Copertina
Autore Jran-Christophe Grangé
Titolo L'impero dei lupi
EdizioneGarzanti, Milano, 2010 [2004], Elefanti bestseller , pag. 496, cop.fle., dim. 13,5x20,8x3,2 cm , Isbn 978-88-11-69422-9
OriginaleL'Empire des Loups
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2003
TraduttoreAlessandro Perissinotto
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa francese , thriller
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Pagina 11

1.



«Rosso.»

Anna Heymes si sentiva sempre più a disagio. L'esperimento non presentava alcun pericolo, ma l'idea che si potesse leggere a ogni istante nel suo cervello la turbava profondamente.

«Blu.»

Era distesa su un tavolo d'acciaio, al centro di una sala immersa nella penombra, la sua testa inserita nel foro centrale di una macchina bianca e circolare. Proprio sopra il suo viso c'era uno schermo inclinato sul quale venivano proiettati dei piccoli quadrati. Lei doveva semplicemente riconoscere i colori.

«Giallo.»

Una flebo colava lenta nel suo braccio sinistro. Il dottor Eric Ackermann le aveva brevemente spiegato che si trattava di un liquido di contrasto che permetteva di localizzare gli afflussi di sangue al cervello.

Si susseguirono altri colori. Verde. Arancio. Rosa... Poi lo schermo si spense.

Anna restò immobile, le braccia lungo il corpo, come in un sarcofago. Distingueva, a qualche metro sulla sua sinistra, il chiarore vago, acquatico, di una cabina vetrata dove c'erano Eric Ackermann e Laurent, suo marito. Immaginava i due uomini di fronte ai monitor a scrutare l'attività dei suoi neuroni. Si sentiva spiata, depredata, come violata nella sua intimità più segreta.

La voce di Ackermann risuonò nell'auricolare fissato al suo orecchio:

«Molto bene, Anna. Ora i quadrati si animeranno. Tu dovrai semplicemente descrivere i loro movimenti. Utilizzando una sola parola ogni volta: destra, sinistra, alto, basso...»

Subito le figure geometriche cominciarono a spostarsi, formando un mosaico screziato, fluido e morbido come un banco di piccoli pesci. Nel microfono collegato all'auricolare disse:

«Destra.»

I quadrati risalirono verso il bordo superiore dello schermo.

«Alto.»

L'esercizio durò diversi minuti. Lei parlava con una voce lenta, monocorde, si sentiva vinta dal torpore; il calore dello schermo accresceva quella pesantezza. Non avrebbe tardato a piombare nel sonno.

«Perfetto», disse Ackermann. «Ora ti sottoporrò una storia, raccontata in diverse maniere. Ascolta attentamente ciascuna versione.»

«Cosa devo dire?»

«Niente. Ascolta e basta.»

Dopo qualche secondo, una voce femminile risuonò nell'auricolare. Il discorso era pronunciato in una lingua straniera; sonorità asiatiche forse, o orientali.

Breve silenzio. La storia ricominciò, in francese. Ma la sintassi non era rispettata: verbi all'infinito, articoli senza accordo, preposizioni sbagliate...

Anna tentò di decrittare questo linguaggio sgangherato ma intanto era già cominciata un'altra versione. Adesso c'erano parole assurde che si infilavano nelle frasi... Cosa significava tutto ciò? D'un tratto il silenzio riempì i suoi timpani, sprofondandola ancor più nell'oscurità del cilindro.

Dopo un po' il medico riprese:

«Test successivo. Per ogni nome di paese dimmi la capitale.»

Anna cercò di annuire quando il primo nome risuonò al suo orecchio:

«Svezia.»

Senza riflettere disse:

«Stoccolma.»

«Venezuela.»

«Caracas.»

«Nuova Zelanda.»

«Auckland. No, Wellington.»

«Senegal.»

«Dakar.»

