Copertina
Autore Karl Taro Greenfeld
Titolo Deviazioni standard
SottotitoloSu e giù per la nuova Asia
EdizioneInstar Libri, Torino, 2004, le Antenne 4 , pag. 280, cop.fle., dim. 136x205x20 mm , Isbn 978-88-461-0053-5
OriginaleStandard Deviations: Growing Up and Coming Down in the New Asia
EdizioneVillard, New York, 2002
TraduttoreElena Dal Pra
LettoreLuca Vita, 2004
Classe narrativa statunitense , viaggi
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Indice

Introduzione                          3

La gran vita                         11
Capezzoli e vodka express            55
Il gioco                             97
Deviazioni standard                 123
Gal                                 187
Samson                              219
Il circuito                         249
Speed Demons                        265


 

 

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Pagina 3

Introduzione



L'inverno è caldo e umido, ma non così caldo e così umido come il resto dell'anno, ecco perché centinaia di noi sono su quest'isola a sudare dentro minuscoli bungalow, aspettando che il sole cali e si alzi la luna. Gira voce che ci sarà una festa per la luna piena, e questo prima che nel resto del mondo l'idea di organizzare feste in onore della luna piena diventi un cliché turistico: per la e-generation l'equivalente narcotico di una visita al Louvre o un pomeriggio a Disney World. Ma anche se non ne ho mai sentito parlare, sono piuttosto scettico. C'è qui un giornalista canadese che sta ricostruendo la storia di queste feste. Pare siano la manifestazione asiatica del fenomeno acid house e dance music che in Belgio e in Olanda, come a Manchester e New York, si sta già sgonfiando. Alistair ha lunghi capelli biondi, è più vecchio di me e lavora per una rivista vera, anche se canadese. Sembra sicuro di sé, e quando chiede che tipo di musica ci sarà i farang che sono qui da più tempo di noi gli rispondono, non lo trattano con condiscendenza come fanno con me appena tento di intavolare un discorso.

Sono già un po' deluso; mi sono fatto migliaia di chilometri su mezzi di trasporto poco sicuri, o mal frequentati, solo per scoprire che questi fighi fanno gruppo chiuso come i provincialotti che incontravo alla mensa delle superiori. Vestono batik, sfoggiano volute di tatuaggi, e ogni volta che tento di sapere come vivono o quali sono i loro progetti ribattono secchi che faccio troppe domande. Ma io voglio davvero sapere chi sono.

Dove vanno? Quale chioschetto ha il pesce migliore? Come ti pulisci il culo senza carta igienica? Il tipo che vende le frittatine ai funghi procura anche della buona ecstasy come promette? Ho bisogno di queste rispose, così mi aggiro ai margini dei vari gruppuscoli di viaggiatori, assillandoli ed esasperandoli sempre più. Per la maggior parte sono inglesi, con qualche infiltrato tedesco, australiano e canadese, e sono tutto quello che io vorrei essere: disinvolti, economicamente indipendenti, informati, trendy, belli. Il mio contatto è questo giornalista canadese; è grazie a lui che posso aggirarmi in questa specie di bel mondo alla ricerca di amicizie giuste. Ed è da lui che imparo a non fare domande, ad aspettare semplicemente che le risposte arrivino da sole.

Su Alistair faccio affidamento anche per avere dritte e conoscere i segreti del mestiere. Mi sembra uno arrivato. Ha lavorato per importanti riviste in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Canada. Si finanzia il viaggio con quello che scriverà. Come si ottengono questi incarichi? Chi bisogna conoscere? Posso riuscirci anch'io? Penso di scrivere bene, gli dico. Ma non so esattamente che cosa voglio scrivere: libri, articoli, sceneggiature. Voglio scrivere e sperimentare, tutto. In fondo è per questo che sono qui.


