Autore David Graeber
Titolo Burocrazia
SottotitoloPerché le regole ci perseguitano e perché ci rendono felici
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2016, La Cultura 984 , pag. 218, cop.fle., dim. 15,6x21,4x1,8 cm , Isbn 978-88-428-1957-8
OriginaleThe Utopia of Rules: On Technology, Stupidity and the Secret Joys of Bureaucracy [2015]
TraduttoreFabrizio Saulini
LettoreLuca Vita, 2016
Classe politica , sociologia , globalizzazione , movimenti , lavoro , antropologia , destra-sinistra , critica letteraria












 

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Indice


Introduzione. La Legge ferrea del liberalismo
              e l'età della burocratizzazione totale     9

1.  Le zone morte dell'immaginazione:
    saggio sulla stupidità strutturale                  45

2.  Sulle macchine volanti e
    sul declino del tasso di profitto                   93

3.  L'utopia delle regole, ovvero perché in fondo
    la burocrazia ci piace tanto                       129

Appendice.    Su Batman e sul problema
              del potere costituente                   175


Note                                                   193


 

 

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Introduzione.

La Legge ferrea del liberalismo e l'età della burocratizzazione totale


Oggi nessuno parla più di burocrazia. Ma a metà del secolo scorso, specialmente alla fine degli anni sessanta e all'inizio degli anni settanta, sembrava non si parlasse d'altro. C'erano torni di sociologia dai titoli altisonanti come Teoria generale della burocrazia, The Politics of Bureaucracy («La politica della burocrazia») o addirittura The Bureaucratization of the World («La burocratizzazione del mondo») e best seller intitolati La legge di Parkinson, Il principio di Peters e Bureaucrats: How to Annoy Them («Burocrati: come farli arrabbiare»). Uscivano romanzi kafkiani e film satirici. A tutti sembrava che le manie e le assurdità della vita burocratica fossero uno dei tratti caratterizzanti del mondo moderno, e che quindi fosse particolarmente importante parlarne. A partire dagli anni settanta, però, c'è stato uno strano riflusso.

[...]

Tutti i saggi raccolti in questo volume, in un modo o nell'altro, trattano di questa discrepanza. Anche se non ci piace occuparcene, la burocrazia influenza ogni aspetto della nostra esistenza. È come se la nostra civiltà, in tutto il mondo, avesse deciso di tapparsi le orecchie e di canticchiare ogni volta che si tira fuori l'argomento. E quelle rare volte in cui se ne parla, i termini della discussione sono gli stessi degli anni sessanta e settanta. I movimenti sociali degli anni sessanta erano generalmente d'ispirazione progressista e di sinistra, ma erano anche contro la burocrazia o, per essere più precisi, contro la mentalità burocratica, contro il conformismo opprimente dello stato sociale postbellico. Di fronte ai grigi funzionari di entrambi i regimi, quello del capitalismo di stato e quello del socialismo di stato, quei contestatori si battevano per l'espressione individuale e per una convivialità spontanea, contro qualsiasi forma di controllo sociale (il motto era: «Norme e regole, a che servono?»).

Con il crollo del vecchio stato sociale, tutto ciò appare decisamente superato. Mentre il linguaggio dell'individualismo antiburocratico è stato, con crescente ferocia, adottato dalla destra, che propone «soluzioni di mercato» per qualsiasi problema sociale, la sinistra moderata ormai si è ridotta a combattere una patetica battaglia di retroguardia, provando a salvare quel che resta del welfare state: ha accettato passivamente - e spesso addirittura incoraggiato - il tentativo di rendere lo stato più «efficiente» attraverso la privatizzazione parziale dei servizi e la sempre maggiore integrazione dei «principi di mercato», degli «incentivi di mercato» e delle procedure di mercato basate su «trasparenza e responsabilità» nell'organizzazione burocratica stessa.

Politicamente, il risultato è stato disastroso. Non c'è altro modo per dirlo. Ogni soluzione di sinistra «moderata» a qualsivoglia problema sociale (e oggi, quasi ovunque, le soluzioni di sinistra radicale vengono escluse tout court) si è invariabilmente rivelata una commistione da incubo tra i peggiori elementi della burocrazia e del capitalismo. È come se si fosse deciso scientemente di creare la posizione politica meno allettante possibile. Il fatto che qualcuno pensi ancora di votare per partiti che fanno scelte di questo tipo è il segno della forza intramontabile degli ideali di sinistra: se la gente continua a votare per i partiti di sinistra non è certo perché crede nelle loro politiche, ma perché queste sono le uniche che chi si definisce di sinistra è autorizzato a sostenere.

Come stupirsi, quindi, se ogni volta che c'è una crisi sociale è la destra, e non la sinistra, a fare da valvola di sfogo dell'indignazione popolare?

La destra, almeno, ha una posizione critica sulla burocrazia. Non è molto solida, ma almeno esiste. La sinistra non ce l'ha. Di conseguenza, quando chi si dice di sinistra vuole parlare male della burocrazia, il più delle volte è costretto a riciclare una versione annacquata delle critiche della destra.

[...]

Qui entra in gioco la seconda parte dell'argomentazione: in sostanza, la burocrazia sarebbe un difetto intrinseco del progetto democratico. Il più illustre esponente di questa teoria è stato Ludwig von Mises, un aristocratico austriaco in esilio, che nel suo saggio Burocrazia, del 1944, scrive che i sistemi pubblici, per loro natura, non possono organizzare le informazioni con la stessa efficienza dei meccanismi impersonali di determinazione dei prezzi di mercato. Estendere il voto agli sconfitti della partita economica porta inevitabilmente a una richiesta di intervento pubblico, che si presenta sotto forma di una serie di programmi nobili e ambiziosi per cercare di risolvere i problemi sociali con mezzi amministrativi. Von Mises riconosce che molti dei fautori di queste soluzioni sono in completa buona fede; purtroppo, i loro sforzi non fanno che peggiorare le cose. Finiscono anzi per distruggere la base politica della democrazia stessa, perché i burocrati incaricati di gestire i programmi sociali formano inevitabilmente dei blocchi di potere assai più influenti dei politici eletti alla guida del governo e promuovono riforme sempre più radicali. Secondo von Mises, lo stato sociale che in quegli anni si andava affermando in paesi come la Francia e l'Inghilterra, per non parlare della Danimarca e della Svezia, avrebbe portato inevitabilmente al fascismo nel giro di una o due generazioni.

Alla luce di questo, la crescita della burocrazia è l'esempio supremo della degenerazione delle buone intenzioni. Questo concetto è stato espresso nel modo forse più immediato ed efficace dalla celebre massima di Ronald Reagan: «Le nove parole più spaventose della nostra lingua sono "Mi manda lo stato e sono qui per aiutarvi"».

Il problema è che tutto ciò ha scarsissima attinenza con la realtà dei fatti. Innanzitutto, storicamente, i mercati non nascono come baluardi autonomi della libertà, indipendenti e contrapposti alle autorità dello stato. È vero proprio il contrario. Storicamente, i mercati sono o un effetto collaterale dell'attività dello stato - soprattutto delle operazioni militari - oppure una diretta emanazione del governo. È stato così almeno fino all'invenzione della moneta, che in origine fu creata e imposta come mezzo per pagare i soldati; per gran parte della storia dell'Eurasia, la gente comune ha utilizzato strumenti di credito informali e moneta fisica d'oro, d'argento e di bronzo, e i mercati impersonali che ne scaturivano erano quasi sempre un elemento complementare della mobilitazione degli eserciti, del saccheggio delle città, della riscossione dei tributi e della vendita del bottino. Anche le banche centrali moderne sono nate per finanziare le guerre. Questo è il primo problema della ricostruzione convenzionale degli eventi storici. Ma ce n'è un altro, ancora più evidente. L'idea che il mercato sia un'entità in qualche modo indipendente e contrapposta al governo circola almeno dal XIX secolo per giustificare le politiche economiche di laissez faire, il cui scopo dovrebbe essere ridimensionare il ruolo dello stato. Questo effetto, però, non si è mai ottenuto. Il liberismo inglese non ha portato a una riduzione della burocrazia di stato; anzi, è stata una proliferazione di assistenti giudiziari, cancellieri, ispettori, notai e funzionari di polizia a rendere possibile il sogno liberale di un mondo di liberi contatti tra individui autonomi. Alla fine abbiamo scoperto che per mandare avanti un'economia di mercato servono mille volte più scartoffie che nella monarchia assoluta di Luigi XIV.

