Copertina
Autore Carlo Grande
Titolo Terre alte
SottotitoloIl libro della montagna
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2008 , pag. 224, cop.fle., dim. 11,4x18,4x1,1 cm , Isbn 978-88-7928-962-7
LettoreFlo Bertelli, 2008
Classe narrativa italiana , montagna
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Pagina 47

Fatica ed esaltazione, componenti essenziali della montagna.

Mi chiedevo, guardando le cime da Alagna, se il tempo sarebbe migliorato. Lassù, nei giorni precedenti, l'imprudenza e le tempeste d'alta quota avevano ucciso quattro alpinisti francesi.

Sono partito non come l'abate Gnifetti, che nel 1842 salì per primo la vetta incamminandosi dai 1200 metri del paese fino in cima; abbiamo preso cabinovia e funivia e siamo arrivati a punta Indren, a 3200 metri di quota. Arrivare in alto senza sudare (come avviene sulla Tofana di Mezzo, dove si possono raggiungere i 3200 metri con una funivia) offre emozioni e sensazioni estetiche molto inferiori, molto più epidermiche che raggiungere una cima con le proprie forze. Ma per noi la fatica era solo rimandata: l'avrei provata in vetta, dopo novecento metri di dislivello.

In un paio d'ore abbiamo raggiunto il rifugio Gnifetti (a 3647 metri di quota) e qui, nelle stanze affollate, ho misurato la distanza che separa le escursioni di oggi dalle elitarie salite di un tempo: diecimila persone, ogni estate, salgono alla Capanna Margherita. Nel togliere gli scarponi e nell'indossare un paio di ciabatte puzzolenti, già usate da centinaia di persone, mi sono venuti pensieri con i quali non ero per niente d'accordo. Anche nei gabinetti l'aria era irrespirabile, ma c'era una vista incredibile sul ghiacciaio del Lys: grandi blocchi e seracchi, crepacci color turchese che avremmo sfiorato e aggirato l'indomani. Ho ripensato a quelli della Mer de Giace, tra Punta Helbronner e Chamonix, che ho disceso un paio di volte con gli sci. La Valleé Blanche percorsa con Gianni Comino, uno dei più bravi scalatori sul ghiaccio. Avevamo dormito nella sua baita, in Val Ferret, si parlava di alta montagna e di rischi. «Se sbagli e cadi?» chiedevamo. «Perché dovrei sbagliare?» rispondeva. Pochi anni dopo è stato travolto da una cascata di ghiaccio. Anche don Nino, uno dei miei amici più cari, è morto in un canalone che non presentava grandi rischi. Succede. Anche se non dovrebbe succedere, capita. Ma in fondo è anche questo che si incontra in montagna, l'imponderabile.

A quésto pensavo, fumando sul terrazzino del rifugio, guardando in basso le luci della Malpensa e di Gressoney.

A tavola Sergio parlava dei turisti che accompagnava a sciare d'inverno. Qualcuno parte la mattina prestissimo, con la fissazione dei crinali di neve vergine. «Cent'anni fa» diceva la guida, «chi avrebbe pensato, qui, di ricavare il pane dalla neve e dal ghiaccio? Strappavano l'erba ai bordi del ghiacciaio. Si doveva fare anche qui come in Trentino, ospitare la gente nelle case. Invece le hanno vendute ai vacanzieri, che le stravolgono». Nella stupenda frazione Pedemonte Sergio il Walser ha restaurato una casa del suo popolo, nomadi tedeschi che dal 1200 fecero delle Alpi la loro casa.

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È datato 5 dicembre 2005: ero salito a Venaus intorno alla mezzanotte, invitato da Gianni, un amico musicista, un quarantenne esile e pacifico che partecipava al presidio anti-TAV. Qualcosa mi aveva chiamato lassù, dove la protesta covava da mesi. Quella sera avrei dovuto cenare al Cambio, uno dei ristoranti più celebri di Torino. Gratis, per giunta. Nel pomeriggio ero stato invitato a un convegno sull'acqua, ma alcuni relatori mi avevano fatto talmente arrabbiare – parlavano di merce, di prezzi, di dighe e sfruttamento, mentre l'acqua dovrebbe essere una risorsa garantita a tutti – che terminato il dibattito ero tornato a casa, mi ero infilato la giacca a vento ed ero salito verso la valle di Susa, verso un fuoco in montagna. Avevo bisogno di disintossicarmi.