Avevo ventitré anni ed ero partito per l'Estremo Oriente con l'intenzione di diventare uno scrittore, affascinato da torbide storie di successo, degradazione, droga, sesso, violenza e magia. C'era come un perverso sortilegio in Asia, nella dissolutezza economica dei primi anni Novanta, nel modo in cui la finanza e gli affari avevano conquistato un continente in rapida espansione facendo un bottino multimiliardario, una specie di enorme gioco di prestigio che convertiva tutta quella ricchezza in complessi di uffici abbandonati e centri commerciali lasciati a metà. C'era una malia sessuale, licenziosa cugina della corruzione fiscale, in quei mercati del sesso dove ragazzi e ragazze si mettevano in vetrina con dei numeri appuntati ai tanga, oppure nel modo in cui due viaggiatori potevano conoscersi a Bangkok o a Manila e passare qualche sera insieme prima di salutarsi di nuovo, a volte per sempre, a volte per rincontrarsi in un altro ostello, su un'altra isola o nell'ennesimo, strano locale notturno. Qualsiasi fossero le barriere difensive erette dalle ragazze nelle loro native Stoccarda o Vancouver, non resistevano all'assedio del caldo tropicale e degli stupefacenti. E c'era un'alchimia narcotica nelle droghe illegali che con tanta facilità venivano coltivate e raffinate sugli altipiani aridi o nelle fertili giungle, e nelle pillole e nelle polveri legalmente distribuite dai farmacisti delle squallide città costiere. Io volevo tutto: soldi, sesso, droga. E a essere onesti, nonostante l'ultimo decennio mi abbia segnato duramente, non mi pento di nulla, e se tornassi indietro ricomincerei da capo con le scopate e le sbronze, e con i maneggi per tirar su abbastanza soldi per pagarsi quella vita.

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Pagina 11

La gran vita



Insegnante di inglese in una scuola superiore giapponese, per tre ore al giorno cinque giorni la settimana, mi ritrovo in aule dall'aria viziata gremite di ragazzini con qualche esperienza disordinata della materia. Sono andato all'università, mi sono laureato, sono venuto fino a Kagenuma, una cittadina costiera del Giappone al capolinea di un trenino per pendolari a due carrozze che attraversa zigzagando altri piccoli centri. Il mio appartamento consiste in un paio di stanzette di sei tatami vicino a un parcheggio di ghiaia infestato di erbacce. Dal lato opposto del parcheggio giunge lo sferragliare del treno sul binario a scartamento ridotto. Abito esattamente a metà strada tra due stazioni. Di mattina mi sintonizzo sulla radio delle basi militari americane. Tra una canzone e l'altra di Bon Jovi i dj della base di Yokosuka leggono annunci di pubblica utilità, ricordando ai nostri concittadini che anche se vivono all'estero hanno diritto di voto, e che bisogna tenere le armi ben pulite. Mi sento solo, solo come non mi sono mai sentito prima.

Un fine settimana prendo il treno superveloce per Kyoto, e vado a trovare mia nonna. Quando arrivo chiamo una ragazza che conosco, Kristin, un'americana con i capelli castani e gli occhi verdi come un penny ossidato. Ci diamo appuntamento per cena. Parla di tutti gli amici che si sta facendo, e di quanto si diverte in Giappone. Mi porta in un bar dove tutti - americani, giapponesi, australiani - la conoscono. È bella e al centro dell'attenzione. Durante il viaggio in treno avevo fantasticato di baciarla, di iniziare un qualche tipo di rapporto con lei, avevo sperato che fosse la mia anima gemella. Poi non so, forse avrei preso quel treno tutti i fine settimana per andare a trovarla. Insomma, ci saremmo innamorati. Invece me ne torno a casa di mia nonna e passo il resto del weekend a mangiare dolci di fagioli guardando il baseball giapponese.

