Copertina
Autore Angela Green
Titolo La verità di Cassandra
EdizioneVoland, Roma, 2005, amazzoni 30 , pag. 252, cop.fle., dim. 144x205x16 mm , Isbn 978-88-88700-46-5
OriginaleCassandra's Disk [2002]
TraduttoreMartina Rinaldi
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa inglese
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Pagina 9

Aghios Georghios, Itaca

21 settembre 1999, ore 11:00

Stanno arrivando dal corridoio con il mio tè. Earl Grey. Una tazza di fumante bergamotto ogni due ore. Il dottor Mike approva questo piccolo piacere, e anch'io. Il vapore profumato mi sale caldo sulla fronte. Quando sul fondo sono rimaste solo le foglie sistemo il mio portatile sul lenzuolo inamidato e guardo il cursore che lampeggia. Non porto anelli, le mie dita sono ossute e scure; stranamente, si posano sulla tastiera a sillabare la parola che meglio descrive il loro nuovo aspetto: S-N-E-L-L-E.

Cominciamo.

Sì, ma da dove? E come?

Dopo aver guardato il mondo attraverso un obiettivo per anni, la prima cosa che vedo sono fotografie, un album. Si apre con l'immagine di una bambina grassa, e del suo sguardo torvo in seppia. Più in là trovo le istantanee in bianco e nero dell'infanzia con i bordi merlettati, gli anni dell'adolescenza a colori pastello un po' scoloriti dal sole. E alla fine le immagini digitali, scintillanti come aghi di ghiaccio...

Ma no. Le fotografie non bastano. La memoria è troppo labirintica e vasta per entrare nell'occhio di una sola lente, chiede a gran voce un orizzonte più ampio: l'infinita latitudine e longitudine delle parole.

Le dita si allungano sulla tastiera, pronte a dar forma alla prima, confusa riga del mio passato più remoto...

Mi ricordo

Più lontano...

Mi ricordo

Più lontano

Mi ricordo

Sì.


Mi ricordo di una fragorosa tempesta sopra Hampstead la notte che siamo nate, come il suono di un tamburo annunciante.

Ah! Lo vedi... la prima bugia!

Ehi. A trentanove anni i miei ricordi sono ancora ricchi e colorati come un libro di preghiere medievale, non posso sempre fare appello alla chiaroveggenza del mio nome. (Anche se sono nata con un dono per scalare le pareti della mente altrui e spiarne i pensieri, cosa che di tanto in tanto si è rivelata utile). Ma tornare indietro fino al momento della mia nascita? Complicato, anche per me.

– Pensi che parlare con qualcuno sarebbe d'aiuto? – chiede suor Andrew, con gentilezza. – Magari non un prete, anche se padre Gregorio a Cefalonia è un ottimo ascoltatore.

Oh, per favore.

Ci sono altri modi per aggirare il problema. Il mio è questo: invece di limitarmi a quel che può essere ricordato, ogni volta che la memoria sfuma metterò lievemente più a fuoco la mia immaginazione. Episodi e conversazioni sconosciute si appuntiranno in obbediente chiarezza, e io potrò guardarmi indietro, con prescienza.

Capito?

In altre parole, vi metto in guardia: potrei mentire un po'.

A volte anche di più.


E allora.

Ricominciamo.

Dov'ero?


Dove sono?


NASCITA

Trentanove anni fa. Sto volando sopra Londra con alcuni pigri falchi in una buia mattina di maggio, e guardo raccogliersi le nuvole.

Senti. È un tuono? Guardo giù verso il mosaico di strade e trovo l'ospedale. Era ancora lì l'ultima volta che sono andata a Hampstead. Illuminalo meglio, adesso. Eccolo. Lo vedi?

Le sei del mattino. Il cielo si scurisce fino a un color prugna e Denise Byrd sta urlando, mentre i lampi si scagliano nel giardino dell'ospedale. Fuori dalla finestra della sala travaglio l'aria bruciata sa di pericolo. Mia madre si passa le mani nei capelli biondi bagnati di sudore e urla a ogni nuova contrazione, che arriva pesante come una pressa idraulica.

