Copertina
Autore Elio Grazioli
Titolo La polvere nell'arte
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2004, Sintesi , pag. 312, cop.fle., dim. 145x209x18 mm , Isbn 978-88-424-9025-8
LettoreFlo Bertelli, 2004
Classe critica d'arte , fotografia , sensi
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Indice


  1  1. La polvere tra sostanza e metafora
  7  2. Prime polveri in arte: da Leonardo a Baschenis
 25  3. Polvere del quotidiano
 41  4. Polveri moderne: il reale, l'esotico, il caos
 55  5. L'allevamento di polvere: Duchamp e Man Ray
 89  6. Giacometti e il minimo
103  7. Polveri informali: la materia e l'infinito
127  8. La polvere delle neoavanguardie
153  9. Polvere di polvere: Filliou
167 10. Pittura da fotografia: Richter e Celmins
183 11. Polvere e concetto
203 12. Aloni, ombre chiare e posti vuoti
217 13. Sporco e pulito, stelle e iperready-made
243 14. Dust memories
265 15. Altra polvere, altri luoghi
287 16. Pixel, virtuale e polverizzazione


297 Bibliografia
307 Indice dei nomi
 

 

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Pagina 1

1. La polvere tra sostanza e metafora


La metafora della polvere è evidentemente antichissima se già il Dio della Bibbia ne impasta un determinato quantitativo per realizzare il corpo del primo uomo. Da subito è legata all'origine, alla materia e al tempo. Siamo fatti di polvere, è la nostra stessa sostanza, e ad essa torneremo. Quando infatti Dio maledice l'uomo per aver commesso il peccato originale, glielo ricorda ribadendo: «infatti polvere sei e in polvere ritornerai». È la maledizione che colpisce il corpo, la parte materiale dell'uomo. Essa fa eco all'altra che Dio aveva scagliato poco prima contro il serpente: «Tu striscerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita», legando proprio attraverso la polvere il destino del serpente e quello dell'uomo. Materia prima del corpo, sua origine e sua fine maledetta, è materia prima anche della maledizione stessa, in parole come in sostanza, nelle pratiche magiche e superstiziose, negli scongiuri per sventarla e nelle pozioni per carpirne i poteri. A partire ancora da quel Dio della Bibbia, il quale simmetricamente rimedia alla prima maledizione attraverso un'espressione che di nuovo comprende la polvere, con cui stavolta benedice, e benedice l'umanità intera a partire da Giacobbe, legandola ora alla fecondità invece che alla morte: «La tua discendenza sarà come la polvere della terra. Ti estenderai a occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzogiorno. Tutte le nazioni della terra poi saranno benedette per te e per la tua discendenza».

Ma che cosa significa questo legame diretto della polvere con la vita e con la morte? Com'è a sua volta iniziato? Quale grado di realtà vi è sotteso? Quanto della metafora è nato dall'osservazione diretta, o vi si sovrappone e la interpreta? Certo l'apparenza non dice che l'uomo è fatto di polvere e gli antichi non potevano vedere che una buona parte della polvere è effettivamente composta d'uomo, della squamazione del suo corpo. È probabilmente l'osservazione che dopo la morte il corpo diventa un mucchio di materia indistinguibile dalla terra e dalla polvere ad aver fatto dedurre a ritroso la metafora in questione. Le metafore procedono dunque a ritroso? Comunque annodano senza fine realtà e immaginazione. Così lo stesso legame tra polvere e vita e morte attraverso la putrefazione proseguirà a lungo, di nuovo simmetricamente, nella credenza della cosiddetta generazione ex putri, cioè dell'origine di alcuni animali dalla putrefazione, dall'accumulo escrementizio e dalla polvere. Di essa c'è traccia almeno da Aristotele fino a Giambattista Della Porta, ovvero alla fine del 1500 e oltre. Che poi qualcuno, come Piero Camporesi, faccia notare che da tale credenza può essere derivata, per intrinseca opposizione, la concezione stessa del Paradiso come luogo incorrotto, imperituro, "impassibile", non fa che chiudere il cerchio o annodare un nodo che ritroveremo in diverse versioni.