Incastrato, ecco come mi definirei. Ma sto diventando sufficientemente consapevole della mia condizione per descriverla. Il mio amico Drew fa una vita simile, e come la maggior parte della gente che vive una vita di merda non vuole analizzare esattamente i motivi per cui va così male, perché questo equivarrebbe ad ammettere di aver sbagliato qualcosa. Nei weekend andiamo a bere in un locale o tracanniamo sciroppo per la tosse. Il migliore si chiama Sariam; ti fa formicolare il cuoio capelluto per almeno quarantacinque minuti, poi ti sembra di galleggiare e dormi come un sasso per un quarto d'ora, cosa che mi va benissimo. (Ho conosciuto un ex marinaio americano che sebbene fosse stato licenziato era rimasto in Giappone per avere sempre il Sariam a portata di mano.) Una notte, dopo averne bevuto un bel po', andiamo in un club con le entraineuse e io rubo una statua di bronzo, alta poco meno di un metro, che raffigura il Buddha mentre copula con una fanciulla nella posizione del loto. Con la statua nascosta dietro la schiena, faccio un inchino alla mamasan e indietreggio fino all'uscita. Appena la porta si richiude Drew e io corriamo in strada e fermiamo un taxi. Dormo a casa sua. Quando ci svegliamo lui si agita così tanto per la storia della statua che devo portarmela via. La chiudo nell'armadio. Ogni mattina quando prendo una camicia dall'attaccapanni la guardo e penso: «Ah, ecco la statua del Buddha».

Ho aspettative superiori a quelle di Drew? Non credo. Certo, sono consapevole che la vita dovrebbe essere qualcosa di più che fingere di insegnare inglese tre ore al giorno, leggere fumetti, masturbarsi e ingollare sciroppo per la tosse. Drew si fa un sacco di canne e ascolta rock alternativo; lui almeno ha una passione. Ha subito molestie dal padre, o qualcosa del genere, anche per questo è felice di vivere ovunque quel quarantacinquenne pelato non possa piombargli nel letto ogni mattina. E io, perché sono così insoddisfatto? Non lo so. Ma so che esiste qualcos'altro. L'ho letto nei libri. E l'ho perfino intravisto quando sono stato con una ragazza e mi sono reso conto di piacerle e che saremmo stati insieme, o quando... bah, mi sa che sono stati gli unici momenti.

La mia vita è malata di piccolezza. È la vita più ridotta che io possa immaginare. Abito in questo piccolo appartamento. Salgo su treni in miniatura per pendolari. Insegno in una patetica scuola superiore. Ho amici senza senso. Non mi accade mai niente di nuovo, di grande o di eccezionale. E questo tran tran rafforza gli stretti confini della mia vita. I limiti del mio misero mondo sono marcati molto chiaramente, perfino la topografia delle mie piccole giornate e nottate è precisa e immutabile. Non so come mi sia successo, ma è successo. Tutto è prevedibile e ripetitivo, compreso il gusto del soba che mangio o del caffè in lattina che bevo quando mi sveglio.

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Pagina 32

Karen conosce dei ristoranti carini, e qualche bar fumoso ed etilico dove giapponesi con pettinature sparate, pantaloni lucidi e scarpe da ginnastica con la zeppa ballano musica trance e ingoiano tranquillanti. Insieme esploriamo la città, le boutique notoriamente carissime, i posticini tipici che servono yakitori, i bar così minuscoli da contenere solo tre sgabelli. Ma in realtà tutti questi giri per Tokyo sono elaborati preliminari al sesso più energico e salutare che io abbia mai fatto. Qualche volta ne parliamo, sdraiati sul mio pavimento di tatami nuovi. Abito sopra una tipografia, e di giorno si sente il rullo della macchina da stampa. Quando scopiamo Karen fa un casino pazzesco. Le piace parlare esattamente di quello che le sto facendo e dell'effetto che ha su di lei. - Oh, Dio, scopami, non sai quanto mi piace. Oh, sì, non smettere. - Fa un tale rumore che di notte mi preoccupo che la signora Tango, nell'appartamento a fianco, ci senta. La padrona di casa, una donna sulla settantina che si tinge i capelli di una ridicola sfumatura violacea, ama avermi ospite a pranzo o a cena, e poiché lavoro in un giornale sembra convinta che io sia una specie di intellettuale.