– Ecco il primo bambino – dice l'ostetrica (il suo nome si perde nel tempo, come possiamo chiamarla? Atkins, penso: un nome familiare e rassicurante e quindi un nome che mia madre avrebbe istintivamente disprezzato). — Bene. Adesso spinga. Spinga signora Byrd, cara, forza. – L'ostetrica guarda l'orologio. Ancora un'ora e sarà di ritorno nel suo appartamento di Swiss Cottage, a spazzare l'acqua dal balcone e a dar da mangiare ai gatti. – Forza, cara, un ultimo sforzo che ci siamo quasi. – I tipi presuntuosi come mia madre sono i peggiori per loro, con tutto quel piagnucolare indignato. La Atkins lancia uno sguardo ai due dottori che stanno parlando in disparte e poi dà un colpetto a mia madre, sul piede appoggiato alla staffa.

– Avanti, cara, una bella spinta.

Stringendo i denti, Denise si solleva per lo sforzo. Una testa larga e scura avanza inesorabile, tirando e spingendo.

Sono io!

Denise sente che la sua carne morbida si strappa pezzo per pezzo. Afferra la maniglia di metallo e grida più forte del tuono, desiderando con tutta se stessa, quasi ordinandomi, di farla finita. Ma io vado avanti, come è giusto che sia, e tiro, e strappo. Fare largo! Tratteniamo tutti il respiro. Passano minuti, anni, secoli in apnea, e alla fine un umida massa rossa scivola dal corpo di mia madre e le si ferma in mezzo alle gambe.

Eccomi qui!

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Pagina 66

La mattina di Natale i ragazzi spalancarono la porta e ci tempestarono con le bucce d'arancia e la carta argentata che avevano trovato nelle loro calze. Helen restò ferma, girata verso il muro. Mentre io, tardiva eroina, mi tiravo su il pigiama, caricavo lungo la stanza e ricacciavo gli invasori sul pianerottolo con l'aiuto del cuscino.

– Fuori, bastardi del cazzo.

Questo li arrestò di colpo, se ne andarono di corsa al piano di sotto con gli occhi spalancati, impazienti di spifferare tutto. Mi affacciai alla balaustra e lanciai due grossi sputi ben mirati sulle loro spalle: con tutta probabilità le macchie avrebbero testimoniato il mio disgustoso comportamento, nonché la mia ottima mira.

E così fu.

Dopo una specie di processo-farsa al tavolo della prima colazione, nonno Brian decretò che Feargal dovesse battermi con una ciabatta, ricevette l'ordine di farlo subito e con una certa forza, altrimenti NB avrebbe affrontato personalmente quella teppista dai capelli neri. Il modo in cui papà riuscì a fare di tutto questo un gioco, pur picchiandomi (ma con una tale dolcezza e un'aria di amorosa cospirazione), è e rimarrà sempre un mistero. A ogni modo, questa messinscena servì a distrarre l'attenzione di tutti da Helen, che trascorse la maggior parte della mattina in silenzio, concentrata su un puzzle, lamentando un vago mal di stomaco.

Io fui solidale, con grande sorpresa di mia madre.

– Ecco cosa succede quando mangi troppi sottaceti, vero mammina? Posso portarle un po' di acqua calda?

Guardai nonno Brian fare nonno Brian per tutto il giorno. Per andare in chiesa, prese nonna Christine sotto braccio. Affascinata, guardavo la sua testa stretta e grigio-bionda intonare gli inni, e fissare l'altare da sopra le teste degli altri fedeli. A casa, versò del gin e tonic, si alzò in piedi per cantare l'inno nazionale, tagliò il tacchino a fette rossastre e sottili rondelle bianche, si mise in testa un buffo cappello e versò sul pudding un brandy infuocato. Quando ebbe mangiato e bevuto a sazietà, si accomodò in una grande poltrona e iniziò a russare, mentre le sue donne si occupavano della cucina, e il cielo di fuori si faceva sempre più scuro.