Ogni capitale le veniva in mente con naturalezza. Le sue risposte erano semplici riflessi, ma lei era felice di quei risultati; dunque la sua memoria non era totalmente perduta. Cos'è che Ackermann e Laurent vedevano sui loro schermi? Quali zone si stavano attivando nel suo cervello?

«Ultimo test», avvertì il neurologo. «Appariranno dei volti. Tu identificali ad alta voce, il più rapidamente possibile.»

Aveva letto da qualche parte che un semplice segno – una parola, un gesto, un dettaglio visivo – scatenava il meccanismo della fobia; quello che gli psichiatri chiamano il segnale dell'angoscia. Segnale: il termine era perfetto. Nel suo caso, la sola parola «volto» era sufficiente a provocare il malessere. Immediatamente si sentiva soffocare, il suo stomaco diventava pesante, le sue membra si anchilosavano – e quel raschiare che le bruciava la gola...

Sullo schermo apparve un volto di donna, in bianco e nero. Riccioli biondi, labbra corrucciate, neo di bellezza sopra la bocca. Facile:

«Marilyn Monroe.»

Alla fotografia fece seguito un'incisione. Sguardo tenebroso, mascella quadrata, capelli ondulati:

«Beethoven.»

Un viso rotondo, liscio come una bomboniera, solcato da due occhi a mandorla.

«Mao Tse-Tung.»

Anna era stupita di riconoscerli così facilmente. Ne seguirono altri: Michael Jackson, la Gioconda, Albert Einstein... Aveva l'impressione di contemplare le proiezioni lucenti di una lanterna magica. Rispondeva senza esitazione. Il suo turbamento già diminuiva.

Ma all'improvviso, un ritratto la tenne in scacco; un uomo d'una quarantina d'anni, l'espressione ancora giovanile, gli occhi prominenti. Il biondo dei capelli e delle sopracciglia gli dava un'aria indecisa, da adolescente.

La paura la attraversò, come un'onda elettrica. Quei tratti risvegliavano in lei una reminiscenza che però non richiamava alcun nome, alcun ricordo preciso. La sua memoria era in un tunnel oscuro. Dove l'aveva già vista quella faccia? Un attore? Un cantante? Un lontano conoscente? L'immagine lasciò il posto a un volto allungato con due occhialini rotondi. Con la bocca secca disse:

«John Lennon.»

Apparve Che Guevara, ma Anna implorò:

«Eric, aspetta.»

Il carosello continuò. Scintillò un autoritratto di Van Gogh dai colori aciduli. Anna prese lo stelo del microfono:

«Eric, per favore!»

Le immagini continuarono a scorrere. Anna sentiva i colori e il calore riflettersi sulla sua pelle. Dopo una pausa Ackermann domandò:

«Cosa c'è?»

«Chi è quello che non ho riconosciuto?»

Nessuna risposta. Gli occhi chiari di David Bowie vibrarono sullo schermo. Lei si alzò e disse più forte:

«Eric, ti ho fatto una domanda: chi era?»

Lo schermo si spense. In un secondo i suoi occhi si abituarono all'oscurità. Vide il suo riflesso nel rettangolo obliquo del monitor: livido, ossuto. Il viso di una morta.

Alla fine, il medico rispose:

«Era Laurent, Anna. Laurent Heymes, tuo marito.»

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Pagina 71

Si erano poi sposati in Portogallo, vicino a Porto, nel villaggio natale di lei. Prima davanti al sindaco comunista, poi in una piccola chiesa. Un sincretismo di fede, di socialismo e di sole. Uno dei più bei ricordi di Paul.

I mesi successivi erano stati i più belli della sua vita. Non cessava di meravigliarsene. Reyna gli sembrava eterea, immateriale, poi, un attimo dopo, un gesto, un'espressione le conferivano una presenza, una sensualità incredibili, quasi animalesche. Lei poteva passare ore a sostenere le sue idee politiche, a descrivere utopie e citare filosofi di cui lui non aveva mai sentito parlare. E poi, con un solo bacio, ricordargli che era un essere rosso, organico, palpitante.