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2. Prime polveri in arte: da Leonardo a Baschenis


Nelle arti figurative la polvere non ha fatto fin qui la sua apparizione, cosa sconcertante a ben pensarci, se si considera che il mondo non solo ne era pieno, ma probabilmente in modo ancora più palese di quanto lo sia oggi. Joseph Amato, specialista della polvere, ricostruisce e illustra bene quanta e che tipo ce n'era nell'antichità e nel Medioevo soprattutto rurale, anche se distingue troppo poco la polvere dallo sporco in genere. Alla fine deve a sua volta ammettere che nelle «opere d'arte la vita veniva raffigurata del tutto priva di polvere e di sporco, i dolorosi e rozzi compagni della vita contadina». E prosegue, anche cronologicamente: «Le botteghe degli artisti erano i laboratori sperimentali del preciso e del delicato. Nel Quattrocento gli artisti erano i più acuti tra gli osservatori. Elaborarono sistemi per osservare e rappresentare meglio il mondo. Fecero tutto il possibile perché la luce entrasse nelle loro botteghe sovraffollate d'oggetti e d'allievi e si posasse sulle tele. Leonardo distingueva tra l'illuminazione necessaria al pittore e quella adatta per lo scultore. Parlò della luce migliore per il disegno della natura dal vero. Gli artisti idealizzavano una natura scevra da polvere e sporco, mostravano con precisione i contorni del corpo umano e rappresentavano animali, piante e città. Cercavano l'interiorità di un individuo nei particolari del volto - lo sguardo, la curva di un labbro. Per raffigurare esattamente la natura perfezionarono la rappresentazione dei volumi, s'impadronirono delle tecniche prospettiche, estesero la tavolozza dei colori e ampliarono la propria capacità di restituire le sfumature. Queste abilità li resero padroni del microcosmo».

Che la stessa prospettiva rinascimentale debba dunque qualcosa, fosse pure in negativo, alla polvere? Sarebbe un fatto per molti versi ben curioso: la prospettiva come reazione al mondo polveroso e confuso? come sublimazione, o addirittura denegazione, dello sporco invasivo? come pulizia della visione? In effetti l'associazione tra geometria e pulizia avrà un lungo corso senza smentite, ma in realtà l'alternativa si ripropone in altri termini, a un altro livello. Non tanto: o la polvere o la prospettiva, o il mondo bidimensionale della polvere o quello tridimensionale della prospettiva, ma piuttosto: o vedo la materia della superficie o vedo la tridimensionalità trasparente, aerea, dello spazio; ovvero: o vedo la bidimensionalità e la materialità del segno - all'occorrenza il pigmento delle linee stesse del tracciato prospettico - o vedo la sua illusione spaziale e iconica. Così espressa è allora un'anticipazione della posizione modernista sull'autonomia del segno e della forma di cui avremo occasione di riparlare a lungo.

Se di essa non è riscontrabile traccia esplicita né nell'arte né negli scritti teorici rinascimentali, sottende forse il pensiero leonardesco e in ogni caso riemergerà significativamente reale e pertinente di lì a poco, quando la polvere apparirà finalmente in pittura, sugli oggetti delle Vanitas e delle nature morte - ulteriore passo appunto di quell'autonomia che si manifesta anche nella formazione dei "generi" e nello scollamento dal simbolismo.

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5. L'allevamento di polvere: Duchamp e Man Ray


È con Marcel Duchamp che la polvere assume un ruolo determinante e prende una forma e uno sviluppo nuovi e imprevisti. La ragione è che essa entra ora nell'opera non più in forma figurata, rappresentata, ma direttamente come materia.

Nell'opera di Duchamp la polvere ha una parte minore, ma insieme eccezionale e particolarmente significativa. Una parte eccezionale, perché stupefacente nel suo dare rilievo a un elemento così minimo, così sfuggente, intrattabile, così altrimenti impensato; tanto eccezionale inoltre che pensare alla polvere dopo di lui significherà nella maggior parte dei casi dovercisi comunque confrontare, come in effetti quasi tutti gli artisti hanno realmente fatto, come vedremo, e spesso fare i conti con l'intera "questione Duchamp".

Una parte minore, dicevamo, in un insieme, come è l'opera di Duchamp, che è come una rete, in cui ogni momento è un nodo di rimandi che condensa ogni volta in sé tutto il senso, o uno dei sensi profondi, e allo stesso tempo lo connette magistralmente a tutti gli altri elementi, in modo da permettere di ricostruire la totalità da qualsiasi punto si parta. Questo, inoltre, secondo un modo suo particolare e unico che non fa tanto pensare a un progetto, cioè a un disegno stabilito in precedenza e seguito nel suo svolgimento coerente, quanto piuttosto, in maniera rovesciata, a un'attenzione che si applica di mano in mano e a posteriori, che ricostruisce cioè e lega all'indietro i passi compiuti, un'attenzione tesa a integrare nel suo percorso non più solo le ragioni della volontà, le intenzioni, il voler-dire, ma anche il caso, l'accadimento, e l'inconscio infine - tutti temi centrali dell'opera di Duchamp -, stringendo in maniera inedita il rapporto tra arte e vita, tra opera e biografia. Anceh questo, certamente, ha a che fare con la polvere.

