Copertina
Autore Julien Green
Titolo Se fossi in te...
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2004, In ottavo 6 , pag. 292, cop.fle.sov., dim. 145x210x20 mm , Isbn 978-88-7462-009-8
OriginaleSi j'étais vous...
EdizioneFayard, Paris, 1993 [1947]
TraduttoreClio Pizzingrilli
LettoreGiorgia Pezzali, 2005
Classe narrativa francese
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Indice


      9  Prefazione (1970)

     15  Proemio (1947)

     17  Prima parte

    175  Seconda parte


    279  Stazioni di Clio Pizzingrilli

 

 

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Pagina 19

Il portone si richiuse dietro Fabien con un fracasso sordo che riempì il silenzio notturno di un colpo di tuono. Il giovane si fermò un secondo o due per riprendere ancora fiato, poi, imprecando contro di sé sotto la volta, passò davanti alla grande scalinata e raggiunse, in un angolo del cortile, la scala più modesta che lo portava al suo alloggio. Tutte le luci erano spente. Solo il chiarore di una luna di marzo passava attraverso le vetrate spoglie delle alte finestre e permetteva di vederci un po'. Inciampò in diversi scalini e giunse al mezzanino, dove si lasciò cadere su uno sgabello che un inquilino aveva messo davanti alla porta. Nulla si muoveva nella casa e Fabien non udiva che l'ansito del proprio respiro; si tolse il cappello; poco a poco il suo cuore diradava i battiti.

Salì ancora un piano e da una finestra socchiusa tuffò lo sguardo nel grande cortile lastricato, le cui pietre sembravano dormire. Quella vista lo placò. Da quasi tre anni, ogni sera vedeva quelle file di finestre orgogliose su cui dominava un frontone di classica severità e attribuiva al vecchio edificio, dove egli abitava per carità di una parente, sentimenti che variavano con il proprio umore. La grande casa diventava una persona ora accigliata, ora piena d'indulgenza, e di solito Fabien sorrideva della sua aria fastosa, del borioso dispiegamento di cornici greco-romane, del vecchio lastricato che risonava sotto i passi dei visitatori. L'orgoglio della vita, altro il giovane non riusciva a leggere nella facciata di quel palazzo dove ancora echeggiava un brusio di storia. Quella notte, tuttavia, egli volse gli occhi sulle persiane chiuse e fu loro grato di essere lì come di consueto, di offrirgli lo spettacolo di una noia prospera e di qualcosa d'indefinibile che somigliava a una raffinata disperazione. Quella stessa gravezza, quella stessa tristezza che Fabien temeva, e la cui presenza cercava accuratamente, con ogni mezzo, di abolire dentro di sé, ora le accettava; egli ringraziava il grande e pesante palazzo di essere così stabile e così solido, mentre dentro di sé l'inquietudine faceva ronzare il sangue alle tempie.

L'orecchio teso al silenzio come a una musica deliziosa, lasciò passare qualche minuto, poi salì senza fermarsi fino al quinto piano, trasse di tasca una chiave e entrò in casa. Soltanto allora si sentì al sicuro. Girò la chiave nella serratura e mise il catenaccio alla porta con un gesto di energica precisione, come per prendersi la rivincita su tutti i momenti della giornata in cui si era mostrata la sua debolezza.

L'appartamento era piccolo, buio, ingombro. Ripiani di libri rendevano ancora più stretto il corridoio che portava nella stanza dove Fabien lavorava, ma lì, all'estremità di un lungo tavolo, una lampada spandeva la sua luce piana sugli scaffali di legno bianco e sulle file di volumi dalle rilegature malandate; tuttavia, per quanto modesto fosse quell'arredamento, non mancava di una specie di bellezza meditativa che parlava di vita interiore. Il pavimento nudo e due pareti vuote davano a quel luogo un'aria di austerità che tradiva il gusto di un difficile ideale. Si sentiva che lì la povertà era accettata con orgoglio, la sedia di paglia e la bottiglietta d'inchiostro, più che imposte dalle ristrettezze, erano preferite agli oggetti di lusso che un ricco avrebbe messo al loro posto.

