Copertina
Autore Antonio Gramsci
Titolo Odio gli indifferenti
EdizioneChiarelettere, Milano, 2011, Instant Book , pag. 108, cop.fle., dim. 11x18x1,2 cm , Isbn 978-88-6190-174-2
LettoreRiccardo Terzi, 2011
Classe politica , paesi: Italia: 1900 , paesi: Italia: 2010
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Indice


Nota editoriale                                          VII
Perché oggi di David Bidussa                              IX

ODIO GLI INDIFFERENTI

Prima di tutto

— Odio gli indifferenti [Indifferenti] 3
— Politici inetti [Una verità che sembra un paradosso] 6
— Capovolgimenti del senso comune [Demagogia] 10
— L'assistenza è un diritto, non un regalo [Ospitalità] 12
— Gli operai della Fiat [Uomini di carne e ossa] 15

La politica e i politici

— Spunti per l'avvenire [Margini] 19
— Tutto va bene [Illusionisti e illusi] 26
— Nessuna tolleranza per lo sproposito
  [Intransigenza-tolleranza, Intolleranza-transigenza] 27

Educare gli italiani

— I privilegi della scuola privata [Per la libertà della
  scuola e per la libertà d'essere asini] 31
— Le donne, i cavalieri e gli amori [Caratteri italiani] 35
— Un compito morale [La famiglia] 40
— Conoscenza e pettegolezzo [Modernità] 43

La libertà e la legge

— I diritti del cittadino [La tessera della libertà] 47
— I doveri di un giudice [Elogio di Ponzio Pilato] 48
— Gesù e milioni di uomini [Il tramonto di un mito] 51
— La storia è sempre contemporanea [La barba e la fascia] 54
— La libertà e i soprusi [La reazione italiana] 57
— Capitalismo fuori controllo [Il nostro punto di vista] 59

I mali dello Stato italiano

— Contro la burocrazia [Elogio d'un ladro] 63
— I burocrati di Stato [Consapevolezza censoria] 65
— Risorgimento e Unità d'Italia [Passato e presente] 71

Contro la guerra

— I professionisti della guerra [Il canto delle sirene] 79
— Menzogna e rassegnazione [La guerra e l'avvenire] 86
— Occorre cambiare noi stessi [Letture] 89
— Come cambia il linguaggio [La fortuna delle parole] 94

Appendice
  Una legge liberticida 99



 

 

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Pagina 3

Prima di tutto



Odio gli indifferenti [Indifferenti]

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che «vivere vuol dire essere partigiani». Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L'indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.

L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.

La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.

Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto a ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato, perché non è riuscito nel suo intento.

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

11 febbraio 1917

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Pagina 15

Gli operai della Fiat [Uomini di carne e ossa]

Gli operai della Fiat sono ritornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini in carne e ossa. Hanno resistito per un mese. Sapevano di lottare e resistere non solo per sé, non solo per la restante massa operaia torinese, ma per tutta la classe operaia italiana.

Hanno resistito per un mese. Erano estenuati fisicamente perché da molte settimane e da molti mesi i loro salari erano ridotti e non erano più sufficienti al sostentamento familiare, eppure hanno resistito per un mese. Erano completamente isolati dalla nazione, immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno resistito per un mese.

Sapevano di non poter sperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai alla classe operaia italiana erano stati recisi i tendini, sapevano di essere condannati alla sconfitta, eppure hanno resistito per un mese. Non c'è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può domandare a una massa di uomini che è aggredita dalle più dure necessità dell'esistenza, che ha la responsabilità dell'esistenza di una popolazione di 40.000 persone, non si può domandare più di quanto hanno dato questi compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente, accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere più oltre o di reagire.

Specialmente noi comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne conosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una concezione realistica, dobbiamo comprendere il perché di questa conclusione della lotta torinese.

Da troppi anni le masse lottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di dettaglio, sperperando i loro mezzi e le loro energie. È stato questo il rimprovero che fin dal maggio 1919 noi dell'«Ordine Nuovo» abbiamo incessantemente mosso alle centrali del movimento operaio e socialista: non abusate troppo della resistenza e della virtù di sacrificio del proletariato; si tratta di uomini comuni, uomini reali, sottoposti alle stesse debolezze di tutti gli uomini comuni che si vedono passare nelle strade, bere nelle taverne, discorrere a crocchi sulle piazze, che hanno fame e freddo, che si commuovono a sentir piangere i loro bambini e lamentarsi acremente le loro donne.