I riferimenti diretti alla polvere nell'opera dell'artista sono di fatto pochi, ma appunto nodali. Cominciamo con l'elencarli. Il più noto e centrale è naturalmente la fotografia intitolata Élevage de poussière, fatta materialmente realizzare da Man Ray. Nel titolo francese, si noti, è contenuto un gioco di parole sul termine "élever", che significa sia allevare che elevare, che va perso nella traduzione italiana del titolo, Allevamento di polvere. L'immagine si riferisce infatti alla polvere che Duchamp ha lasciato, anzi voluto - e per questo "allevato" - che si depositasse a lungo sopra la sua opera nota come Grande Vetro stesa orizzontalmente su due cavalletti.

Il cosiddetto Grande Vetro - il cui titolo per esteso è La Mariée mise à nu par ses célibataires, meme, ovvero La Sposa messa a nudo dai suoi celibi, anche, titolo tanto enigmatico quanto l'opera stessa - è, ricordiamo, la grande pittura su vetro che impegnò Duchamp direttamente e indirettamente dal 1912 al 1923, data in cui l'artista decise di lasciarla "definitivamente incompiuta", per dirla con un altro dei suoi costanti giochi di parole. Essa rappresenta in forme e raffigurazioni del tutto ermetiche e particolari una sorta di epopea erotica, enunciata nel titolo, dai molteplici risvolti allegorici e metaforici. C'è chi ha letto infatti la spogliazione della Sposa come un racconto allegorico del processo alchemico, chi come la metafora più elaborata e compiuta della vita, chi dell'arte e chi di altro ancora, tutti significati naturalmente per molti aspetti inevitabilmente a loro volta connessi tra loro.

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Dunque la polvere ha un particolare rapporto sia con il tempo che con lo spazio. Con quest'ultimo ha un rapporto distorto, anamorfico, come la stessa fotografia di Man Ray mette sufficientemente in evidenza con il suo taglio, la sua inquadratura bassa, laterale, forzata. Il cadere della polvere infatti, per Duchamp, ha più a che vedere con la caduta dei Rammendi-tipo che con quella della fisica tradizionale. I Rammendi, si ricorderà, materializzano una diversa unità di misura, ugualmente lunga un metro ma determinata dalla disposizione "casuale", in tre variazioni, derivante dalla caduta di un filo di un metro dall'altezza di un metro. Come si misura uno spazio con queste nuove unità di misura? Certamente non in maniera euclidea, ma piuttosto in un modo differente, più "proiettivo" o "topologico" ribadisce Lyotard («Ma cosa succede se il geometra si fa prendere dall'eterogeneo? Se la sua curiosità si sposta sulle grandezze continue, precisamente sul fatto che non si lasciano misurare le une dalle altre, che la loro sovrapposizione è impossibile, "che non sono indipendenti dalla loro posizione"? Allora si sviluppa, a partire dall' Analysis situs, la topologia, macchina geometrica funzionante "all'inverso", non per commisurare ma per smisurare») o "distopico" («fluttuazione dello spazio tra due posizioni incongruenti o tra due dimensionalità; distopia»). Oppure ci si può riferire anche alla tematica della" quarta dimensione", già ben ripresa dall'analisi di Jean Clair, come dimensione altra, non semplicemente aggiunta, né assolutamente immaginaria, ma di nuovo incongruente, nel senso lyotardiano, derivato da rovesciamenti, specularità, enantimorfismi e "tagli" irriducibili al loro punto di partenza, alle dimensioni "reali". In questo senso lo stesso Grande Vetro è interpretabile come la captazione sulla sua superficie trasparente di immagini "anamorfiche" proiettate da una dimensione altrimenti invisibile, inafferrabile.

In questo senso la polvere rimanda anche all' inframince, l'"infrasottile", dimensione al limite della percezione nei fenomeni al limite della materialità: «Quando il fumo del tabacco ha anche l'odore della bocca che lo esala, i due odori si sposano per infrasottile. [...] Il rumore o la musica prodotti da un pantalone di velluto a coste, come questo, quando si respira, è dell'ordine dell'infrasottile. L'incavo della carta, tra recto e verso di un foglio sottile... Da studiare». L'infrasottile è la dimensione del passaggio, non solo dell'ana-morfosi ma della meta-morfosi: «Il possibile che implica il divenire - il passaggio dall'uno all'altro ha luogo nell'infrasottile». Opera di un Duchamp transformer, il Grande Vetro è macchina di trasformazione, certo dissimilante-deformante-disgiuntiva-irreversibile: questa è la tesi principale di Lyotard.

