Copertina
Autore Massimo Gramellini
Titolo L'ultima riga delle favole
EdizioneLonganesi, Milano, 2011 [2010], La gaja scienza 961 , pag. 264, cop.ril.sov., dim. 14.5x21x2,7 cm , Isbn 978-88-304-2581-1
LettoreCristina Lupo, 2012
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Prologo                                  13


L'accoglienza                            21

La visita medica                         37

La palestra                              55

Il bagno turco                           73

La tisana della volontà                  93

La vasca dell'Io                        103

La vasca del Noi                        125

La tisana del distacco                  149

La vasca della Luna                     159

La vasca del Sole                       173

La tisana del coraggio                  197

La vasca del Drago                      207

La vasca dell'Agape                     223


Epilogo                                 249


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

I



Arianna era esattamente il genere di ragazza di cui avrebbe potuto innamorarsi. Doveva darsela a gambe e sparire, prima che fosse troppo tardi.

Mancava meno di un'ora all'appuntamento e al solo pensiero starnutì. Ecco, l'avrebbe chiamata per comunicarle che un raffreddore contagioso impediva al suo naso di cenare con lei.

Rianimò una banconota che moriva di solitudine in fondo alla tasca dei pantaloni. Aveva scarabocchiato sul margine un numero di telefono con la sua grafia da gallina, ma nel comporre le cifre ebbe un'esitazione fatale e l'apparecchio gli squillò fra le mani.

«Stasera non posso uscire con te...» esordì il genere di ragazza di cui avrebbe potuto innamorarsi.

Se ne innamorò.

«Hai assunto informazioni sul mio conto?»

«Avevo già un altro impegno... Me n'ero scordata...»

«Capisco.»

«Non puoi capire e io non posso spiegare... C'è di mezzo una persona...»

Arianna fece una pausa più lunga delle altre, durante la quale lui si dimenticò completamente di respirare. «Magari... nei prossimi giorni...»

«Come no, nei prossimi giorni.»

«Notte, Tomàs... Fai bei sogni...» e riattaccò.

Tomàs rimase con la cornetta appesa all'orecchio, una pistola scarica. Pigiò la banconota in fondo alla tasca dei pantaloni e ricominciò a starnutire.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 32

Alla lunga le sue peripezie gli procurarono una crisi di rigetto. Fu la sera in cui, per un assommarsi di coincidenze incredibili, si ritrovò nel letto di una camera d'albergo con una sconosciuta che lo occupava già da alcune ore. Passarono la notte a raccontarsi la vita, protetti dal buio che nessuno dei due pensò mai di violare accendendo l'abat-jour. All'alba lei si addormentò e la prima luce del mattino che filtrava dalle persiane gli permise di scorgerne i lineamenti. Era bellissima. Ma mentre allungava una mano per accarezzarle il viso, sentì un prurito morsicargli i fianchi e incominciò a riempire la stanza di starnuti. Scappò senza nemmeno salutarla, in quella che sarebbe diventata la sua prima fuga.

Da allora non era più riuscito a toccare una donna. Aveva continuato a corteggiarle per abitudine, sfinendole in estenuanti corpo a corpo telefonici. Ma appena sospettava di esserne ricambiato, gli starnuti imponevano la ritirata. La nausea nei confronti dell'amore si era estesa ai suoi surrogati e lo aveva trasformato in uno spacciatore di illusioni che concepiva i rapporti sentimentali come foreste da cui scappare un attimo prima di esserne inghiottiti. Il desiderio dell'anima gemella giaceva esausto nel baule della memoria, benché talvolta riaffiorasse durante la lettura di un romanzo e di fronte agli spettacoli gratuiti della natura. Aveva racchiuso il suo disincanto in un teorema. Quanti miliardi di donne esistevano al mondo? Tre e mezzo, all'incirca.. Ma tolte le troppo giovani, le troppo vecchie, le ragazze che non gli piacevano fisicamente e quelle a cui non piaceva fisicamente lui, il campione si assottigliava ad alcuni milioni. Dal computo bisognava poi sottrarre coloro che avevano gusti inconciliabili con i suoi. E le smorfiose, le stupide, le antipatiche, le arroganti, le petulanti, le ignoranti, le pettegole, le noiose, le moraliste, le ipocrite, le frigide, le ninfomani, le isteriche, le evanescenti, le comandanti dell'esercito della salvezza, le remissive, le perplesse che dicevano di amarlo solo al settantacinque per cento, le insicure che mettevano scadenze ai sentimenti come se fossero dei surgelati, le inarrivabili, le inespugnabili e quelle che sapevano di formaggio: era allergico al formaggio.