Giunto ai primi blocchi della polizia ho visto ragazzi giovani in divisa e ho pensato a Pasolini. Ho chiesto loro se più tardi avrebbero ricevuto il cambio, gli ho augurato la buonanotte. Mi sono incamminato verso il presidio, ignorato da altri agenti di polizia. Ho parcheggiato la macchina e varcato le «barricate» vicino alla strada, una rete sbilenca e qualche ramaglia, niente di inespugnabile, passando davanti alla baracca della Pro Loco. Sono salito nei prati duecento metri più in alto, sotto gli enormi piloni dell'autostrada, vicino a un'altra ridicola barriera. Siamo rimasti un paio d'ore vicino al fuoco a parlare, a bere vino, ad ascoltare un po' di musica; gli anziani cantavano canzoni degli alpini.

Faceva freddo, la gente era tranquilla, tutt'altro che predisposta ai discorsi esaltati. C'erano una dozzina tra ragazzi, ragazze, sessanta-settantenni della vallata, una signora che faceva l'assessore ad Avigliana. Dall'altra parte della «barricata» un gruppetto di finanzieri che parlottava e si scaldava intorno a un fuoco.

Alle 2.30 sono sceso con Gianni alla baracca della Pro Loco, per sgranchirmi e scaldarmi. Abbiamo attraversato i prati, fra una decina di tende e una trentina di persone che dormivano, parlavano, suonavano la chitarra.

Una donna aveva un collare medico. Non pareva gente facinorosa: nessuna agitazione, non c'erano teste calde, tipi con l'aria e la grinta da teppisti. Nella baracca una dozzina di persone si scaldavano intorno a una stufa a legna. Correva voce che fuori ci fossero movimenti, che forse la polizia si preparava a entrare. «Se caricano cosa facciamo?» ha detto uno. «Cosa vuoi fare? Chiamiamo gli altri dai paesi, ma a quest'ora siamo pochi. Se entrano, ce ne andiamo» ha detto un altro. Abbiamo mangiato e bevuto qualcosa, mezz'ora dopo siamo usciti sulla stradina e ci siamo diretti alla macchina, per prendere una pila.

Alcuni agenti ci hanno salutato: «Ci avete circondati» hanno detto ridendo. «Che fame» hanno aggiunto. «Volete un panino?» ho chiesto. «Sono a dieta» ha risposto un ragazzo in divisa con un mezzo sorriso. Siamo passati davanti a una ventina di altri agenti col passamontagna nero, ci hanno seguiti ostinatamente con lo sguardo, con l'aria molto, molto arrabbiata.

Da una stradina fra i boschi è piombata all'improvviso una colonna di camionette e furgoni, una settantina, ci ha superati, ha inchiodato davanti alla «barricata», sono scesi centinaia di agenti in tenuta antisommossa, scudi, elmetti. Spazzata la barriera sono entrati dimenando i manganelli. Mi sono avvicinato, in mezzo ai robocop che continuavano ad affluire e facevano cordone, sono entrato nel presidio restando sulla stradina, fuori dalla mischia. Nei prati sentivo urlare, vedevo gente correre, inseguita dagli agenti. Un ragazzo scendeva barcollando, urlava: «Bravi!, bella impresa! Non ho detto ba e mi avete dato un manganello in faccia».

Qualcuno urlava: «Non picchiate la gente». Un anziano ha detto: «Questo terreno è mio» (il presidio era per lo più su lotti non espropriati, mi hanno poi detto), hanno manganellato anche lui.

Non ho visto scontri, cioè colluttazioni – individuali o di gruppo – nessuno che si ribellasse mentre gli mettevano le mani addosso.