Questo apparente paradosso - in base al quale una serie di misure volte a ridurre l'intervento dello stato nell'economia finisce per produrre più regole, più burocrati e più polizia - si ripete con tale regolarità che potremmo considerarlo alla stregua di una legge generale della sociologia. Propongo di chiamarla «Legge ferrea del liberalismo»:

La Legge ferrea del liberalismo stabilisce che qualsiasi riforma del mercato e qualsiasi iniziativa di governo volta a ridurre la burocrazia e a favorire le forze di mercato avrà l'effetto ultimo di incrementare il numero complessivo delle norme, la quantità complessiva delle pratiche cartacee e il numero complessivo dei burocrati al servizio dello stato.

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In questi casi il linguaggio che utilizziamo - che ha origine nella critica di destra - è completamente inadeguato. Non ci dice nulla su quello che sta succedendo.

Prendiamo la parola «deregolamentazione». Nell'attuale dialettica politica, la «deregolamentazione» - come le «riforme» - è vista sempre e comunque come una cosa positiva. Deregolamentazione vuol dire meno lungaggini burocratiche e meno regole e norme che soffocano l'innovazione e il commercio. Questa accezione del termine mette la sinistra in una posizione scomoda, perché chi si oppone alla «deregolamentazione» (o si limita a osservare che è stata proprio la «deregolamentazione» selvaggia a scatenare la crisi bancaria del 2008) apparentemente chiede ancora più regole e norme e quindi più grigi funzionari in giacca e cravatta che limitano la libertà e l'innovazione e in generale dicono alla gente quello che deve fare.

Questo dibattito, tuttavia, si basa su premesse false. Torniamo alle banche. Non esistono - e non possono esistere - banche «non regolamentate». Le banche sono istituzioni a cui lo stato ha dato il potere di creare denaro, o, per essere un po' più tecnici, il diritto di emettere titoli che lo stato stesso riconosce come moneta legale e che quindi accetta per il pagamento delle tasse e per l'estinzione di altri debiti sul territorio nazionale. Ovviamente lo stato non concederà a nessuno, e tantomeno a una società con scopo di lucro, il potere di creare denaro a proprio piacimento. Sarebbe una follia. Per definizione, quello di creare denaro è un potere che lo stato può concedere soltanto a condizioni chiaramente e scrupolosamente definite (ovvero regolamentate). E infatti è ciò che succede sempre: lo stato regolamenta ogni singolo aspetto delle banche, dalla riserva minima agli orari di apertura; da quanto possono chiedere di interessi, commissioni e penali a che tipo di misure di sicurezza possono o devono prevedere; da come devono tenere e presentare i conti a come e quando devono informare i clienti dei loro diritti e responsabilità.

Che cosa si intende allora quando si parla di «deregolamentazione»? Nell'accezione comune significa «cambiare la struttura normativa come più mi piace». In pratica vuol dire tutto e il contrario di tutto. Nel caso delle compagnie aeree e delle telecomunicazioni degli anni settanta e ottanta significava passare da un sistema che avvantaggiava poche grandi aziende a uno che favoriva la concorrenza tra imprese di medie dimensioni sotto il controllo vigile dello stato. Nel caso del settore bancario spesso ha significato il contrario: si è passati da una situazione di concorrenza controllata tra soggetti di medie dimensioni a una in cui si è permesso a una manciata di conglomerati finanziari di dominare completamente il mercato. Ecco perché il termine è così popolare. Basta etichettare una nuova misura normativa come «deregolamentazione» e l'opinione pubblica si convincerà che è un modo per ridurre la burocrazia e liberare l'iniziativa individuale, anche se in pratica vuol dire quintuplicare il numero dei moduli da riempire, dei rapporti da stilare, delle regole e delle norme che gli avvocati devono interpretare e delle persone che lavorano negli uffici e che a quanto pare hanno la sola funzione di spiegare in modo contorto perché le cose non si possono fare.


Questo processo - la graduale fusione di potere pubblico e privato in un'unica entità portatrice di norme e regole che hanno il fine ultimo di estrarre ricchezza sotto forma di profitti - ancora non ha un nome. Il fatto di per sé è significativo. Cose del genere succedono anche perché non esiste una terminologia per discuterne. Ma gli effetti si vedono in ogni singolo aspetto della nostra vita. Passiamo le giornate tra scartoffie e moduli sempre più lunghi e complicati. Semplici bollette, multe e richieste di adesione ad associazioni sportive o culturali sono ormai regolarmente accompagnate da pagine e pagine di documentazione in legalese.

Voglio inventarmi un nome. La chiamerò l'età della «burocratizzazione totale» (ero tentato di chiamarla l'età della «burocratizzazione predatoria», ma in realtà l'aspetto che mi preme sottolineare è l'onnipresenza del fenomeno). È cominciata timidamente alla fine degli anni settanta, quando ormai non si parlava più di burocrazia, e si è consolidata negli anni ottanta. Ma è negli anni novanta che ha preso veramente il volo.

[...]

Nel frattempo si è affermato un nuovo credo: tutti dovevano guardare il mondo con gli occhi di un investitore. È per questo che negli anni ottanta i giornali hanno cominciato a licenziare i giornalisti e in tutti i notiziari televisivi sono comparse le sovraimpressioni con gli aggiornamenti delle quotazioni di borsa. La narrazione ufficiale era che attraverso la partecipazione ai fondi pensione o a qualche tipo di fondo di investimento tutti avrebbero avuto un pezzo di capitalismo. In realtà, il cerchio magico è stato allargato soltanto ai professionisti meglio pagati e ai burocrati delle aziende private.

Questo allargamento, tuttavia, è stato estremamente importante. Nessuna rivoluzione politica è possibile senza alleati, e cooptare un certo segmento della classe media (e soprattutto convincerne gran parte di essere in qualche modo partecipe del capitalismo finanziario) è stato fondamentale. Alla fine, la componente più liberal e progressista di questa élite professional-manageriale è diventata la base sociale di quelli che vengono spacciati per i partiti «di sinistra», mentre le organizzazioni dei lavoratori come i sindacati sono state abbandonate a se stesse (basti pensare al Democratic Party negli Stati Uniti e al New Labour in Gran Bretagna, con i rispettivi leader che hanno ripudiato in pubblico quegli stessi sindacati che storicamente hanno formato il cuore del loro elettorato). Si trattava, naturalmente, di soggetti che già lavoravano in ambienti molto burocratizzati come scuole, ospedali o studi legali di diritto societario. La classe operaia vera e propria, che tradizionalmente detestava questi personaggi, o si è ritirata completamente dalla politica o si è rifugiata nel voto di protesta per la destra radicale.

Non è stato solo un riallineamento politico; è stata una trasformazione culturale, che ha preparato il terreno per un processo grazie al quale gli strumenti burocratici (valutazione delle prestazioni, focus group, survey sull'allocazione del tempo...) sviluppati nei circoli finanziari e aziendali hanno invaso il resto della società - la scuola, la scienza, il governo - arrivando a permeare praticamente ogni aspetto della vita quotidiana. Il modo migliore di ricostruire tale processo è partire dal linguaggio. C'è tutto un gergo che si è sviluppato inizialmente all'interno di questi circoli, fatto di parole altisonanti e vuote come visione, qualità, stakeholder, leadership, eccellenza, innovazione, obiettivi strategici e best practice (molte di queste espressioni risalgono ai movimenti di «autorealizzazione» come Lifespring, Mind Dynamics ed Est, in voga nei consigli di amministrazione delle aziende durante gli anni settanta, ma ormai sono diventate un linguaggio a sé).

[...]

Lo stesso vale in tutti i campi, dall'assistenza ai malati all'insegnamento della storia dell'arte, dalla fisioterapia alla consulenza in politica estera. Qualsiasi attività che un tempo veniva considerata un'arte (possibilmente da apprendere attraverso la pratica) adesso richiede una formazione professionale formale e un attestato. Succede sia nel pubblico sia nel privato, perché, come abbiamo già visto, quando si parla di burocrazia tali distinzioni sono diventate prive di significato. Anche se queste misure vengono spacciate (al pari di tutte le misure burocratiche) come un modo per creare meccanismi equi e impersonali in campi storicamente dominati dalle informazioni riservate e dai rapporti sociali, l'effetto è spesso l'opposto. Come sanno tutti quelli che hanno frequentato le scuole di specializzazione, sono proprio i figli delle classi professional-manageriali, già ricchi di famiglia e dunque meno bisognosi di sostegno economico, che sanno come orientarsi tra le scartoffie che danno accesso alle borse di studio. Per tutti gli altri, l'unico risultato di anni di formazione professionale è un carico abnorme di debiti studenteschi. Quando questi poveri studenti cominceranno a lavorare, dovranno rimborsare tutti i debiti dando in pasto alla finanza buona parte del loro reddito mensile. In alcuni casi questi nuovi requisiti formativi sono delle truffe belle e buone, come quando i finanziatori, d'accordo con chi prepara i programmi di formazione, fanno pressioni sul governo affinché, per esempio, imponga a tutti i farmacisti di superare una serie di test supplementari per l'abilitazione, costringendo migliaia di persone che già praticano la professione a frequentare le scuole serali, che molti potranno permettersi solo con l'aiuto di prestiti studenteschi dagli interessi esorbitanti. Di fatto, è come se i finanziatori ottenessero per legge il diritto a una quota sui redditi futuri dei farmacisti.