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In termini filosofici, strettamente legati alla polvere, cui ha dedicato in questo senso un intero volume, Paulo Barone espone la questione come segue: «Per vedere il passare che è la polvere - affinché la Pulvis sia percettibile - occorre sfocare, deformare lo sguardo. In altri termini: per quanto la polvere passi da "dentro" a "fuori", da ricettacolo a briciole singolari, essa resta sempre all' interno del movimento metaforico senza esservi integrata. Essa attira l' attenzione del movimento come può farlo una zona d'ombra che si suppone nasconda chissà cosa; ma, da un lato, fa fallire il suo riconoscimento sottraendosi al "trasporto" - la Pulvis non è una classe speciale di oggetti; il movimento pare a questo punto bloccarsi, non potendo andare né avanti né indietro -. Dall'altro lato, la Pulvis, poiché sotto forma di scarti uniformi e singolari sembra simulare delle cose, impedisce al movimento di passare oltre, di distogliersi da ciò che non potrà mai trovare e trattenere. Il tentativo vano di identificazione delle briciole finisce così per ripercuotersi sul corpo figurato della metafora sfigurandolo». Barone ci restituisce una sorta di anamorfosi del tempo: «Ciò che si sfigura, che fermandosi si deforma, non può essere né questa né quella cosa particolare, né questo né quel segmento o settore individuale ma, corrispondentemente alla Pulvis che non è un oggetto specifico, tutto il movimento. In tal senso è lo stesso infinito andare al completo a farsi "materiale" di polvere, a ridursi in polvere».

Duchamp però non ci sembra avere questa dimensione del "ridursi in polvere", che ritroveremo e seguiremo in altri, cosicché - e non sarà un caso - non pare esserci in lui dimensione della fine e della morte, cui conduce invece di seguito la riflessione di Barone. Resta tuttavia che quando egli parla di "far la parte del morto", ancora torna in mente il particolare ordine temporale della fotografia che stiamo indicando da vari punti di vista: «La fine, la paralisi mortale del movimento non coincide con la sua conclusione: "allorquando" il movimento è finito, non tutto è concluso poiché "comincia" a rendersi visibile - a suo modo - la fine stessa. Tale fine esula da quella "conclusione" che stabilizza e definisce l'identità del processo metaforico (benché non stia da un'altra parte rispetto a quest'ultimo, ma lo riguardi specificamente). Quando compare la fine, il movimento non può essere lì ad osservarla, non può in alcun modo "contarci" come se grazie ad essa potesse dar vita ad un nuovo corso e intraprendere una nuova esplorazione. Al contrario la comparsa della fine implica che il movimento faccia "la parte del morto", che si rigiri su se stesso e si presti ad un gioco insostenibile per lui "da vivo"». Non è l'istante della fotografia questo reale registrato, questo tempo e spazio bloccati, la dimensione del "fare il morto", del non-esserci-più mentre è lì in immagine che attesta il suo essere-stato, e insieme non è mai stato davvero se non in immagine ("insostenibile da vivo")? L'istante fotografico è un taglio nel continuum, non un momento reale; è reale per l'effetto di realtà che produce nella sua versione in immagine, in registrazione, in linguaggio. Non per niente l'argomentazione anche in Barone risuona allora un poco lacaniana, come in effetti a noi pare che sia la logica dell'impossibile, e dunque poche righe dopo può parlare direttamente di un passare impossibile, di "passi impossibili", e continuare con un ulteriore tema che è quello della "passività", che è di nuovo duchampiano e lacaniano insieme.

Della polvere viene perciò messo in evidenza il carattere di "materiale inerte", ricettivo, che in sé non è niente e insieme è aperto a tutte le forme, a tutti i segni, strato residuo che può «conservare l'impronta di tutto ciò che metaforicamente è stato senza aver nulla perduto, come un immenso deposito o un'immensa matrice virtuale di ricostruzione». Barone avanza una definizione che calza perfettamente a polvere e a fotografia - e a ready-made? - e che egli allarga in realtà, nella piega del suo discorso, allo spazio estetico intero, che si comporta dunque «come un'enorme superficie sensibile atta a lasciarsi impressionare». Questa "impressionabilità", questa ricettività, disponibilità, apertura, ma insieme attenzione totale e retrospettiva, che osserva e raccoglie le "impronte", le conserva e collega, è la prassi stessa di Duchamp. È una "passività" intesa come ruolo attivo del silenzio e del vuoto, della pausa e dell'intervallo, del "posto del morto", della posizione che attende e chiede di essere occupata, ma chiede e comporta insieme pazienza, riverenza e indifferenza. La polvere è di tutto questo corrispettivo mirato, non semplice metafora, spesso piuttosto metonimia.