Allora vidi che Helen lo stava guardando di nascosto. Era seduto con le gambe aperte, la pancia dentro i pantaloni gli si appoggiava sulle cosce come un piccolo pezzo di lardo avvolto da un telo di stoffa. Ogni tanto gli usciva dalla trachea qualche colpo di tosse o qualche grugnito. Helen tornò a concentrarsi sul puzzle, e ogni volta che uno dei pezzi non combaciava lo forzava al suo posto con la mano appuntita.

Alle sei nonna Christine mi chiamò in cucina e mi disse di portare il tè a NB. Mi passò la grande tazza di nonno con la vignetta di una partita a golf disegnata sopra. Il tè bollente stava già colando sul piattino mentre mi facevo strada in corridoio, ero così concentrata a tener ferma la tazza che non c'è da meravigliarsi se inciampai sul tappeto davanti al camino. Urlai dal dolore. Per fortuna avevo solo una piccola (ma visibile) bruciatura sul polso, il tè era volato in alto. Ma nonno Brian urlò molto più forte di me quando il liquido bollente gli inondò il grembo. Christine e Denise arrivarono di corsa. Papà aveva visto tutto. Si precipitò ad alzarmi da terra e mi portò in cucina. – Sei proprio nei guai, Cassie, amore mio – disse mentre mi teneva il polso gonfio sotto il rubinetto dell'acqua fredda. Faceva parecchio male, quindi non scoppiai neanche a ridere quando sentii nonno Brian nella stanza accanto che supplicava Christine di fare attenzione mentre gli sbottonava i pantaloni fumanti.

Con la mia piccola ustione ammorbidita da un po' di burro, succhiavo una caramella di consolazione su una sedia a dondolo davanti al caminetto, sicura che papà non avrebbe lasciato che mi punissero per due volte nella stessa giornata.

– Brian, Cassie voleva solo dare una mano – disse allegramente mentre tamponava il tappeto macchiato con un fazzoletto. Nonno Brian mi guardò di traverso e andò a gambe storte al piano di sopra a cambiarsi.

Quella sera diedi a papà un enorme bacio della buonanotte, pieno di gratitudine.

Helen stava già dormendo, o faceva finta.

Anche allora avrei potuto dire qualcosa, immagino, ma non lo feci.

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Pagina 92

La biblioteca di Peloros, ad esempio.

La biblioteca era una grande stanza piena di libri, che odorava di pelle e di pagine ingiallite. Le tende appese alle alte finestre lasciavano passare i raggi del sole. C'erano comode poltrone e un enorme tavolo con un ripiano foderato in pelle, e lampade da lettura che mandavano una luce morbida e dorata quando il libro che avevi aperto al mattino ti portava fino al pomeriggio, e da lì fino al tramonto.

Molti dei miei vecchi e magici preferiti erano lì dritti in piedi, a guardia sugli scaffali, in edizioni più prestigiose di quelle che aveva papà, forse, ma che contenevano le stesse, familiari e rasserenati parole.

Era fece così girare il loro carro. Le Ore liberarono i cavalli dalla lunga criniera, li impastoiarono alle mangiatoie d'ambrosia e appoggiarono il carro contro la lucida parete presso le porte dell'Olimpo, mentre le due dee si univano agli altri, prendendo posto sui loro troni dorati.

E c'erano anche i quadri; libri d'arte: Medioevo, Rinascimento, Barocco, Impressionismo, Astrattismo. C'erano intere raccolte fotografiche, dai primissimi ritratti in seppia alle foto del cuore ingrandite in fibra ottica. Io li esaminavo tutti, lasciandoli in giro per la stanza aperti sulle mie pagine preferite: Raffaello, Monet, Cézanne, Doisneau, Man Ray, Cartier-Bresson. Nella mia piccola testa di tredicenne cominciavo a capire che le immagini possono essere estremamente più preziose e vivide di qualsiasi altra cosa di cui si faccia esperienza nella vita, che hanno il potere di toccare e modellare i nostri più profondi. E, cosa più importante, possono essere lì ogni volta che ne abbiamo bisogno. A volte, trovavo sul tavolo dei titoli nuovi con i segnalibri tra una pagina e l'altra, e mi lasciavo trasportare da quelle immagini in esaltanti evasioni mentali.