Anche limitandosi a una selezione così approssimativa, il numero delle anime gemelle potenziali si riduceva a poche decine di migliaia, la maggior parte delle quali abitava in luoghi esotici o comunque difficili da raggiungere. Le rare superstiti a portata di mano erano impegnate con un marito, un amante, un legame precedente che non voleva andarsene o era sempre pronto a ritornare, pur di guastare la festa a lui. Ma persino nel caso ipotetico in cui una di loro gli si fosse concessa in esclusiva, la storia non sarebbe sopravvissuta alla fine dell'emozione. Svanita l'adrenalina, sarebbe rimasta la noia. Oppure il dolore.

L'epilogo stringente del teorema era che la sua dotazione di anime gemelle non superava le dieci unità, tutte vissute in epoche passate. Il tempo presente consentiva solo amori deperibili e incompleti.

Restavano due alternative. Accontentarsi di una donna che non gli incendiasse il cuore. Oppure rassegnarsi a una solitudine intervallata da passioni inesorabilmente brevi. Aveva scelto la busta numero 2, ma soltanto perché un'indole romantica della quale non era mai riuscito a sbarazzarsi completamente lo aveva indotto a scartare la prima. Purtroppo anche le storie meno impegnative presentavano delle complicazioni. Ed era proprio per evitarle, che negli ultimi tempi la sua allergia lo aveva trasformato in un assassino di amori in fasce.

Aveva sulla coscienza un'architetta bruna con il naso ritoccato e l'umore disfatto, conosciuta a una festa di depressi. Si erano intontiti di telefonate preparatorie prima di arenarsi sulle poltrone scomode di un cinema. Ma non appena lei gli aveva appoggiato la testa sopra la spalla, lui si era messo a starnutire. Era stato uno strazio resistere fino ai titoli di coda e poi dissolversi nel nulla, rispondendo alle sue chiamate «la linea è disturbata, non riesco a sentirti», preludio alla decisione finale di non risponderle più.

Per mantenere le emozioni a distanza di sicurezza, aveva intrecciato un dialogo con una ragazza che viveva dall'altra parte del mappamondo. Trascorrevano le ore davanti alla luce fioca dei computer a scambiarsi ricette sull'amore. Ma un brutto giorno lei aveva scavalcato i fusi orari per venire a conoscerlo di persona. Aveva incominciato a starnutire mentre le apriva la porta. Non era stato facile farsi detestare da quella creatura entusiasta. Eppure lui c'era riuscito, opponendo un silenzio di ferro alle sue richieste di spiegazioni.

La figuraccia successiva era iniziata un po' meglio, ma solo perché lei era un'aspirante dottoressa e al primo starnuto gli aveva rovesciato in gola una pioggia di calmanti. Si erano abbracciati in macchina come ragazzini e a lui era sembrato di soffocare. Aveva sterzato le labbra dalla sua bocca, sussurrando: «Non funzionerebbe, siamo troppo uguali». O: «Non funzionerebbe, siamo troppo diversi». Una delle due bugie, ma forse entrambe. Non ricordava già più.

Poi era arrivata Arianna e lo aveva restituito a un ruolo che gli era altrettanto congeniale: quello della vittima. L'inettitudine di cui aveva dato prova durante la loro ultima telefonata gli procurava ancora un tale imbarazzo che per scacciarne il ricordo riaprì gli occhi.