Il nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempre sostanziato da questa visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui inesorabilmente bisogna fare i conti. [...] Già un anno fa noi avevamo previsto quale sbocco fatalmente avrebbe avuto la situazione italiana, se i dirigenti responsabili avessero continuato nella loro tattica di schiamazzo rivoluzionario e di pratica opportunistica. E abbiamo lottato disperatamente per richiamare questi responsabili a una visione più reale, a una pratica più congrua e più adeguata allo svolgersi degli avvenimenti.

Oggi scontiamo il fio, anche noi, dell'inettitudine e della cecità altrui; oggi anche il proletariato torinese deve sostenere l'urto dell'avversario, rafforzato dalla non resistenza degli altri. Non c'è nessuna vergogna nella resa degli operai della Fiat. Ciò che doveva avvenire è avvenuto implacabilmente. La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo compressore della reazione capitalistica. Per quanto tempo? Nulla è perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi.

Gli operai della Fiat per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per questo loro passato glorioso, all'avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne e ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti.

8 maggio 1921

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Pagina 31

Educare gli italiani



I privilegi della scuola privata [Per la libertà della scuola e per la libertà d'essere asini]

I clericali parlano spesso e volentieri di libertà della scuola. Ma non si ingannino i lettori. La parola libertà acquista nelle loro bocche un significato tutto suo che non coincide affatto col concetto che della libertà possono avere gli uomini pensanti che non sono clericali. Libertà della scuola significa propriamente per i clericali libertà di essere asini col godimento di tutti i diritti che sono riconosciuti a chi ha studiato. È questa formula: «Per la libertà della scuola», una bellissima bandiera che copre, o dovrebbe coprire, una lucrosissima speculazione economica e di setta.

Le scuole private clericali sono floridissime in Italia. Nessuna legge ne inceppa lo sviluppo e la libera esplicazione. Esse possono fare la concorrenza che vogliono alla scuola di Stato. Se sono migliori, se dànno ai frequentatori una istruzione migliore di quella che sia possibile trovare nelle scuole pubbliche, esse possono moltiplicarsi all'infinito, possono far pagare le rette che vogliono. Lo Stato riconosce il diritto di comprare la merce «istruzione» dove si vuole.

Ma la merce «istruzione» vale poco in Italia, quantunque costi discretamente. Ciò che vale è la merce «titolo», che viceversa costa pochissimo. E qui incominciano i dolori clericali. Lo Stato tiene il cartello per la merce «titolo». Chi ha «titoli» di studio, li vende specialmente allo Stato, il quale li compra a occhi chiusi, per ciò che riguarda il loro effettivo valore, ma vuole riservarsi il più assoluto controllo per ciò che riguarda la loro provenienza. Lo Stato, insomma, è sempre disposto a comprare titoli di studio, ma pretende che essi siano stati emessi da uno dei suoi istituti accreditati.

Abbiamo usato un linguaggio economico appunto per mettere meglio in vista il fatto che la questione per cui si agitano i clericali è prettamente economica. Essi vorrebbero vendere allo Stato quanto più merce avariata possono. Vorrebbero conquistare una libertà che sarebbe solo un privilegio per loro, un privilegio per gli studenti che frequentano le loro scuole, a danno della collettività. Non si accontentano di battere moneta che, passando attraverso il controllo degli enti statali, è riconosciuta di corso legale; vorrebbero anche battere moneta falsa, molta moneta falsa, allagarne tutto il mercato italiano, e hanno la pretesa che lo Stato dia anche a essa corso legale, la accrediti presso le sue amministrazioni, la accrediti presso le amministrazioni private, che hanno tuttora la mania di scontare solo valori di Stato. Questa speculazione losca di baratteria i clericali la chiamano «libertà della scuola».

[...]