Ecco qual è la scusa con cui giustifico il fatto di aver preso "in prestito" alcuni libri di Ariadne nascondendoli sotto il mio letto, con l'idea di portarmeli in Inghilterra alla fine dell'estate. Di notte, amavo scorrere con le dita sotto il letto e toccare il loro dorso liscio, e anche se Ari se n'era accorta, con me non ne ha mai fatto parola. Ma a volte il mio carico di libri scompariva misteriosamente. Decisi che Susie Musselbergh doveva averli scoperti e rimessi al loro posto. Una cosa è certa: quando rientravo inaspettatamente la trovavo spesso nella nostra stanza. Una volta la sorpresi sdraiata sul letto di Helen, con la faccia immersa nel suo morbido cuscino bianco.

– Che stai facendo? – chiesi.

— Tu che pensi? — disse balzando in piedi sdegnata con una copia dell' Iliade stretta in mano, copia che ero sicura di aver nascosto sotto il mio materasso il giorno prima.

Feci una smorfia. – Cattiva, cattiva Helen! Dovresti dirlo a Ariadne.

Susie diventò di tutti i colori. – Non è stata Helen – disse sollevando il mento. – Lei non farebbe mai una cosa simile.

Sospirai. Ecco un'altra vespa che ronzava intorno a mia sorella come a un vasetto di miele.

— Come credi — dissi. — Ma se non ti dispiace adesso vorrei cambiarmi.

Si avviò rigidamente alla porta, e io mi ripromisi di rubare quello stesso volume al più presto, nascondendolo in un posto più sicuro.


Una mattina, era metà agosto, scesi al piano di sotto (presto, sempre presto, subito dopo il mio primo bagno all'alba) mentre il resto della casa dormiva. Camminando sulle mattonelle fresche del soggiorno vidi una grande scatola incartata sul tavolo. Era indirizzata a me, con la spessa calligrafia nera di Ariadne.

Scartai il pacco e trovai una macchina fotografica.

Era nera e argentata, non troppo pesante, non troppo leggera. Aveva un piccolo zoom e una varietà di bottoni, numeri e levette. Me la portai davanti agli occhi senza vedere niente. Ispezionai la macchina e tolsi il coperchio all'obiettivo. Poi riprovai, e per la prima volta vidi il mondo attraverso l'occhio armonico e selettivo di una macchina fotografica. Pigiai il dito contro la morbida resistenza fino a sentire un soddisfacente click.

Nella scatola c'era anche un rullino, ma non ero ancora pronta a impegnarmi a tal punto. Invece di correre alla spiaggia camminai piano intorno al cortile, guardando attraverso la mia nuova iride, notando linee, angoli, luci e ombre della vite contro i muri di pietra, le giare di terracotta piene di salvia rossa, il gatto perfettamente arrotolato nel sonno sulla grande sedia di vimini di Ariadne. Andai avanti e indietro con la messa a fuoco, finché non mi girò la testa.

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Pagina 149

Dietro di noi, il barbone si era seduto con la testa tra le mani, e le dita sporche nei capelli che si muovevano al vento. Vidi luccicare qualcosa, portava la fede. Per la prima volta dopo tanto tempo desiderai avere con me una macchina fotografica. E dei soldi.

Marco disse: — Sarà qui anche domani. C'è sempre: questa è la sua parte di muro.

Fu una lezione mediocre.