Questo può sembrare un caso estremo, ma è a suo modo rappresentativo della commistione di potere pubblico e privato all'ombra del nuovo regime finanziario. Sempre di più, i profitti delle imprese in America non vengono dal commercio o dall'industria, ma dalla finanza: cioè, in ultima analisi, dai debiti altrui. Questi debiti non nascono per caso. Sono, in larga misura, elaborati a tavolino, e proprio da questa commistione tra potere pubblico e privato. L'aziendalizzazione dell'università; la conseguente esplosione delle rette, attraverso le quali si chiede agli studenti di pagare enormi stadi di football e analoghi capricci dei dirigenti o di contribuire alla crescita spropositata dei salari di funzionari universitari sempre più numerosi; la richiesta sempre più frequente di una laurea come certificato di accesso a qualsiasi posto di lavoro in grado di promettere un tenore di vita borghese; la conseguente crescita dell'indebitamento: tutto ciò fa parte di un'unica rete. Un primo risultato è che lo stato stesso diventa il meccanismo di estrazione dei profitti privati (pensiamo soltanto a quello che succede in caso di un'insolvenza sui prestiti studenteschi: entra in azione l'intero apparato giudiziario, minacciando di confiscare beni, pignorare salari e applicare penali per migliaia di dollari). Un altro è che costringe gli stessi debitori a burocratizzare sempre di più le loro vite e a gestirsi come delle minuscole aziende in cui si misurano le entrate e le uscite e si cerca continuamente di far quadrare i conti.

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Come dovrebbe configurarsi una critica di sinistra di questa burocratizzazione totale o predatoria?

Uno spunto ci arriva dalla storia del Movimento per la giustizia globale, il primo movimento ad accorgersi (non senza sorpresa) della natura del problema. Me lo ricordo bene perché all'epoca ero coinvolto in prima persona. Negli anni novanta, la «globalizzazione», nella vulgata di giornalisti come Thomas Friedman (ma in realtà di tutto l'establishment giornalistico degli Stati Uniti e di quasi tutti i paesi ricchi), veniva dipinta quasi come una forza della natura. I progressi tecnologici - in particolare Internet - avevano unificato il mondo come non era mai successo prima, la crescita delle comunicazioni aveva portato all'espansione del commercio e i confini nazionali erano diventati sempre più irrilevanti grazie ai trattati di libero scambio, che avevano creato un unico mercato mondiale. Nei dibattiti politici dell'epoca, soprattutto sui mezzi di informazione dominanti, tutto questo veniva preso come un dato di fatto, e chiunque avesse qualcosa da eccepire veniva trattato come se avesse messo in discussione le leggi fondamentali della natura. Negare la globalizzazione era come sostenere che la terra fosse piatta: chi lo diceva veniva considerato un buffone, l'equivalente di sinistra dei fondamentalisti cristiani che negavano l'evoluzione.

E così, quando è nato il Movimento per la giustizia globale, i mezzi di informazione lo hanno dipinto come una retroguardia di sinistroidi grigi e malsani che volevano tornare al protezionismo, alla sovranità nazionale, alle barriere al commercio e alle comunicazioni e opporsi vanamente all'inevitabile marea della Storia. Il problema è che ovviamente non era vero. Tanto per cominciare, l'età media dei manifestanti, soprattutto nei paesi più ricchi, era di circa diciannove anni. Ma, soprattutto, c'era il fatto che il movimento era una forma di globalizzazione in sé: un'alleanza caleidoscopica di persone provenienti da ogni angolo del mondo, dalle associazioni dei contadini indiani al sindacato dei lavoratori postali del Canada, dai gruppi indigeni di Panama ai collettivi anarchici di Detroit. In più, i suoi esponenti spiegavano fino allo sfinimento che, nonostante si dicesse il contrario, quella che i mezzi di informazione chiamavano «globalizzazione» non c'entrava niente con l'abbattimento delle frontiere e il libero movimento di persone, prodotti e idee. Non era altro che un modo per intrappolare una fascia sempre più ampia della popolazione mondiale entro confini fortemente militarizzati all'interno dei quali le forme di protezione sociale venivano sistematicamente negate, creando un bacino di lavoratori talmente disperati da essere disposti a lavorare quasi per niente. Contro questo scenario, proponevano un mondo davvero senza frontiere.

Ovviamente, i sostenitori di queste idee non avevano la possibilità di andarle a spiegare in televisione o sui giornali importanti, almeno non in paesi come l'America, i cui mezzi di informazione erano e restano sotto l'attenta vigilanza della burocrazia privata. Queste tesi, di fatto, erano tabù. Ma noi del movimento avevamo scoperto che potevamo fare una cosa altrettanto efficace. Potevamo prendere d'assedio i vertici in cui si negoziavano i trattati commerciali e picchettare le riunioni annuali delle istituzioni attraverso le quali era stata costruita, codificata e imposta quella che veniva chiamata globalizzazione. Finché il movimento non arrivò in Nord America, con l'assedio del World Trade Meeting a Seattle nel novembre del 1999 (e il successivo picchettaggio delle riunioni dell'Fmi e della Banca mondiale a Washington), la maggioranza degli americani non sapeva nemmeno della sua esistenza. Quasi per magia, le manifestazioni avevano portato alla luce un mondo che doveva rimanere nascosto: era stato sufficiente tentare di bloccare l'accesso ai summit per svelare l'esistenza di una vasta burocrazia internazionale di organizzazioni intrecciate l'una con l'altra di cui nessuno doveva occuparsi troppo. E, naturalmente, erano spuntati dal nulla anche migliaia di poliziotti in assetto antisommossa pronti a spiegare al mondo quello che i suddetti burocrati erano disposti a scatenare contro chiunque provasse a mettersi sulla loro strada, anche se con metodi non violenti.

Fu una strategia sorprendentemente efficace. Nel giro di due o tre anni avevamo affossato quasi tutte le nuove proposte di accordi sul commercio internazionale, e le istituzioni come l'Fmi erano praticamente scomparse dall'Asia, dall'America Latina e da quasi tutta la faccia della terra.

L'immagine funzionava perché era la dimostrazione che tutto quello che era stato raccontato alla gente sulla globalizzazione era una bugia. Non era un processo naturale e pacifico di sviluppo degli scambi commerciali reso possibile dalle nuove tecnologie. Quello che veniva descritto in termini di «libero scambio» e «libero mercato» era in realtà la consapevole realizzazione del primo sistema amministrativo-burocratico su scala planetaria. Le fondamenta erano state edificate negli anni quaranta, ma il sistema era entrato in funzione soltanto verso la fine della Guerra fredda. Per metterlo in piedi (come per molti altri sistemi burocratici costruiti su scala minore negli stessi anni) era stato creato un intreccio talmente complesso di elementi pubblici e privati che spesso era quasi impossibile distinguerli, anche concettualmente. Proviamo a spiegarla così: al vertice c'erano le burocrazie del commercio come l'Fmi, la Banca mondiale, il Wto e il G8, insieme alle organizzazioni nate dai trattati come il Nafta o l'Ue. Questi erano incaricati di sviluppare le politiche economiche (e anche sociali) da imporre ai presunti governi democratici del Sud del mondo. Appena sotto c'erano le grandi società finanziarie internazionali come Goldman Sachs, Lehman Brothers, American Insurance Group e istituzioni come Standard & Poor's. Quindi venivano le grandi multinazionali (buona parte del cosiddetto «commercio internazionale» consisteva in realtà nel semplice spostamento di materiali da un ramo all'altro della stessa azienda). Infine bisognava includere le Ong, che in molte zone del mondo erogavano gran parte dei servizi sociali in precedenza forniti dallo stato, con il risultato che il piano regolatore in una città del Nepal o gli interventi sanitari in una cittadina della Nigeria spesso venivano decisi in un ufficio a Zurigo o a Chicago.

