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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 7 Capitolo primo Ombre e figure 13 Capitolo secondo La concezione classica della vita buona 23 La visione greca della vita 23 Il primo illuminismo e il primo umanesimo 27 Le virtù eroiche 29 Le virtù civiche e Socrate 34 Platone 39 Aristotele 43 Capitolo terzo L'ideale filosofico 53 Il mondo ellenistico 53 La via del cane 55 La ricerca del piacere 59 Lo Stoicismo 65 Gli Stoici romani 71 Capitolo quarto Le leggi di Dio 79 Le Religioni del Libro 79 Il comandamento divino 83 Etica cristiana 88 L'irrilevanza della religione nei confronti della moralità 94 La cortina di fumo profumata 97 Perché sorge la fede 99 Il ritorno dei fantasmi 103 Trascendentalismo in etica 112 Capitolo quinto Il secondo illuminismo 115 L'Umanesimo rinascimentale 115 I testi antichi e la loro ricezione 119 La dignità dell'uomo 121 Cicerone nel Rinascimento 124 Erasmo 128 La morale e il bene per l'uomo 135 Fede e ragione 143 Capitolo sesto Il terzo illuminismo 145 Dopo il secolo della scienza 145 Cos'è l'illuminismo 148 L'Encyclopédie 152 La contesa dell'illuminismo 157 I filosofi nell'età dei philosophes 164 La ragione in atto 169 I lumi 177 Capitolo settimo La crisi delle dottrine 179 Un'età di profeti 179 Darwin e la reinvenzione dell'umanità 180 La crisi religiosa 186 Utilità e libertà 191 La rivalutazione dei valori 200 Capitolo ottavo La riscoperta dell'etica 205 Il vergognoso XX secolo 205 Dal male al bene 209 Il ritorno dell'impegno etico: l'esempio della medicina 213 Paternalismo e autonomia 216 Il diritto di morire 221 La natura dell'uomo: lo studio di un caso 232 I filosofi morali nel secolo della vergogna 244 Inizi promettenti 248 Capitolo nono Fugare i fantasmi 253 I valori umanistici 253 La religione e la sfera pubblica della moralità 257 Un caso per la difesa 260 La lunga guerra 264 Scienza e speranza 267 Verso la buona vita 270 Ringraziamenti 274 Bibliografia 275 Indice analitico 287 |
| << | < | > | >> |Pagina 6Come la natura, il bene è un paesaggio immenso nel quale l'uomo avanza grazie a secoli di esplorazioni. Jose Ortega Y Gasset Il conflitto tra fede e scetticismo resta il vero, il solo, il più profondo tema della storia del mondo e dell'umanità, e ad esso tutti gli altri sono subordinati. Goethe La ragione può combattere il terrore, e alla fine sconfiggerlo. Euripide Questo libro è per tutti. Il suo fine è di illustrare quanto di meglio è stato pensato e detto a proposito della più importante domanda che l'umanità si sia mai posta: a quali valori dovremmo attenerci per vivere una vita davvero buona? Il metodo seguito è quello storico e, per tracciare la storia del pensiero e del dibattito intorno a questa domanda, il discorso è stato articolato ricorrendo ad alcuni tra i principali snodi di sviluppo della civiltà occidentale. Ciò comporta, in parte, la considerazione di aspetti relativi allo sviluppo del dibattito etico e, in parte, la valutazione dei presupposti morali impliciti nelle diverse temperie culturali. Ai fini del presente lavoro, la distinzione tra «etica» e «presupposti morali» può essere spiegata nei seguenti termini: «etica» significa pensare e teorizzare a proposito di ciò che è bene e male, e del modo in cui le persone dovrebbero vivere; «presupposti morali» sono invece ciò che, consapevolmente o meno, domina le effettive azioni o le aspirazioni degli uomini, nella pratica della loro vita. Sebbene questo libro intrecci profondamente la storia della riflessione etica e dei presupposti morali, non mira a presentarsi come un trattato accademico. È, invece, un'indagine informale, una conversazione piuttosto che una lezione, una fotografia aerea piuttosto che un'esplorazione a piedi; e poiché copre un ambito così vasto, rappresenta un percorso personale, non certo enciclopedico. Analisi ben più dettagliate e approfondite di questi temi sono rinvenibili sia nelle fonti letterarie e filosofiche, da Platone a Nietzsche, sia, e in modo dottamente e ambiziosamente particolareggiato, all'interno della vasta produzione di letteratura accademica generata nell'ultimo secolo dalla professionalizzazione della filosofia. Di fronte a tale abbondanza di risorse, la bibliografia fornisce una semplice guida per un orientamento iniziale. Per parte mia, raccomando caldamente i classici del dibattito etico, alcuni dei quali sono rintracciabili anche all'interno della recente produzione specialistica. Bisogna però riconoscere che la produzione filosofica più recente è solo per lettori specializzati, e questo è davvero un gran peccato, se non fosse che rappresenta l'esito inevitabile del nostro tentativo di accrescere la consapevolezza di noi stessi, del nostro mondo, del nostro pensiero attraverso uno zelo analitico senza compromessi – cosa che tende ineluttabilmente a moltiplicare finissime distinzioni, complicate teorie e un gergo (dall'esterno) impenetrabile nel quale discuterle. Senza dubbio, gran parte del lavoro accademico, spinto com'è dall'ansia di pubblicare, più che dalla scoperta di verità inestimabili, è di assai scarso valore per il mondo; ma, in piccola parte, esso si aggiunge realmente al patrimonio dell'umana conoscenza e fissa un altro piolo nella scala che, con enormi sforzi, ci conduce alle stelle: per ardua ad astra. Questo libro è, dunque, un'indagine non accademica sul dibattito relativo al bene e alla vita buona. Non si tratta, però, solo di un'indagine: per parte mia, infatti, voglio sostenere che la ricerca del bene ad opera dell'umanità è stata una lotta tra umanesimo, da un lato, e concezioni religiose del mondo, dall'altro. Queste ultime si sono dimostrate resistenti ai tentativi che l'umanesimo ha compiuto, in età classica, nel Rinascimento, nel XVIII secolo ed oltre, di liberare non solo l'immaginazione, ma la vita stessa dell'uomo dall'autorità di una visione religiosa sul mondo. La longevità delle concezioni religiose potrebbe ricevere svariate spiegazioni, ma una delle principali ragioni storiche è che le persone sono in prevalenza superstiziose e scarsamente riflessive, e che le gerarchie religiose sono riuscite a conquistare potere o, almeno, influenza politica, come ha dimostrato, per gran parte della sua storia, il Cristianesimo e come accade ancor oggi con l'Islam e coi contemporanei fondamentalismi di vario tipo diffusi in India, Israele e Stati Uniti. Come mostrano (e non semplicemente suggeriscono) queste osservazioni, l'argomento che sostengo è di parte: la mia posizione è che il progresso umano si è per lo più verificato a dispetto delle reazioni religiose, e che gran parte delle umane sofferenze, ad eccezione di quelle causate da malattie o altri eventi naturali, è stato il risultato di conflitti ispirati dalla religione e di un'oppressione basata sulla religione. Si tratta di un dato infausto, ma grandemente confermato dalle testimonianze della storia. La mia speranza è che questo schizzo intorno alla ricerca del bene aiuti alcuni, auspicabilmente molti, a riconsiderare la posta in gioco in quel vasto scontro di prospettive che, nel dibattito sulla vita migliore per l'uomo, oppone illuminismo umanistico e religione tradizionale. C'è poi un ulteriore punto degno di nota: questo libro vede la luce in una congiuntura storica molto particolare, precisamente nel momento in cui i segreti del patrimonio genetico umano sono stati svelati e sottoposti