Stella Maris era seduta accanto a lui, intenta a prendere appunti sul registro.

«Grazie, signore. I suoi pensieri sono allacciati al cuore, per questo li sento così bene.»

Dalle pieghe della tunica estrasse una cartolina e gliela consegnò.

Tomàs scoppiò a ridere.

«E questa chi me la manda, Pinocchio o la Fata Turchina?»

«Mi dispiace, non sono autorizzata a fornire informazioni. Sia così gentile da seguirmi. Prima di iniziare il percorso delle Terme, dovrà sottoporsi a una visita medica.»

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 87

XVI



Sputò di essere nata in una discarica e cresciuta fra le strade di una periferia ostile, con una madre così grassa da non poter passare attraverso la porta della loro catapecchia e un padre alcolizzato che agitava mani sempre troppo lunghe e appiccicose.

A nove anni era riemersa da un bidone della spazzatura stringendo il dépliant di una pasticceria che sfornava il bignè al cioccolato più fondente del mondo. Aveva pensato fosse la pubblicità del paradiso. Nelle notti fredde si addormentava con il dépliant come coperta e sognava angeli custodi a forma di bignè.

In un pomeriggio di primavera era sfuggita alle grinfie del padre e aveva attraversato la città fino alla pasticceria. Il bignè troneggiava in mezzo alla vetrina. Si era confusa fra i clienti per ghermirlo, ma la commessa era stata più lesta ancora: aveva ghermito lei, urlandole ladra.

Nel primo e inconsapevole saggio di recitazione della sua carriera, aveva risposto con voce offesa che lei poteva concedersi qualsiasi genere di lusso, compreso quello di pagare. Mentre faceva finta di cercare i soldi dappertutto, si era sentita toccare una spalla. «Ti è caduta questa, ragazzina.» E un vecchio le aveva messo in mano una banconota.

Era un insegnante in pensione, vedovo e senza figli. Cieco dalla nascita, ma con un cuore che ci vedeva benissimo. Da quel giorno si era assunto il compito di educarla.

Le aveva insegnato la bellezza nascosta fra le pieghe dell'universo e rivelato il segreto dell'esistenza, che secondo lui si trovava nella prima partita di calcio dell'umanità, giocata dalle squadre di due popoli antichissimi. Gli Ittiti e gli Amorrei.

Gli Ittiti erano molto più forti e gli Amorrei si ritrovarono subito in svantaggio. Ma, anziché gettarsi all'attacco per tentare la rimonta, preferirono asserragliarsi dinanzi alla propria porta, a difesa della sconfitta. Solo quando gli avversari ebbero esaurito le forze, guizzarono in avanti come la testa di un cobra dalla cesta dell'incantatore. Lo fecero una prima volta, e fu il pareggio. Una seconda, e fu la vittoria. I poemi dell'epoca lodavano la saggezza degli Amorrei, che per aver saputo limitare le dimensioni di una disfatta senza rinnegare la loro natura erano approdati alla più memorabile delle conquiste. Quella di se stessi.

Per molto tempo aveva creduto che la partita fra Ittiti e Amorrei si fosse disputata davvero. Ma anche dopo aver appreso che era sgorgata dalla fantasia del professore cieco, non aveva mai smesso di applicarne la lezione. Era sopravvissuta ai rovesci della gavetta, finché il personaggio della serie televisiva che portava il suo nome l'aveva tolta dall'anonimato e trasformata in una donna ricca e famosa. Ma avrebbe presto imparato che difendere la sconfitta era assai più semplice che proteggersi dal successo.