Al tempo non descrivevamo le cose in questi termini. Non dicevamo, cioè, che dietro il «libero scambio» e il «libero mercato» si nascondeva la creazione di una rete di strutture amministrative globali con lo scopo primario di assicurare la corresponsione dei profitti agli investitori, o che «globalizzazione» in realtà significasse burocratizzazione. Spesso c'eravamo arrivati vicini. Ma raramente lo dicevamo a voce alta.

Col senno di poi, penso che avremmo dovuto sottolineare proprio questo aspetto. Anche l'invocazione di nuove forme di processi democratici che era al cuore del movimento - le assemblee, gli spokescouncils e così via - era più che altro un modo di dimostrare che era possibile relazionarsi con gli altri (e perfino prendere decisioni importanti e realizzare progetti collettivi complessi) senza dover riempire moduli, senza rivolgersi a un tribunale e senza minacciare di chiamare la sicurezza o la polizia.

Il Movimento per la giustizia globale è stato, a suo modo, il primo grande movimento antiburocratico di sinistra dell'età della burocratizzazione totale. Ecco perché penso che possa essere di insegnamento per tutti coloro che vogliono portare avanti una critica simile. Lasciatemi concludere con tre esempi.


1. Non sottovalutare l'importanza della pura violenza fisica

I poliziotti armati fino ai denti che spuntano dal nulla per aggredire i manifestanti non sono un bizzarro effetto collaterale della «globalizzazione». Quando si comincia a sentir parlare di «libero mercato» è buona norma guardarsi intorno e cercare l'uomo con la pistola. Non è mai molto lontano. Il liberismo del XIX secolo ha coinciso con l'invenzione della polizia e delle agenzie investigative private moderne e, gradualmente, anche con l'idea che la polizia abbia giurisdizione su ogni minimo aspetto della vita urbana, dalla regolamentazione dei venditori ambulanti al livello di rumore tollerato nelle feste private fino alla risoluzione delle risse tra parenti o coinquilini. Ci siamo talmente abituati all'idea di poter chiamare la polizia per risolvere qualsiasi problema che a volte non riusciamo nemmeno a immaginare che cosa facesse la gente prima che ci fosse questa possibilità. In realtà, la stragrande maggioranza delle persone nel corso della storia - anche chi viveva nelle grandi città - non aveva nessuna autorità a cui rivolgersi in queste circostanze. O, almeno, nessuna autorità burocratica e impersonale che, come la polizia moderna, avesse il potere di imporre risoluzioni arbitrarie dietro la minaccia dell'uso della forza.

Credo che a questo punto possiamo aggiungere una specie di corollario alla Legge ferrea del liberismo. La storia dimostra non solo che le politiche che favoriscono «il mercato» fanno aumentare il numero degli amministrativi negli uffici, ma anche che accrescono il numero e la proporzione delle relazioni sociali regolate attraverso la minaccia della violenza. Questo, ovviamente, contraddice tutto quello che ci hanno detto sul mercato, ma basta osservare la realtà per accorgersi che è così. In un certo senso, anche chiamarlo «corollario» è fuorviante, perché parliamo di due modi diversi di descrivere lo stesso fenomeno. La burocratizzazione della vita quotidiana comporta l'imposizione di regole e norme impersonali; ma queste regole e norme impersonali, a loro volta, hanno bisogno della minaccia della violenza per funzionare. E infatti, in quest'ultima fase della burocratizzazione totale, abbiamo visto materializzarsi ovunque telecamere di sicurezza, scooter della polizia, soggetti autorizzati al rilascio di documenti temporanei d'identità e donne e uomini in vari tipi di uniforme, a titolo pubblico o privato, che vengono addestrati alla minaccia, all'intimidazione e all'uso della violenza fisica. Ce li ritroviamo dappertutto: perfino in luoghi in cui cinquant'anni fa la loro presenza sarebbe stata considerata scandalosa o quantomeno bizzarra, come i campi sportivi, le scuole elementari, i campus universitari, gli ospedali, le biblioteche, i parchi e le spiagge.

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Una critica della burocrazia adeguata ai tempi deve tirare tutti questi fili (finanziarizzazione, violenza, tecnologia, commistione di pubblico e privato) e tesserli insieme in un'unica rete coerente. Grazie al processo di finanziarizzazione, una percentuale sempre maggiore dei profitti d'impresa deriva in un modo o nell'altro dalla riscossione di una rendita. Visto che si tratta più o meno di una estorsione legalizzata, la finanziarizzazione è accompagnata da un numero crescente di regole e norme che vengono imposte attraverso la minaccia sempre più sottile e onnipresente dell'uso della violenza fisica. Questa minaccia è diventata talmente diffusa che non ci accorgiamo più di essere minacciati: anzi, non riusciamo nemmeno a immaginare come sarebbe non esserlo. Intanto, una percentuale dei profitti che provengono dalla riscossione delle rendite viene riciclata per selezionare pezzi della classe professionale o per creare nuove schiere di burocrati passacarte nelle aziende private. Tutto questo favorisce un fenomeno di cui ho scritto altrove: il proliferare, negli ultimi decenni, di «mestieri del cazzo» palesemente inutili e superflui (coordinatore della visione strategica, consulente per le risorse umane, analista legale e simili), nonostante chi ricopre queste posizioni spesso sia il primo a sapere di non dare alcun contributo all'azienda. Alla fine, siamo davanti a un'estensione della logica del riallineamento di classe cominciato negli anni settanta e ottanta, quando le burocrazie private sono diventate a loro volta un'appendice del sistema finanziario.

Di tanto in tanto spunta un caso che consente di mettere insieme tutti i pezzi. Nel settembre del 2013 sono andato a visitare una fabbrica di tè occupata dagli operai fuori Marsiglia. Da più di un anno c'era un'impasse con la polizia del luogo. Come ci si era arrivati? Mentre facevo il giro dello stabilimento, un operaio di mezza età mi spiegò che ufficialmente il problema era la decisione di spostare la fabbrica in Polonia perché lì il lavoro costava meno, ma che in realtà il nodo era l'allocazione dei profitti. Gli operai più anziani ed esperti (erano circa un centinaio) lavoravano da anni per cercare di migliorare l'efficienza delle grandi macchine utilizzate per confezionare le bustine da tè. La produzione era aumentata e anche i profitti. Ma che cosa aveva fatto la proprietà con quei soldi? Aveva dato un aumento agli operai per ricompensarli dell'aumento della produttività? Ai vecchi tempi keynesiani, negli anni cinquanta e sessanta, sarebbe quasi certamente stato così. Invece no. Avevano assunto più operai e aumentato la produzione? Ancora una volta, no. Avevano assunto dei dirigenti.

Per anni, mi spiegò, nello stabilimento c'erano stati solo due dirigenti: il capo e il responsabile delle risorse umane. Poi, a mano a mano che i profitti erano aumentati, erano aumentati anche i dirigenti: adesso erano una dozzina. Anche se avevano incarichi dai nomi complicatissimi, in pratica non avevano nulla da fare, perciò passavano tutto il tempo a fare avanti e indietro per la fabbrica, a controllare gli operai, a preparare indici di valutazione e a scrivere piani e rapporti. Alla fine avevano avuto la bella idea di spostare tutta l'attività all'estero: soprattutto, secondo lui, perché era un modo per giustificare a posteriori la loro presenza, ma anche perché, mentre gli operai si sarebbero ritrovati quasi tutti senza lavoro, loro con ogni probabilità sarebbero stati assegnati a una destinazione migliore. Poco dopo gli operai avevano occupato la fabbrica e l'edificio era stato circondato da poliziotti in assetto antisommossa.


Quella che manca, quindi, è una critica di sinistra della burocrazia. Questo libro non è un primo abbozzo di tale critica. E non è nemmeno, a nessun livello, il tentativo di elaborare una teoria generale della burocrazia o una storia della burocrazia, o anche solo dell'età della burocratizzazione totale in cui viviamo. È una raccolta di saggi, ognuno dei quali indica alcune possibili direzioni per una critica di sinistra della burocrazia. Il primo parla di violenza, il secondo di tecnologia e il terzo di razionalità e valore.

I capitoli non formano una tesi unica. Potremmo dire che ruotano attorno a una tesi, ma sono soprattutto il tentativo di far partire una discussione. Sarebbe ora.