non solo al nostro sguardo, ma al nostro intervento. Sempre più gli esseri umani che popoleranno il nostro pianeta nei decenni e nei secoli a venire saranno diversi da come siamo noi ora e da come erano i nostri avi. Utopiche speranze vogliono che essi saranno più belli e più intelligenti di noi: avranno denti che non cadono, occhi dalla vista perfetta, profili genetici che li rendono immuni dal cancro e dalle malattie cardio-vascolari – e così via, per tutti quei problemi dai quali persone affette da mal di denti, vista carente o pressione alta desidererebbero poter essere subito curate, con un semplice giro del cacciavite genetico. Senza dubbio, una volta che queste bazzecole (cancro e tutto il resto) siano state risolte, la costosa cura genetica comporterà anche l'acquisizione di attributi e caratteristiche attualmente inimmaginabili, con la produzione di individui sempre più remoti da noi, che di loro siamo padri originari, naturali, accidentali ed imperfetti. Molti, al momento, trovano questo quadro irritante ma, soprattutto, si sentono liberi dall'inquietante sensazione di inferiorità rispetto a tale prospettiva futura. Qualsiasi cosa possa accadere, la mia speranza è che l'intelligenza e l'accesso alla conoscenza, di cui godranno le generazioni future, consentiranno infine il trionfo del progetto illuministico. Allora questo libro, ed altri come questo, appariranno come il resoconto di una lotta che sembrerà remota ed assurda, ma che sarà stata invece uno dei due o tre fattori determinanti della storia umana, e tale è ancor oggi all'alba del XXI secolo, quando vengono scritte queste parole. Tuttavia, persino individui futuri, se ce ne saranno, dovranno ancora porsi quelle domande di cui qui viene tratteggiata la storia delle risposte: qual è la miglior vita da vivere? Cos'è il bene? Prevedo inoltre che, qualsiasi forma assumeranno le risposte future, avranno comunque qualcosa in comune con le migliori risposte del passato, e da esse trarranno ispirazione. L'informalità di questo libro e il fatto che si rivolga espressamente ad un lettore comune, non specialistico, presuppongono che il suo fine non sia l'esaustività nell'analizzare nozioni etiche e speranze morali; eppure, in base ad un'accezione particolare del termine «comprensivo», questo libro mira ad esserlo, nel senso cioè che cerca di vagliare, relativamente al suo soggetto, i contributi più alti ed importanti prodotti dalla civiltà occidentale, senza trascurare nessuno degli aspetti principali di questa storia, almeno nei suoi tratti essenziali. Il testo è volutamente privo di note. Le opere utilizzate e citate in ciascun capitolo sono elencate nella bibliografia finale, selezionata e divisa per capitoli; i lettori che desiderino risalire dalla citazione alla fonte godranno della gioia di ricercare autonomamente nei luoghi (libri) appropriati, indulgendo in tal modo ad uno dei piaceri più grandi della vita, quello della lettura. L'architettura del libro segue le linee principali del suo argomento ispiratore. Per sei o sette secoli, dallo splendore dell'Atene classica fino agli ultimi secoli della dinastia antonina nella Roma imperiale, la riflessione sulla vita buona si è basata su princìpi che, come mostreranno le prossime pagine, erano fondamentalmente quelli dell'illuminismo e dell'umanesimo, descrivibili in questi termini non perché fossero la fonte delle tendenze intellettuali così etichettate in tempi più recenti (il Rinascimento e l'Illuminismo del XVIII secolo), ma perché è esattamente questo che essi erano. Poi, per un lasso di tempo più che doppio rispetto a quello, il mondo occidentale – a quel tempo circoscritto in prevalenza alla sola Europa – cadde sotto l'egemonia culturale del Cristianesimo che, per quanto adottasse e adattasse molto del pensiero etico dell'antichità classica, respingeva però recisamente gran parte dei suoi presupposti, in favore di una visione assai diversa, secondo la quale la fonte dei valori risiede al di fuori del mondo e si incarna negli ordini e nel volere di una divinità personale. A partire circa dal 1400 d.C. e fino ad oggi (vale a dire, per sei secoli), il progetto dell'umanesimo illuministico ha sempre reagito contro questo trascendentalismo teistico che, imposto alla civiltà europea dall'Oriente (è importante notare che le «Religioni del Libro» – Ebraismo, Cristianesimo ed Islam – sono tutte religioni orientali), ha avuto un'influenza molto eterogenea sullo sviluppo ed il benessere di tale civiltà. I capitoli che seguiranno esaminano le linee essenziali di questa storia, cioè i sei secoli di pensiero antico, i dodici secoli di egemonia cristiana, e i successivi sei secoli di lotta tra la rinascita dell'uno e quella dell'altro. I primi tre capitoli approfondiscono il pensiero etico antico; il quarto capitolo descrive e discute l'etica religiosa attraverso l'esempio del Cristianesimo; i restanti capitoli riflettono sulla rinascita e lo sviluppo del pensiero etico dal Rinascimento – qui definito «secondo illuminismo» – in poi, senza trascurare la tensione e il frequente conflitto tra le due concezioni, così profondamente diverse, ispiratrici delle prospettive etiche in gioco. Questo libro, dunque, segue un percorso che è insieme cronologico e concettuale. | << | < | > | >> |Pagina 205Passando dalla storia delle idee ai più recenti sviluppi dell'etica, pensiamo con particolare senso di vergogna al XX secolo, che è stata un'età insanguinata e brutale oltre ogni immaginazione. I morti a causa di guerre, atrocità subite, carestie indotte dall'uomo, sono in numero enorme, così come rifugiati, orfani, persone in lutto, e ciascuno di essi accusa tutti noi per la mancanza di umanità che ha condotto a quelle sofferenze. Le grida di così tante vittime che chiedono di essere considerate e ricordate, che vogliono una garanzia affinché simili eventi non accadano più, assordano a tal punto i sopravvissuti – noi – che talvolta udiamo solo silenzio. Questo ci fa pensare di vivere in un'età atipica dal punto di vista morale e, nel ricercarne le ragioni, alcuni di noi utilizzano troppo prontamente come capri espiatori le realtà discusse nei precedenti capitoli: l'Illuminismo, la scienza, la mancanza di religione, i «filosofi del sospetto» (come Marx e Nietzsche) che attaccarono e distrussero la moralità convenzionale. Tale è la repulsione provata nei confronti del nostro tempo che la reazione ad essa è variata dal pessimismo nudo e crudo sul futuro morale dell'umanità a un ritorno disperato alle antiche fedi. La filosofia è diventata, a partire dal XX secolo, un'attività interamente professionalizzata: i suoi critici la accusano di essere isolata nell'accademia, di avere seguaci stipendiati che insegnano un curriculum altamente selettivo, concentrato nel corso di tre anni, e che si fanno largo a gomitate per una promozione e per la loro reputazione accademica, pubblicando inezie erudite, dal gergo complicato e dai sottili tecnicismi, utili al massimo a pochi colleghi – questa filosofia non solo ha avuto poco da dire per gran parte del secolo, ma in alcuni ambienti influenti, specie nella filosofia analitica di lingua inglese, ha esplicitamente rifiutato ogni responsabilità per questo suo dire. La sua scusante era che il fine della filosofia non è quello di dire alle persone cosa è bene e quali siano i loro doveri, ma di analizzare in microscopico dettaglio i concetti di «diritto» e «dovere», astrattamente considerati, esaminare con minuziosità tecnica la logica del «ragionamento pratico» per determinare se si possano dedurre asserzioni prescrittive da quelle descrittive e, infine, esporre a una critica attenta e dettagliata le manchevolezze di altre e più antiche teorie etiche. I filosofi accademici si mostravano, pertanto, poco adatti alle grandi questioni etiche proprio nel momento in cui queste si facevano più pressanti. La vera ragione per un tale atteggiamento era, secondo i critici – pace le loro simpatiche giustificazioni – una ritrosia dovuta alla loro incapacità. Gli orrori morali del XX secolo sono sconcertanti, ma la verità è che la sola reale differenza, in termini storici, rispetto ad altri orrori consiste nelle loro dimensioni. Gli esseri umani hanno commesso durante tutta la storia eccidi di massa, pogrom, stermini, crudeltà e barbarie. Fin dal XIX secolo aveva cominciato a svilupparsi, ad un ritmo terrificante, la tecnologia finalizzata a tali crudeltà su scala sempre più imponente. Se ne ebbero già segni premonitori al tempo della guerra civile americana, e avrebbero dovuto essere interpretati – cosa che non avvenne – fin dalla Prima guerra mondiale, le cui ricette di macelleria includevano pietanze tradizionali come l'avanzata della fanteria, a passo d'uomo in fila per due, verso aggeggi così poco tradizionali come le mitragliatrici. Le novità includevano anche bombe altamente esplosive e avvolgenti gas velenosi. Alla fine della Seconda guerra mondiale queste innovazioni risultavano già datate, poiché era tramontata l'epoca delle armi di distruzione di massa, insieme ai missili a lunga percorrenza e al coinvolgimento della popolazione civile nella violenza in prima linea. Si potrebbe pensare che, da soli, questi fatti, legati allo sviluppo della tecnologia e coinvolgenti decine di milioni di persone uccise, non avrebbero impresso al secolo il suo particolare carattere di abominio. Per questo – così si potrebbe pensare – c'era bisogno di Hitler e Stalin e Pol Pot. Le camere a gas per gli stermini di massa, villaggi di kulaki mitragliati e bruciati, stragi di intere popolazioni – tutto in nome ora dell'ideologia, ora dell'odio razziale, ora della purificazione politica, e tutto in grande scala – aggiungono alla storia morale del secolo una dimensione che le epoche precedenti non potevano certo eguagliare. Ma se qui si vuole sostenere che il XX secolo sia, nell'orrore, moralmente straordinario in virtù di una concomitanza storicamente unica di capi malvagi, allora viene frainteso il punto precedente. La verità è che ci sono sempre stati gli Hitler e gli Stalin, in forma di capi tribù, imperatori, re, papi, generali, in tutti i periodi della storia; è solo che essi non disponevano dei mezzi a cui invece avevano accesso le loro incarnazioni novecentesche per commettere eccidi di massa in una scala che essi non avrebbero neppure potuto sognare. Se la bomba atomica fosse stata disponibile nel V secolo a.C., sarebbe stata sganciata; se lo Zyklon B fosse stato disponibile nel X secolo d.C., sarebbe stato usato. Il fatto che gran parte dei genocidi e delle atrocità della storia sia stata commessa con la spada, la lancia, la decapitazione, la lapidazione, le percosse con bastoni, il rogo e la forca, ripete semplicemente lo stesso orrore in modo nient'affatto più tranquillo. Coloro che pensano che i tempi moderni siano più malvagi dei precedenti sono inclini ad identificarne la causa in un indebolimento del senso della legge morale, associato al venir meno delle tradizioni religiose come fattore di influenza sociale. Non tutti coloro che difendono questa prospettiva sono di per sé difensori delle tradizioni religiose; ciò di cui si rammaricano è la fine di una cultura dell'impegno morale che, a quel che credono, le tradizioni religiose un tempo aiutavano a promuovere. Tali opinioni danno conforto ai difensori della religione, che aderiscono all'idea per cui, per rivitalizzare una cultura dell'impegno morale, è bene incitare le persone a rientrare in Chiesa. Ma questo riattiva il solito equivoco, quello di credere che indurre una persona ad accettare per vere (sia in senso letterale sia in un superiore e inesplicato senso metaforico) proposizioni quali quella secondo cui in un preciso momento storico una vergine ha partorito, o le leggi di natura sono state arbitrariamente sospese in modo che l'acqua si è trasformata in vino o i cadaveri sono tornati in vita, e così via, fornirà in qualche modo una motivazione logica per vivere moralmente (secondo quella concezione di moralità, per cui, ad esempio, non devi divorziare se ti sposi, e così via). Non c'è bisogno di ripetere che la moralità e la metafisica, qui separatamente in gioco, non si giustificano né si richiedono a vicenda, e le questioni morali vogliono essere fondate e giustificate sulla base dei propri meriti in riferimento a ciò di cui si occupano, precisamente, la vita degli esseri umani nella loro organizzazione sociale. Questa è la lezione di tutti gli illuminismi della tradizione occidentale e dei loro principali pensatori, da Socrate a Nietzsche; e nessun argomento o prova è mai stato in grado di confutarli. Questo significa che promuovere la sensibilità morale richiede la prolungata umanizzazione dell'etica, e ciò a sua volta significa radicarla saldamente nei bisogni e nei valori umani. Tale compito esige riflessione e negoziazione continua; è sempre un processo provvisorio, esplorativo, finalizzato a sfruttare, nel migliore dei modi, quel senso di identità morale che ciascun individuo implicitamente possiede, e a sviluppare propriamente le risorse umane, specie la simpatia. Queste risposte possono fallire, non da ultimo quando sia posta in gioco un'insufficiente immaginazione morale – ciò mostra come sia vitale coltivare, sia a livello sociale che personale, una capacità di immaginazione morale che operi insieme al carattere specifico della natura umana. | << | < | > | >> |Pagina 209È sempre un errore sottovalutare il tempo impiegato dall'umanità per comprendere i traumi che ha sofferto, specie quelli autoinflitti. Nei cinquant'anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, il tentativo nazista di sterminare gli ebrei d'Europa è diventato oggetto di una conoscenza dettagliata, e l'imponente quantità di dati storici ad esso connessi ha ricevuto un'analisi meticolosa da parte degli studiosi. D'altro lato, sarebbe impossibile occultare un evento enorme come l'eccidio organizzato di milioni di persone, effettuato su scala industriale. Il perverso senso dell'ordine dei suoi perpetratori e i molti testimoni e superstiti inevitabilmente sopravvissuti a un progetto di tale ambizione hanno operato congiuntamente per conservare in vita le prove. Questa è una delle ragioni per le quali i tentativi revisionisti di persuaderci che l'Olocausto non sia avvenuto, o che sia stato «non così terribile come si diceva», sono ridicoli: la montagna di fatti è gigantesca come l'evento che essa testimonia. Eppure, in qualche modo il dovere psicologico di comprendere l'Olocausto è reso non più facile, ma più difficile dall'analisi sistematica dei fatti. Più sappiamo, fin nei minimi dettagli, di singoli individui che in momenti specifici, in luoghi precisi, sparano o gassano a morte altri esseri umani – uomini e donne, vecchi, bambini e anche bambini troppo piccoli per camminare, a decine, a