Alla morte del suo benefattore aveva fatto naufragio fra le esagerazioni, ignorando il senso del limite per andare alla scoperta di emozioni estreme che le producessero scariche di adrenalina. Si era cercata nell'alcol e nella droga, ma non aveva trovato che equivoci e illusioni. Aveva divorato e vomitato vassoi interi di bignè, inseguendone uno dal sapore perduto. E aveva amato uomini capaci soltanto di sfruttarla. Come tutti coloro che hanno ricevuto poco affetto durante l'infanzia, anche lei era attratta dalle persone che promettevano di farla soffrire.

Aveva imparato a nascondere la sua disperazione dietro una parlantina da funambola, perché alla lunga la gente si stanca di chi è sempre triste. Era stata in cura da uno psicanalista, fino a quando la sua segretaria e unica amica l'aveva trascinata alle riunioni di un movimento religioso. La preghiera ripetitiva aveva placato, almeno in parte, la sua smania, ma l'allentarsi dei ritmi si era mutato in depressione. Aveva incominciato a uscire di casa con un velo per proteggersi dagli occhi indagatori della gente. Proprio lei, che un tempo adorava la popolarità, adesso ne provava terrore.

Aveva persino trovato la forza di troncare la storia con il suo regista, Mokò, un ubriacone molesto al quale da tempo chiedeva un matrimonio, un figlio e un ruolo meno imbarazzante, senza ottenere mai altro che promesse nebbiose. Per potersi fidare di lui aveva dovuto far finta che fosse diverso da quello che era. La loro storia si era sgretolata come una noce fra le mani di un gigante. Erano lava e mare, cose diverse che incontrandosi facevano molto vapore. E in quel vapore lei si era smarrita. Perciò aveva preferito chiudere l'amore in un cassetto, gettando lontano la chiave.

Di caduta in caduta, era scivolata dal pontile di un transatlantico durante la crociera annuale con i fan. Ricordava ancora le urla lanciate dalla sua segretaria, mentre lei precipitava in acqua. Prima di perdere conoscenza aveva pensato al professore cieco, l'unico affetto sano della sua vita, ed era stata invasa dal desiderio di un uomo del quale potersi finalmente fidare.

Arrivata alle Terme aveva visto la sua anima dentro lo specchio: una bambina con le ginocchia sbucciate che continuava a cadere dal balcone perché rifiutava di aggrapparsi alla ringhiera, nel timore che fosse la sbarra di una gabbia. In palestra era cascata più volte dal tappeto, prima di riuscire a effettuare il lancio del suo desiderio.

«Questa è la mia vita», concluse. «L'ho appena dichiarato in un'intervista: ho le ginocchia sbucciate, ma se tornassi indietro, rifarei tutto.»

Smise di sputare nella bacinella e tacque.

Tomàs le rispose con un attacco pirotecnico di starnuti che li costrinse a riparare nello spogliatoio, dove Morena si gettò su un vassoio di banane.

«Non sopporto quelli che dicono: se tornassi indietro, rifarei tutto», la apostrofò lui, appena si fu ripreso. «Io, se potessi, della mia vita passata cambierei parecchie cose. Vuoi che ti abbozzi una lista?»

Lei aveva la bocca troppo piena per opporsi.

«Cederei volentieri la mia adolescenza glaciale in cambio di un modello più riscaldato. Baratterei la mia laurea con un viaggio di cinque anni intorno al mondo. E al ritorno, invece di dare ripetizioni di greco antico a ragazzi che lo detestano, e sorbirmi i lamenti dei loro genitori che detestano me, metterei un tavolino per la strada e leggerei Omero a tutti coloro, giovani e vecchi, che avessero voglia di ascoltarlo.»

«E l'amore?» chiese Morena, facendosi largo fra le bucce.

«Lo prenderei a morsi, senza appesantirlo con la costruzione di qualcosa di durevole. Smetterei di inseguire l'impossibile e mi innamorerei a tempo determinato, come tutti. Cavalcando le emozioni fin quando resistono, per poi staccarmene senza rimpianti, perché nessuna storia può durare per sempre.»

«Devi avere avuto un problema molto serio con la figura del padre.»