È un problema che ci riguarda tutti. Siamo strangolati dalle pratiche, dalle abitudini e dai valori burocratici. L'organizzazione della nostra vita si basa ormai sulla compilazione di moduli. Eppure, il linguaggio che utilizziamo per descrivere questo fenomeno non solo è tremendamente inadeguato, ma forse è stato addirittura studiato per aggravare il problema. Dobbiamo trovare il modo di spiegare che cosa non ci sta bene di questo processo e parlare con franchezza della violenza che lo circonda, ma allo stesso tempo dobbiamo capire che cosa lo rende attraente, che cosa lo sostiene, quali elementi varrebbe la pena di mantenere in una società davvero libera, quali possono essere considerati i prezzi inevitabili da pagare per vivere in una società complessa e quali invece possono e devono essere eliminati del tutto. Se questo libro riuscirà anche solo ad accendere la scintilla di questa discussione, avrà dato il suo contributo alla vita politica contemporanea.

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Ammetto che questa insistenza sulla violenza può sembrare strana. Non siamo abituati a considerare le case di cura, le banche o anche le assicurazioni sanitarie come istituzioni violente, se non nel senso più astratto e metaforico. Ma la violenza a cui mi riferisco in questo caso non è astratta. Non sto parlando di violenza concettuale. Sto parlando di violenza in senso letterale: quella, per intenderci, di quando uno prende a randellate un altro. Tutte le istituzioni che abbiamo citato si occupano dell'allocazione di risorse all'interno di un sistema di diritti di proprietà regolati e garantiti dagli stati in un'architettura che, in ultima analisi, si fonda sulla minaccia dell'uso della forza. «Forza», a sua volta, è un eufemismo per violenza: la capacità, cioè, di chiamare individui in divisa disposti a minacciare di prendere a randellate il prossimo.

La cosa curiosa è che raramente i cittadini delle democrazie industriali riflettono su questo aspetto; anzi, istintivamente ne sottovalutano l'importanza. Per esempio, gli studenti universitari sono capaci di passare giorni e giorni in biblioteca a studiare trattati teoretici di ispirazione foucaultiana sul calo dell'importanza della coercizione come fattore nella vita moderna senza mai pensare che, se per caso rivendicassero il diritto di entrare in biblioteca senza mostrare un documento d'identità regolarmente stampato e autorizzato, degli uomini armati verrebbero chiamati ad allontanarli con la forza. La sensazione è che più permettiamo agli aspetti della nostra esistenza quotidiana di entrare nella sfera d'influenza delle normative burocratiche, più ci rendiamo complici nel sottovalutare il dato di fatto (del tutto ovvio per chi gestisce il sistema) che in fondo tutto si basa sulla minaccia della violenza fisica.

[...]

Era a questo che mi riferivo quando parlavo di «violenza strutturale»: a tutte quelle strutture, cioè, che possono essere create e tenute in piedi solo dalla minaccia della violenza, anche se la violenza fisica non è materialmente necessaria per il loro normale funzionamento quotidiano. Riflettendoci, lo stesso si può dire di molti fenomeni definiti di «violenza strutturale» in letteratura (razzismo, sessismo, privilegio di classe), anche se la loro modalità di funzionamento è infinitamente più complessa.

Probabilmente sono stato influenzato dalla letteratura femminista, che spesso descrive la violenza strutturale in questi termini. È stato osservato, per esempio, che le percentuali delle aggressioni a sfondo sessuale aumentano vertiginosamente proprio nel momento in cui le donne cominciano a mettere in discussione le «norme di genere» sul lavoro, sulla condotta o sul modo di vestire. È praticamente lo stesso meccanismo dei conquistatori che rimettono mano alle spade. La maggioranza degli accademici, tuttavia, non usa l'espressione in questi termini. L'accezione attuale risale in realtà agli «studi per la pace» degli anni sessanta e si usa in riferimento alle «strutture» che, si dice, producono gli stessi effetti della violenza, anche se non prevedono necessariamente atti fisici di violenza. L'elenco delle strutture è più o meno lo stesso (razzismo, sessismo, povertà ecc.), ma il sottinteso è che può esistere, per esempio, un sistema patriarcale in grado di operare senza ricorrere alla violenza domestica o all'aggressione a sfondo sessuale, oppure un sistema razzista non legato al rispetto dei diritti di proprietà garantito dallo stato (anche se, per quanto ne so, non esistono esempi empirici né dell'uno né dell'altro). Ancora una volta, non si capisce perché portare avanti una tesi del genere, a meno che, per qualche motivo, non si voglia sostenere che la violenza fisica non è l'elemento essenziale e che non è di quella che bisogna occuparsi. Porre direttamente la questione della violenza, evidentemente, aprirebbe una serie di porte che molti accademici preferiscono tenere chiuse.

Molte di queste porte si aprono sul problema di quello che chiamiamo «lo stato» e sulle strutture burocratiche attraverso le quali esso esercita concretamente il potere. Il problema è la rivendicazione del monopolio della violenza da parte dello stato? Oppure lo stato è un elemento fondamentale di ogni possibile soluzione? È la pratica stessa di stabilire regole e di minacciare di danni fisici chiunque non le rispetti a essere discutibile? Oppure sono le autorità a non esercitare queste minacce nel modo giusto? Parlare di razzismo, sessismo ecc. come di strutture astratte che galleggiano nel vuoto è il modo migliore di evitare queste domande.

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Pagina 64

[...] Proprio per questo, le situazioni di violenza strutturale producono sempre strutture di identificazione immaginativa estremamente sbilanciate.

Tali effetti di solito sono più visibili quando le strutture della disuguaglianza assumono le forme più profondamente internalizzate. Ancora una volta, il genere è un esempio calzante. Nelle sit-com americane degli anni cinquanta c'era una costante: le battute sull'impossibilità di capire le donne. Le battute (recitate ovviamente dagli uomini) rappresentavano sempre la logica femminile come fondamentalmente aliena e incomprensibile. «Bisogna amarle per forza» era il messaggio «ma chi è che capisce davvero come ragionano queste creature?» Non si aveva mai l'impressione, invece, che le donne avessero problemi a capire gli uomini. Il motivo è chiaro. Le donne non avevano scelta: dovevano capirli per forza. In America, gli anni cinquanta sono stati l'età dell'oro di un certo ideale di famiglia patriarcale monoreddito, e tra le fasce più ricche della popolazione questo ideale spesso corrispondeva alla realtà. Le donne che non avevano redditi o risorse proprie non avevano altra scelta che impiegare buona parte del tempo e delle energie a capire che cosa avessero in testa i loro mariti.

La retorica sui misteri del genere femminile sembra un tratto immutabile di queste strutture patriarcali. Di solito si accompagna con l'idea che, anche se illogiche e inspiegabili, le donne siano comunque depositarie di una saggezza misteriosa, quasi mistica («l'intuito femminile»), inaccessibile agli uomini. Ovviamente questi schemi si ripetono in tutte le relazioni caratterizzate da estrema disuguaglianza: i contadini, per esempio, vengono sempre rappresentati come dei sempliciotti che, chissà perché, possiedono anche una saggezza mistica. Generazioni di narratrici - il pensiero va immediatamente alla Virginia Woolf di Gita al faro - hanno raccontato l'altra faccia della medaglia: gli sforzi continui che le donne facevano per controllare, preservare e correggere l'ego di uomini ignari e presuntuosi attraverso un lavoro continuo di identificazione immaginativa o sforzo interpretativo. Questo lavoro avviene a tutti i livelli. Le donne, in ogni luogo, sono sempre chiamate a domandarsi qual è la situazione agli occhi degli uomini. Agli uomini non si chiede mai di fare lo stesso con le donne. Tale modello è talmente interiorizzato che molti uomini, quando viene loro suggerito che potrebbero comportarsi diversamente da come fanno, reagiscono all'indicazione come se fosse un atto di violenza. Un famoso esercizio di scrittura creativa nelle scuole americane consiste nel chiedere agli studenti di immaginare di cambiare sesso per un giorno e di provare a descrivere la loro giornata. I risultati sono sorprendentemente omogenei. Le ragazze scrivono temi lunghi e dettagliati, segno che hanno passato molto tempo a immaginare una situazione del genere. La maggior parte dei ragazzi, invece, si rifiuta addirittura di fare l'esercizio. E quei pochi che lo fanno mettono subito in chiaro che non hanno la minima idea di come sia stare nei panni di una ragazza e che considerano un affronto il fatto stesso di doverci pensare.

Nulla di ciò che sto dicendo suonerà particolarmente nuovo per chiunque abbia dimestichezza con la teoria femminista del punto di vista o con gli studi critici della razza. In effetti, queste mie riflessioni sono state ispirate da un passaggio di bell hooks:

Anche se negli Stati Uniti non c'è mai stato un organismo ufficiale di neri che si siano riuniti in quanto antropologi e/o etnografi per studiare la condizione dei bianchi, i neri, dalla schiavitù in poi, hanno condiviso nelle loro conversazioni un'altra «speciale» conoscenza della condizione bianca, maturata attraverso uno studio ravvicinato dei bianchi. Va considerata speciale perché non si tratta di una modalità di conoscenza compiutamente registrata in forma scritta; il suo scopo era aiutare i neri a cavarsela e a sopravvivere in una società caratterizzata dalla supremazia bianca. Per anni i servitori domestici neri che lavoravano nelle case dei bianchi si sono comportati come informatori che riportavano notizie alle comunità segregate: dettagli, fatti, letture psicoanalitiche dell'«Altro» bianco.