centinaia, a migliaia – più cresce il nostro senso di perplessità e confusione morale, e la nostra repulsione e pietà interferiscono con la nostra capacità di comprensione. Quasi tutti gli studiosi concordano sul fatto che una cosa almeno è chiara: la comunità umana deve continuare a lavorare duro per recidere le teste dell'Idra del razzismo, del nazionalismo etnico, del fanatismo culturale e religioso ovunque inesorabilmente minacciosi. Dal periodo dell'Olocausto in poi, gli stessi identici pericoli hanno continuato a riproporsi, e persino le stesse mostruosità continuano a verificarsi, ma in una dimensione non paragonabile a ciò che è accaduto sotto Hitler. Questo è il motivo per cui, come sottolineano gli ottimisti, esiste il movimento per i diritti umani, con il suo sviluppo di convenzioni aventi, in molte giurisdizioni, forza di legge: tale movimento considera l'intera gamma delle debolezze e degli interessi umani, nello sforzo di proteggere le prime e di incentivare i secondi; questo è il motivo per cui esiste una crescente giurisdizione sui crimini internazionali con un tribunale internazionale incaricato di far valere le convenzioni concordate dagli stati membri delle Nazioni Unite. Il fatto che la storia dei diritti umani e l'istituzione di un tribunale internazionale siano frutto di un percorso esitante e incerto è considerato dai critici come un segno preoccupante della scarsa memoria e del cieco egoismo dell'umanità – una scarsa memoria e una cecità che persino un gravissimo insulto all'umanità come l'Olocausto sembra incapace di vincere. Gli ottimisti, naturalmente, vedono la questione in modo diverso: nella prospettiva storica di lunga durata, il fatto che la Dichiarazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite sia giunta come risposta immediata all'Olocausto e che la Corte Criminale Internazionale sia nata solo cinquant'anni dopo la nascita delle stesse Nazioni Unite, è interpretato come un segno positivo. Eppure ci vuole un continuo esercizio della memoria affinché al centro dell'interesse morale vi sia sempre l'esigenza di una tale evoluzione. Ecco un esempio di questo esercizio del ricordo. Quando Adolf Eichmann visitò il campo di concentramento di Chelmno, dove le vittime erano gassate in vagoni sigillati, non riuscì a osservare quel che accadeva. «Io non stavo a guardare l'intera manovra. Non potevo sopportare le urla... Sono scappato. Sono saltato in macchina e per molto tempo non sono riuscito ad aprire bocca». In seguito assistette a un'esecuzione di massa a Minsk. «Le mie ginocchia sono diventate acqua», diceva, ricordando come egli avesse visto una donna stendere le braccia dietro di sé non appena fu fucilata. «Dovevo andarmene». Giunse ad Auschwitz. «Ho preferito non guardare il modo in cui asfissiavano le persone... Bruciavano i cadaveri su gigantesche griglie di ferro... Non riuscivo a sopportarlo; ero sopraffatto dalla nausea». E Eichmann racconta che non era l'unico tra gli alti ufficiali nazisti a reagire in questo modo. Himmler, visitando un campo di concentramento per un'ispezione, dovette andarsene: «perse il suo autocontrollo», disse Eichmann. Ricordiamo chi era Eichmann. Era il sedicente «specialista in ebrei», responsabile del Dipartimento IV B 4 della Gestapo per gli Affari Ebraici, responsabile del servizio treni che attraversavano l'Europa fino ai lager della soluzione finale. È orrendo che egli non riuscisse a sopportare di essere personalmente presente agli eccidi di massa da lui stesso orchestrati. Ammettiamo pure che fosse in qualche modo incapace di immaginarli dalla tranquillità del suo ufficio; ma perché, quando vide ciò che tutto questo significava in realtà, non gridò per la pietà e l'orrore «Basta! Basta!»? Si limitò a scappare, e lasciò che tutto continuasse. Che cosa mostra tale perversione morale? Questa è una delle domande poste da Tzvetan Todorov nel suo libro potente e provocatorio Di fronte all'estremo, sulla vita nei campi di concentramento. La sua domanda è formulata in vista di un più ampio obiettivo, quello di considerare i lager del nazismo e i campi di lavoro dei gulag sovietici come uno specchio ingrandente che riflette il carattere morale dell'uomo e in cui la natura del bene e quella del male possono manifestarsi con una chiarezza spesso accecante, proprio in virtù delle circostanze estreme a cui gli uomini sono stati costretti. Primo Levi, scrivendo di Auschwitz, disse che i valori fondamentali, anche se non positivi, potevano essere dedotti da quel mondo particolare che è il lager, e Todorov, proprio partendo da questa osservazione, esaminò l'universo morale dei campi per mettere maggiormente a fuoco le questioni essenziali della moralità. È ormai comunemente riconosciuto che la degradazione della vita nei lager rendesse le persone animali; le vittime stesse lo dicevano. Tadeusz Borowski, che sopravvisse ad Auschwitz solo per uccidersi nel 1951, disse che la guerra azzera dal profondo l'idea di umanità: «non c'è crimine che un uomo non commetterebbe per salvarsi». Nello stesso stato d'animo Levi scrisse che la lotta per la sopravvivenza nei lager era senza tregua, poiché ognuno era disperatamente e ferocemente solo. Egli ricorda come fosse necessario soffocare ogni dignità e uccidere l'intera coscienza, per discendere nell'arena come una bestia contro altre bestie. Era una guerra di tutti contro tutti. Il terrore hobbesiano di questa esistenza degradata era l'esito di un progetto consapevole: gli oppressori denudavano le loro vittime, le lasciavano vivere tra la loro sporcizia e i loro escrementi, le facevano morire di fame, le mettevano in lotta l'una contro l'altra per un pezzetto di pane, le privavano dei loro nomi e delle loro identità. In tale condizione, in tale situazione estrema, come potevano quei lager non essere gli incubi dell'Inferno, in cui l'idea stessa di moralità perde tutto il suo contenuto? Tuttavia, come mostra Todorov, è vero anche il contrario. Nei lager vi erano atti di gentilezza, di eroismo, di amore e aiuto tra i più commoventi. Il medico Ena Weiss, anche se affermava che la sua personale filosofia per sopravvivere ai lager fosse «io per prima, io per seconda, io per terza – e poi ancora io», trascorse ogni giorno aiutando gli altri con grande sforzo personale. Robert Antelme, un sopravvissuto di Buchenwald, descrisse un uomo e suo figlio che «uniti nella fame... si offrivano l'un l'altro il pane con occhi amorosi». Analizzando i racconti forniti dai sopravvissuti ai lager, Todorov ricava due tesi. La prima è che i sopravvissuti tendono generalmente a dipingere un quadro della moralità dei lager più tetro di quanto i fatti dimostrino. Una ragione è che essi hanno bisogno di enfatizzare gli aspetti negativi della loro esperienza poiché è proprio questa negatività che l'ha resa unica, vale a dire, in essa consiste l'assoluta differenza tra l'esperienza dei lager e la vita comune. Un'altra ragione, forse ancor più profonda, è che in tal modo trova espressione il loro rimorso, persino la loro colpa, per essersi salvati mentre tanti altri sono morti. La seconda tesi deriva dalla prima. La sopravvivenza della vita morale tra gli orrori estremi dei lager confuta la tesi secondo cui la moralità è uno strato di vernice sottile, convenzionale, facilmente rimovibile, di cui è rivestita la vita umana. Essa mostra invece che la moralità è una salda proprietà naturale dell'esistenza