Ritornai il giorno dopo, feci amicizia con Karel e scattai la prima fotografia. Mi portò a Lincoln's Inn Fields, dove i giardini erano invasi da un'orda di zingari e vagabondi, che avevano messo su una specie di villaggio di fortuna. Kim, che ogni tanto era la fidanzata di Karel, sedeva sotto un telone di plastica e dava svogliatamente il seno a un bambino. Un uomo più grande di nome Lud se ne stava sul suo cartone sporco di piscio, e ringhiava a chiunque gli si avvicinasse. Ellie, una donna di età compresa tra i quaranta e i sessant'anni, aveva addosso una trapunta di lana e un paio di squallide ciabatte rosa. Le sue calze spesse erano lise e le gambe ulcerate.

La moglie di Karel era morta di overdose subito dopo che erano arrivati a Londra. Lui aveva lavorato in un cantiere finché non si era rotto il piede in un incidente. Non poteva fare richiesta per il sussidio in quanto immigrato illegale: se l'avessero scoperto l'avrebbero rispedito in Romania. Kim aveva scelto la vita di strada tre anni prima, era scappata di casa, a Liverpool, dal patrigno, a sedici anni. Gli domandai se potevo scattare delle foto a loro e al bambino, e mi chiesero se potevano essere pagati, il che sembrava sensato. In cambio mi presentarono i loro vicini, Jockie e Beano, due ragazzi magri e tristi di Dumbarton, teoricamente in cerca di lavoro come muratori. A mezzogiorno se ne andarono verso il West End per chiedere l'elemosina.

Ellie gli sputò dietro: — Brutti scozzesi del cazzo, tornatevene a casa vostra se non vi piace stare qui. — Poi si rivolse a me e disse: — Sono una cantante, sai. Una volta mi esibivo. Eh, sì, cara — e se ne uscì con un gorgheggio strambo, alitando zaffate di whisky all'inizio di ogni strofa:

    We are in love wuh you, my heart and I,
    and we are always true, my heart and I...
    and yet my darling, if we ever say goodbye,
    I know we both should die,
    my heart and I.

Settimane dopo, mentre ero in fila davanti al cinema di Leicester Square, sentii di nuovo quella voce. Le poche persone che conoscevano la canzone la pagavano di corsa, onde evitare che si lanciasse in un ulteriore stridulo attentato all'ultimo, impossibile acuto di "heart".


Sviluppai le foto di Lincoln's Inn Fields da sola. E Marco aveva ragione, perché erano fotografie di persone sole e emarginate, erano i volti di Diane Arbus che mi erano tanto piaciuti da giovane. Mi affascinava quello che l'obiettivo aveva visto nei loro occhi: sguardi nudi, spogliati, metallo puro. Ero curiosa. Gli occhi dell'osservatore erano in qualche modo diversi? Una notte montai il treppiede nella cantina di Cage Street, mi avvolsi nel mio abbondante cappotto nero, e scattai una sola fotografia.

Più tardi, trovai un grande viso triste che galleggiava nella vaschetta e mi guardava con assoluta impersonalità. Lo esaminai con la lente di ingrandimento, soffermandomi sulle pupille scure, la linea rotonda delle narici, il folto arco di sopracciglia. Cercai di guardarmi come un'estranea, mettendo da parte tutti i preconcetti di cognizione personale, orgoglio o vergogna. E più guardavo, più il mio volto mi ricordava quello di qualcun altro, ma fu solo quando stavo per addormentarmi, quella notte, che ricordai una figura desolata, ostile, che si riparava dalla macchina fotografica come se potesse improvvisamente risucchiarle l'anima.

Ellie.

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Pagina 201

La galleria era illuminata da entrambi i lati da due finestre rotonde scavate nel muro, e nell'aria polverosa c'erano tonde colonne di luce. Abbassai le tapparelle e andai verso la camera oscura vera e propria, uno stanzino di circa tre metri quadri. Aprii la porta e l'odore chimico si fece più forte.

Le ultime foto su cui avevo lavorato erano appese alle pareti. Feci un passo indietro e guardai Francis camminare lungo la fila e studiare le stampe con le mani sui fianchi. Prese una foto di Helen, Ari e me. Eravamo vestite completamente di nero, e guardavamo ipnoticamente l'obiettivo.

– Questa quando l'avete fatta?