Se c'è un limite nella letteratura femminista, secondo me, è che paradossalmente è troppo generosa e tende a evidenziare la capacità di intuizione degli oppressi rispetto alla cecità o alla stupidità degli oppressori.

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Perché succede questo? Perché anche le burocrazie più benevole in realtà non fanno altro che assumere la prospettiva fortemente schematica e ottusa tipica del potere, trasformandosi in strumenti che nella migliore delle ipotesi limitano quel potere o ne riducono gli effetti più perniciosi. Non c'è dubbio che così facendo le attività burocratiche abbiano portato enormi benefici al mondo. Lo stato sociale europeo, che garantisce a tutti istruzione e assistenza sanitaria gratuite, può giustamente essere considerato — come ha osservato una volta Pierre Bourdieu — una delle più grandi conquiste della civiltà. Ma, allo stesso tempo, si è scavato la fossa da solo cedendo a tutte quelle forme di deliberata cecità tipiche del potere e dando loro un'autorevolezza scientifica — per esempio, attraverso l'adozione di una serie di postulati sul significato di lavoro, famiglia, quartiere, conoscenza, salute, felicità e successo che non avevano praticamente nulla a che fare con la vita reale dei poveri e delle classi lavoratrici, tantomeno con i loro reali bisogni. È stato proprio il disagio creato da tale ottusità ai beneficiari stessi del welfare state che, a partire dagli anni ottanta, ha permesso alla destra di mobilitare il sostegno popolare per le politiche che hanno tagliato e distrutto i programmi sociali più efficaci.

E come si esprimeva tale disagio? In gran parte, attraverso la sensazione che l'autorità burocratica, per sua stessa natura, rappresentasse una specie di guerra all'immaginazione umana. Ciò è particolarmente chiaro se guardiamo ai movimenti di rivolta giovanile, dalla Cina al Messico fino a New York, che culminarono con l'insurrezione del maggio '68 a Parigi. Quelle del '68 furono tutte ribellioni contro l'autorità burocratica; tutte la vedevano come un elemento che soffocava lo spirito umano, la creatività, la convivialità, l'immaginazione. Il famoso slogan «Tutto il potere all'immaginazione», scritto sui muri della Sorbona, ci perseguita da allora, riprodotto all'infinito su poster, spille, volantini, manifesti, film e testi di canzoni, in gran parte perché sembra incarnare un elemento fondamentale non solo dello spirito della ribellione degli anni sessanta, ma dell'essenza stessa di quella che chiamiamo «la sinistra».

È un punto importante. Forse il più importante. Penso infatti che ciò che è successo nel '68 riveli una contraddizione che fin dall'inizio è maturata nel cuore del pensiero di sinistra e che si è pienamente rivelata proprio nel momento della sua massima affermazione storica. Nell'introduzione ho osservato che la sinistra contemporanea soffre della mancanza di una critica coerente alla burocrazia. Ma se torniamo alle origini — all'idea emersa ai tempi della Rivoluzione francese che l'arco politico si divida sostanzialmente in una destra e una sinistra — è chiaro che la sinistra, nella sua essenza, è una critica della burocrazia, anche se, nel corso degli anni, si è dovuta piegare a quelle stesse strutture e mentalità burocratiche che inizialmente intendeva combattere.

In questo senso, l'attuale incapacità della sinistra di formulare una critica della burocrazia che possa parlare a quella che un tempo era la sua base costituente è il paradigma stesso del suo declino. Senza questa critica, il pensiero radicale perde il suo centro vitale e collassa in una frammentazione disarticolata di proteste e rivendicazioni.

Apparentemente, tutte le volte che la sinistra decide di imboccare una strada sicura e «realistica» si scava una fossa ancora più profonda. Per capire come è successo, e soprattutto per cercare di fare qualcosa, è necessario riesaminare alcuni assunti fondamentali: innanzitutto, che cosa vuol dire essere «realisti».

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Il termine cruciale qui è «forza», come in «monopolio dell'uso coercitivo della forza da parte dello stato». Ogni volta che sentiamo invocare questo concetto, ci troviamo in presenza di un'ontologia politica in cui il potere di distruggere, di infliggere dolore agli altri o di minacciare di spezzare, danneggiare o mutilare i corpi (o di rinchiuderli in una stanza minuscola per il resto della vita) è considerato l'equivalente sociale dell'energia che manda avanti il cosmo. Prendiamo, per esempio, le metafore e le sostituzioni che rendono possibile costruire le due frasi seguenti:

Gli scienziati indagano la natura delle leggi fisiche al fine di comprendere le forze che governano l'universo.

La polizia è esperta nell'applicazione scientifica della forza fisica per far rispettare le leggi che governano la società.

Questa secondo me è l'essenza del pensiero di destra: un'ontologia politica che con mezzi sottili permette alla violenza di definire i parametri stessi dell'esistenza sociale e del senso comune.

Perciò dico che la sinistra, nella sua ispirazione, è sempre stata antiburocratica: perché si è sempre basata su un diverso insieme di presupposti riguardo a ciò che è reale, e cioè sui fondamenti stessi dell'essere politico. Ovviamente chi è di sinistra non nega la realtà della violenza. Anzi, molti teorici di sinistra l'hanno studiata a lungo. La differenza è che non le riconoscono lo stesso status fondativo. Direi anzi che il pensiero di sinistra si fonda su quella che chiamerò «ontologia politica dell'immaginazione» (ma potrebbe analogamente definirsi ontologia della fantasia, della creazione o dell'invenzione). Oggi molti riconducono questa tendenza all'eredità di Marx e all'enfasi sulla rivoluzione sociale e sulle forze della produzione materiale. Ma Marx, alla fine, era un uomo del suo tempo, e il suo lessico nasceva da discussioni molto più ampie sul valore, sul lavoro e sulla creatività che prendevano corpo nei circoli radicali dell'epoca, dal movimento operaio ai diversi filoni del Romanticismo e della bohème a Parigi e a Londra. Lo stesso Marx, pur disprezzando i socialisti utopisti della sua epoca, non smise mai di sostenere che ciò che distingue gli esseri umani dagli animali è che gli architetti, a differenza delle api, realizzano le loro strutture prima nell'immaginazione. La caratteristica distintiva dell'uomo, secondo Marx, è che prima immagina le cose e soltanto dopo le mette in atto. È questo il processo che definisce «produzione».

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Riassumendo: le disuguaglianze strutturali creano sempre quelle che ho chiamato «strutture sbilanciate dell'immaginazione», ovvero la divisione tra la classe delle persone che finiscono per fare tutto il lavoro immaginativo e le altre. Tuttavia, la sfera della produzione in fabbrica di cui si occupa Marx è piuttosto atipica sotto questo aspetto. È uno dei pochi contesti in cui la classe dominante finisce per svolgere più lavoro immaginativo, e non meno.

Creatività e desiderio - che in termini politico-economici spesso traduciamo come «produzione» e «consumo» - sono essenzialmente veicoli dell'immaginazione. Le strutture della disuguaglianza e del dominio - la violenza strutturale, se vogliamo - tendono a distorcere l'immaginazione. La violenza strutturale può creare situazioni in cui i lavoratori sono costretti a mestieri ripetitivi, noiosi e meccanici, e solo a una élite ristretta è concesso il lavoro d'immaginazione; tutto ciò porta alla sensazione, nei lavoratori, di essere alienati dal loro lavoro, e che i loro stessi gesti appartengano a qualcun altro. Ma può anche creare situazioni in cui sovrani, politici, celebrità e amministratori delegati se ne vanno in giro tutti impettiti e completamente ignari di ciò che li circonda, mentre i loro partner, domestici, collaboratori e sottoposti passano tutto il tempo a fare il lavoro di immaginazione che serve per mandare avanti le loro fantasie. Credo che in tutte le situazioni di disuguaglianza ci sia una combinazione di questi elementi.

L'esperienza soggettiva di vivere all'interno di queste strutture sbilanciate dell'immaginazione - che, di conseguenza, la distorcono e distruggono - è ciò che chiamiamo «alienazione».