umana sociale, che può essere solo stravolta o offuscata in circostanze estreme: percosse, terrore, umiliazione, prigione, inedia, freddo, sofferenze, miseria, perdita di speranza e di identità possono sradicarla – ed anche allora non sarà mai sradicata completamente, o da tutti. Questo fatto ci colma di un'enorme speranza. Ciò che ancora una volta viene confermato da questi temi disperati e insieme ottimistici è qualcosa che noi tutti desideriamo e in cui abbiamo bisogno di credere: l'eroismo morale non è una finzione e gli uomini possono aderire alla propria umanità persino nei momenti peggiori, e sopravvivere. Se questo è vero nei casi estremi, si tratta allora di un'eccellente novità soprattutto per la vita comune e rappresenta per l'umanità un segno forte di speranza in una buona vita. | << | < | > | >> |Pagina 221Il richiamo alle aspettative implicitamente evocate nei dibattiti sui diritti umani e le domande sollevate dai problemi etici in medicina ci suggeriscono possibili risposte ad alcune delle domande più pressanti che incontriamo in un tale scenario. Prendiamo l'esempio del «diritto di morire», rivendicato dai malati terminali e da quanti desiderano porre fine alla loro vita o scegliere quando e come morire. In alcune giurisdizioni questo diritto è riconosciuto, in altre no. In quest'ultimo caso, la ragione è per lo più di tipo pratico o ammonitivo, mentre nel primo caso la ragione è il riconoscimento dei princìpi di base, cioè, una volta ancora, autonomia, libertà di scegliere la natura e la qualità della propria vita e, dunque, la sua durata e la sua fine. Una discussione sul diritto di morire sarebbe sembrata strana agli abitanti dell'Impero romano. Infatti, per chi viveva in quell'epoca suicidio e suicidio assistito erano pratiche comuni e spesso abbastanza gradite. Se uno schiavo impugnava una spada affinché il suo padrone si avventasse contro di essa, se un servo o un membro della famiglia aiutava a mescolare il veleno e il vino per qualcuno pronto a morire — o a cui fosse stato ordinato di morire, poiché gli imperatori concedevano agli anziani la possibilità di porre termine alla propria vita in caso di sentenze capitali — non si verificava mai il caso che il protagonista dell'evento o il suo aiutante venissero biasimati, sia moralmente che legalmente. Al contrario, era più probabile che chiunque contribuisse ad un tale compito ottenesse il plauso dei suoi contemporanei. L'etica cristiana determinò un cambiamento assoluto nell'accettazione di tali pratiche. L'idea che la vita è sacra perché «data da Dio» introduce il divieto di disporre liberamente della propria vita, divieto che è stato inteso in termini assoluti, in riferimento a pratiche come l'aborto, l'infanticidio e l'eutanasia, eppure (incoerentemente) esso ha ammesso per altre vie molte eccezioni, come la guerra, l'omicidio per autodifesa, l'esecuzione capitale di criminali ed eretici. E neppure c'è mai stata un'estensione del principio della «santità della vita» a creature non umane (usando il termine «creatura» in senso teologico, per indicare qualcosa che è condotto all'esistenza e a cui, nel caso degli animali, è concessa da parte di una divinità una vita consapevole), nonostante il fatto che le basi per vietare l'omicidio nel caso di uomini e non-uomini siano identiche, a meno che si aggiungano tesi relative all'anima e alla sua presenza esclusiva negli animali umani. C'è una continuità, da questo punto di vista, tra etica cristiana e pensiero ebraico. Secondo le interpretazioni ortodosse dell'etica ebraica, la preservazione della vita è un dovere così importante da giustificare persino la non osservanza del sabato e la mancata astensione dal cibo non kasher. La lunghezza e la qualità della vita sono considerazioni irrilevanti, poiché la vita è di valore infinito e, per usare le parole di un testo ebraico, «un frammento di infinito è infinito». Gli individui non godono di un'autonomia personale illimitata e non possono disporre come vogliono della propria vita e del proprio corpo; entrambi sono stati concessi loro da una divinità per un fine che non è soggetto alle controversie o agli ostacoli posti dai singoli. L'idea che l'individuo sia eteronomo in relazione alla propria vita e al proprio corpo — cioè, che non goda dell'autorità ultima per decidere cosa accadrà in esso o ad esso — è un elemento chiave della concezione giudaico-cristiana. Da questo punto di vista, l'ideale laico dell'autonomia personale contrasta direttamente con essa, ed è alla base di numerose norme essenziali a sostegno dei diritti umani, ora ampiamente accettate. Il problema del diritto di morire sorge direttamente dal conflitto tra la duratura prospettiva giudaico-cristiana e la moralità laica che è alla base della riflessione sui diritti umani e che si è sviluppata a partire dall'Illuminismo settecentesco. L'importanza di questo dibattito è tale che merita un esame più approfondito, specie per illustrare le modalità in cui si svolge la riflessione etica contemporanea. La domanda a cui bisogna rispondere è se, da un punto di vista etico, la concezione dei diritti umani, conservati come reliquie nelle preposte convenzioni (di cui, per comodità, ricordiamo come esempio specifico la Convenzione Europea dei Diritti Umani — ECHR), debba essere interpretata come riconoscimento del fatto che gli individui hanno il diritto di scegliere quando e come morire e, inoltre, il diritto di ricevere un'appropriata assistenza nei casi in cui non siano in grado di esaudire da sé il proprio desiderio di morire (per esempio, quando paralizzati o in altro modo impediti). [...] La domanda relativa al tempo e al modo in cui morire è una di queste questioni, anche se, per lo più, le persone vi rispondono lasciando al caso il tempo e il modo del loro morire. Di fatto, però, non era necessario il recente costituirsi dell'ECHR in Inghilterra affinché gli individui acquisissero il diritto ad una scelta, poiché tale diritto era già implicitamente riconosciuto. L'approvazione nel 1961 del Suicide Act, che rendeva legale il diritto al suicidio, implicò in sé l'accettazione di un diritto dell'individuo a decidere il tempo e la maniera della propria morte: si lasciò, cioè, alla libera scelta dell'individuo la possibilità di continuare a vivere o di morire. Una concessione non è automaticamente identica ad un diritto, ma in questo caso la legalizzazione del suicidio era fatta precedere dal riconoscimento di una rivendicazione all'autonomia – in breve, la scelta di un suicida risulta scelta autonoma – e questo costituisce, in sé, l'attribuzione di un diritto. Il punto è rafforzato dall'implicita estensione del diritto a morire a quei pazienti che richiedano l'interruzione delle misure adottate per mantenerli in vita, ad esempio nel caso di pazienti che chiedano lo spegnimento delle macchine da cui dipende la loro sopravvivenza. Questo fatto, unito alla validità delle «volontà viventi» che, in taluni casi di malattie o incidenti, richiedano la non adozione di terapie aggressive tese a salvare la vita in forma di mera sopravvivenza, costituiscono, congiuntamente, il riconoscimento e l'accettazione di un diritto a morire. D'altra parte, esiste un'anomalia creata dal Suicide Act del 1961, anomalia che comporta particolari conseguenze qualora un individuo sofferente non sia in grado di porre termine alla propria vita, ad esempio perché paralizzato: sebbene, cioè, sia legale togliersi la vita, risulta illegale che qualcuno aiuti un altro a privarsene. L'anomalia, in questo caso, consiste dunque nel riconoscimento che è illegale aiutare qualcuno a fare qualcosa di legale, e tutto ciò dipende dal fatto che il Suicide Act cerca, giustamente, di prevenire l'uccisione travestita da suicidio assistito; poiché però lo fa servendosi di un divieto generico che rende criminale in ogni circostanza l'aiutare, il sostenere o l'incoraggiare il suicidio, esso ha posto chiunque sia incapace di commettere suicidio senza aiuto nell'impossibilità di conseguire il fine legale desiderato. Pertanto, alla luce dell'argomento precedente, questo provvedimento nega all'individuo uno dei suoi diritti fondamentali. [...] In Olanda oggi esiste una legge ponderata che consente l'eutanasia attiva e il suicidio assistito, e nello stato americano dell'Oregon una legge egualmente ponderata autorizza il suicidio medicalmente assistito. Ogni anno nell'Oregon viene pubblicato un rapporto che registra il numero di quanti si sono avvalsi della legge e descrive le circostanze in cui ciò è avvenuto, fornendo un'interessante informativa – non ultimo perché, nella maggioranza dei casi, essa mostra che i sofferenti si sono avvalsi della possibilità di morire a casa, circondati da familiari e amici, in pace. Coloro che contrastano l'eutanasia volontaria e il suicidio assistito sottolineano che esistono eccellenti reparti di assistenza per malati terminali, in cui essi vengono assistiti in modo da alleviarne le sofferenze e da permettere loro di morire con dignità. È certamente vero che il movimento per i malati terminali offre assistenza terminale d'alta qualità, e che la medicina moderna accresce notevolmente la capacità di provvedere ad essi; l'esistenza di cure palliative, però, non corrisponde sempre alla scelta di individui lucidi ma piuttosto di malati terminali. Essi potrebbero desiderare di morire quando ancora sono vigili, non ancora sedati e capaci di interagire in piena coscienza con i propri familiari – capaci, pertanto, di dire loro addio nel modo giusto. Essi potrebbero non desiderare il prolungamento degli ultimi stadi della loro malattia, dolorosa e senza speranza, qualsiasi cosa sia disponibile in termini di controllo del dolore, medicina psicotropica e sostegno psicologico. Nonostante le loro sofferenze, tali malati sono ancora persone con una mente in grado di funzionare e dei diritti, persone che desiderano scegliere relativamente alla propria vita e, soprattutto, vogliono dire quando, dove e come lasciare quell'esistenza che, per quanto soddisfacente possa essere stata in termini personali, sta giungendo al suo termine in maniera così crudele. La giustizia naturale dice che questo è nel loro diritto, e così pure il concetto e l'istituzione dei diritti umani nell'interpretazione che si è suggerita. | << | < | > | >> |Pagina 240I violenti attacchi ai quali la teoria freudiana è sottoposta da parte delle femministe sorgono dal loro disprezzo per l'affermazione secondo cui le donne soffrono dell'«invidia del pene» e l'orgasmo vaginale soppianta quello clitorideo nelle donne mature. Secondo Freud, le ragazze sono sgomente nello scoprire la propria inferiorità genitale rispetto ai ragazzi, e desiderano acquisire il pene, prima desiderando sessualmente il proprio padre, poi desiderando figli, specie maschi, che portino con sé il bramato pene. Quanto alla maturità sessuale, Freud identificava nelle ragazze la «fase fallica» con uno stadio infantile in cui si sviluppa il piacere dei genitali esterni, avviato con il cambio dei pannolini da parte della madre (che le ragazze incolpano della loro «castrazione», da ciò il conflitto madre-figlia); così, qualunque donna non maturi sviluppando la capacità di un orgasmo interno, cioè vaginale, rimane nella fase infantile. Nella loro vigorosa reazione a queste ultime teorie, le femministe dispongono di potenti frecce al loro arco: la ricerca empirica condotta, fra gli altri, da Masters e Johnson confuta Freud in maniera decisiva, mostrando non solo che il clitoride è il principale centro sensibile del bacino femminile, ma anche che le donne sono capaci, grazie ad esso, di plurimi orgasmi in sequenza, con ciò inducendo alcune femministe a sostenere che confidare negli uomini per il proprio piacere non è altro che un'autolimitazione.Le teorie sulla sessualità infantile e sulla femminile invidia del pene sono in sé implausibili se si considera la mera biografia umana, e risultano assolutamente fantasiose alla luce delle comuni conoscenze nell'ambito dell'endocrinologia e dell'etologia riproduttiva dei mammiferi – cioè la storia ben nota della maturazione riproduttiva e del comportamento di tutti i mammiferi incluso l'uomo. Se si potesse confrontare in un bambino normale la frequenza e l'intensità dell'interesse prepuberale verso il sesso e verso i gelati, si potrebbe tranquillamente scommettere che, anche se non del tutto assente, il primo viene battuto ko dal secondo. La teoria freudiana, dunque, regge poco ad un'indagine attenta. A che cosa si deve il suo potere? Quando Auden descriveva Freud come «non una persona, ma un'intera costellazione di opinioni», e Harold Bloom lo definiva «la principale mente immaginativa della nostra epoca», c'era poca esagerazione in queste parole. La teoria freudiana conquistò di fatto la civiltà occidentale del XX secolo. Come? La risposta si articola in quattro fattori: in primo luogo, il genio di Freud come autore ed ideologo; in secondo luogo, l'immensa attrazione esercitata da qualsiasi teoria offra a ciascun individuo una spiegazione dei suoi più nascosti segreti; in terzo luogo, la promessa che la scienza ha, da ultimo, scoperto ciò che non era mai esistito, cioè una valida teoria della natura umana; infine, il fatto che al centro del pacchetto vi sia il più delizioso, inquietante e solleticante di tutti i tabù: il sesso. Una tale combinazione difficilmente può fallire. | << | < | > | >> |Pagina 253Chiunque sia influenzato dallo spirito umanistico come è stato qui inteso – lo spirito comune all'antichità classica, al Rinascimento, all'Illuminismo e alla moderna Rivoluzione scientifica – con ogni probabilità designerebbe, come elementi della buona vita, la libertà individuale, la ricerca della conoscenza, il coltivare i piaceri che non recano danno agli altri, le gioie dell'arte, le relazioni personali e un senso di appartenenza alla comunità umana. Questo elenco sarà stilato come risposta alla domanda su che cosa garantisce la miglior possibilità di realizzazione e, cosa ugualmente importante, l'opportunità di vivere una vita guidata dalla conoscenza e dalla riflessione; infatti, la «realizzazione» non può mai essere intesa come una sottile e vacua forma di «felicità» prodotta da una pillola o dall'accettazione di un sistema di menzogne e illusioni o da una qualche altra forma di limitazione e di ignoranza. In particolare, in quest'ottica umanistica si ritiene che la libertà, l'amore e tutto il resto possano sortire il loro effetto benefico senza l'aiuto di una credenza in enti sovrannaturali o l'adesione ad una religione istituzionalizzata. Per gran parte della sua storia – di fatto, in Europa fin dall'ascesa al potere del Cristianesimo nel IV secolo d.C. – l'umanesimo si è sentito obbligato a difendere il suo impegno al laicismo contro le accuse della religione secondo la quale esso