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6. Giacometti e il minimo


«La polvere è un risultato della divisibilità della materia», ricorda Amato. E ribadisce: «La polvere è all'interno di tutte le cose, che siano allo stato solido, liquido o gassoso. Assieme all'atmosfera forma l'involucro che media l'interazione della terra con l'universo. Vola alta sopra le più alte montagne e attraversa gli oceani. Riempie l'aria tranquilla all'interno delle case e quella turbinante delle strade. Si posa ovunque, su oggetti naturali e artificiali e sul corpo umano. La polvere più fine - polvere che può penetrare nei pori della pelle dell'uomo - si posa infine sui fondi abissali degli oceani». E ancora: «Cade assieme a ogni goccia di pioggia e a ogni fiocco di neve, e nell'arco di un anno può accumularsi a tonnellate sui tetti di una città. Anche nelle condizioni più asettiche, è stato stimato che "vi siano più di mille minutissimi granelli di polvere ogni quindici centimetri cubi d'aria". La polvere è ubiqua perché è prodotta da tutte le cose».

La polvere è ovunque, la sua caduta è continua, senza sosta, inesorabile. Inutile infierire con una pulizia maniacale, il compito ha l'aria di essere infinito e inestinguibile: sorta di Sisifo del minuscolo, del microscopico, lo spolveratore accanito è quasi un condannato. Non che, al contrario, non ci sia stato chi dello spolverare abbia fatto la metafora del piacere assoluto. Ha scritto Péguy nel Victor-Marie, comte Hugo (1910): «Sanno bene che anch'io, io come loro, io tra loro tutte le mattine per ore innumerevoli, alla stessa ora da bambino ho instancabilmente ritualmente spolverato gli stessi mobili incerati con uno straccio fino a potervisi vedere perfettamente, fino al perfetto specchiarvisi, fino a perfetto esaurimento della polvere e degli aloni. Sanno anche che conosco come loro, con loro, tra loro, che ho come loro in loro provato questa gioia tra le piú grandi che mi sia mai stata data, che sia mai stato dato all'uomo di conoscere. Una gioia perfetta, intensa, totale; un massimo; senza ritorno, senza rimpianti, senza rimorsi; senza un punto di polvere, senza un atomo di rimpianto, senza un'ombra di ombra. Una pienezza, una perfezione, una totalità. Una pienezza. Un appagamento perfetto».

Ma «la natura è un'immensa squamazione» conferma Hennig, e ne trae tutte le conseguenze: «Perché preoccuparsi di esseri così inconsistenti, così incostanti? È che, precisamente, questa erranza, questi turbini, questo stato di transizione permanente rendono la polvere ancora più bella. Perché ciò che dice la polvere è che tra la morte e il niente c'è sempre un residuo. Uno spessore fatto di quasi niente. [...] E non è niente essere quasi niente. Una polvere può inceppare un meccanismo, frenarlo, bloccarlo, ostruirlo. Una polvere può inceppare il mondo intero».

Alberto Giacometti ha vissuto nella polvere. [...]

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Pagina 97

Giacometti, nelle sue sculturine centimetriche, è prigioniero di questo paradosso - percezione versus vita, visione versus materia - che non può essere vinto, né d'altro canto ignorato, cancellato o trasceso. Esso va assunto, come carattere precipuo del fare e del comprendere, perché è proprio in esso che si rivela alfine il senso, ma solo quando la grana diventerà materia di ogni scultura: «Ora che vuole incontrare qui addirittura il "prodigioso" della vita, non può più sognare di disfarsi in questo modo illusorio della materia che la grava, e quindi coraggiosamente decide di lasciare bene in vista le asperità, le scorie della massa oscura» In un'espressione fulmineamente sintetica: «Giacometti mette la materia in piedi».

Tutto questo non vale solo per la scultura, più direttamente implicata dalla polvere, ma anche per la pittura di Giacometti, naturalmente, che vive nella e della stessa condizione. Il suo rimando alla polvere è evidentemente nel suo colore dominante, il grigio, colore della polvere, che ne assume il medesimo complesso significato. «Una fangosa pozzanghera di grigi diversi», scrive Genet per definire la sua tavolozza, e avrebbe altrettanto bene potuto dire "polverosa pozzanghera". Colore dell'insieme dei colori ma anche della loro progressiva eliminazione, il grigio è il "corrispondente" della vita stessa: «Se vedo tutto in grigio, e questo grigio ha in sé tutti i colori che ho sperimentato e che voglio riprodurre perche allora dovrei usare un altro colore? Ci ho provato perché non ho intenzione di dipingere solo in grigio. Ma mentre lavoravo ho dovuto eliminare un colore dopo l'altro, e che cosa è rimasto? Grigio! Grigio! Grigio! La mia esperienza mi dice che il colore che sento, che vedo e che voglio riprodurre significa la vita stessa per me; e se uso un altro colore al suo posto, la distruggo completamente. Il rosso che infilo violentemente sulla tela, la rovina, per il semplice fatto di togliere spazio ad un grigio, che invece vi appartiene...». Così, anche in pittura un segno dopo l'altro, piccoli tratti che si accumulano, fanno e disfano in continuazione, cercano la somiglianza e la perdono a ogni istante, mirano al dettaglio e mancano l'insieme, delineano l'insieme e non riconoscono più l'individuo: «Io non riconosco più le persone a forza di vederle. [...] Quando mia moglie posa per me, in capo a tre giorni non si somiglia più. Non la riconosco assolutamente più».

