse un qualsiasi peso politico, contro l'evoluzione: una materia insegnata come obbligatoria, e senza contestazioni, in tutti gli altri paesi che condividono le nostre principali tradizioni socioculturali.

In secondo luogo, l'evoluzione è documentata come qualsiasi altro fenomeno scientifico, ben fondata come la nostra conoscenza della rivoluzione della Terra intorno al Sole (e non viceversa). In questo senso, possiamo definire l'evoluzione un "fatto" (la scienza non ha a che fare con certezze, e perciò quando parliamo di un "fatto" possiamo solo intendere una proposizione con tali e tante conferme da rendere irrazionale la posizione di chi le negasse il suo provvisorio consenso).

La principale argomentazione avanzata dal Board of Education — e cioè che l'evoluzione su larga scala sia necessariamente un processo dubbio in quanto non è stato osservato direttamente — puzza di assurdità e non rivela altro che ignoranza circa la natura della scienza. La buona scienza integra osservazione e inferenza. Nessun processo che abbia luogo su periodi di tempo tanto lunghi (e in questo caso, in particolare, prima dell'evoluzione degli esseri umani), o che sia al di là delle nostre capacità di visualizzazione diretta (come lo sono, per esempio, le particelle subatomiche), può essere visto direttamente. Se la giustificazione richiedesse una testimonianza oculare, non avremmo le scienze del tempo profondo — niente geologia, e niente storia antica (dovrei credere che Giulio Cesare sia mai esistito? Le prove dell'evoluzione umana — solide come possono esserlo le ossa — sono di sicuro più numerose della documentazione attendibile in nostro possesso sulla vita di Cesare).

In terzo luogo, nessuna scoperta fattuale della scienza (nessuna affermazione su come "è" la natura) può, in linea di principio, portarci a trarre conclusioni etiche (su come "dovremmo" comportarci) o ad abbracciare convinzioni sul significato intrinseco (lo "scopo" della nostra vita). Queste ultime due questioni — e quali ricerche più importanti di queste potremmo mai intraprendere? — sono saldamente collocate nei territori della religione, della filosofia e degli studi umanistici. La scienza e la religione dovrebbero operare in un sodalizio su base egalitaria, rispettandosi reciprocamente, ciascuna padrona del suo dominio, ognuno dei quali è fondamentale, sebbene in modo diverso, per la vita umana.

Ma allora perché prendersela tanto per quest'ultimo episodio nella lunga, mortificante storia dell'anti-intellettualismo americano? Vorrei suggerire che, come americani amanti della nostra patria, dovremmo scomparire per l'imbarazzo nel constatare che all'alba di un nuovo millennio tecnologico una giurisdizione all'interno dei nostri confini nazionali ha deciso di cancellare uno dei più grandi trionfi intellettuali dell'umanità. L'evoluzione non può essere liquidata come una materia marginale, poiché l'idea di Darwin costituisce il principio organizzatore fondamentale di tutta la biologia. Nessuno che non abbia letto la Bibbia o Shakespeare può essere considerato istruito nelle tradizioni occidentali; allo stesso modo, nessuno che ignori l'evoluzione può comprendere la scienza.

Dorothy seguì la sua strada di mattoni gialli come un sentiero proiettato verso l'esterno, che portava alla liberazione e al ritorno a casa (nel Kansas vero: quello dei nostri sogni e delle nostre possibilità). La strada tracciata dai nuovi programmi scolastici adottati in Kansas può puntare solo verso l'interno e condurre alla limitazione e all'ignoranza.

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13. Un Darwin per ogni bandiera


Come paleontologo di professione e (davvero avrò il coraggio di dirlo?) liberale con tanto di tessera, ho trovato divertente, ma anche un po' mortificante, la moda attualmente diffusa negli ambienti intellettuali conservatori di invocare Charles Darwin - la fondamentale icona del mio mondo professionale - come un flagello o, a seconda dei casi, come un alleato a sostegno delle proprie amate dottrine.