La mattina sguscio dal futon lasciando Karen addormentata nella stanza umida, mi infilo una camicia button-down, pantaloni e mocassini, e mi dirigo verso la metropolitana per raggiungere Tsukiji, dove l'insignificante palazzo in cui ha sede il giornale sta accovacciato su un fazzoletto di terra come una pila di scatole da scarpe schiacciate. Nella redazione lavorano una decina di americani e inglesi che scrivono gli articoli e li rivedono, e una decina di giornalisti giapponesi cui le cose sono andate così male che sono finiti in questo desolato angolo della loro azienda. Sono un branco di stanchi insoddisfatti che stoicamente traducono pezzi dal giornale giapponese da cui dipendiamo, o inventano incomprensibili titoli inglesi che noi dobbiamo risistemare. Sono anche forti bevitori, inclini ad aprire le loro monodosi di Ozeki o le loro lattine di whisky e soda alle nove della mattina. Il pomeriggio, quando staccano, le loro valigette risuonano di vetro e latta. È difficile immaginare che un tempo qualcuno di loro abbia nutrito delle ambizioni, magari quando era il direttore del giornalino dell'università, o un giovane cronista praticante, o un inviato all'estero. Eppure tutti sono stati qualcosa del genere. Hanno raccontato assassini, guerre, bombardamenti, e adesso scrivono didascalie che verranno cassate da qualche ragazzino fresco di laurea.

Mi domando che cosa capiscano delle mie aspirazioni. La maggior parte degli stranieri dello staff è sulla stessa traiettoria di carriera dei colleghi giapponesi. Sono felici di avere un lavoro. E il giornalismo è meglio delle lezioni d'inglese. Quindi si assicurano che le risposte ai giochi enigmistici siano giuste e che la cronaca del giorno pescata dalle agenzie vada bene. Io lotto per conciliare questo giornalaccio con l'orizzonte più vasto delle mie aspirazioni. Fra l'altro ci sono enormi vantaggi nel cominciare dal basso. Certi giorni mi ritrovo a scrivere il venticinque per cento del giornale. Divento il critico cinematografico, l'esperto di letteratura, inauguro una rubrica settimanale e mi assegno la maggior parte dei pezzi da prima pagina. Il giornale pubblica qualsiasi cosa io scriva: lunghe recensioni di libri (perché non ripercorrere l'opera omnia di Saul Bellow?) che si spalmano su una pagina intera, critiche cinematografiche in cui discuto di tutti i film girati sul Vietnam, rubriche in cui parlo della prima volta che ho portato fuori una ragazza, di una mia vecchia Volkswagen, delle gare con le automobiline elettriche o - il mio argomento preferito - di quanto io odi insegnare inglese. È un flusso incontrollato. Ma tutto questo scrivere finisce nel nulla. Il nostro giornale, ufficialmente letto da cinquantamila persone, in realtà non ne raggiunge diecimila. Chiedo al mio capo, Ozawa, quanti abbonati abbiamo.

- Ventitré - mi risponde.

- Ventitremila?

- No. Ventitré.

Però mi assicura che in edicola andiamo fortissimo.

Dopo il lavoro c'è Karen. Lei sostiene che la cosa più importante per andare d'accordo è la compatibilità sessuale. Se il sesso funziona, tutto il resto si aggiusta. E io, in fondo, sono d'accordo. Perché quando sei giovane e fai con regolarità del sesso fantastico, ti ubriachi, esplori una città nuova ed esotica e ti sembra di aver imboccato la direzione giusta per te e la tua carriera non puoi distinguere i singoli elementi del quadro. Si fondono tutti in questo flusso di vita complesso e inebriante. Karen scherza dicendo che viviamo immersi nel tè oolong ghiacciato e nello sperma. Io raffino le mie teorie su vita e arte. Dobbiamo vivere il momento, le dico, e se vivere il momento significa fare del gran sesso, allora dobbiamo farne ancora di più.