comporterebbe un prezzo eccessivamente alto – il prezzo, cioè, di una distruzione dei valori e delle relazioni e, da ultimo, di se stessi. Questa accusa è stata trasformata in un'allegoria da Tzvetan Todorov nel suo libro Il giardino imperfetto, e presentata come un patto con il diavolo al modo di Faust. In questa allegoria il diavolo offre all'Uomo Moderno il libero arbitrio, che corrisponde al potere di scegliere come vivere, ma nasconde all'Uomo il triplice prezzo del suo dono, vale a dire la separazione da Dio, dai suoi simili e infine da se stesso. Dio svanirà perché non ci sarà più ragione di credere che esiste un essere superiore all'uomo e, pertanto, l'uomo «non avrà più ideali né valori», sarà un semplice materialista. I suoi simili scompariranno perché le altre persone non avranno più valore, e il raggio di interesse di ciascun individuo si ritirerà sempre più dalla comunità alla famiglia al solo se stesso. Infine, scomparirà anche il sé dell'individuo perché, una volta separato dalla sua comunità, l'individuo non sarà nient'altro che un insieme di impulsi, «un'infinita dispersione», alienato e inautentico. Il fine dell'argomentazione di Todorov non è, naturalmente, dare sostanza a questo quadro ma, al contrario, mostrare che l'umanesimo deve acquistare la libertà considerata come suo fondamento – la libertà di scegliere per se stessi – senza privarsi dei valori comuni o delle relazioni sociali e senza sacrificare l'integrità del sé. Guidato da un tale obiettivo, Todorov si volge ai princìpi che animavano lo spirito umanistico fin dal suo sorgere, nel pieno vigore del pensiero dei suoi iniziatori, quel pensiero che si manifestò soprattutto nel periodo compreso tra il XVI e il XIX secolo con Montagne, Cartesio, Montesquieu, Rosseau, Constant e Tocqueville in testa. Ciò che questi pensatori suggeriscono, congiuntamente a Todorov, è un'interpretazione dell'umanesimo implicante tre tesi principali: il riconoscimento dell'eguale dignità di tutti, l'altruismo (cioè l'«elevazione dell'essere umano particolare, che è altro da me, ad obiettivo ultimo della mia azione») e la preferenza per la libertà d'azione. Si tratta di valori irriducibili nel senso che non possono essere spiegati in termini reciproci – di fatto, in determinati momenti potrebbero persino essere incompatibili l'un con l'altro; ciò, però, che crea l'umanesimo è la loro interazione, specie il modo in cui essi si limitano reciprocamente. La mia libertà non può essere goduta a discapito della tua libertà o dignità; la mia autonomia è limitata da considerazioni relative all'uguaglianza e fraternità di tutti nella comunità a cui appartengo. I cittadini potrebbero essere interscambiabili come membri di una società, ma come individui sono indispensabili; è la loro differenza ciò che conta, non la loro uguaglianza, e le relazioni tra di essi attivano libere scelte e affetti interpersonali. Todorov descrive la sfera dell'azione umana come un «giardino imperfetto» poiché il suo umanesimo è pratico, realistico, persino stanco del mondo. Il suo umanesimo non crede nell'uomo e non ne canta le lodi in maniera incondizionata: ne vede i difetti, i fallimenti, la capacità di commettere il male. Eppure, attraverso la sua libertà l'uomo è anche capace di scegliere il bene, ed è questo che lo salva. I valori della comunità e delle relazioni sono volontari e, nel migliore dei casi, gli uomini fondano su di essi la propria vita. Da questo punto di vista l'umanesimo presenta affinità naturali con la democrazia, persino se non sceglie una convinzione politica piuttosto che un'altra; infatti l'impulso umanistico verso la comunità e la fraternità rivela che la sua base è credere che le altre persone, lungi dall'essere l'Inferno, sono la nostra fuga dall'Inferno – e questo, sebbene non renda il regno umano un Paradiso, lo rende almeno del tutto a misura d'uomo. Molto in queste prospettive va accettato, nella misura in cui esse rappresentano una versione pragmatica e profondamente sana della concezione umanistica. Si rifanno, infatti, ad un eloquente modello di saggia etica laica senza ideali illusori, positivamente oraziana nella propria esperienza delle cose umane – e per tale ragione la si raccomanda come correttivo all'entusiasmo che trascina verso visioni utopiche del bene, visioni che riconoscono la grande capacità dell'uomo di commettere il male, difficile da contenere e assimilare (consideriamo ancora il sinistro esempio dell'Olocausto). Sebbene si possa simpatizzare con quasi tutte queste prospettive, c'è però un cavillo: il supposto prezzo pagato per il libero arbitrio dell'uomo è, come lo descrive Todorov, immediatamente e ovviamente implausibile. La nozione di agente sovrannaturale scompare quando l'umanità raggiunge la maggiore età e si assume la propria responsabilità morale ed intellettuale, poiché, naturalmente, perdono di credibilità le numerose forme di fatalismo e la subordinazione di sé alla direzione eteronoma imposta dalla maggior parte delle religioni. D'altra parte, questo accade in accordo con concezioni del mondo naturale e sociale modellate dalla scienza, tra cui l'osservazione dell'essenza sociale dell'umanità, cosicché nel momento stesso in cui l'Uomo Moderno accetta la sua individualità e afferma la sua autonomia, si riconosce come un essere intimamente comunitario. Questo è il motivo per cui il progetto umanistico dell'Illuminismo ha da subito comportato un dibattito sull'istituzione di leggi, governi ed istruzione del tipo richiesto da una comunità di agenti liberamente eppure reciprocamente impegnati. Questo aspetto è così profondamente radicato nell'umanesimo che è difficile immaginare come oppositori, reali o presunti, possano aver mancato di riconoscere la natura essenzialmente democratica e contrattualista di quell'ideale. Il vero problema affrontato dal progetto umanistico è la sopravvivenza di credenze e pratiche religiose e, in particolare, il loro aumento in alcune parti del mondo, specie Africa e Asia, dove la feconda miscela di analfabetismo, povertà, impotenza e rancore rende particolarmente attraenti le promesse e i facili imbrogli psicologici della religione. Forme fondamentaliste del Cristianesimo, di tipo pentecostale e carismatico, mescolate a superstizioni locali, sono prosperate vigorosamente a partire dalle loro radici missionarie nelle ex colonie d'Africa, e possono essere osservate nel loro pieno rigoglio tra le comunità emigrate dall'Africa occidentale nei quartieri meridionali di Londra. L'Islam è facilmente considerato dai suoi devoti come radicale poiché è una religione semplice e diretta che si presta facilmente ad applicazioni politiche e militari, offrendo dunque a comunità, diversamente prive di autorità, l'illusione del potere e un senso di orgoglio. Tutte queste forme di espressione religiosa sono essenzialmente regressive, oppressive e, nel migliore dei casi, medievali, e la loro dissonanza rispetto al mondo moderno è una fonte di conflitto continuo e troppo spesso terribile. | << | < | > | >> |Pagina 257Alla religione è stato concesso un confortevole spazio domestico nelle democrazie liberali, che proteggono il diritto delle persone a credere ciò che vogliono, e accettano l'enorme varietà di fedi introdotte dagli immigrati provenienti da tutto il mondo. Questo fatto deve essere accettato poiché le libertà di parola e di opinione sono valori essenziali, e l'idea stessa