13 aprile 1917

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Pagina 35

Le donne, i cavalieri e gli amori [Caratteri italiani]

Leggete uno o mille libri di prosa artistica, scritti da italiani: romanzi, novelle, commedie, drammi. Se, trascurando per un momento il problema puramente artistico, ricercate quale sia il mondo spirituale che riempie di sé la coscienza degli scrittori, e più interessa il pubblico dei lettori, dovete venire alla conclusione che gli italiani intelligenti, quelli che scrivono e quelli che leggono, non si preoccupano che di una sola cosa: le relazioni tra i due sessi. La sessualità forma tutto il mondo fantastico epico-lirico degli italiani. Essere originali vuol dire riuscire a trovare una nuova soluzione di un problema psicologico i cui termini sono sempre gli stessi: l'amore, la passione, l'adulterio. La gamma delle tonalità si impaluda nella più piatta pornografia, o attinge le stelle del più dolciastro chiaro di luna sentimentale. Gli eroi sono: il giovine gentiluomo decadente, elegantemente vizioso, la cocotte piena di spirito, la fanciulla che si dibatte tra il costume tradizionale e l'emancipazione, la moglie che non trova sufficienti soddisfazioni nell'amplesso coniugale e via di seguito. Se gli italiani non vogliono annoiare i lettori, devono scrivere sulle donne, i cavalieri e gli amori (le armi sono bandite e riservate agli inviati speciali). La letteratura è un circolo chiuso, ammorbante. A leggere questi libri pare che l'Italia sia un immenso serraglio di mandrilli in fregola che si atteggiano a sentimentali, quando il sentimentalismo sia la via più facile per raggiungere la meta agognata. Tutte le altre attività della vita, che non siano l'attività amorosa, sembra che non esistano, sono ritenute attività inferiori per l'Arcadia artistica che ha fissato un modello esteriore di perfezione. Tutta la vita moderna, pulsante di fervore di lavoro, ricca di drammi spirituali per l'urtarsi delle classi, per il cozzo degli interessi antagonistici, non diventa contenuto artistico se non per qualche figura d'eccezione, filibustiere dei portafogli, ma più ancora filibustiere delle alcove.

[...]

10 luglio 1917

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Pagina 79

Contro la guerra



I professionisti della guerra [Il canto delle sirene]

Perché le guerre scoppiano in certo modo e non altrimenti? Perché in un certo momento e non in un altro? Perché sono fautori di una guerra determinati ceti borghesi e non altri?

Non è molto facile rispondere a queste domande. Ma ciò non vuol dire che sia assolutamente impossibile, o che non sia utile cercar di fissare dei criteri per poter rispondere almeno approssimativamente, e per poter fissare quindi la linea d'azione costante che un partito contrario alla guerra in genere debba tenere per rendere impossibile le guerre in ispecie.

I socialisti affermano che le guerre sono un portato dei sistemi di privilegio. Essendo oggi classe privilegiata la borghesia, essendo il capitalismo la forma economica specifica che il privilegio ha oggi assunto, i socialisti affermano che oggi la guerra è una fatalità borghese. Ma non bisogna intendere fatalità nel significato naturalistico-matematico, come una legge assoluta. Se così fosse, la guerra sarebbe una realtà quotidiana, le nazioni capitalistiche dovrebbero essere in perenne conflitto tra di loro. Bisogna intendere fatalità nel senso idealistico, come interpretazione di una necessità, come giudizio degli uomini. Il conflitto esiste perenne, ma non è perennemente di fatto; perché tale diventi è necessaria una iniziativa umana, è necessario ci sia chi giudichi essere arrivato il momento dell'azione, il momento utile per la realizzazione di un nuovo privilegio, oppure per impedire che un privilegio acquisito decada a beneficio altrui, e la guerra scoppia. E allora nascono appunto le domande: perché scoppiano le guerre? Perché in un certo momento e non in un altro? Perché trovano i fautori in alcuni ceti e non in altri?

Queste domande furono poste a Norman Angell quando pubblicò La grande illusione. Norman Angell si era posto il problema della guerra da un punto di vista perfettamente e recisamente logico. Egli ragionò: la guerra è un fatto talmente enorme che è necessario supporre che gli uomini che la scatenano abbiano enormi ragioni per scatenarla e siano di queste ragioni sinceramente persuasi. Le guerre moderne nascono dal bisogno di assestamenti economici migliori per certi capitalismi nazionali: gli uomini che di questi capitalismi sono i componenti, sono in preda a una grande illusione: credono che le guerre siano economicamente proficue, che le guerre creino condizioni migliori di produzione e di scambio. Io dimostro che una guerra, dato l'assestamento attuale della produzione e degli scambi, non può arricchire nessuno, non è utile a nessuno, che in una guerra moderna non vi possono essere vincitori e vinti, ma tutti saranno vinti, cioè per tutti si abbasserà il livello di vita economica, perché il danno dell'uno sarà inevitabilmente danno dell'altro. La rivelazione, la dimostrazione matematica di questa verità deve uccidere la guerra.