Il suo alito sapeva di sangue perché non la smetteva mai di mordicchiarsi le labbra. In ogni circostanza sembrava captare la respirazione del mondo, sembrava muoversi con gli ingranaggi profondi della natura. Possedeva una sorta di percezione interna dell'universo; qualche cosa di freatico, di sotterraneo, che la legava alle vibrazioni della Terra e agli istinti del vivente.

Lui amava quella sua lentezza che le conferiva una gravità da rintocco funebre. Amava la sua acuta sofferenza di fronte all'ingiustizia, alla miseria, alla deriva dell'umanità. Amava quella via al martirio che lei aveva imboccato e che elevava a tragedia il loro quotidiano. La vita con sua moglie sembrava un'ascesa, la preparazione all'incontro con un oracolo. Un cammino religioso, di trascendenza e di rigore.

Reyna, ovvero la vita come digiuno... Quella sensazione lasciava presagire quello che sarebbe successo. Alla fine dell'estate del 1994, lei gli annunciò di essere incinta. Lui prese la notizia come un tradimento: gli rubavano il suo sogno. Il suo ideale sprofondava nella banalità della fisiologia e della famiglia. Per la verità, sentiva che sarebbe stato privato di lei. In primo luogo fisicamente, ma anche moralmente. La vocazione di Reyna si sarebbe certamente modificata; la sua utopia si sarebbe incarnata nella sua metamorfosi interiore...

Dopo il parto, nell'aprile del 1995, i loro rapporti si raffreddarono definitivamente. L'uno e l'altra stavano intorno alla figlia come due esseri distanti. Malgrado la presenza del neonato, c'era nell'aria un che di funereo, una vibrazione morbosa. Paul capiva di essere diventato per Reyna oggetto di una totale repulsione.

Una notte, non resistendo più, chiese:

«Non mi desideri più?»

«No.»

«Non mi desidererai mai più?»

«No.»

Esitò, poi pose la domanda fatale:

«Mi hai mai desiderato?»

«No, mai.»

Per essere un poliziotto, non aveva avuto molto intuito su quella storia... Il loro incontro, la loro unione, íl loro matrimonio, tutto era stato un bidone, un'impostura.

Una macchinazione il cui solo scopo era stata la bambina.

Per il divorzio bastò qualche mese. Di fronte al giudice, Paul crollò letteralmente. Sentiva una voce rauca risuonare nell'ufficio, ed era la sua; sentiva della carta vetrata attaccargli il viso, ed era la sua stessa barba; galleggiava nella stanza come un fantasma, uno spettro allucinato. Aveva detto di sì a tutto, alimenti e affidamento della bambina, non si era battuto su niente. Se ne fotteva, preferiva meditare sulla perfidia del complotto. Era stato vittima di una collettivizzazione di tipo un po' particolare... Reyna la marxista si era appropriata del suo sperma. Aveva praticato una fecondazione in vivo secondo il sistema comunista.

La cosa più strana era che lui non riusciva a odiarla. Al contrario, ammirava ancora quell'intellettuale estranea al desiderio. Ne era certo: lei non avrebbe mai più avuto rapporti sessuali. Né con un uomo né con una donna. E l'idea di quella creatura idealista che voleva semplicemente dare la vita, senza passare né attraverso il piacere né attraverso la condivisione, lo lasciava inebetito, senza senso e senza idee.

A partire da quel momento aveva cominciato ad andare alla deriva, come un fiume di acque sporche che cerca il suo mare di fango. Sul lavoro andava sempre peggio. Non metteva più piede nel suo ufficio a Nanterre. Passava la sua vita nei quartieri più malfamati, accanto alla peggiore teppaglia, fumava spinelli a raffica, viveva con i trafficanti e gli sballati, spassandosela con i peggiori rifiuti dell'umanità...