Poiché, com'è logico, Darwin non può coprire entrambi i ruoli simultaneamente, e poiché il dato di fatto dell'evoluzione in generale (e la teoria della selezione naturale in particolare) non può, in ogni caso, offrire un legittimo sostegno a nessuna particolare filosofia morale o sociale, ho fiducia che egli - grandissimo fra tutti i biologi - rimarrà silenzioso, a prescindere dal volume delle voci conservatrici che si leveranno a evocarlo.

A un estremo, la flagellazione di Darwin - l'idea che se lo cacceremo lontano da noi, allora potremo risvegliarci - ha animato una fazione religiosa che considera fondamentale, per un governo stabile e una società ordinata, il revival cristiano vecchio stile. In Slouching Towards Gomorrah, per esempio, Robert Bork scrive:

Il principale ostacolo che si oppone a un rinnovamento religioso è rappresentato dalle classi intellettuali [...] [le quali] credono che la scienza abbia lasciato soltanto l'ateismo quale unica posizione intellettuale rispettabile. Stando alle descrizioni convenzionali, Freud, Marx e Darwin hanno messo in rotta i credenti. Oggi gli intellettuali hanno smesso di considerare Freud e Marx irrefutabili, e pare che ormai sia giunto anche per Darwin il momento di subire una svalutazione.

Poi, dimostrando una conoscenza della paleontologia pari a quella che io possiedo nel campo del diritto costituzionale - ossia zero -, Bork cita come presunta prova dell'imminente declino di Darwin una scempiaggine tanto trita quanto assurda: «La documentazione fossile si sta dimostrando una fonte di grande imbarazzo per la teoria evoluzionista». Se Bork mi farà dare un'occhiata a quella famosa statua di sale subito fuori Gomorra, io sarò lieto di contraccambiare mostrandogli le abbondanti prove in nostro possesso di fossili intermedi che testimoniano fondamentali transizioni evolutive: quella dei mammiferi dai rettili, dei cetacei da progenitori che vivevano sulle terre emerse, e degli esseri umani da antenati affini alle antropomorfe.

Nel frattempo, e a un estremo opposto, la celebrazione di Darwin - l'asserzione che se noi lo accogliamo, lui convaliderà i fondamenti delle nostre posizioni - motiva gli sforzi di alcuni credenti laici ben determinati a venerare i dogmi politici conservatori come dettati della natura. Su "National Review", per esempio, John O. McGinnis ha recentemente sostenuto:

Il nuovo sapere biologico ha il potenziale di offrire al conservatorismo un sostegno più forte di quanto abbia mai fatto qualsiasi altro corpus di nuove conoscenze. [...] Possiamo equamente concludere che una politica darwiniana è in larga misura una politica conservatrice.

McGinnis poi elenca i fondamenti biologici - fra i quali cita l'egoismo, le differenze sessuali e la «naturale ineguaglianza» - quali altrettanti esempi del fatto che l'ideologia di destra si fonda sulla teoria evolutiva.

Secondo McGinnis, oltretutto, il darwinismo sembra fatto apposta non solo per sostenere la politica conservatrice in generale, ma anche per convalidare, più in particolare, quella che lui stesso predilige. Per esempio, si serve di argomenti evoluzionisti speciosi per criticare aspramente il «libertarismo puro» e quindi invoca Darwin per asserire che lo Stato ha l'autorità legittima sia di obbligare i cittadini a risparmiare per gli anni della vecchiaia, sia di tenere a freno le loro inclinazioni sessuali. McGinnis scrive:

Il sé giovanile è connesso in modo talmente debole all'idea del sé più anziano (e questo principalmente perché nelle società di cacciatori-raccoglitori moltissimi individui non arrivavano alla vecchiaia) che con ogni probabilità sono in molti a non risparmiare a sufficienza per la vecchiaia. [...] Pertanto, un intervento statale che costringesse gli individui a risparmiare per gli anni della pensione potrebbe essere giustificato. [...] [Inoltre] la società potrebbe trovarsi nella necessità di creare istituzioni per l'orientamento e il contenimento dell'attività sessuale.