Di solito, rientrando, il giovane prendeva un libro e si sedeva al tavolo, come per dare alla serata una conclusione seria, corrispondente all'immagine ch'egli si era formato di se stesso, ma questa volta, senza dare un'occhiata nella stanza, aprì la finestra e, appoggiandosi al davanzale, spinse lo sguardo lontano. Al di sopra dei tetti, un enorme cielo nero apriva le sue voragini dove palpitavano le stelle. Fabien riconobbe varie costellazioni, mormorò alcuni nomi col rammarico di non conoscerne altri. Ogni volta che guardava così nei viali della notte, gli pareva di elevarsi dolcemente al di sopra del mondo; quei punti luminosi disposti in un ordine segreto affascinavano il suo spirito come un enigma, il cui senso incomprensibile ora lo placava, ora lo inquietava. Trascorsero alcuni minuti, e più guardava, più gli pareva di allontanarsi dalla finestra e dalla casa, senza che tuttavia cessasse la sensazione del davanzale sotto i suoi gomiti. Si sarebbe detto che a forza di lanciare lo sguardo nel vuoto, si scavasse dentro di sé una specie di abisso, corrispondente alle vertiginose profondità in cui l'immaginazione si smarriva. Nulla più importava sulla terra, egli pensava, se davvero così piccola era questa terra come affermavano gli astronomi, ma per quanto meschina e per quanto minuscolo un essere umano su questa terra, questo essere aveva pur sempre tutte le stelle nella sua testa. E chiudendo gli occhi, Fabien riteneva in sé quel mondo estraneo fatto di luce e oscurità, vi si perdeva, vi si gettava con un terrore infantile, poi, riaperte le palpebre, lanciava di nuovo nello spazio il suo sguardo stralunato di orrore. E gli veniva la sensazione che questo si portasse dietro tutta una parte di lui stesso, la più audace, la più vera.

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Pagina 50

Pitaud non era una cattiva persona, ma il titolo di segretario gli aveva dato alla testa minacciandone l'equilibrio. Aveva una spalla talmente sbilenca che sembrava paralizzato in una sorta di perpetuo sussulto; in certi momenti sul suo cranio pelato si riflettevano i montanti della finestra vicino alla quale era seduto, ma se sulla testa di Pitaud mancavano i capelli, si poteva supporre che fossero stati rossi, poiché le mani, che sovente si sfregava, come per felicitarsi di qualcosa che non diceva, erano ricoperte di una specie di manto sulle tonalità del rame. Parlando affettava lo stile castigato del signor Poujars, il quale aveva padronanza della lingua, ma, a differenza del suo modello, Pitaud ornava i suoi discorsi di collegamenti improbabili.

I clienti che avevano il piacere di ascoltare la parola fiorita del signor Poujars sarebbero stati davvero stupiti di sapere che quella persona dai modi esemplari riusciva a incutere timore ai suoi impiegati. Il suo volto ricordava quello degli antichi umanisti, i cui ritratti ornavano le pareti del suo ufficio. Probabilmente lo sapeva. Agli occhi di osservatori superficiali, la sua barba nevosa, tagliata con estrema cura, gli assicurava una reputazione di benevolenza unita a grande saggezza; parlando, faceva vagare la vista lontano, soprattutto quando si trattava di somme da sborsare, e diventava allora di una tale distinzione che si esitava a pronunciare davanti a lui la parola denaro. Aveva il naso lungo e sagace, gli occhi di un azzurro innocente che volgevano a un meraviglioso grigio acciaio quando si faceva l'atto di chiedergli un favore, infine le guance di un rosa che rivelava un'anima piana e una buona digestione. La corpulenza aumentava la sua dignità e dava a tutti i suoi movimenti una lentezza quasi fastosa. A volte sorrideva finemente nella sua barba, che accarezzava allora con la punta delle dita, come se avesse voluto ricompensarla di essere la barba del signor Poujars. Tradiva la collera con un afflusso di sangue alla nuca, al cranio e alle orecchie, i cui lobi si trasformavano in ciliege; in quei momenti gli occhi diventavano più piccoli e la voce, anziché alzarsi di tono, discendeva nelle profondità della cassa armonica, cosa affatto innaturale e che suscitava inquietudine nel cuore di Fabien; egli avrebbe infatti preferito un rabbuffo alle minacce proferite in tono da oracolo, ma il signor Poujars stesso era ammirato di sapersi dominare così bene e questa padronanza di sé completava l'immagine che egli si faceva della propria figura morale, il cui carattere essenziale gli sembrava essere un'immensa bontà.