Cercavano di proteggersi, di parare i colpi. Ho fatto due passi verso i prati, un agente enorme si è staccato dal cordone di polizia: «Si allontani». Sono indietreggiato di alcuni metri: «Voglio vedere, sono un giornalista»; «Non c'è niente da vedere» ha detto. «Ma stanno urlando», «Urlano sempre», ha risposto. Stavo per allontanarmi lungo la strada, lui mi ha raggiunto e afferrato per un braccio: «Adesso vieni qui», mi ha spinto oltre le linee, nella baracca piena di gente, dentro c'erano quattro o cinque ragazzi seduti o sdraiati, sanguinanti, con labbra e fronti spaccate. «Dormivo, mi hanno picchiato» ha detto uno. Gli ho chiesto il numero di telefono; la donna col collare era seduta, tremava e piangeva a dirotto, col ghiaccio in testa e sangue sulla fronte. «Una manganellata» singhiozzava. Le ho fatto coraggio, ho chiesto il suo telefono.

Qualcuno, per respirare meglio – c'era fumo, mancava l'aria, alcuni anziani stavano male, e altri telefonavano alle ambulanze – voleva affacciarsi alla porta, ma è stato respinto dentro con le brutte, anche dalla finestra. Tornata un po' di calma sono uscito davanti al muro di scudi e manganelli schierati: «Sono un giornalista» ho detto. Sono rimasti impassibili. Da dentro non ho sentito insulti ma dei «Vergognatevi», «Potrebbero essere i vostri padri e i vostri nonni, le vostre figlie». C'erano anche donne poliziotto, in tenuta, occhi apparentemente vuoti nell'unica fessura del volto, tra elmetto e foulard. Gli occhi di una donna so ancora riconoscerli, grazie a Dio.

Poi è arrivato il sindaco di Venaus con la fascia tricolore. Ho ripetuto: «Sono un giornalista», ho mostrato la tessera. «Quando arriva il comandante» hanno detto. Mezz'ora dopo è arrivato, il sindaco ha chiesto un'ambulanza e di farmi uscire. Erano all'incirca le cinque. Ho abbracciato Gianni, gli ho detto di stare calmo (sarebbe rimasto lì fino alle sette, con gli altri), sono tornato alla macchina fra centinaia di agenti, che mi hanno ignorato. Ho superato con la tessera l'ultimo blocco e sono salito in macchina. A pochi metri si ammassava la gente giunta da tutta la vallata.

Me ne sono andato verso Torino. Volevo scrivere un articolo sul mio giornale, La Stampa, dal quale ho tratto molti di questi ricordi. Volevo testimoniare, non dimenticare. Chissà se è servito a qualcosa. Ho visto moltissimi poliziotti tranquilli, corretti. Certo, non quelli che hanno picchiato gente inerme. Quella notte la parola «democrazia» è stata un termine vuoto.

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L'orso non è né buono né cattivo, è un animale selvatico, che non attacca se non provocato. È più forte e veloce di noi, nuota benissimo, ha udito e olfatto sopraffini. Ma non è aggressivo, men che meno un killer: è persino un po' miope, ecco perché si alza in piedi, per guardare meglio. Un gesto normale, nonostante i cliché. Quando è arrabbiato sul serio si piega sulle zampe davanti e solleva il sedere, allora è meglio allontanarsi senza correre, mostrando che non siamo un pericolo per lui. Se non gli rompi le scatole è quasi impossibile che un orso ti aggredisca. Altro discorso è il cibo degli uomini: gli orsi come Jurka, un po' come Yoghi e Bubu, cercano semplicemente di prenderlo, anche se è in una tenda o in un pollaio. Mica vogliono farti male, ma è meglio non tenerlo vicino ai bivacchi, non lasciarne in giro. Semplici precauzioni. In Slovenia, dove gli orsi sono 500 (altrettanti in Croazia, seimila in Romania, migliaia in Russia), in dieci anni c'è stata una sola vittima: un uomo che si era avvicinato ai cuccioli. Altro discorso per i grizzly, assai più pericolosi. Guardate Grizzly man di Werner Herzog e capirete.

Jurka non ha mai aggredito l'uomo. Non lo farà, come tutti i suoi simili, se non per difendere i cuccioli o quando si sente aggredita e senza scampo. Chi non lo farebbe? Allora sì che diventa pericolosa: quando uccide, l'orso afferra il muso della vittima con i denti e gli spezza la spina dorsale.