«Tu anche con tutte le altre», replicò lui stizzito. «Secondo me a buttarti in acqua è stata la tua segretaria. Era gelosa di te e forse anche un po' esasperata dalle tue chiacchiere. Fossi stato un giudice, le avrei concesso le attenuanti. A meno che avesse una tresca con il tuo regista. In quel caso avrei concesso le attenuanti a lui, se vi avesse buttato di sotto tutte e due.»

«Hai visto troppi melodrammi in televisione.»

«Però mi sono perso il tuo. E questo proprio non ti va giù, vero?»

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 113

La spremuta della sua anima precipitò attraverso la gola, lasciandogli in bocca un retrogusto acido. Il prurito si arrampicò lungo il corpo e Tomàs ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse calato una maschera di latte sopra la faccia. Appena il biancore si dissipò, scorse davanti a sé cinque pugnali. Ostruivano il passaggio, oscillando sulla superficie con le punte rivolte verso l'alto.

La verità non viene a galla finché non la osservi in profondità, aveva sentenziato Noah.

Infilò la testa sott'acqua e si ritrovò immerso nel proprio passato. Sul manico del primo pugnale gli apparve il volto severo di suo padre. Era il giorno della finale del torneo di pallacanestro della scuola e Tomàs si sentiva nervoso per via della pioggia, in realtà perché detestava la competizione. Quando aveva gonfiato il primo canestro con un tiro sbilenco, si era girato verso la tribuna in cerca di consensi, ma suo padre non era ancora arrivato. L'allenatore gli aveva urlato di correre e lui si era offeso. «Corrano gli altri, io devo gonfiare canestri.» L'allenatore lo aveva sostituito con un brocco, che però correva tantissimo. Tomàs si era rifiutato di uscire e avevano dovuto spingerlo fuori a forza. Nel raggiungere gli spogliatoi, prendendo a calci qualsiasi oggetto gli intralciasse il cammino, aveva lanciato uno sguardo ostile verso la tribuna: adesso suo padre era lì, in prima fila, con sopracciglia che grondavano riprovazione.

Serrò le palpebre per lenire il bruciore del ricordo e la bocca urtò il manico del secondo pugnale. Avvertì sulla lingua un sapore antico, quello del suo stesso sangue. Da bambino era stato in ospedale per un prelievo e una fattucchiera travestita da medico gli aveva punto un dito. Temendo di non avere succhiato nettare a sufficienza, gli aveva bucato una seconda volta il polpastrello. Tomàs si era portato la mano alla bocca ed era svenuto. Al risveglio aveva visto la fattucchiera prendersi gioco di lui con le infermiere. Avrebbe voluto ucciderla a colpi di siringa. Invece per la vergogna era scappato.

La bocca si riempì di sale e il manico del terzo pugnale gli insinuò nelle narici l'alito del suo compagno di banco. In classe lo chiamavano Autan perché puzzava di insetticida sin dalla mattina, neanche se lo spalmasse sulle fette biscottate a colazione. In realtà a dargli quell'odore erano le medicine. Autan parlava poco e faceva facce strane, così tutti dicevano che era matto. Tutti tranne Tomàs. Lui lo sentiva libero. Una mattina il professore più perfido della scuola lo aveva interrogato, ma ad Autan non erano uscite bene le parole. «Sei un asino», gli aveva urlato il professore, «voglio sentirti ragliare.» Il ragazzino aveva abbassato gli occhi ed era rimasto zitto. Quel sadico aveva insistito: «Ti ho ordinato di ragliare! Hi-ho! Hi-ho!» L'intera classe aveva scaricato la tensione in una risata. Anche Tomàs. Ma quando Autan aveva cercato il suo sguardo, gli era partito uno starnuto.