Poi, nella primavera del 1998, aveva accettato di vederla.

Si chiamava Céline e aveva tre anni. I primi weekend erano stati mortali. Parco, giostre, zucchero filato: una noia senza fine. Poi, poco a poco, aveva scoperto una presenza inattesa. C'era una trasparenza nei gesti della bambina, nel suo viso, nelle sue espressioni; un flusso morbido, capriccioso e saltellante, di cui conosceva le vie segrete.

La mano girata verso l'esterno, con le dita strette, per sottolineare qualcosa. Un certo modo di sporgersi in avanti e di concludere quel movimento con una smorfia dispettosa. La voce un po' arrochita, d'una grana affascinante e singolare, che lo faceva rabbrividire come il contatto con certi tessuti o con certe scorze. Sotto la bambina palpitava già una donna. Non sua madre, certo non lei, ma una creatura vispa, vivace, unica.

C'era qualcosa di nuovo sulla terra: Céline esisteva.

Paul cambiò radicalmente ed esercitò con passione il suo diritto a vedere la figlia. Gli incontri regolari con lei lo ristabilirono e ripartì alla conquista della stima di sé stesso. Sognò nuovamente di essere un eroe, un super-poliziotto incorruttibile, lavato da tutto il sudiciume.

Un uomo la cui immagine riflessa avrebbe fatto risplendere lo specchio ogni mattina.

Per la propria remissione scelse il solo territorio che conosceva: il crimine. Dimenticò il concorso da commissario e chiese un posto alla Brigata criminale di Parigi. Malgrado il suo periodo dubbio, nel 1999 ottenne un posto da capitano. Divenne un investigatore accanito, incandescente. E si mise ad aspettare il caso che lo avrebbe condotto ai vertici. Il genere di inchiesta che tutti i poliziotti motivati desiderano: una caccia alla belva, un duello solitario con un nemico degno di questo nome.

Fu allora che sentì parlare del primo corpo.

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Pagina 145

22.



Entrando nel pronto soccorso dell'ospedale Saint-Antoine, capì che l'aspettava una nuova prova. Una prova di forza contro la malattia e la demenza.

I neon della sala d'attesa si riflettevano sui muri piastrellati di bianco e annullavano ogni luce proveniente dall'esterno. Avrebbero potuto essere le otto del mattino come le undici di sera. Il calore poi rafforzava quest'impressione di vasca chiusa. Sui corpi si abbatteva una forza soffocante, inerte, come una massa plumbea, carica di odori di disinfettante. Si entrava in una zona di transito tra la vita e la morte, indipendente dalla successione delle ore e dei giorni.

Sui sedili fissati al muro erano ammassati esemplari allucinanti di un'umanità malata. Un uomo dal cranio rasato teneva la testa tra le mani e non la smetteva di grattarsi gli avambracci, depositando sul pavimento una polvere giallastra; il suo vicino, un barbone legato su una sedia a rotelle, insultava le infermiere con una voce gutturale, pregandole nello stesso tempo di rimettergli le budella a posto. Non lontano da loro, una vecchia con indosso un grembiale di carta continuava a spogliarsi mormorando parole incomprensibili ed esibendo un corpo grigio, con pieghe d'elefante e avvolto alla cintura da un pannolone.

Solo un personaggio sembrava normale; restava seduto, di profilo, vicino a una finestra. Tuttavia, quando si girava, mostrava l'altra metà del suo viso, quella incrostata di schegge di vetro e di filamenti di sangue rappreso.

Anna non era né stupita né spaventata da quella corte dei miracoli. Al contrario. Quel bunker le sembrava il luogo ideale per passare inosservata.

Quattro ore prima aveva trascinato il pope nella cripta. Gli aveva detto di essere di origine russa, fervente praticante e gravemente ammalata: voleva essere sepolta in quel luogo sacro. Il religioso si era mostrato scettico, ma l'aveva comunque ascoltata per più di mezz'ora. Così, suo malgrado, le aveva dato protezione mentre gli uomini col bracciale rosso passavano al setaccio il quartiere.