di società democratica si fonda sull'idea di libertà (dovrebbe essere, ma ahimè non lo è, la libertà esercitata in maniera responsabile, qualcosa che non sempre è garantito dagli entusiasmi e dalle certezze dogmatiche della fede). Poiché i fedeli di religioni importate diventano sempre più esigenti nel pretendere gli stessi privilegi goduti da organizzazioni religione interne a quelle democrazie, e poiché le democrazie tolleranti rispondono in maniera concessiva, si palesa all'orizzonte la prospettiva di una crescente difficoltà. Sembra infatti che i governi occidentali non si rendano pienamente conto di questa situazione perché, per fare un esempio, tollerano e in alcuni casi incoraggiano la diffusione di scuole religiose, siano esse cristiane, islamiche, ebraiche o sikh, e legiferano per proteggere gli individui da vessazioni o discriminazioni sofferte soprattutto per questioni di fede. Entrambi i provvedimenti sembrano innocui, persino auspicabili, almeno nel secondo caso; di fatto, però, accrescono drammaticamente la portata dei problemi, e questa realtà, quando opportunamente compresa, spiega il motivo per cui la sfera pubblica dovrebbe essere completamente secolarizzata. La ragione consiste nel fatto che le principali religioni del mondo – specie Cristianesimo, Islam ed Ebraismo – non sono semplicemente incompatibili l'una con l'altra, ma sono l'una antitetica all'altra. Tutte le religioni sono tali che, se vengono spinte alle loro logiche conclusioni o se i testi sacri e le antiche tradizioni su cui si fondano vengono accettati alla lettera, assumeranno la forma dei rispettivi fondamentalismi. I Testimoni di Geova e i Talebani non sono dunque aberrazioni, ma espressioni non adulterate e non vincolate delle loro rispettive fedi, praticate da persone che non si interessano di raffinati temporeggiamenti o di sottigliezze teologiche, ma che accettano alla lettera la visione del mondo proposta dagli scritti ritenuti sacri, e che si attengono alla morale e al modo di vita da essi prescritti. Questo è l'aspetto in cui si annida la minaccia più seria, poiché tutte le principali religioni di fatto bestemmiano l'una contro l'altra, e ciascuna deve attivamente opporsi alle altre in nome dei suoi princìpi – sebbene, per dirla con una pessimistica speranza, non con crociate, jihad e pogrom, come avvenne in passato. Le religioni si ingiuriano reciprocamente in vari modi: tutti i non cristiani offendono il Cristianesimo rifiutando di accettare la divinità di Cristo, poiché nel far ciò rifiutano lo Spirito Santo, e questa viene descritta come la più seria di tutte le bestemmie. Nel Nuovo Testamento, Cristo dice: «Io sono la via, la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non attraverso me». Questo pone i membri di altre fedi al di fuori della redenzione, qualora essi ascoltino queste parole ma non le seguano. Per una malaugurata svolta teologica, i protestanti devono ritenere empi anche i cattolici, poiché questi ultimi considerano Maria coredentrice insieme a Cristo, in violazione di quanto appena sostenuto. Tutti i non musulmani offendono l'Islam poiché insultano Maometto, non accettandolo come vero profeta e ignorando gli insegnamenti del Corano. Gli ebrei sembrano i meno filosoficamente preoccupati del modo in cui sono considerati da parte degli aderenti ad altre fedi, ma gli ebrei ortodossi si ritengono superiori dal punto di vista religioso a tutti coloro che non rispettano le giuste regole, per esempio, non osservando le restrizioni kasher. In generale, tutte le religioni offendono tutte le altre considerandone gli insegnamenti, la metafisica e gran parte dell'etica come falsi e persino dannosi, mentre la propria religione è vista come l'unica vera. È ingenuo pensare che tutte le religioni possano essere considerate come adoranti la medesima divinità in modi diversi; questo confuso espediente è, di fatto, insostenibile, come mostra il confronto assai frettoloso tra dottrine, interpretazioni, requisiti morali, miti sulla creazione ed escatologie, in cui le principali religioni differiscono e frequentemente si contraddicono l'un l'altra. La storia ci mostra quanto chiaramente le religioni stesse abbiano compreso questo fatto; la motivazione per secoli di crociate contro l'Islam da parte del Cristianesimo, per i pogrom contro gli ebrei e per le inquisizioni contro gli eretici, è stato infatti il desiderio di eliminare l'eterodossia e l'«infedeltà» o, almeno, realizzare un forzato adeguamento all'ortodossia dominante. Le varie jihad e fatwah dell'Islam hanno avuto ed hanno il medesimo obiettivo, che è stato diffuso in metà del mondo con la conquista e con la spada. Dove possono farla franca – come i Talebani in Afghanistan – i fondamentalisti continuano le medesime pratiche. In America il Diritto Religioso farebbe senza dubbio lo stesso, ma deve utilizzare pubblicità televisiva e pressioni politiche per far valere la sua versione della verità. E solo dove la religione ha un ruolo secondario o è ridotta ad una pratica minoritaria, con una presa malcerta sulla società, che essa si presenta come essenzialmente pacifica e caritatevole. Questa è la ragione principale per cui risulta dannoso consentire alle religioni principali di farsi spazio l'una contro l'altra nella sfera pubblica. La soluzione è rendere tale sfera interamente laica, lasciando la religione all'ambito personale, come questione di intima osservanza. La società dovrebbe essere cieca alla religione, sia nel senso di permettere alle persone di credere e comportarsi come desiderano a patto che non danneggino gli altri, sia nel senso di agire come se le religioni non esistessero, con una gestione completamente laica della vita pubblica. La Costituzione degli Stati Uniti d'America sancisce esattamente questo principio, sebbene la lobby religiosa cerchi sempre di aprirsi un varco, agevolata dalle sovvenzioni governative di denaro pubblico per «iniziative a sfondo religioso». Secolarizzare la società nelle democrazie occidentali richiede almeno la sospensione o l'eliminazione del pubblico finanziamento finalizzato a privilegiare scuole religiose, organizzazioni e iniziative connesse (ad esempio rifiutando di riconoscerne lo status filantropico), e ponendo fine a programmi religiosi nelle pubbliche tele-trasmissioni. In Gran Bretagna questo significherebbe privare la Chiesa d'Inghilterra del suo carattere pubblico, abrogare leggi connesse alla bestemmia e al sacrilegio, assegnando la protezione della fede privata a forme di tutela che già trovano adeguata espressione in ambito giuridico.
Poiché la scienza e la tecnologia allontanano sempre più il
mondo moderno dalle antiche superstizioni in cui consistono
le religioni, e poiché i valori laici continuano ad esercitare una
sempre maggiore influenza, le conseguenti tensioni tra teorie
del nuovo e del vecchio mondo sono inevitabilmente destinate
a crescere. Il dibattito del XIX secolo tra scienza e religione
era una semplice scaramuccia a confronto dello scontro provocato dal grande
spazio pubblico concesso oggi non solo ad
una religione, ma a religioni in reciproca competizione. Il futuro dell'umanità
ha bisogno che la sfera pubblica diventi un
territorio neutrale in cui tutti possano incontrarsi, senza pregiudizi, come
esseri umani ed eguali; e questo richiede la massiccia privatizzazione delle
superstizioni.
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