L'uso improprio di Darwin non è rimasto confinato alla destra politica. Anche i liberali hanno adottato entrambe le strategie di gioco, peraltro contraddittorie: negando Darwin quando trovavano sgradevoli le implicazioni della sua teoria, e invocandolo per poter considerare i loro principi politici avallati dalla natura.

Alcuni liberali se la prendono con Darwin perché fraintendono la sua teoria vedendo in essa la dichiarazione di una battaglia aperta e cruenta, in una perpetua «lotta per l'esistenza». In realtà, Darwin identificava questa «lotta» come esplicitamente metaforica: in alcune circostanze perseguita meglio con la cooperazione, in altre con la competizione. All'inizio del XX secolo, molti liberali — ricorrendo alla strategia opposta, e cioè accettando Darwin — sostennero l'idea della riproduzione fra i più dotati, scoraggiando nel contempo la procreazione fra gli individui presunti non idonei.

Tanto i critici di Darwin, quanto i suoi entusiasti sostenitori possono essere confutati ricorrendo ad argomentazioni semplici e venerande. Ai primi posso dire soltanto che l'evoluzione darwiniana ha un ruolo sempre più incisivo e convincente come elemento portante delle scienze biologiche — e, più in generale, che nessuna verità scientifica può rappresentare una minaccia per la religione, giustamente concepita come ricerca di ordine morale e significato spirituale.

A coloro che vorrebbero trovare conferma delle proprie convinzioni religiose nei fatti della natura, suggerisco invece di riflettere seriamente sulle sagge parole del reverendo Thomas Burnet, scienziato del XVII secolo: «È cosa perigliosa trascinare l'autorità delle Scritture nelle dispute sul mondo della Natura [...] affinché il Tempo, che tutto porta alla luce, non debba svelare l'evidente falsità di quanto avevamo fatto asserire alle Scritture». Questo apprendeva la Chiesa cattolica romana nel XVII secolo, dopo aver accusato Galileo di eresia; e di questo i fondamentalisti moderni dovrebbero prender nota e far tesoro, quando negano la fondamentale conclusione della biologia.

Coloro che reclutano Darwin per sostenere una particolare linea morale o politica dovrebbero ricordare che, nel migliore dei casi, la biologia evoluzionista può offrirci qualche intuizione sull'antropologia della morale: per esempio sul perché alcuni (o molti) individui pratichino certi valori, forse per il proprio vantaggio darwiniano. La scienza però non può mai decidere la moralità della morale. Supponiamo di scoprire che un milione di anni fa, nelle savane africane, l'aggressività, la xenofobia, l'infanticidio selettivo e la sottomissione delle donne offrisse dei vantaggi darwiniani ai nostri progenitori cacciatori-raccoglitori. Una tal conclusione non sancirebbe - nel presente come nel passato — il valore morale di questi comportamenti, né di qualsiasi altro.

Forse dovrei essere lusingato per il fatto che il mio campo d'interesse, la biologia evoluzionista, abbia usurpato la posizione (tenuta nei secoli precedenti dalla cosmologia e, in un passato più recente, dal freudismo) di scienza considerata più immediatamente rilevante per rispondere agli interrogativi profondi sul significato della nostra vita. Dobbiamo tuttavia rispettare i limiti della scienza se vogliamo trarre profitto delle sue autentiche intuizioni. Il famoso epigramma di G.K. Chesterton — «L'arte consiste nella limitazione; l'essenza di ogni dipinto è la cornice» — si applica ugualmente bene anche alla scienza.

Anche Darwin comprese questo principio, giacché sospettava che il cervello umano, evoluto per altre ragioni nel corso di molti milioni di anni, potesse essere male equipaggiato per risolvere gli interrogativi più profondi e astratti sul significato ultimo della vita. Come scrisse al botanico americano Asa Gray nel 1860: «Ho la nettissima impressione che tutta la materia sia troppo profonda per l'intelletto umano. Un cane potrebbe speculare altrettanto bene sulla mente di Newton».

Coloro che fanno un cattivo uso di Darwin per promuovere i propri obiettivi dovrebbero ricordare l'ingiunzione biblica che diede il titolo a un grandissimo testo teatrale imperniato sul tentativo di sopprimere l'insegnamento della teoria evoluzionista nelle scuole d'America: «Ma chi inganna sarà vittima dei suoi stessi raggiri. [...] Chi mette scompiglio in casa non erediterà nulla».