Quando era tornata in superficie la via era libera. Il sangue della sua ferita era coagulato. Ora poteva passare per le strade con il braccio nascosto sotto il kimono, senza attirare troppo l'attenzione. Avanzando a passo di corsa, benediceva Kenzo e le fantasie degli stilisti che permettevano di portare una veste da camera dando semplicemente l'impressione di essere alla moda.

Per più di due ore aveva vagato senza meta, sotto la pioggia, perdendosi tra la folla degli Champs-Elysées. Si era sforzata di non pensare, di non avvicinarsi a quegli abissi che si aprivano nella sua mente.

Era libera, viva.

E questo era già molto.

A mezzogiorno, in place de la Concorde, aveva preso il metrò. La linea 1, direzione Chàteau de Vincennes. Seduta in fondo a un vagone, aveva deciso, prima ancora di prendere in considerazione la fuga, di ottenere una conferma. Mentalmente aveva passato in rassegna gli ospedali che si trovavano lungo la linea e aveva scelto il Saint-Antoine, vicino alla stazione della Bastille.

Era lì che attendeva da una ventina di minuti quando fece la sua comparsa un medico con una grande busta per radiografie. La posò su di un bancone vuoto, poi si sporse per cercare qualcosa in un cassetto della scrivania. Vedendolo, Anna scattò in piedi:

«Le devo parlare subito.»

«Aspetti il suo turno», rispose lui senza voltarsi e senza neanche guardarla. «La chiameranno le infermiere.»

Anna gli prese il braccio:

«La prego. Devo fare una radiografia.»

L'uomo si girò con aria ironica, ma la sua espressione cambiò non appena la vide.

«E passata all'accettazione?»

«No.»

«Non ha consegnato il suo tesserino del servizio sanitario?»

«Non ce l'ho.»

I1 medico la studiò dalla testa ai piedi. Era alto, robusto, scuro di carnagione e portava un camice chiuso e zoccoli dalla suola di sughero. Con la sua pelle abbronzata, la blusa scollata a V su un petto villoso e ornato da una catena d'oro, sembrava il classico playboy della commedia all'italiana. La squadrò senza alcun imbarazzo, con un sorriso da intenditore sulle labbra. Con un gesto indicò il kimono strappato e il sangue coagulato:

«È per il braccio?»

«No. Io... Ho male al volto. Devo fare una radiografia.»

Lui alzò un sopracciglio, si grattò i peli del petto, il crine duro dello stallone.

«È caduta?»

«No. Credo di avere una nevralgia facciale. Non so.»

«O semplicemente una sinusite», disse lui strizzando l'occhio, «in questo periodo ce ne sono un sacco.»

Gettò uno sguardo alla sala e ai suoi pensionanti: il rasato, l'ubriacone, la nonnetta... La solita truppa. Sospirò; a un tratto sembrava disposto a concedersi una piccola tregua in compagnia di Anna.

La gratificò di un ampio sorriso, modello Costa Azzurra, e, con voce calda, sussurrò:

«Adesso la passiamo allo scanner, miss. Una panoramica. Ma prima», disse prendendo la manica strappata, «bendaggio.»


Un'ora dopo Anna era sotto la galleria di pietra che costeggiava i giardini dell'ospedale; il dottore le aveva permesso di attendere là i risultati dell'esame.

Il tempo era cambiato, dardi di sole si diluivano nella pioggia, trasformandola in bruma d'argento dal chiarore irreale. Anna osservava con attenzione il rimbalzare delle gocce d'acqua sulle foglie degli alberi, le pozzanghere scintillanti, i sottili ruscelli che si disegnavano tra la ghiaia e tra le radici nei boschetti. Quel piccolo gioco le permetteva di mantenere ancora il vuoto nella mente e di dominare il panico latente. Niente domande. Non ancora.