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Pagina 110

Ma seguiamo più da vicino il procedere e la riflessione dell'artista stesso intorno alla polvere. Dubuffet ne parla in particolare in un testo intitolato appunto Impronte: «Nella prima fase dei miei lavori, verso la fine del 1953 [...] usavo soprattutto la spazzatura raccolta nella stanza di cucito di mia moglie, in cui abbondavano pezzetti di filo e piccoli frammenti mescolati a polvere; ma non disdegnavo altri ingredienti presi dalla cucina: sale fino, zucchero, semola o tapioca. Un buon servizio mi resero anche certi elementi vegetali, tratti dalle verdure che di mattina andavo a cercare alle Halles nei mucchi d'immondizie. In seguito feci ogni sorta d'esperienze con foglie morte, manciate di fili d'erba e mille altre cose, ma alla fine mi resi conto che i mezzi più semplici e più poveri sono sempre i più ricchi di sorprese e così andai avanti senza tanti espedienti».

Dubuffet mette dunque in gioco i temi fondamentali sia della polvere che del proprio lavoro: la polvere è materia dimenticata, semplice, povera, comune, trascurata, volgare, screditata, da riabilitare, come egli intende sempre fare con la propria opera; la polvere non ha forma definita; la polvere è il diverso, diverso da noi uomini, ha voci proprie, ha un'anima: è più che un semplice materiale, è una di quelle materie che rendono a Dubuffet sempre interessante e importante la pittura come attività non antropocentrica, antiumanistica anzi, che vuole uscire dall'antropormorfismo. Continua infatti: «Mi è sempre piaciuto, è quasi un vizio, fare i miei lavori con i materiali più comuni, quelli a cui non si pensa mai perché sono troppo volgari o vicini e sembrano quindi inadatti ad un uso qualsiasi. Posso dirlo ad alta voce, la mia arte si propone la riabilitazione dei valori screditati. Proprio per questo mi interessano più degli altri gli elementi che abitualmente si sottraggono al nostri sguardi in virtù della loro stessa diffusione. Le voci della polvere, l'anima della polvere, mi incuriosiscono mille volte più del fiore, dell'albero o del cavallo, giacché li sento più strani. La polvere è qualcosa di tanto diverso da noi. Già soltanto questa assenza di forma definita... si può desiderare di mutarsi in albero, ma mutarsi in polvere - in qualcosa di tanto continuo - sarebbe ben più attraente, Che esperienza! Che informazione!».

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Pagina 217

13. Sporco e pulito, stelle e iperready-made


«"Vede, - disse l'uomo seduto di fronte a me nel treno, - io mi occupo di polvere, nient'altro che di polvere", e lo disse con una finta di nostalgia di non essersi occupato di cose più consistenti, in realtà lasciando intendere che la polvere era un universo ricco e variegato, del quale certamente io non sapevo nulla. "Immagino che per lei la polvere sia soltanto un fastidio, trascuratezza e invecchiamento del mondo, invece è piena di novità"». È lo strano incontro in treno del protagonista del racconto L'orecchio assoluto di Daniele Del Giudice a parlare, e subito procede a distinguere con l'esperienza del professionista: «C'è una buona parte di polvere che arriva dallo spazio, pulviscolo cosmico, infinitesimi granelli di comete e di meteoriti che ricadono sulla terra, così il pianeta aumenta di peso ogni anno, ogni anno la terra pesa diecimila tonnellate in più, diecimila tonnellate di polvere. Ma questa è polvere nobile, o almeno la parte nobile del mio mestiere, e ogni tanto noi che facciamo questo mestiere ci ritroviamo a Edimburgo e per qualche giorno parliamo delle novità che la polvere ha portato, come se una voce del cosmo lanciasse notizie attraverso un afflato di polvere». Questo per la parte nobile, stellare, polvere di stelle in senso letterale, proveniente dal cosmo. Quindi prosegue nella distinzione: «Naturalmente c'è una polvere meno nobile, e una parte meno nobile del mio mestiere. È la polvere che si aggomitola sotto i letti, dietro gli armadi, lungo le prominenze dei muri. La polvere delle case è più difficile da decifrare perché più multiforme, ma quante notizie ci sono lì, notizie di chi vi abita; inconfondibili come un'impronta digitale». La polvere è informazione, basta analizzarla, entrare nel dettaglio della sua composizione, proseguire nelle distinzioni: «Molta polvere non appartiene alla casa, viene da vulcani che eruttano o foreste che bruciano in altri continenti, la porta il vento, ma il resto la produciamo noi, lei e io e tutti gli altri facciamo migliaia di tonnellate di polvere, e io mi occupo anche di questa, ogni fiocco lanuginoso è diverso da un altro, dipende dalle abitudini dei padroni di casa, basta saperla leggere la polvere, ingrandita migliaia di volte è come un bosco con tronchi liane e rocce, e una miriade di animali. È il mondo degli acari, vivono lì a milioni, senza occhi, con zampette acuminate, un unico blocco che forma il tronco e la testa. Se ne stanno lì, in attesa delle squame della nostra pelle».