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17. Ma che significa, infine, la temibile parola che comincia con la "e"?


[...]


Il principio darwiniano della selezione naturale dà luogo, nell'arco del tempo, a un cambiamento - "evoluzione" nell'accezione biologica del termine - attraverso un duplice processo: dapprima la produzione di una variazione abbondante e non direzionale all'interno di una popolazione; e successivamente la trasmissione di una parte soltanto - una parte selezionata - di tale variazione alla generazione successiva. La variazione registrata in un qualsiasi istante all'interno di una popolazione può quindi essere convertita in differenze dei valori medi (per esempio delle dimensioni corporee medie, o dell'intelligenza media) fra popolazioni successive nel tempo. È per questa fondamentale ragione che tali teorie del cambiamento si chiamano "variazionali" e vengono contrapposte ai modelli più convenzionali e diretti del cambiamento "trasformazionale", quest'ultimo imposto dalle leggi naturali che obbligano a una particolare traiettoria sulla base di proprietà intrinseche e pertanto prevedibili della materia e dell'ambiente (una palla che rotola lungo un piano inclinato non arriva in fondo perché la selezione ha favorito, nella sua totalità, la propagazione differenziale degli elementi in moto rispetto a quelli in quiete, ma perché la forza di gravità impone questa particolare sequenza temporale e questo particolare risultato agli oggetti sferici che rotolano su superfici lisce).

Ora - per illustrare le proprietà peculiari delle teorie variazionali come quella di Darwin, facendone una descrizione ovviamente caricaturale, ma non inaccurata - immaginiamo una popolazione di elefanti presente in Siberia durante un intervallo di clima temperato precedente all'avanzata dei ghiacci. La quantità di pelo che riveste il corpo di questi elefanti varierà in modo casuale e in tutte le direzioni. Quando i ghiacci avanzeranno e le condizioni locali si faranno più rigide, gli elefanti con il pelo più folto tenderanno a cavarsela meglio, semplicemente per la buona sorte rappresentata dal loro migliore adattamento al cambiamento climatico: in media, questi animali avranno una prole più numerosa (questo successo riproduttivo differenziale dev'essere concepito come una tendenza statistica generale e non come un bonus garantito in ogni caso; a ogni generazione, l'elefante con il pelo più folto di tutti potrebbe cadere in un crepaccio e morire proprio quando è nel pieno vigore degli anni, ma non si è ancora riprodotto). Poiché la prole eredita dai genitori la quantità di pelo, nella generazione successiva gli elefanti con il manto più folto (che continueranno a essere favoriti dalla selezione naturale fintanto che persisterà la tendenza al raffreddamento del clima) saranno in percentuale maggiore. Questo processo, nel corso del quale la quantità media di pelo aumenta, può continuare per molte generazioni portando all'evoluzione di mammut lanosi.

Questa storiella può aiutarci a capire perché, a un orecchio comune, la teoria darwiniana dell'evoluzione - e più in generale le teorie variazionali del cambiamento storico - debba suonare bizzarra e contraria a tutte le tradizioni occidentali di pensiero e di spiegazione. Tutte le proprietà curiose e affascinanti dell'evoluzione darwiniana scaturiscono dalla base variazionale della selezione naturale: fra di esse, in particolare, la natura - ragionevole e spiegabile, ma assolutamente imprevedibile - del risultato (dipendente da cambiamenti complessi e contingenti che hanno luogo negli ambienti locali) e il carattere non progressivo della modificazione (la quale è adattativa solo in queste circostanze locali imprevedibili, e comunque non porta a un elefante "migliore" in senso cosmico o generale).