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Pagina 63

La prima volta che avevo avuto la chiara sensazione di poter realizzare ogni mio sogno avevo ventitré anni. Io e Trey eravamo andati a Bangkok, dove non eravamo mai stati. La notte del nostro arrivo ci eravamo inoltrati a Patpong, e con occhi sgranati, bocca aperta e stupore tardoadolescenziale avevamo passato in rassegna le file di belle donne in mostra e in offerta.

Patpong, una chiassosa e fertile striscia del quartiere Banrak, è il cuore della famosa industria del sesso della città, un fitto susseguirsi di bar, locali di spogliarello e bordelli dove qualsiasi desiderio osceno o perverso trova soddisfazione. Bangkok è il primo posto al mondo dove ho visto donne lanciare freccette con la vagina per bucare palloncini, suonare campanelli e centrare bersagli. Le ho viste estrarre dal proprio corpo serpenti vivi, aprire bottiglie di birra, spegnere fiammelle, accendere sigarette e covare uova di anatroccolo. Ho assistito ad accoppiamenti di ogni genere sui palcoscenici dei teatrini per adulti, e ho visto donne calate dal soffitto a cavallo di finte Harley-Davidson, dentro gigantesche coppe di champagne e, in uno spettacolo memorabile, sopra un asino narcotizzato dipinto come una zebra che poi... insomma, avete capito.

Sebbene ufficialmente in Thailandia la prostituzione sia illegale, si stima che i thailandesi direttamente coinvolti nell'offerta di prestazioni sessuali a pagamento siano trecentomila. In realtà un giro a Patpong o in qualsiasi altro quartiere a luci rosse del Paese induce a pensare non solo che la prostituzione sia legale, ma che le autorità la incoraggino attivamente. In Thailandia il concubinaggio ha una lunga tradizione che rende socialmente accettabile per un uomo avere numerose amanti o relazioni extraconiugali. Fino a pochi anni fa anche i sovrani thailandesi avevano delle mia noi (mogli di secondo rango), e i ricchi uomini d'affari, i jaopor (malavitosi) e i politici indulgono ancora volentieri in avventure extraconiugali. Mentre i clienti degli eleganti quartieri del piacere sembrano essere perlopiù stranieri, la grande maggioranza dell'industria del sesso thailandese si rivolge alla gente del posto.

Le ragazze di Patpong e altre accompagnatrici «etichetta d'oro» (dal colore della targhetta di plastica) sono il vertice di una complicata piramide gerarchica di squillo, hostess, spogliarelliste, massaggiatrici e battone che costano da cinquanta (un dollaro e venticinque) a diecimila baht (duecento cinquanta dollari). Le ragazze che ballano nei bar di Patpong sono sempre state l'élite dell'industria del sesso. Fino a pochi anni fa cercavano di adescare qualche americano, australiano o europeo di passaggio nella speranza di trasformare una notte a letto in una fortuna. Ma ultimamente i clienti migliori di Patpong sono ricchi affaristi asiatici giunti in città per investire nell'esplosivo mercato immobiliare o in quello azionario, ora bassissimo. - Dieci anni fa i migliori erano gli americani, - mi ha detto la tenutaria di un casino di Pattaya - adesso sono i cinesi di Hong Kong e Singapore, i coreani e i giapponesi. Quando vogliono una ragazza, sono disposti a pagare qualsiasi cifra.

E qualche volta le ragazze non sono ragazze. Molti stranieri ci rimangono male scoprendo che in realtà la sirena di Patpong su cui avevano messo gli occhi è un katoey, quel curioso tipo di transessuale che, in seguito alla riduzione del pomo d'Adamo, alla protesi al seno, alle iniezioni di collagene, alla piallatura del cranio e a massicce dosi di ormoni è diventato l'attrazione del locale. Chi non è mai stato in Thailandia faticherà a crederci, ma spesso le donne più belle dei bar di Patpong sono uomini, e questo Naddy il Pappone lo sapeva benissimo. Durante la sua prima notte in città Naddy ci era rimasto male quando, ancora inesperto, aveva rimorchiato una di queste creature e si era fatto fare un servizio orale prima di tirarle giù i jeans e di trovarsi di fronte alla verità. L'esperienza lo aveva lasciato confuso, infuriato e rancoroso nei confronti dei transessuali che fino a quella sera infestavano il SuperPussy.