I suoi rapporti con Fabien erano a un tempo frequenti e distanti. In tutti i momenti il campanello chiamava Fabien nell'ufficio del signor Poujars, ma gli occhi del signor Poujars incontravano solo per caso il viso del suo impiegato e, perfino allora, il loro sguardo attraversava quell'ostacolo di carne e ossa per fissare un punto situato immediatamente dietro il cranio di Fabien. Questa circostanza faceva sì che il giovane sospirasse di tristezza ogni qualvolta udiva il suono spento e autoritario del campanello che gli diceva: "Alzati!" Non gli piaceva il suo principale, la sua alterigia lo offendeva. Non gli piaceva neppure Pitaud, che un giorno aveva scoperto delle fotografie di attrici nel cassetto del tavolo in cui Fabien metteva i timbri e che, da allora, tutte le mattine lo salutava con un'occhiata sornionamente inquisitoria, moltiplicando le allusioni beffarde nel corso della giornata.

Fra queste due persone Fabien si rinchiudeva in un silenzio testardo e faceva il triste calcolo di tutte le gioie che la vita gli rubava. Mentre catalogava schede, uomini e donne più fortunati di lui se ne andavano a spasso e ridevano al sole. Il sole! Era come se il signor Poujars se lo fosse messo in tasca. Così pensava Fabien.

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Pagina 74

S'interruppe per domandare:

— Avete freddo?

— No.

— Avete paura?

— Non ho paura, disse Fabien.

— Dunque posso parlarvi. Voi sapete quanto me che una delle maggiori cause della noia è la miseria del nostro destino. Ci svegliamo gli stessi ogni mattina, invano certi sognatori del passato hanno sostenuto che mai la stessa persona oltrepassa due volte la stessa porta. La verità è che ogni uomo è condannato a vivere nello stesso corpo, a vedere con gli stessi occhi, a comprendere e meditare fino alla morte con l'aiuto dello stesso cervello. L'ingegnoso supplizio dell'identità crea un inferno molto più sofisticato del luogo torrido inventato dalla superstizione. Essere eternamente gli stessi non è sopportabile per spiriti affinati dalla riflessione. Uscire da sé, divenire un altro, non è uno dei sogni più intelligenti che l'uomo abbia custodito in sé?

Tacque un istante e riprese:

— Questa notte, per un insigne favore, riceverete il dono di scambiare la vostra personalità con quella che vi piacerà eleggere: diverrete chi vorrete. Vi viene offerta tutta l'esperienza umana sparsa intorno a voi. Da un essere all'altro, secondo il capriccio della vostra curiosità, viaggerete come il viaggiatore che si ferma in una città il tempo necessario per consumarne i piaceri o soddisfare la propria brama di sapere. Della sofferenza non conoscerete che quanto vorrete saperne e godrete di tutte le felicità possibili. L'umanità diverrà la bocca attraverso cui sazierete la vostra fame; le sue dita, il suo corpo, il suo cuore serviranno all'enorme dilatazione dei vostri appetiti. Fabien, io vi regalo il mondo.

Le sue mani afferrarono le mani del giovane.

— Questo dono è il dono supremo, mormorò. Oserete accettarlo?

Fabien chiuse gli occhi. Nelle sue braccia, nel suo petto, circolava una nuova forza.

— Accetto, sospirò.

Quanto gli parve lunga a dirsi questa parola! Fu come se le sillabe riempissero il silenzio per ore e si ripercuotessero lungo viali interminabili.

— Bene, fece l'uomo.

E con un gesto di bonario cameratismo, mise un braccio intorno alle spalle di Fabien, poi gli disse con grande semplicità:

— La parola che avete appena pronunciata prenderà il posto di tutte le tradizionali pergamene firmate col nostro sangue, volete? Simili futilità non appartengono più alla nostra epoca, neppure la parola diavolo, sfuggitavi poco fa e che bandirete dal vostro vocabolario. Intendo ora esporvi quello che posso chiamare il nostro metodo, semplice solo in apparenza. La cosa principale da sapere è che la divulgazione del segreto sarà punita con una morte inimmaginabilmente penosa — ma sono sicuro che non farete il bambino. Accantoniamo dunque tutti questi orrori.