Le teorie trasformazionali funzionano in maniera molto più semplice e diretta. Se voglio andare da A a B, avrò molti meno problemi concettuali (e concreti) se potrò postulare un meccanismo che mi spinga direttamente verso il punto d'arrivo, invece di dover fare affidamento sulla selezione di "alcuni elementi buoni" da una nube di variazione casuale intorno al punto A, per poi costituire una nuova generazione intorno a un punto medio spostato un po' più verso B, generare una nuova nube di variazione casuale intorno a questo nuovo punto, tornare a selezionare "alcuni elementi buoni" dalla nuova popolazione - e ripetere il processo molte volte fino al raggiungimento di B. Se aggiungiamo la generale stranezza delle teorie variazionali alla nostra strenua resistenza culturale e psicologica nei confronti della loro applicazione all'origine evolutiva della nostra specie - applicazione che porta alla riconcettualizzazione di Homo sapiens come ramoscello imprevedibile e non necessariamente progressivo, germogliato sul rigoglioso albero della vita - allora possiamo capire meglio perché la rivoluzione di Darwin superò tutte le altre scoperte scientifiche in quanto a potere riformatore, e anche perché tanta gente tuttora non riesca a capire, o addirittura resista attivamente, al suo contenuto autenticamente liberatorio. (Devo accantonare la questione del contenuto liberatorio lasciandola in serbo per un'altra volta; tuttavia, nel momento in cui riconosciamo che, nella nostra vita, la specificazione della morale e la ricerca di un significato non possono in alcun caso essere risolte attraverso dati scientifici, allora il meccanismo variazionale di Darwin cesserà di sembrare minaccioso, e potrebbe addirittura divenire liberatorio: sarà infatti la base razionale per abbandonare una chimerica ricerca di finalità e di valori etici nel funzionamento esterno della natura).

Queste difficoltà nell'afferrare la grandissima idea di Darwin divennero più profonde quando i nostri antenati vittoriani compirono la loro infelice scelta di utilizzare per essa un termine definitorio che aveva accezioni più antiche ed etimologicamente più appropriate, poi abbandonate o dimenticate: "evolution", con il suo significato corrente di sviluppo orientato. Oggi non ci troveremmo ad affrontare questo ulteriore problema se "evolution" fosse andato incontro a una trasformazione completa per diventare una definizione rigorosa ed esclusiva del cambiamento biologico; d'altra parte, è raro che le parole importanti subiscano un cambiamento di significato così netto, e infatti "evolution" conserva ancora la sua originale definizione di sviluppo prevedibile in diverse discipline non biologiche, astronomia compresa.

È chiaro che quando gli astronomi parlano dell'evoluzione di una stella non invocano una teoria variazionale come quella di Darwin. Se le stelle cambiano nel tempo non è perché la stella-mamma e la stella-papà generano nidiate di stelle-bambine che variano fra loro, né perché quella generazione è poi seguita dalla sopravvivenza differenziale delle stelle-figlie più adatte alla particolare regione del cosmo in cui si trovano. Al contrario, le teorie dell'"evoluzione" stellare non potrebbero essere più implacabilmente trasformazionali nel postulare una sequenza definita e prevedibile di cambiamenti che si dispiegano come prevedibili conseguenze delle leggi fisiche (nessun processo biologico opera esattamente in quello stesso modo: ma il ciclo vitale di un organismo funziona sicuramente meglio, come fonte per un'analogia, dell'evoluzione di una specie).

L'ironia sta nel fatto che - sebbene innegabilmente l'astronomia superi la biologia in fedeltà all'etimo e alla definizione corrente di "evoluzione" - oggi il termine in questione ha una circolazione scientifica assai più ampia nella definizione delle scienze biologiche, radicalmente alterata. In realtà, gli astronomi si sono mantenuti così fedeli alla definizione originale che confinano l'uso di "evoluzione" a sequenze storiche dallo sviluppo prevedibile, mentre lo evitano risolutamente quando descrivono cambiamenti cosmici storici che effettivamente presentano gli aspetti fondamentali dell'"evoluzione" biologica, ovvero imprevedibilità e assenza di direzionalità intrinseca.

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22. Racconti su una coda piumata


[...]