Il protagonista del racconto, da parte sua, contrappone un'esperienza diversa: «Della polvere, se proprio dovevo pensarci, io ricordavo il piacere nell'inghiottirla col bocchettone dell'aspirapolvere aprendo un solco di pulito nei tappeti come un campo arato, vera e propria resurrezione del pelo, e quella resurrezione della casa dalla polvere non dico che fosse una resurrezione anche per me, ma ne ricavavo una certa quiete. Provai a parlarne al mio compagno di viaggio, lui rispose ironico: "Lo so, avete tutti la mania delle pulizie di casa, non fate che spolverare e tirare a lucido, voi italiani più di tutti. Non potreste acquietarvi in un altro modo? Per fortuna la polvere non si distrugge, la si sposta soltanto con ingenui strumenti come il suo, e appena uscita dalla casa o dal camion che la scarica da qualche parte ritorna in circolo. Mi creda, della polvere non ci si libera mai"».

Sono così messi uno di fronte all'altro i due aspetti della polvere rispetto alla pulizia, all'igiene, che significa rispetto alla forma - là dove uno parla di lettura e interpretazione, l'altro parla di aratura, antica metafora della scrittura - e insieme rispetto al mondo stesso e alla vita, visto che l'uno parla del particolare "mondo degli acari" e l'altro addirittura di "resurrezione". Il tutto, si noti infine, nella cornice disegnata dall'affermazione che comunque della polvere non ci si libera, che essa è infinita, indistruttibile, solo spostabile, ritorna sempre in circolo - come il senso, a noi viene da ribadire.

Sono termini entro i quali possiamo a nostra volta incorniciare altre occasioni di raffigurazione della polvere nell'arte degli ultimi anni, ricalcando lo schema della contrapposizione sporco/pulito che è effettivamente emersa sopra le altre in nome di scelte estetiche che hanno voluto rivedere appunto il significato di questi stessi termini. Che cosa significa sporco oggi? Se ne misuri la posta in gioco attraverso il dibattito che ha percorso gli anni novanta intorno all'"informe" e al "trash". Se lo sporco si carica della valenza di informe, un conto è che sia inteso secondo l'accezione oppositiva batailliana, rilanciata da una frangia più critica e radicale dell'arte postmoderna e ripresa come già ricordato, dai critici Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss, un conto è la sua accezione scandalistica e provocatoria di trash, e un conto è ancora la versione dialettica che ne dà Georges Didi-Huberman. Sporco-informe, al di là di queste differenze di merito, significa per tutti detrito, scarto, rifiuto, entropia, il "basso" contro l'"alto" in tutte le loro accezioni, dal materialismo contro la sublimazione spiritualista alle espressioni più popolari e al kitsch contro la cultura accademizzata e il preteso buon gusto, dall'orizzontalità contro la Gestalt alla parzialità contro il pensiero totale, sistematico e gerarchizzante, al movimento palpitante contro la stasi, all'eterogeneo in ogni sua specie contro l'omogeneizzazione.

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Pagina 287

16. Pixel, virtuale e polverizzazione


Una polvere notturna, finale, doppia, cala anche sul nostro racconto. Evochiamola - polvere e spolverare come tutta una vita - con le parole della poetessa Lucetta Frisa:

    Volevo scrivere un poema sulla polvere
    come un'immensa spolveratura
    mi avrebbe lasciato più quieta forse
    un po' meno ansiosa ma quando
    si parte dal grande non si raggiunge nulla
    neppure una sillaba bisbigliata.
    Cominciamo dall'inizio: io, la casa e la polvere
    - tutti i giorni.
    Non ho mai capito se spolverare sia evocare
    condurre ieri qui davanti a me
    come un immutabile cristallo togliere
    via i miei secoli dimenticata eternamente.
    Sempre ho immaginato la polvere scendere di notte
    sopra il naso dei mobili su tutta la pelle della casa
    scendere al buio così non si può mandarla indietro.
    Forse spolverare è un atto duplice come quando si nasce
    e si comincia subito a svegliarsi o a dormire
    secondo i punti di vista.
    Anche la gatta lecca i suoi gattini appena nati.
    Appena nati si incomincia subito a fare pulizia
    di grembi precedenti gusci vuoti minuti vecchi
    e non si smette più di trafficare -
    rallentando o accelerando
    lo spolverìo.