Ma a parte questo genere di sorprese, fino non molto tempo fa nei famosi bordelli di Bangkok un uomo d'affari giapponese o cinese poteva trovare tutto quello che voleva. Tutto tranne una donna bianca. È stato il crollo dell'Unione Sovietica a procurare l'unica merce che ancora mancava in quel mercato di carne umana. Le russe sono arrivate a migliaia per dedicarsi al mestiere più vecchio del mondo. E sono tornate in sciami anche a Shangai, Macao, Saigon e Tokyo. Una volta un ufficiale americano addetto alla sicurezza di stanza in Estremo Oriente mi ha detto: - I russi si sono ripresi il loro posto di feccia bianca dell'Asia.

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Pagina 74

Avevo trovato un'ampia stanza, con una piccola cucina, la veranda e l'ingresso privato in un complesso di bungalow vicino al Banglamphu, sul fiume e non lontano da Kao San Road. Una donna indiana bassa e anziana, con un vestito blu simile a un'uniforme da infermiera, me l'aveva data per trecento dollari al mese. L'affitto ragionevole, però, nascondeva un trucco. La signorina Kuda pretendeva soldi per qualsiasi extra. Volevo un telefono? La biancheria lavata? Elettricità? Acqua corrente? Una cassetta della posta? Una porta d'ingresso? Un lucchetto su quella porta? Una chiave per quel lucchetto? Era tutto a parte, e alla fine pagavo quasi il doppio della cifra concordata. In compenso, essendo una padrona di casa che affittava a farang, sembrava del tutto indifferente alla condotta depravata degli inquilini. Le stanze e i bungalow affacciavano tutti sullo stesso cortile sporco, con al centro un albero della bodhi secco e qualche vaso con polverose orchidee senza fiori. Non incontravo spesso gli altri affittuari, che si dividevano in parti uguali tra farang giovani e volenterosi, che si guadagnavano da vivere insegnando inglese e passavano il resto della giornata a studiare thailandese, e stranieri più vecchi, sbandati, che dormivano tutto il giorno e a tarda notte si portavano a casa una serie infinita di puttane. A volte queste si fermavano qualche giorno, succhiando ai clienti quanti più baht riuscivano, fino a quando i guadagni per ogni pompino o scopata scendevano al di sotto del valore che le ragazze attribuivano ai loro orifizi.

Il mio vicino era un piccolo tedesco di oltre sessant'anni, con la barba e i baffi e una specie di bargiglio che gli dondolava sotto il mento quando camminava. Quando ci presentammo mi raccontò che era stato marinaio, kriesmariner, e che si era trasferito a Bangkok perché lì la sua pensione valeva molto, molto di più che a Brema. Kluter ciabattava nel cortile sozzo strascicando un po' le gambe storte, coperte di tatuaggi fino ai piedi. La ragione per cui era lì era pateticamente evidente: le donne. In quale altro posto un ubriacone tedesco di mezza età, rachitico, brutto e degenerato avrebbe potuto rimorchiare una ragazza diversa ogni sera, e permettersi anche un tetto sopra la testa e tre pasti al giorno?

- Sono ancora forte - diceva, contraendo i bicipiti delle braccia bianche e molli in modo che l'ancora, la sirena e la bottiglia di rum non sembrassero così deformate sulla carne flaccida come quando era rilassato. Ma era magrissimo. E nelle due settimane che passai lì perse altro peso. - Ci sono cose migliori del cibo in cui spendere i soldi - diceva sorridendo e agitando avanti e indietro il bacino.

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