Il naso si chiuse di colpo e l'udito divenne più intenso, portandogli il fruscio del quarto pugnale. Un'eco di voci stridule che ripetevano: «Povero bambino!» Dopo lo sfascio della sua famiglia aveva cercato affetto e non pietà fra le mamme dei suoi compagni. Però nel migliore dei casi era stato accolto come un amore periferico, che non poteva ambire al centro già occupato dei loro cuori. Idealizzava i focolari degli altri, ma ogni volta che aveva provato a ritagliarsi uno strapuntino accanto alla fiamma si era visto accettare unicamente come pretesto per manifestazioni estemporanee di bontà.

Gli orecchi gli si tapparono per l'imbarazzo. Confidava ormai soltanto nelle mani. Le sentì afferrare la lama del quinto pugnale. Aveva la consistenza di una buccia di pesca e gli restituì il ricordo di un collo di ragazza accarezzato agli albori della sua adolescenza, tra i fuochi di un ferragosto lontano. L'aveva corteggiata per tre estati di fila, senza farsene accorgere nemmeno da se stesso. Solo lei aveva capito tutto, benché esibisse un fidanzato che era già quasi un marito. Una notte quei due avevano litigato e la ragazza era corsa sulla spiaggia a infilarsi dentro il suo sacco a pelo. Si erano scambiati effusioni problematiche: Tomàs portava ancora l'apparecchio per i denti. Aveva preso sonno dopo l'aurora, le mani abbandonate sopra il collo di pesca. Ma al risveglio le sue dita stringevano il vuoto. Aveva visto la ragazza fare la pace col fidanzato sulla riva del mare e si era sentito come certe caramelle guaste. Assaggiato e sputato.

Ritornò in superficie, recuperando immediatamente l'uso dei sensi. I cinque pugnali rimanevano in mezzo alla vasca e le loro lame sguainate sfidavano il cielo. Provò a eluderli con manovre laterali, ma ovunque si spostasse essi si muovevano con lui, come attratti da una calamita nascosta nel suo cuore.

«Non esiste una gomma per cancellare i ricordi. Però esiste qualcosa che può ripulirli da tutto il dolore che contengono.»

Noah era tornato e gli stava allungando un cubetto biancastro.

«E questo cosa sarebbe?» chiese Tomàs, tenendolo sul palmo di una mano.

«Il sapone del perdono.»

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 199

XXXVIII



Scese dallo scoglio anche lui e camminò fino al chiostro inondato di sole, ancora più confuso di quando vi era giunto la prima volta. Gli alberi, che aveva conosciuto spogli all'inizio dell'avventura, adesso si piegavano sotto il carico dei frutti. Stava passeggiando in un paradiso terrestre, eppure si sentì perduto.

Ma, com'era accaduto la mattina di un Natale lontano, una mano si posò sulla sua spalla. All'estremità della mano c'era il Cantastorie, che con l'altra reggeva il vassoio: accanto ai libri chiari era rimasta soltanto una tazza.

«Non sentirti un reietto. Tutto è giusto e perfetto.»

Tomàs avrebbe voluto gridare. Invece lo abbracciò.

«Giusto e perfetto questo caos?»

«Gli uomini misurano la vita con un metro che non ha valore. Il cosmo conosce una sola legge: l'amore.»

«Io soffro. Tutti soffriamo. E questo ospedale immenso tu lo chiami amore?»

«Guardati intorno, è il solstizio d'estate. La natura è una festa a cui sono invitate quelle anime che hanno lavorato in inverno. Molto hai fatto di buono, è arrivato il momento di mostrarlo all'esterno.»

Tomàs si accingeva a replicare qualcosa, ma Andrea lo fermò.

«Senti che armonia: non la guastare, se non è più bella del silenzio la parola che stai per pronunciare.»

«Il silenzio mi fa paura.»

«Sei forse uno di quei tipi superficiali che, per non ascoltarlo, applaudono persino ai funerali?»

«Sono uno di quei tipi che neanche ci vanno, ai funerali.»

«Poiché lo hai scordato, rinfrescartelo vorrei. La parola è degli uomini e l'arte degli angeli, ma il silenzio è degli dei. Il silenzio, sì, la lingua antica che riempì molte tavole. Dai miti alle leggende, dai testi sacri alle favole.»