Diffondetela, propagatela: quando tutti saranno persuasi, la guerra scomparirà, quanto prima questa verità avrà conquistato la maggioranza degli uomini, tanto prima la guerra scomparirà.

Si obbiettò a Norman Angell: ma credete proprio che gli uomini inizino la guerra proprio per questi motivi enormi? Essi potranno servire per far continuare una guerra già iniziata, per prolungarla, per fissare a essa dei fini. Ma le guerre scoppiano per tali e tante ragioni, che è inutile ricercarne le origini immanenti, ed è impossibile fissare le prime essendo esse sempre nuove, sempre diverse. La verità è che non si sa perché le guerre scoppino, e pertanto esse devono ritenersi un retaggio della società umana, e gli uomini devono cercare di farle, quando sono costretti a farle, nel modo migliore, più onorevole e proficuo per le nazioni cui appartengono.


Ma chi fa queste obbiezioni non è un avversario della guerra. Per i socialisti il problema non si conchiude definitivamente in questi termini.

È vero che le guerre non si iniziano per delle ragioni logicamente adeguate al fatto che sta per scatenarsi; ed è vero che queste ragioni, questi stimoli sono tali e tanti che difficilmente si riesce a imprigionarli in uno schema compiuto e definitivo. Ciò è vero perché troppo pochi sono ancora gli uomini che si preoccupino veramente di ciò che accade loro d'intorno, che si preoccupino di non lasciar aggrupparsi dei nodi che poi domanderanno l'intervento della spada per sciogliersi e faranno diventare di fatto la guerra che è immanente nella società attuale. Perché troppo pochi sono gli uomini che si sforzano di comprendere in tutte le sue complicate risorse malefiche la società cui appartengono; troppo pochi sono quelli che si propongono di trasformarla concretamente, che si propongono - nell'attesa di poterla sostituire – di imprigionarla nella rete di un intenso controllo per impedirle di far diventare troppo attivamente crudele il maleficio che rinchiude latente.

Perché c'è chi lavora sempre, continuamente per iniziare le guerre. Perché c'è chi getta continuamente delle scintille sulle polveri infiammabili, e opera fra gli uomini, e suscita dubbi, e semina il panico. Perché ci sono i professionisti della guerra, perché c'è chi dalla guerra guadagna, anche se la collettività, le collettività nazionali non ne ricavano che lutti e rovine.


I seminatori di panico sono sempre esistiti. Sono sempre esistiti i professionisti della guerra. Anche nel mondo antico. Nelle favole di Fedro se ne trova traccia.

[...]

Non basta quindi l'avversione alla guerra in genere. È necessaria un'opera di controllo assidua sulle forze perverse che tendono a iniziare le guerre, a gettare i germi di guerre future.

Due sono i compiti dei socialisti. Irrobustire sempre più il proprio movimento per sostituire le borghesie, per rendere quindi impossibile qualsiasi guerra.

Nel frattempo, controllare assiduamente quei ceti borghesi che creano le ore topiche, che giudicano in certi momenti necessaria la guerra. Il secondo compito integra il primo: non basta essere contrari alla guerra in genere, come non basta dichiararsi socialisti genericamente. Bisogna cercare di far evitare le guerre in ispecie, sventando tutti i trucchi, sventando le trame dei seminatori di panico, degli stipendiati dell'industria bellica, degli stipendiati delle industrie che domandano le protezioni doganali per la guerra economica. Poiché è pur necessario che la guerra scoppi in un certo momento, bisogna impedire che questo momento arrivi mai.

Ci sono troppe sirene che cantano le canzoni fallaci della perdizione. Bisogna educare il proletariato, ma bisogna anche imbavagliare le sirene. Troppo pochi sono gli Ulissi che si premuniscono, che essendosi fatti legare all'albero della nave, avendo fatto tappare colla cera le orecchie degli uomini della loro ciurma, passano tra il canto senza sprofondare nel baratro. Ma anche le sirene sono poche: che gli uomini di buona volontà provvedano a imbavagliarle. Fino a quando il proletariato non comprenda tutto il popolo, e non sia immunizzato, bisogna che esso almeno pensi a gettare sulla società borghese la rete del proprio controllo, per imprigionarla, per rendere impossibile un altro così enorme spreco di vite e di ricchezze.

10 ottobre 1917

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