Alla sua destra sentì uno scalpiccio di zoccoli. Seguendo i portici della galleria, il medico stava arrivando, con le radiografie in mano. Non sorrideva più, per nulla.

«Avrebbe dovuto parlarmi del suo incidente.»

Anna si alzò.

«Il mio incidente?»

«Cosa le è successo? Roba di macchina, no?»

Lei indietreggiò spaventata. L'uomo scosse la testa incredulo:

«È pazzesco quello che riescono a fare oggi con la chirurgia plastica. Vedendola, non l'avrei mai immaginato...»

Anna gli strappò le lastre dalle mani.

L'immagine mostrava un cranio fessurato, suturato, reincollato in tutti i sensi. C'erano linee nere che rivelavano degli innesti all'altezza della fronte e degli zigomi. Delle fratture intorno all'orifizio nasale tradivano un rifacimento completo del naso, mentre alcune viti agli angoli delle mandibole e delle tempie tenevano ferme delle protesi.

Anna scoppiò in una risata spezzata, in una risata che era un singhiozzo; poi fuggì lungo il portico.

La radiografia sventolava nella sua mano come una fiamma blu.

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Pagina 186

28.



Psicosi paranoica.

La diagnosi era chiara. Anna Heymes sosteneva di esser stata manipolata dal marito e da Eric Ackermann, nonché da uomini delle forze di polizia francesi. Diceva di aver subito, a propria insaputa, un lavaggio del cervello che l'aveva privata di una parte della memoria. Di essere stata sottoposta a interventi di chirurgia estetica che le avevano modificato il viso. Non sapeva né come né perché, ma era stata vittima di un complotto, di un esperimento che aveva mutilato la sua personalità.

Le aveva spiegato tutto questo con un tono affannato, brandendo la sigaretta come la bacchetta di un direttore d'orchestra. Mathilde l'aveva ascoltata pazientemente, notando a ogni passaggio la sua magrezza: l'anoressia poteva essere sintomo di paranoia.

Anna Heymes aveva poi finito di raccontare una storia che non stava né in cielo né in terra. Aveva scoperto la macchinazione quel mattino stesso, in bagno, notando delle cicatrici in faccia, mentre il marito si preparava a portarla nella clinica di Ackermann.

Era scappata dalla finestra, era stata inseguita da poliziotti in borghese, armati fino ai denti, equipaggiati di ricetrasmittenti. Si era nascosta nella chiesa ortodossa, poi si era fatta radiografare il volto all'ospedale Saint-Antoine per avere una prova tangibile della sua operazione. Infine aveva vagabondato fino a sera, aspettando il buio per rifugiarsi presso la sola persona in cui aveva fiducia: Mathilde Wilcrau. Ecco tutto.

Psicosi paranoica.

All'ospedale Sainte-Anne, Mathilde aveva curato centinaia di casi analoghi. La prima cosa da fare era calmare la crisi. A forza di parole di conforto, era riuscita a iniettare alla giovane donna cinquanta milligrammi di Tranxene intramuscolo.

Ora, Anna Heymes dormiva sul divano. Mathilde stava seduta dietro la scrivania, nella sua posizione abituale.

Avrebbe dovuto telefonare a Laurent Heymes. Avrebbe potuto occuparsi di persona del ricovero di Anna all'ospedale, o avvisare direttamente Eric Ackermann, il medico curante. Nel giro di qualche minuto tutto sarebbe stato sistemato. Un semplice affare di routine.

E allora perché non chiamava? Da più di un'ora stava là, senza alzare il telefono. Osservava i frammenti di mobili che luccicavano nell'oscurità, alla luce della finestra. Erano anni che Mathilde era circondata da quei pezzi d'antiquariato in stile rococò; oggetti acquistati per la maggior parte da suo marito e per i quali si era battuta al momento del divorzio. In un primo momento per rompergli le scatole; poi, se n'era resa conto, per conservare qualcosa di lui. Non si era mai decisa a venderli e ora viveva in un santuario. Un mausoleo pieno di vecchie cose lucenti che le ricordavano i soli anni che avevano contato veramente.