Fecero qualche passo e sprofondarono di nuovo nella notte degli alberi.

— Sappiate, fece l'uomo, che la vostra personalità è racchiusa nel vostro nome. Ogni principio delle metamorfosi che vi attendono è contenuto, infatti, nelle due sillabe che vi designano e in certo modo vi imprigionano. Dando questo nome a un uomo o a una donna che ignorano questa legge segreta, cambiate personalità con loro. Così, dunque, il primo venuto si vede costretto a ospitare nel proprio corpo quest'anima che è la vostra, mentre la sua elegge istantaneamente domicilio nella casa di carne da cui voi siete appena evaso. Alcune parole il cui senso vi sfuggirà, ma che nondimeno vi insegnerò, assicureranno il successo di questa delicata operazione...

Nel parlare, si inoltrarono nei boschi che raccolsero il mormorio delle loro voci attutite.

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Pagina 124

Dopo la morte dei genitori, il signor Fruges viveva solo in una stanza riadattata, all'ultimo piano di un vecchio immobile che sapeva di miseria. Aprendo la porta di quel deprimente alloggio, il giovane ricordava spesso la sentenza di un suo zio che, vedendolo studiare il Vangelo, gli aveva detto un giorno: "Chi ama la verità non sarà mai ricco". Ora, per il signor Fruges, la verità si apprendeva dai libri, e egli ne concludeva che i libri lo avevano portato come in una segreta, dritto in quel luogo soffocante o glaciale, secondo la stagione, ma sempre triste. Il letto di ferro con le coperte troppo leggere, il tavolo di legno bianco e, in un angolo, il piccolo baule nero con i suoi libri; in quei mobili egli non vedeva che i segni di una vita mancata e, come in un'ebbrezza di malinconia, si appoggiava coi gomiti alla finestra e lasciava che l'anima prendesse il volo sopra i tetti. Tuttavia, in certi periodi che ricorrevano con una specie di ciclicità, si sentiva invaso da un grande desiderio di rinuncia totale che gli faceva accettare la propria sorte con fervore improvviso. Guardava allora la sua camera e pensava: "Θ la stanza di un santo. Voglio diventare un santo." Rinunciare. Ma rinunciare a che cosa? Al desiderio di felicità? A quella improvvisa e violenta fame di benessere che talora lo mordeva ai visceri, quando la sorte lo portava nella casa di un ricco?

Suo cugino Bornival, che era prete a Saint-Jude, lo saggiava di tanto in tanto su una possibile vocazione: "Col gusto che hai per le cose religiose, come mai non hai pensato allo stato ecclesiastico?" Il signor Fruges sosteneva lo sguardo brillante di quegl'occhi neri che sembravano frugargli la mente, e diceva: "No." "Hai trent'anni, rifletti" diceva il cugino Bornival. "Bisogna uscire dal mondo o farcisi un posto. Vuoi che parli di te alle signorine Froque che hanno un negozio di oggetti sacri? Hanno bisogno di un commesso. Tu hai l'aspetto serio che occorre. La sera potresti arrotondare lo stipendio continuando quella traduzione...". Allora il signor Fruges considerava il cugino con aria superiore, pensava a venti risposte che avrebbe potuto dare e per orgoglio non ne dava alcuna. Ciononostante non rifiutava i magri aiuti di cui l'ecclesiastico lo gratificava, ma li prendeva un po' come un suo credito, con una riconoscenza moderata da una sfumatura di sdegno. Servire dalle signorine Froque, lui che una volta aveva firmato due articoli sul semipelagianismo nella Chiesa delle origini! "Che assurdità!" esclamava fra sé con una breve inspirazione nasale, che in lui era il segno dell'orgoglio ferito nel vivo o, al contrario, della vanità soddisfatta.