La popolare interpretazione dell'evoluzione comprende almeno due falsi assunti, che sono così ampiamente condivisi e così profondamente (sebbene inconsapevolmente) inclusi nelle spiegazioni convenzionali che molti semplici dati di fatto, che sarebbero colti senza difficoltà a un livello superficiale di esposizione esplicita, entrano quasi sempre nel discorso pubblico dei quotidiani, dei film e delle riviste in una forma confusa; a questo punto, gli "scrittori di scienza" scambiano tale forma confusa per le reali opinioni degli scienziati oppure — più cinicamente — scelgono di presentarla come l'equivalente letterario della musica leggera "facile", trasmessa per soccorrere il pubblico durante gli ingorghi stradali nelle ore di massimo ascolto.

Nel quadro emergente da queste due falsità correlate, l'evoluzione diventa, prima di tutto, la trasformazione - corpo e anima - di un tipo di entità in un altro. I pesci, per esempio, evolvono negli anfibi nel corso di una "conquista" delle terre emerse, e le scimmie antropomorfe abbandonano i loro sicuri rifugi sugli alberi per diventare infine esseri umani, affrontando i pericoli della terra firma brandendo un'arma nella mano libera e con un inedito scintillio di intelligenza, emanato da un organo diventato adesso più voluminoso, proprio dietro gli occhi. Nella seconda componente di questa concezione trasformazionale, i discendenti sono vittoriosi grazie al loro intrinseco valore al cospetto della selezione naturale - perché "successivo" deve necessariamente significare "migliore" -, mentre le terre emerse cedono a metafore esplorative di conquista e colonizzazione e nelle savane africane echeggiano per la prima volta nella storia del pianeta i suoni del progresso, ora articolati come autentico linguaggio.

L'evoluzione, però, procede attraverso la ramificazione di cespugli, e non mediante la trasformazione di una forma nell'altra, trasformazione in cui la forma più antica si dissolve nel trionfo di quella più recente. Le novità cominciano come ramoscelli su vecchi alberi, e non come una farfalla dal corpo del bruco: non come Michael Jordan da Joe Cilecca. Senza contare che moltissime novità, almeno al momento della loro origine, si sviluppano come sottili ramoscelli che vanno ad aggiungersi a cespugli vigorosi e persistenti, e non come realizzazioni di ordine superiore da parte di antenati che, letteralmente, diedero tutti se stessi al fine di trascendere il loro sé precedente - e difettoso.

Gli anfibi e tutti i loro discendenti se la sono cavata abbastanza bene sulla terraferma, ma nel cespuglio dei vertebrati - dove la maggior parte dei ramoscelli (specie) germogliano fra i pesci — le pinne battono le zampe. Non voglio negare il transitorio successo e le interessanti novità degli esseri umani. Homo sapiens però occupa solo un ramoscello sul modesto cespuglio (circa 200 specie) dei primati, e perfino i sottogruppi umani più lontani — sia in termini evolutivi, sia in termini geografici (diciamo i San dell'Africa meridionale e i Sami della Finlandia settentrionale) — presentano una divergenza genetica minima, mentre due popolazioni della stessa specie di scimpanzé, separate soltanto da qualche centinaio di chilometri di territorio africano, hanno evoluto molte più differenze genetiche l'una rispetto all'altra. (Questo fatto, che di primo acchito è sorprendente, ha una sua chiara logica una volta che riformuliamo le nostre concezioni nei termini appropriati al concetto di cespuglio. Nonostante la nostra successiva diffusione in tutto il mondo, tutti noi esseri umani discendiamo da antenati comuni vissuti in Africa meno di 200000 anni fa. Le due popolazioni di scimpanzé possono anche essere rimaste vicine dal punto di vista geografico, ma si separarono da un antenato comune in un passato di gran lunga più remoto così che, nel loro caso, vi fu molto più tempo per l'evoluzione di differenze genetiche in gruppi separati).

Solo quando riconosceremo — in primo luogo — che i batteri costituiscono tuttora la maggior parte dell'albero della vita, compresa tutta la parte basale del tronco che essi edificarono da soli, alle origini della vita cellulare, e — in secondo luogo — che tutti i regni pluricellulari non occupano che alcuni rami, per quanto molto rigogliosi, all'estremo di un singolo grosso ceppo, ebbene, solo quando riconosceremo tutto questo capiremo finalmente (e su vasta scala) un principio importante, e cioè che la novità compare per ramificazione e non in seguito alla trasformazione di tutti gli antenati in discendenti migliori.