La tradizione dell'economia politica, di cui Marx faceva parte, tende a vedere il lavoro nella società moderna come diviso in due sfere: il lavoro salariato, per il quale il paradigma è sempre la fabbrica, e il lavoro domestico - le faccende di casa, la cura dei figli -, delegato soprattutto alle donne. Il primo è visto principalmente come un'attività di creazione e conservazione di oggetti fisici. Il secondo, più che altro, come creazione e conservazione di persone e relazioni sociali. La distinzione, ovviamente, è un po' caricaturale: non è mai esistita una società, neanche la Manchester di Engels o la Parigi di Victor Hugo, in cui quasi tutti gli uomini lavorano in fabbrica e quasi tutte le donne esclusivamente in casa. Questo ci aiuta però a capire in che termini inquadriamo la questione ancora oggi. E soprattutto ci porta alla radice del problema di Marx. Nella sfera industriale, di solito, sono i vertici ad avocare a sé le attività più immaginative (per esempio, la progettazione dei prodotti e l'organizzazione della produzione), mentre, quando emergono delle disuguaglianze nella sfera della produzione sociale, è la base che deve sobbarcarsi gran parte del lavoro immaginativo - in particolare, quello che ho chiamato lo «sforzo interpretativo» che permette alla vita di andare avanti.

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2. Sulle macchine volanti e sul declino del tasso di profitto


                                          La realtà contemporanea è la versione
                                          beta di un sogno di fantascienza.
                                                               RICHARD BARBROOK



C'è una sensazione segreta di vergogna che aleggia su tutti noi nel XXI secolo. E a quanto pare nessuno vuole riconoscerlo.

Vale soprattutto per chi ha quaranta o cinquant'anni ed è nel pieno della maturità, ma più in generale riguarda tutti. È un sentimento radicato in un senso di delusione per il mondo in cui viviamo, di promessa non mantenuta: una promessa solenne che ci era stata fatta da bambini su come sarebbe stato il nostro mondo da adulti. Non sto parlando delle false promesse che si fanno sempre ai bambini (che il mondo è giusto, che le autorità agiscono a fin di bene, che chi lavora duramente verrà ricompensato), ma di una promessa generazionale molto specifica - fatta soprattutto a chi era bambino negli anni cinquanta, sessanta, settanta e anche ottanta - che non è stata mai esplicitata in quanto tale, ma piuttosto attraverso una serie di supposizioni su come sarebbe stato il mondo una volta che fossimo diventati adulti. E, siccome questo mondo non ci è mai stato veramente promesso, ora che non si è avverato siamo confusi: siamo indignati, ma allo stesso tempo anche imbarazzati per la nostra indignazione. Ci vergogniamo di essere stati così sciocchi da credere ai nostri genitori.

Naturalmente, sto parlando dell'evidente assenza di macchine volanti nel 2015.

Va bene, sì, non solo delle macchine volanti. In realtà non mi importa niente delle macchine volanti, anche perché non so guidare. Sto parlando di tutte le meraviglie tecnologiche che ogni bambino cresciuto nella seconda metà del XX secolo dava per scontato sarebbero esistite nel 2015. L'elenco lo conosciamo tutti: campi di forza, teletrasporto, campi antigravitazionali, tricorder, raggi traenti, elisir di vita eterna, animazione sospesa, androidi, colonie su Marte. Che ne è stato? Ogni tanto viene strombazzato ai quattro venti che una di queste cose sta per diventare realtà - i cloni, per esempio, o la criogenia, o le cure anti-invecchiamento, o i mantelli dell'invisibilità -, ma anche quando non si rivelano false promesse (e di solito è così) si scopre che non funzionano. La reazione più comune a questo tipo di osservazioni è il rimando di rito alle meraviglie dell'informatica - a che serve una slitta antigravitazionale quando c'è Second Life? -, come se fossero una specie di risarcimento inatteso. Ma, anche in questo caso, non ci avviciniamo neanche a dove pensavamo di arrivare negli anni cinquanta. Ancora non esistono computer con cui fare conversazione, o robot che portano a spasso il cane o piegano i panni.

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Che cosa è successo allora? Nel resto di questo capitolo, che è diviso in tre parti, prenderò in esame una serie di fattori che secondo me hanno contribuito a far sì che il futuro tecnologico che tutti ci aspettavamo non si realizzasse mai. Questi fattori si dividono in due grandi temi. Uno è politico, e riguarda i consapevoli cambiamenti nell'allocazione dei fondi destinati alla ricerca; l'altro è burocratico, e riguarda il cambiamento della natura stessa dei sistemi che amministrano la ricerca scientifica e tecnologica.




Tesi

A partire dagli anni settanta c'è stato un profondo cambiamento nell'allocazione degli investimenti in tecnologia: dal finanziamento delle tecnologie collegate alla possibilità di futuri alternativi si è passati al finanziamento delle tecnologie collegate al mantenimento della disciplina sul lavoro e al controllo sociale.

[...]

Anche l'età dell'oro della fantascienza, che ebbe il suo apice negli anni cinquanta e sessanta e che creò il primo repertorio standard delle invenzioni future - campi di forza, raggi traenti, propulsioni a curvatura - che ogni bambino di otto anni oggi conosce benissimo (come sa che l'aglio, le croci, i paletti e la luce del sole servono ad ammazzare i vampiri) ha attraversato simultaneamente gli Stati Uniti e l'Urss. Pensiamo a Star Trek, la quintessenza della mitologia americana. La Federazione dei pianeti, con il suo nobile idealismo, la rigida disciplina militare e l'apparente mancanza di differenze di classe e di una democrazia pluripartitica, non è una versione americanizzata di una Unione Sovietica più morbida e gentile, e soprattutto in grado di «funzionare»?

Quello che più mi colpisce di Star Trek è che non solo non ci sono tracce evidenti di democrazia, ma che quasi nessuno sembra sentirne la mancanza. È vero, l'universo di Star Trek ha subito infinite trasformazioni, con molteplici telefilm, libri, film e fumetti, addirittura enciclopedie, per non parlare delle pluridecennali elucubrazioni dei fan, perciò il nodo della costituzione politica della Federazione prima o poi doveva venire al pettine. E, quando è successo, non c'era motivo di sostenere che non fosse una democrazia. E così sono stati buttati lì un paio di riferimenti al fatto che la Federazione aveva un presidente eletto e un'assemblea legislativa. Ma non ha importanza. Nell'universo di Star Trek non c'è traccia di vita democratica: nessun personaggio fa mai un riferimento anche casuale a elezioni, partiti politici, temi di dibattito, sondaggi, slogan, plebisciti, proteste o campagne. La «democrazia» della Federazione funziona secondo un modello partitico? In tal caso, quali sono i partiti? Che tipo di filosofia o di elettorato rappresentano? In 726 episodi non ci viene dato alcun indizio.

Si potrebbe obiettare: i personaggi fanno parte anche loro della Flotta stellare. Sono nelle Forze armate. Sì, ma nelle vere società democratiche, o anche nelle repubbliche costituzionali come gli Stati Uniti, soldati e marinai esprimono regolarmente opinioni politiche su ogni genere di questioni. Non si sente mai nessuno della Flotta stellare dire «Non avrei mai dovuto votare per quegli imbecilli che hanno voluto la politica di espansione, adesso guarda in che casino ci hanno messo nel Settore 5» oppure «Quando andavo a scuola ho partecipato alla campagna per vietare la terraformazione sui pianeti di classe C, ma oggi non so più se facevamo bene o no». Quando ci sono problemi politici, e ci sono regolarmente, gli inviati sono sempre burocrati, diplomatici e ufficiali. I personaggi di Star Trek si lamentano in continuazione dei burocrati. Non si lamentano mai dei politici, perché i problemi politici vengono affrontati esclusivamente con mezzi amministrativi.

Ma questo, naturalmente, è proprio ciò che succede in uno stato socialista. Tendiamo a dimenticare che quei regimi si dichiaravano invariabilmente democratici. Sulla carta, l'Urss di Stalin aveva una costituzione esemplare, con molti più controlli democratici rispetto ai sistemi parlamentari europei dell'epoca. Il problema era che, come nella Federazione, non c'era alcuna relazione con la vita di tutti i giorni.

La Federazione, quindi, è il leninismo elevato al suo massimo successo cosmico, una società in cui la polizia segreta, i campi di rieducazione e i processi farsa non servono perché una felice congiuntura di abbondanza materiale e conformismo ideologico fa in modo che il sistema si governi completamente da solo.