«Le favole nascondono il linguaggio degli dei?»

Andrea non rispose subito, ma aprì uno dei libri con la copertina chiara.

«Lo spirito ribelle per la vita spasima: mille volte cade e mille si rialza, finché un corpo ottiene dalla sua anima.»

«Non capisco.»

«C'era una volta un burattino sottoposto a mille prove dal destino. Fata Turchina lo aiutò e lui un bambino diventò.»

«Pinocchio!»

«L'anima ha un nemico, l'ego, che la vuole annientare. Ma attraverso i sette cancelli del corpo essa si salverà. E il suo Verbo lo spirito attirare saprà.»

«Troppo difficile.»

«Biancaneve scampò alla Regina Cattiva, sette nani la resero finalmente giuliva. Il suo canto nel cuore di un ragazzo suonò: era il Principe Azzurro, che se ne innamorò.»

«Ingegnoso...»

«L'anima dormiva un grave sonno, assieme al corpo giaceva ormai corrosa. Ma lo spirito immortale la svegliò e subito ne fece la sua sposa.»

«La Bella Addormentata nel Bosco baciata dal Principe! È sempre la stessa storia che si ripete...»

«Passa attraverso mille strade la verità che cerca il viaggiatore, ma tutte conducono allo stesso luogo: l'amore.»

«E allora non sarebbe meglio spogliarlo dalle metafore, affinché l'intera umanità lo possa vedere?»

«Una luce troppo forte acceca chi sta nell'oscurità. Uno alla volta vanno tolti i veli, con infinita pietà. Solo chi è passato oltre il dolore potrà conoscere il volto vero dell'amore.»

Tomàs osservò il Cantastorie in silenzio. Immaginò di abitare il suo corpo e di pensare i suoi pensieri. Quella voce di donna e di uomo, insieme. Quelle fattezze di uomo e di donna, insieme.

«Se tutti i personaggi delle favole abitano dentro la stessa persona, allora anche tutto l'amore...»

Il Cantastorie sorrise.

«Tu sei... l'amore!» urlò Tomàs.

«Androgino è il mio nome. Colui che ha realizzato dentro di sé l'amore, mettendo insieme il maschio con la femmina ed entrambi col suo cuore. Io sono il sole e la luna, il pane e il vino. La luce e la tenebra, l'opaco e il cristallino. Il mare e le stelle, il suddito e il re. L'Uno che voi create in Due, io lo creo in me.»

«Chi ti ha dato questo potere?»

«Non è un potere, è una possibilità. Chiunque evolve coglierla potrà.»

«Vuoi dire che diventerò anch'io un uomo ad anfora?»

«Forse il mio aspetto non rappresenta il tuo ideale, ma è un simbolo per dirti che ognuno può essere speciale. Tu un portento sarai, presa la giusta via. Se il tuo talento troverai, paura non saprai più cosa sia.»

«Il mio talento è mettermi nei panni degli altri», bisbigliò Tomàs, e si rese conto di averlo compreso nell'istante in cui lo diceva.

«Finalmente hai scovato la tua pista: osservare il mondo da vari punti di vista!»

«Ma per mettermi nei panni degli altri, dovrei sentire la vita come se fossi loro. Impossibile.»

«Non come loro, ma con loro. Si chiama compassione ed è il tesoro che servirà a compiere la tua missione.»

«E quale sarebbe, la mia missione?»

«Rispondere a questo non è il mio ruolo. La tua missione dovrai scoprirla da solo.»

Gli versò nella tazza un infuso verde smeraldo.

«La tisana di verbena. Le sue erbe ho raccolto nella notte del solstizio, quando l'energia di Madre Terra viene giù dal precipizio e battezzerà nel fuoco l'uomo diventato saggio, per infondergli il potere senza uguali del coraggio.»

Andrea prese in mano un altro libro chiaro e incominciò a rac-cantare.

| << |  <  |