Scrollai le spalle. – Qui, l'estate scorsa, mi pare. Ari vorrebbe usarla per una brochure. – La guardai anch'io. – Sì, le tre Sirene. Spero che tu l'abbia capito prima di sposarti, perché ormai è davvero troppo tardi per rammaricarsene.

Mi guardò con aria interrogativa: - Troppo tardi?

- Omero - dissi - l' Odissea. "Dapprima arriverai dalle Sirene che incantano tutti gli uomini, chiunque giunga da loro. Se uno, cioè, senza sapere si avvicina e ascolta la voce delle Sirene, non gli si fa più incontro la moglie al suo ritorno a casa, non gli fanno festa i teneri figli, ma le Sirene là lo affascinano con il canto melodioso, sedendo nel prato. E in giro c'è un gran mucchio d'ossa di uomini che imputridiscono: gli si disfa e consuma la pelle dattorno."

Francis sembrava colpito, ma riprese subito il controllo della situazione. – Posso averne una copia?

Guardai la fotografia. Helen e Ari erano venute bene, ma io incombevo come una specie di fenomeno da baraccone, la mia presenza in qualche modo aggiungeva un'indefinita, bizzarra gravitas a tutta la scena. – Ma certo, prendi quella. Io ne ho tantissime. – Almeno avrebbe avuto una mia fotografia. Guardando i ritratti degli altri ospiti lo vidi sorridere nel riconoscere Leon, Julia e Whitney. Avevo immortalato Muriel e Henry Falmouth che discutevano: si vedeva lei con una grande mano alzata, e lui con la saliva agli angoli della bocca. In un altro scatto c'era Susie Musselbergh ai piedi della scalinata centrale, in attesa che comparisse qualcuno. E poi ecco Ariadne seduta sul suo trono color blu pavone, con la testa lievemente abbassata e la sigaretta lunga in mano: una divinità, divertita dalle sciocche faccende di noi mortali.

Alla fine arrivò davanti alla fotografia che volevo disperatamente che vedesse, e si fermò. Allungò lentamente una mano per staccarla dal filo e guardarla meglio. Sì, Francis, proprio così, pensai con gioia infinita, guarda bene quella piccola meraviglia e poi dimmi onestamente perché sei venuto qui oggi pomeriggio.

Io non avevo bisogno di guardarla: conoscevo a memoria ogni dettaglio.

L'avevo scattata tre giorni dopo il loro arrivo. La luce di una tarda mattinata, con Helen e Francis sulla terrazza. Lei era appoggiata a lui, la testa annidata contro la sua spalla, la mano sinistra intorno alla sua vita, che teneva stretta la maglietta bianca di cotone. Mia sorella contemplava il marito con adorazione. Ma lui stava guardando decisamente fuori campo, con l'espressione di un uomo annoiato e rigido vicino alla donna che gli è a fianco.

Quella foto mi aveva detto quel che mi serviva di sapere. In fondo la macchina fotografica non mente mai. Non avevo avuto bisogno di scansionare, ritoccare o modificare l'immagine in nessun modo. No, era la realtà pura e semplice, irrefutabile, che avrebbe convinto qualsiasi testimone obiettivo che Francis Hammond era l'amato in questo matrimonio impulsivo, non l'amante. Diceva che era rimasto intrappolato dal romanticismo, a Venezia, e si era ritrovato in piedi davanti a un altare a fare promesse a una donna che non aveva mai pensato di sposare. Il messaggio di questa fotografia era di quelli da cui non si può scappare. E adesso, così diceva, la luna di miele era finita. Da un punto di vista morale ed emotivo, Francis Hammond era un uomo disponibile.

Per me.

Mentre Francis guardava la foto continuai a dargli le spalle. Immagino che si stesse chiedendo come fossi riuscita a cogliere una verità che lui aveva fatto di tutto per nascondere. Malgrado la sua fisicità così rigida e imponente, avrà pensato, Cassandra Byrd è una donna sorprendentemente intuitiva. Intanto continuava a guardare.

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