In molti dei miei saggi ho sottolineato questo tema dei cespugli contrapposti alle scale — mentalmente liberatori gli uni, vincolanti le altre; infatti credo che nessuna idea sbagliata sia altrettanto efficace nel distorcere la comprensione dell'evoluzione da parte del pubblico. In merito a questo tema, ho trattato argomenti diversi: perché fu la vescica natatoria dei pesci a evolvere dai polmoni e non viceversa, come quasi tutti danno per scontato (compreso, in questo caso, lo stesso Darwin); perché, nella sala dei mammiferi fossili al Museo di storia naturale di New York, l'affollamento dei primati in un angolo a metà strada, e non una loro trionfale collocazione alla fine di un percorso lineare, abbia un significato tanto rivoluzionario; e, ancora, perché la teoria Out of Afríca (che sostiene l'origine degli esseri umani moderni da una recente popolazione di progenitori africani), e non la teoria multiregionale (che postula invece una triplice origine parallela da popolazioni ancestrali di Homo erectus in Europa, Africa e Asia), rappresenti il pensiero evoluzionista convenzionale fondato sull'origine per ramificazione, e non lo shock iconoclasta presentato dalla stampa (la quale fra l'altro ha anche male interpretato la teoria multiregionale, autenticamente eccentrica e teoricamente improbabile, come ortodossia trasformazionale).

Finora, però, avevo evitato di applicare questo mio tema favorito ai gravi fraintendimenti del pubblico sull'asserzione, a quanto pare accurata, della discendenza degli uccelli dai dinosauri. Probabilmente l'ho evitato perché non mi piace attaccare di petto questioni generali, mentre preferisco battere la via dell'insinuazione, servendomi di qualche piccola chicca affascinante; e poi ho evitato di farlo anche perché i dinosauri oggi sono un po' sovraesposti e proprio non hanno bisogno che un esperto di chiocciole faccia loro dell'altra pubblicità. D'altra parte, la chicca mi è appena stata offerta dalla letteratura specialistica, permettendomi così di raccontare la riforma cespugliosa delle origini aviane su due livelli: dapprima la paventata questione generale, poi la chicca.

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24. Odore e pensiero: pregiudizi antichi


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Com'è ovvio, se le persone classificate come "neri" non formano un gruppo genealogicamente distinto, noi non possiamo a rigor di logica attribuire loro alcuna caratteristica innata per eredità. D'altra parte, l'errore di categorizzazione si spinge molto più in profondità della diluizione derivante dall'estesa mescolanza con altre popolazioni. La scoperta più emozionante nel campo della moderna paleoantropologia e della genetica umana — una scoperta ancora in corso — ci costringerà a un radicale ripensamento dell'intera questione delle categorie umane. Saremo obbligati a riconoscere che "nero africano" non può valere come gruppo razziale insieme a denominazioni di popolazioni convenzionali come "nativi americani", "europei caucasici" o "asiatici orientali", ma dev'essere considerato qualcosa di più inclusivo di tutti gli altri messi insieme — non davvero definibile come gruppo delimitato e distinto e pertanto tale da non prestarsi a panzane come "gli africani sono meno intelligenti" o "un africano è per forza bravo a basket".

Gli ultimi 10 anni di antropologia hanno offerto un vivace dibattito sulle origini di Homo sapiens, l'unica specie umana vivente. La nostra specie comparve separatamente su tre continenti (Africa, Europa e Asia) a partire da popolazioni precedenti di Homo erecuts che abitavano tutte queste aree — come sostiene la cosiddetta teoria multiregionale? Oppure Homo sapiens comparve in un unico luogo, probabilmente in Africa, da una sola di queste popolazioni di Homo erectus, per poi diffondersi e coprire tutto il mondo: la cosiddetta ipotesi delle origini africane — Out of Africa?