Mentre nessuno sembra badare troppo alla forma politica della Federazione, il suo sistema economico, dagli anni ottanta in poi, è stato oggetto di grande curiosità e interminabili dibattiti. I personaggi di Star Trek vivono in un regime esplicitamente comunista. Le classi sociali sono state eliminate, e così le divisioni basate su razza, genere e origine etnica. L'esistenza stessa del denaro in epoche precedenti è considerata una strana e divertente curiosità storica. I lavori più umili sono stati automatizzati fino a scomparire. I pavimenti si puliscono da soli. Cibo, abiti, attrezzi e armi vengono creati dal nulla con il minimo spreco di energia, e l'energia stessa non sembra essere razionata. Tutto questo ha infastidito qualcuno, e sarebbe interessante scrivere una storia politica del dibattito sull'economia del futuro che si è scatenato intorno a Star Trek negli anni ottanta e novanta. Il regista Michael Moore , in un dibattito con la redazione di The Nation, osservò che Star Trek era la dimostrazione che la classe operaia americana era molto più favorevole alle politiche apertamente anticapitaliste rispetto alla sinistra «progressista» moderata. È stato sempre in quegli anni che i conservatori e i libertariani hanno cominciato a prendere d'assalto i newsgroup e i forum digitali su Internet denunciando la propaganda sinistrorsa della serie. Poi, tutto a un tratto, abbiamo scoperto che il denaro non era completamente scomparso. C'era il latinum. A utilizzarlo, però, era una odiosa razza apparentemente modellata sullo stereotipo cristiano medievale degli ebrei, soltanto con le orecchie grandi (anziché il naso). Curiosamente, il loro nome, ferengi, in arabo e in hindi significa «persona fastidiosa dalla pelle bianca». D'altra parte, l'idea che la Federazione incoraggiasse il comunismo è stata ridimensionata dall'introduzione dei borg, una civiltà ostile e così smaccatamente comunista che ha di fatto eliminato l'individualità, privandola di qualsiasi forma di vita senziente e assimilandola in un'unica spaventosa mente alveare.

[...] A partire dagli anni settanta, però, anche la ricerca più elementare ha assecondato esigenze essenzialmente militari. Se oggi non abbiamo fabbriche robotizzate è soprattutto perché negli ultimi decenni circa il 95 per cento dei finanziamenti alla ricerca in robotica è passato attraverso il Pentagono, che naturalmente è assai più interessato allo sviluppò dei droni che alle miniere di bauxite automatizzate e ai giardinieri robot.

Questi progetti militari hanno avuto anche applicazioni civili: Internet ne è un esempio. Ma hanno avuto l'effetto di orientare lo sviluppo in una direzione molto precisa.

C'è una possibilità ancora più inquietante. Si può addirittura ipotizzare che questa transizione verso le attività di ricerca e sviluppo in tecnologie informatiche e mediche non rappresenti tanto un ritorno agli imperativi del mercato e del consumo, ma risponda piuttosto alla volontà di dare un seguito all'umiliazione tecnologica dell'Unione Sovietica con una vittoria totale nella guerra di classe mondiale: non solo l'imposizione dell'assoluto dominio militare americano all'estero, ma la disfatta completa dei movimenti sociali sul fronte interno. A emergere sono state in molti casi tecnologie che hanno migliorato la sorveglianza, la disciplina sul lavoro e il controllo sociale. I computer hanno aperto alcuni spazi di libertà, come ci viene costantemente ricordato, ma, anziché portare all'utopia senza lavoro immaginata da Abbie Hoffman o Guy Debord , sono stati utilizzati per produrre l'effetto opposto. L'informatica, infatti, ha permesso la finanziarizzazione del capitale che ha indebitato sempre di più i lavoratori, consentendo allo stesso tempo alle imprese di creare nuovi regimi di «flessibilità» che hanno distrutto la tradizionale sicurezza del posto di lavoro e hanno portato a un consistente aumento delle ore lavorative per quasi tutti i segmenti della popolazione. Insieme all'esportazione del lavoro in fabbrica tradizionale, questo processo ha segnato la disfatta del movimento sindacale, vanificando così ogni reale possibilità di una politica a favore dei lavoratori. Intanto, nonostante un investimento senza precedenti nella ricerca medica e biomedica, aspettiamo ancora una cura per il cancro o anche solo per il raffreddore; le conquiste più importanti in campo medico sono farmaci come il Prozac, lo Zoloft e il Ritalin - studiati, potremmo dire, per far sì che queste nuove necessità professionali non ci facciano diventare completamente, e disfunzionalmente, pazzi.

Quando gli storici ne scriveranno l'epitaffio, concluderanno che il neoliberismo è stata una forma di capitalismo che ha messo gli imperativi politici sistematicamente davanti a quelli economici. Ovvero: data la scelta tra una linea di condotta che farà sembrare il capitalismo l'unico sistema economico possibile e un'altra che lo farà essere un sistema economico più praticabile a lungo termine, il neoliberismo ha sempre preferito la prima. Annientare la sicurezza del posto di lavoro aumentando le ore lavorative crea davvero una forza lavoro più produttiva (o più innovativa e fedele)? Ci sono tutte le ragioni di credere che sia vero il contrario. In termini puramente economici, l'effetto delle riforme neoliberiste del mercato del lavoro è quasi certamente negativo, come del resto conferma il rallentamento generale della crescita in quasi tutti i paesi del mondo negli anni ottanta e novanta. È stato però tremendamente efficace nel depoliticizzare i lavoratori. E anche nell'alimentare eserciti, polizia e servizi di sicurezza privati totalmente improduttivi, un vero e proprio spreco di risorse. Forse, alla fine, il capitalismo affonderà sotto il peso stesso dell'apparato messo in piedi per assicurarne la vittoria ideologica. Ma è facile capire che, se l'imperativo ultimo dei poteri che governano il mondo è soffocare ogni possibilità e speranza di un futuro di redenzione fondamentalmente diverso da quello attuale, questo apparato è un elemento centrale del progetto neoliberista.




Antitesi

Anche nei settori della scienza e della tecnologia che hanno goduto di ingenti finanziamenti non ci sono stati i progressi che tutti si aspettavano all'inizio.

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Gli americani non amano considerarsi un popolo di burocrati (casomai il contrario), ma, se si smette di vedere la burocrazia come un fenomeno limitato agli uffici pubblici, è ovvio che sono diventati esattamente questo. La vittoria finale sull'Unione Sovietica in realtà non ha portato al dominio del «mercato». Se mai, ha cementato il dominio di élite manageriali fondamentalmente conservatrici, burocrati privati che, con il pretesto dei risultati a breve termine, della concorrenza e del bilancio, schiacciano qualsiasi elemento potenzialmente rivoluzionario.




Sintesi

Sul passaggio dalle tecnologie poetiche a quelle burocratiche.


                        Tutte le macchine inventate finora per far risparmiare
                        lavoro non hanno alleviato la fatica di un solo essere
                        umano.                              (John Stuart Mill)



La premessa di questo libro è che oggi viviamo in una società profondamente burocratica. Se non ce ne accorgiamo è solo perché i processi e gli obblighi burocratici sono diventati talmente ramificati che neanche ce ne rendiamo più conto. O, peggio, non riusciamo più a immaginare di fare le cose in un altro modo.

In tutto questo i computer hanno avuto un ruolo cruciale.

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A questo punto, l'unica cosa che possiamo dire con ragionevole certezza è che l'invenzione e l'innovazione non potranno nascere all'interno della cornice del capitalismo aziendale contemporaneo - o, più probabilmente, di qualsiasi forma di capitalismo. È ormai sempre più evidente che se davvero vogliamo iniziare a costruire cupole su Marte o trovare gli strumenti per capire se ci sono civiltà aliene che possiamo contattare - o che cosa succede se facciamo passare qualcosa attraverso un buco nero - dobbiamo inventarci un sistema economico completamente diverso. Deve per forza prendere la forma di una nuova gigantesca burocrazia? Perché diamo per scontato che sia così? Forse raggiungeremo quel punto solo dopo esserci liberati delle strutture burocratiche esistenti. E, se veramente vogliamo arrivare ai robot che fanno il bucato o mettono a posto la cucina, dobbiamo assicurarci che qualsiasi cosa venga al posto del capitalismo si basi su una distribuzione molto più equa della ricchezza e del potere, in modo che non esistano più né i ricchi sfondati né i poveri disperati che fanno le pulizie in casa loro. Solo allora la tecnologia sarà messa al servizio dei bisogni dell'umanità. Questa è la ragione principale per sbarazzarci della manomorta dei gestori di hedge fund e degli amministratori delegati, per liberare le nostre fantasie dagli schermi dietro i quali queste persone le hanno imprigionate, per far sì che la nostra immaginazione torni a essere una forza materiale nella storia dell'uomo.

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