Nella routine l'orso è un simpatico fannullone, molto opportunista, che dorme tutto il giorno e gironzola la sera e la notte, prima dell'alba, prendendo il cibo dov'è. Mica ti aspetta dietro l'albero per rubarti il panino. Quando spunta il sole torna a dormire. Adora la frutta, gli insetti: un bel «panino», per l'orso, può essere un formicaio. Mangia pochissima carne, soprattutto carcasse, insegue raramente la preda, non è un cacciatore come il lupo. Il suo motto è «minimo sforzo, massimo rendimento»: alveari, polli e pecore fanno gola solo ai più sfacciati, sempre che le prede non siano protette da recinti elettrificati o dai cani.

L'orso, come tutte le cose belle, non conosce confini o nazioni: ha dato i nomi alle stelle (Orsa Maggiore, Orsa Minore) e dorme con i nostri figli, sotto forma di peluche.

È ora di abbandonare il rapporto schizofrenico che abbiamo con lui, in fondo si tratta di decidere come vogliamo che sia la montagna: parco giochi da cittadini, giardino addomesticato, o l'ultimo baluardo di vita autentica, nella quale non è possibile controllare tutto, anche i fulmini e le valanghe? Fanno più danni agli uomini i cervi che attraversano la strada e provocano incidenti automobilistici, o le punture dei calabroni?

Provate a guardare l'animale negli occhi: si può fare a Spormaggiore, alle porte del parco Adamello Brenta. Nel recinto faunistico, una grande valletta boschiva, vivono tre femmine giovani, quelle prese di mira da Jose: una di loro, Cleo, si è avvicinata tranquilla, si è grattata un po', ha preso un ramo in bocca e si è seduta a un metro di distanza, guardandoci al di là delle sbarre. L'orso ha occhi molto simili ai nostri (piccoli rispetto alla mole, con la cornea bianca, molto espressivi). Cleo ci ha lanciato uno sguardo comunicativo, frontale, diretto come quello di un cane pronto a fare amicizia, che pensa: «Adesso mi dai qualcosa, vero?» È questa la condanna di Cleo, la familiarità con l'uomo. Per questo starà in gabbia tutta la vita.

Niente pietismo, tuttavia, nessuna zuccherosità disneyana: la vera natura dell'orso è Jose, che ha fatto di tutto per fecondare Cleo, è l'istinto ancestrale che ha spinto i venticinque orsi liberi dell'Adamello Brenta a scegliere gli stessi sentieri e le stesse tane dei loro antenati, gli stessi luoghi: «Passo dell'orso», «Buca dell'orso», «Malga dell'orso», «Rio degli Orsi», «Orsera», «Acqua degli orsi»... Anche la mobilissima Vida, liberata nel 2002, ha seguito questo istinto: ha girovagato per mesi e alla fine si è stabilita in un luogo detto San Lucano, il santo che la leggenda vuole (come san Romedio) addomesticatore di plantigradi. Un giorno, mentre Vida esplorava infaticabile il territorio, l'hanno investita sull'autostrada. Aveva una spalla rotta, i veterinari l'hanno riportata nel bosco. Vida ha raggiunto una valletta sperduta, inaccessibile agli uomini, e c'è rimasta un mese. Poi è partita verso l'Austria. L'hanno seguita grazie al radiocollare, per tre anni. Quando il collare si è sganciato ne hanno perso le tracce, e Vida la vagabonda, l'inquieta, è scomparsa nel Parco degli Alti Tauri. Se sia tornata sotto l'ombra protettrice di san Lucano, nessuno lo sa.

Per questo continueremo a salire, a binocolare e scrutare lontano: per scorgere gli esseri fiabeschi che abitano le cime, i pascoli e i valloni.

Forse ci apparirà un lupo, lo spirito più libero della montagna: per secoli i suoi grandi occhi ipnotici ci hanno fissato dai margini della foresta e della cultura occidentale, per secoli è stato perseguitato e quasi cancellato dal continente. Oggi il «cattivo» per eccellenza abita soprattutto le foreste, sta abbandonando gli incubi del nostro inconscio: è ritornato, ponendo fine a una lunga ingiustizia.

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Pagina 147

«Continueremo a esplorare» scrive T.S. Eliot, «e alla fine delle nostre esplorazioni ci troveremo al punto da cui siamo partiti e conosceremo il posto per la prima volta». Cioè la selva, noi e la nostra vita, la nostra pace e la nostra guerra interiore, che ritroviamo quanto più la stiamo negando.

La foresta siamo noi, noi «forestieri» per sempre, appena usciti dalla foresta.

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