Psicosi paranoica. Un vero caso da manuale.

Salvo il fatto che c'erano quelle cicatrici. Quelle linee che aveva visto sulla fronte, sulle orecchie e sul mento della giovane donna. Aveva persino sentito, sotto la pelle, le viti e gli impianti che sostenevano la struttura ossea del viso. Cucita sulla faccia, Anna Heymes portava una vera e propria maschera. Una crosta di pelle, lavorata, suturata, che dissimulava le sue ossa spezzate e i suoi muscoli atrofizzati.

Era possibile che dicesse semplicemente la verità? Che degli uomini, dei poliziotti per di più, le avessero fatto subire un simile trattamento? Che le avessero fracassato le ossa della faccia? Che le avessero manomesso la memoria?

In quell'affare c'era poi un altro elemento che la turbava: la presenza di Eric Ackermann. Si ricordava di quel tipo, rosso di capelli, dal viso deturpato da macchie e dall'acne. Uno dei suoi numerosi spasimanti all'università, ma soprattutto uno dall'intelligenza particolare, quasi un esaltato.

All'epoca era appassionato dal cervello e dai «viaggi interiori». Aveva seguito gli esperimenti di Timothy Leary sull'LSD, all'università di Harvard, e con quel metodo pretendeva di esplorare regioni sconosciute della coscienza. Consumava ogni sorta di droga psicotropa, analizzando i suoi stessi deliri. Arrivava persino a mettere di nascosto dell'LSD nel caffè degli altri studenti, solo «per vedere». Mathilde sorrise ricordando quei deliri. Tutta un'epoca: il rock psichedelico, le contestazioni, il movimento hippy...

Ackermann prediceva che un giorno le macchine avrebbero permesso di viaggiare all'interno del cervello e di osservare la sua attività in diretta. Il tempo gli aveva dato ragione. Lui stesso era diventato uno dei migliori specialisti in materia, grazie a tecnologie come la camera a positroni e la magnetoencefalografia.

Era possibile che avesse condotto un esperimento sulla giovane donna?

Cercò nella sua agenda i recapiti di una studentessa che, nel 1995, aveva seguito le sue lezioni alla facoltà del Sainte-Anne. Al quarto squillo, qualcuno rispose.

«Valérie Rannan?»

«Sono io.»

«Sono Mathilde Wilcrau.»

«La professoressa Wilcrau?»

Erano passate le undici di sera, ma il tono era attento.

«La mia chiamata le sembrerà senza dubbio strana, soprattutto a quest'ora...»

«Cosa vuole?»

«Volevo solo farle qualche domanda, sa, sulla sua tesi di dottorato. Il suo lavoro verteva sulle manipolazioni mentali e l'isolamento sensoriale?»

«All'epoca non sembrava interessarle molto.»

Mathilde colse in quella risposta un'inflessione aggressiva. Aveva rifiutato di dirigere il lavoro della studentessa. Non credeva in quella ricerca. Per lei, il lavaggio del cervello era piuttosto simile a un fantasma collettivo, a una leggenda metropolitana.

Addolcì la sua voce con un sorriso:

«Lo so. Ero abbastanza scettica. Ma ora ho bisogno di un'informazione per un articolo che sto scrivendo urgentemente.»

«Dica pure.»

Mathilde non sapeva da cosa cominciare. Lei stessa non era sicura di ciò che voleva sapere. Un po' a caso, buttò lì:

«Nell'abstract della sua tesi, lei scrive che è possibile cancellare la memoria di un soggetto. È... Insomma, è vero?»

«Sono tecniche che si sono sviluppate a partire dagli anni Cinquanta.»