Gli piaceva attraversare la città al cadere del giorno, sgranando tra le dita contratte e impazienti un rosario nascosto nella tasca. "Hai pranzato male" si diceva, "e domani pranzerai ancora male, ma tu vivi al livello dei tuoi sogni, cosa inaudita ai tempi che corrono". Giacché giudicava inferiori e un po' degradanti tutti i mestieri che consistevano nel vendere qualunque cosa non fosse frutto delle propie mani o tratta dal proprio cervello. Sarebbe stato commercio. Lui, almeno, non si era mai "dato" al commercio, non aveva mai maneggiato il denaro se non con quel distacco rarissimo che hanno soltanto certi poveri. "Che sia dunque un grande povero!" esclamava dentro di sé.

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Pagina 177

Lunga e bassa, le pareti incupite dalla tappezzeria rossa che le dava una falsa aria di magnificienza, la sala riceveva luce da una grande finestra quadrata, da dove si vedevano due castagni in fiore in mezzo a un vecchio cortile. Ιlise guardava proprio questi alberi, come se non li vedesse tutti i giorni dalla sua infanzia, ma provava nei loro riguardi sentimenti che si potrebbero avere per persone di grande saggezza, a un tempo un po' meno e un po' più che esseri umani. La rassicuravano nelle ore di inquietudine; all'alba ascoltava talvolta il bisbiglio delle loro foglie e quel rumore la quietava; all'uno e all'altro aveva dato un tempo dei nomi segreti, noti a lei soltanto.

Nemmeno quella notte aveva potuto dormire, tenuta sveglia dalla dolcezza dell'aria e dal ricordo di anni più felici. Dalla sua camera al primo piano, sentiva i primi odori della primavera che esalavano fino a lei attraverso le grandi persiane e la rendevano così triste che si sarebbe lasciata andare al pianto, se l'amor proprio dei diciott'anni non l'avesse alquanto trattenuta.

Ora, seduta sul davanzale interno della finestra, nel salone rosso, osservava il movimento quasi impercettibile del fogliame e pensava: "Forse la felicità mi passa lentamente accanto come quei lunghi battelli piatti che discendono il fiume". Si ricordò che due o tre ore prima, per un'improvvisa fantasia, aveva lasciato il letto tiepido e si era pettinata davanti allo specchio, nella luce incerta, l'ala del naso e la parte superiore della guancia colpite da un riflesso grigio argento, mentre il pettine s'affondava nella grande massa nera e viva con un lieve crepitio. Venti volte, forse trenta volte, aveva compiuto quel gesto lento e lungo che faceva splendere i suoi capelli come acqua, come le cascate di cui un tempo vedeva la figura in un testo di geografia illustrata. Dall'alto in basso, nella penombra, nel silenzio della casa addormentata, il pettine mordeva nel più profondo di quella massa che cedeva, che era felice di sentirsi graffiata e divisa. Era lei, era anche Ιlise, tutta quella capigliatura da cui emanava un leggero profumo d'erba e di frutti? "I miei capelli...", fece a bassa voce. E ridisse questa parola che aveva la soavità di una carezza. Con misteriosa felicità immaginava quella tenda nera, che un po' spaventevolmente le nascondeva metà del viso, mentre delle grandi mani la palpavano. Improvvisamente si fermò. "Bisogna dormire" disse a mezza voce. E si buttò sul letto, ma non dormì; la mano sotto il cuscino, trovò i grani tiepidi del suo rosario.

Ora, tutta vestita, guardava gli alberi e aspettava che la porta si aprisse dietro di lei e che qualcuno le gridasse buongiorno, che la vita ricominciasse. Se si fosse saputo che all'alba, davanti al pettinatoio a volant di mussolina, aveva passato un'intera ora a guardarsi allo specchio e a pettinarsi, che risate! L'avevano sempre trovata strana, del resto. Faceva ridere con le sue imitazioni e le sue smorfie: la dama inglese che arriva a Parigi; la lettera triste e la lettera gaia; la pazza che si crede duchessa. Piccola, ma assai eretta, le mani incrociate sulle ginocchia, riceveva frontalmente la luce un po' dura di quel mattino di aprile; il suo viso conservava qualcosa del garbo dell'infanzia, quantunque la pelle avesse perso il suo vellutato. Senza essere veramente carina, attraeva per l'espressione seria dei suoi occhi grigi e per quanto di ancora incerto c'era nella sua persona.

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