Questo dibattito ha conosciuto alti e bassi, ma la quantità di dati recenti a sostegno dell'ipotesi Out of Africa sembra in aumento. Nel momento in cui sempre più geni vengono sequenziati e analizzati per studiare la loro variazione nei diversi gruppi razziali umani - e mentre noi ricostruiamo alberi genealogici basati su queste differenze genetiche - sembra emergere lo stesso forte segnale, lo stesso modello: Homo sapiens comparve in Africa e la migrazione nel resto del mondo non cominciò prima di circa 100000 anni fa.

In altre parole, tutta la diversità razziale non africana - bianchi, gialli, rossi, tutti: dagli Hopi ai norvegesi, agli abitanti delle isole Fiji - non può essere molto più antica di 100 000 anni. Homo sapiens, d'altro canto, vive in Africa da molto più tempo. Di conseguenza, poiché la diversità genetica è approssimativamente correlata con il tempo disponibile alla realizzazione del cambiamento evolutivo, fra i soli africani la varietà genetica è molto superiore alla somma totale della diversità genetica di tutte le altre popolazioni, in tutto il resto del mondo messo insieme! E allora come si fa a mettere insieme i "neri africani", come fossero un singolo gruppo, e attribuir loro tratti favorevoli o sfavorevoli, quando essi rappresentano uno spazio evolutivo e una varietà genetica più ampi di quelli che riscontriamo in tutte le popolazioni non africane in tutto il resto del mondo? In base a qualsiasi definizione genealogica appropriata, l'Africa comprende la maggior parte dell'umanità: tutto il resto del mondo non occupa che un ramo sull'albero africano: un ramo sicuramente rigoglioso, ma che non potrà mai essere, dal punto di vista topologico, nulla più che una sottosezione all'interno di una struttura africana.

Occorreranno molti anni e molta riflessione per assimilare le implicazioni teoriche, concettuali e iconografiche di questo sorprendente riorientamento nelle nostre concezioni sulla natura e il significato della diversità umana. Per cominciare, però, suggerirei che finalmente abbandonassimo affermazioni insulse come "i neri africani hanno più ritmo, meno intelligenza, maggiori capacità atletiche". A parte la loro pericolosità sociale, tali affermazioni non hanno alcun significato, giacché gli africani - rappresentando una diversità maggiore di tutto il resto del mondo messo insieme - non possono essere interpretati come un gruppo coerente.

Le nostre più grandi avventure intellettuali spesso hanno luogo all'interno di noi stessi - ispirate non dall'incessante ricerca di nuovi fatti e nuovi oggetti sulla Terra o sulle stelle, ma dal bisogno di cancellare vecchi pregiudizi e costruire nuove strutture concettuali. Nessuna caccia può promettere una ricompensa più dolce o un obiettivo più ammirevole dell'emozione legata a un'interpretazione profondamente rivisitata - il viaggio interiore che emoziona i veri studiosi e spaventa a morte tutti gli altri. Noi dobbiamo compiere una tal spedizione interiore per riconcettualizzare le nostre posizioni sulla genealogia umana e sul significato della diversità evolutiva. Thomas Browne — giacché dobbiamo lasciare a lui l'ultima parola — lodava tali avventure interiori ritenendole al di sopra tutte le altre emozioni intellettuali. È interessante notare che, nello stesso passo, invocò anche l'Africa come una metafora con cui riferirsi a una meraviglia sconosciuta. Non poteva immaginare l'arcana, letterale accuratezza delle sue parole (tratte da Religio Medici, Libro I, Sezione 15):

Mai potei appagarmi nella contemplazione di quelle grandiose meraviglie, quali sono il flusso e il riflusso del mare, la piena del Nilo, il volger dell'ago [della bussola] a nord; e sempre m'istudiai di trovar il loro pari e simile nelle opere della Natura più manifeste e trascurate, la quale cosa senza ulteriori viaggi [intraprendere], io posso fare nella cosmografia di me stesso; le meraviglie che andiamo cercando fuori, noi le portiamo dentro: dentro di noi vi è tutta l'Africa coi suoi prodigi; siamo noi quell'opera ardita e perigliosa della Natura.

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