«Erano i sovietici che le praticavano, no?»

«I russi, i cinesi, gli americani, tutti. Era una delle poste in gioco fondamentali della Guerra fredda. Annientare la memoria. Distruggere le convinzioni. Modellare le personalità.»

«Quali metodi impiegavano?»

«Sempre gli stessi: elettrochoc, droghe, isolamento sensoriale.»

Ci fu un attimo di silenzio.

«Quali droghe?» riprese Mathilde.

«Io ho lavorato soprattutto sul programma della CIA: il MK-Ultra. Gli americani usavano dei sedativi. Sodio amytal. Clorpromazina.»

Mathilde conosceva quei nomi; l'artiglieria pesante della psichiatria. Negli ospedali, quei prodotti passavano sotto la voce generica di «camicia di forza chimica». Ma, in realtà, si trattava di veri trituratori, di macchine per macinare la mente.

«E l'isolamento sensoriale?»

Valérie Rannan riprese:

«Gli esperimenti più avanzati si sono svolti in Canada, a partire dal 1954, in una clinica di Montreal. Dapprima gli psichiatri interrogavano le loro pazienti, delle maniache depressive. Le forzavano a confessare delle colpe, dei desideri di cui provavano vergogna. In seguito le rinchiudevano in una stanza completamente buia, di cui non potevano vedere né il pavimento, né il soffitto, né i muri. Poi mettevano loro un casco da giocatore di rugby con delle cuffie nelle quali passavano a ciclo continuo parti scelte delle loro confessioni. Le donne sentivano costantemente le loro stesse parole, i momenti più penosi delle loro confessioni. Le sole pause erano costituite dalle sedute di elettrochoc e dalle cure chimiche del sonno.»

Mathilde diede una breve occhiata ad Anna, addormentata sul divano. Il suo petto si sollevava dolcemente, seguendo il respiro. La studentessa proseguì:

«Il vero condizionamento cominciava quando la paziente non ricordava più né il proprio nome né il proprio passato, quando non aveva più alcuna volontà. Si cambiavano i nastri da ascoltare in cuffia: venivano dati ordini, ingiunzioni ripetute che dovevano modellare la nuova personalità.»

Come ogni psichiatra, anche Mathilde aveva sentito parlare di quelle aberrazioni, ma non riusciva a convincersi della loro esistenza e soprattutto della loro efficacia.

«Quali erano i risultati?» chiese con voce neutra.

«Gli americani sono riusciti solo a ottenere degli zombi. I russi e i cinesi sembrano aver avuto più risultati con metodi più o meno simili. Dopo la guerra di Corea, oltre settemila soldati americani sono tornati a casa totalmente conquistati dai valori comunisti. La loro personalità era stata condizionata.»

Mathilde si massaggiò le spalle; sentiva un freddo sepolcrale risalirle le membra.

«Lei pensa che ci siano ancora oggi dei laboratori che continuano a lavorare in questi campi?»

«Certo.»

«Che genere di laboratori?»

Valérie scoppiò in una risata sarcastica:

«Ma dove vive? Stiamo parlando di centri militari. Tutte le forze armate lavorano sulla manipolazione del cervello.»

«Anche in Francia.»

«In Francia, in Germania, in Giappone, negli Stati Uniti. Ovunque ci siano mezzi tecnologici sufficienti. Ci sono sempre nuovi prodotti. In questo periodo si parla molto di una sostanza chimica, il GHB, che cancella i ricordi delle ultime dodici ore. La chiamano "la droga del violentatore" perché la ragazza drogata non si ricorda di nulla. Sono sicura che attualmente i militari lavorano su questo genere di prodotti. Il cervello rimane l'arma più pericolosa del mondo.»

«La ringrazio, Valérie.»

L'altra parve sorpresa:

«Non vuole delle fonti più precise? Una bibliografia?»

«Grazie. La richiamerò in caso di necessità.»

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