Esaurita in effetti la sfilata delle polvei reali, dirette, in arte, non ci restano che un paio di obbligate polveri reali e metaforiche attualissime, con risvolti artistici ed estetici ma ancora tutti da verificare. Entrambe disegnano un presente polverosissimo e polveratizzatissimo insieme, entrambe profilano dei paradossi tra polvere reale e polvere metaforica, nonché tra polvere e polverizzazione.

Non c'è in effetti mondo realmente meno polveroso, anzi più al riparo dall'intrusione della polvere reale, del mondo cosiddetto "virtuale", di Internet. Certo la polvere non entra nell'universo digitale, numerico, tutto linguaggio, del Web, culmine attuale dell'anestetizzato mondo matematico, eppure niente è più polverizzato: la discontinuità stessa dei segni digitali, veri e propri granuli, nonché l'effetto di polverizzazione della comunicazione, dell'informazione, dei rapporti, non sono mancati di commenti.

Il più famoso è probabilmente quello del "dromologo" Paul Virilio che dal punto e dal granulo ci ha accompagnati al quantum, al pixel e al frattale, dunque dalla geometria classica euclidea alla tecnologia elettronica attuale passando per la rivoluzione moderna della fisica, per la messa in discussione delle dimensioni fisiche, delle quantità, delle misure, degli stati definiti. Il passaggio va insieme a una smaterializzazione di fatto che identifica nel punto non l'unità, l'atomo di materia, il grano di sostanza, ma lo zero, la dimensione imprendibile, il minimo immaterializzabile. Ciò che è in gioco è in effetti l'uscita dalle "dimensioni analogiche sorpassate", è la messa in discussione delle categorie preelettroniche: «Accostiamoci alla terza costante della fisica moderna, la costante di Max Planck, che sostenne, nel 1900, che l'energia radiante ha, come la materia, una struttura discontinua e non può esistere che sotto forma di granulo [...] punctum, quantum: con il principio di Heisenberg e la nota costante di Planck, si dissolve non solo la differenza tra materia e luce, ma vengono invalidate le nozioni di spazio e tempo. La crisi delle dimensioni fisiche del mondo sensibile, nell'era delle telecomunicazioni elettroniche, è anche crisi del continuum intelligibile». La polverizzazione è, l'abbiamo già visto sotto molti aspetti, l'emergere del discontinuo, del discreto.

La tecnologia elettronica fa il resto: basata su questa nuova fisica, ha trasformato il mondo in maniera corrispondente a essa a tutti i livelli, comunicazionale prima di tutto, perché il reale qui è già postreale, il mondo e gia fisicamente, o meglio postfisicamente ridotto, cambiato e svelato come immagine, ma appunto un'immagine nuova, digitale, cioè formata dal punto elettonico-luminoso: «il punto "luminoso" ha assunto, nelle nuove rappresentazioni della forma-immagine del mondo sensibile, il ruolo del "punto di fuga" dei prospettivisti o, meglio, il punto luminoso è divenuto il punto di fuga della velocità della luce, il nonluogo della sua accelerazione, accelerazione (fotonica, elettronica...) che contribuisce a dimensionare oggi gli spazi infiniti, come il punto senza dimensione della geometria greca arcaica era esso stesso servito al dimensionamento del mondo finito, alla numerazione aritmetica e matematica, alla formulazione geometrica e geografica della forma-immagine del "globo planetario"».

Il punto luminoso nella rappresentazione in immagine elettronica è il pixel. Il pixel è un punto che va al di là della sostanza, è un punto-azione, vettore, velocità: «la rappresentazione pratica è ora effetto di una sorta di meccanica puntica (alfanumerica), che, se sembra sacrificare le capacità della memoria di trama delle classiche coordinate cartesiane, poggia nondimeno, ed in modo essenziale, sulle video-prestazioni di un punctum d'azione, il pixel (o punto luminoso dell'ottica elettronica), dando come risultato la forma-immagine sintetica dovuta non solo alle proprietà del programma del software, ma anche, e soprattutto, al vettore-velocità d'effettuazione, vettore-velocità delle particelle elementari (elettroni)». Il pixel è infine un punto-informazione, un punto ingestibile se non attraverso l'informatica, la nuova scienza al di là della materia: «la telerivelazione via satellite fa riferimento ad una unità di misura, il pixel, piccolissima parte dell'immagine, che corrisponde in qualche modo al grano fotografico [...] Una tale profusione di informazioni non è controllabile che attraverso l'informatica e, di conseguenza, si approfondisce lo scarto fra il sensibile e l'intelligibile».

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