Copertina
Autore Giovanna Grignaffini
Titolo Però un paese ci vuole
SottotitoloStoria di nebbie e contentezza
EdizioneLa Lepre, Roma, 2012, Visioni , pag. 400, cop.fle., dim. 13,7x21x2,8 cm , Isbn 978-88-96052-71-6
LettoreMargherita Cena, 2013
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


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Indice


    11   Ritorni

    91   Abitudini e altre soste

   183   Dialoghi e sospetti

   329   Congedi


   397   Ringraziamenti
_______________________________________


 

 

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Pagina 13

Estate 1989


"Fontanellato è un ridente paesino annegato nella Bassa parmense."

Avevo scritto proprio così in un tema di seconda media. E la nota a margine redatta in rosso dalla mia insegnante di lettere sottolineava quel felice ossimoro tra ridente e annegato.

In quegli anni non avrei saputo dire nulla di certo a proposito della felicità, ma quanto all'ossimoro sì, qualcosa potevo dire: era stato del tutto involontario.

Fu comunque così che cominciai a familiarizzare con le virtù, per me terapeutiche, di quella figura retorica.

Vennero poi più meditate immagini e descrizioni di Fontanellato. Un'improvvisa escrescenza del terreno tra la via Emilia e il Po. Terra di acque, argilla, fossati e resurgive: Fontana lata. Una sequenza compatta e circolare di case, mattoni e facce che si assomigliano. Una variazione di intensità dell'aria che si lascia accecare dal riverbero del verde e del marrone della terra.

O semplici referti delle sue stagioni: caldo-afoso in estate, freddo-umido in inverno.

Ma nel ricordo aveva poi cominciato a prendere forma un'immagine che si era infine imposta e trasformata nel pensiero dominante.

Trecento giornate all'anno che sempre nascono e muoiono nel grigio.

In quello stesso tema tuttavia, oltre che "ridente" avevo dichiarato Fontanellato "inabbandonabile" in ragione di molteplici sue qualità riconosciute: abitanti cordiali, porticati accoglienti, castello maestoso, viali ombrosi e piazzetta ciarliera.

In realtà lo avevo abbandonato a vent'anni. Per necessità, più che per scelta. Per normale sviluppo degli eventi, più che per disperazione. Sul camioncino che mi portava fuori dal paese insieme a una cucina Salvarani, avevo pianto. Qualche anno dopo mi ricordavo solo del grigio.

Normale sviluppo degli eventi, più che ingratitudine.


Per arrivare a Fontanellato, abbandonata l'autostrada del sole all'altezza di Parma, bisognava immettersi sull'antica via Emilia in direzione di Milano e svoltare dopo ponte Taro, verso Busseto e altre terre verdiane. Poi si poteva filare tra i campi di pomodori, di grano e barbabietole, rallentare lungo frazioni e campanili, derapare ai tre curvoni della morte, stringersi lungo le strettoie di fiumi e canali, fermarsi e imprecare ai due passaggi a livello della linea ferroviaria Milano-Bologna, eternamente chiusi. Poi si poteva riprendere velocità tra fattorie e confini di podere fino al viale di Fontevivo. Che era già un po' come essere arrivati sul viale di Fontanellato. Perché dopo Fontevivo quello che ancora ci divideva dal nostro paese e dal resto del mondo era una strada che nessuno conosceva: i forestieri non la sanno, è sempre deserta. Era una tortuosa, sconnessa e sempre polverosa strada bianca. La solita strada, bianca come il sale. Il grano da crescere, i campi da arare. Come aveva cantato Luigi Tenco, al Festival, la sera prima di ammazzarsi in una stanza d'albergo, a Sanremo.

Di strada bianca e solita, e di grano, non c'era neppure l'ombra in quel pomeriggio liquefatto dall'afa e stupefatto dal lavorìo del tempo, del catrame e del cemento. Non avevo dovuto né rallentare né accelerare mai: andamento turistico uniforme, una prova di regolarità scandita da geometrie basse e signorili, capannoni, insegne e scritte di tutti i tipi. Odore di erba secca e cemento.


Aspettavo il curvone della Ghiara che subito dopo il ponte dell'autostrada mi avrebbe portato a sfiorare il cartello blu con la scritta bianca Fontanellato. Continuavano invece a scorrere altre scritte, insegne, capannoni.

Aspettavo di vedere in lontananza, silenzioso e remoto, il cimitero; e me lo trovai invece improvvisamente di fianco soffocato da villini floreali, negozi e balconcini, tanto ordine e altre gioiosità austro-ungariche.

Era sbarrato e cadente il cinema dei preti: quello dei western, dei musical, di Totò e Marcellino tutti i sabati e le domeniche; tutti i giorni, invece, melodrammi e commedie al Cinema Fulgor, quello che stava in centro, proprio dietro la piazza. Il tempo di riconoscere l'edificio della Casa del Fanciullo e stupirmi di due nuovi caffè. Il tempo di registrare la permanenza incombente e ampliata del santuario della Madonna della Beata Vergine del Rosario... Ed eccolo finalmente davanti a me: il viale di platani e ippocastani che cingeva la parte vecchia del paese. E sul viale non c'erano dubbi: era proprio ombroso come avevo scritto e come avevo continuato a ricordare.


Rallentai. Ancora incerta se parcheggiare lì o tentare di arrivare direttamente in piazza. Si poteva passare. Ma ero sicura di voler passare? Il problema più importante infatti era riuscire a ignorare più d'una delle curiosità che scivolavano lungo la fiancata della mia macchina. E che si facevano sempre più insistenti. Mi fermai proprio di fronte al voltone, unica struttura superstite delle antiche mura, attraverso cui si accedeva al cuore antico del paese. E cominciai a prendere tempo sistemando le custodie e i nastri che avevano segnato il sottofondo musicale del mio viaggio. Prima un'operazione meccanica: il nastro, la custodia, il clic della chiusura. Poi più meditata: Beatles, Rolling Stones, Mamas & Papas. DANCING IN THE STREET ascoltato quattro volte.

Che anno è? Che mondo è?

Stava tutto lì, sul sedile grigio della macchina, quel mondo denso di trasalimenti e scoperte, che ancora si affacciavano dalle fotografie sbiadite del beat italiano: i Nomadi, i Rokes, l'Equipe 84. Era invece scivolata sul tappeto la custodia dei Corvi. Ma sì, proprio loro, quelli che sono proprio tutti di Parma, ve'!

Dylan e Beach Boys davano ancora un tremito nel toccare quelle loro cassette così preziose, ma il sussulto diventava quasi religioso nello sfiorare la custodia dei grandissimi Otis Redding e Aretha Franklyn.

Gli anni erano quelli. Il catalogo era questo.

Solo che tra le sonorità astrali di US AND THEM dei Pink Floyd e di SUNSHINE OF YOUR LOVE dei Cream, si era insinuato anche il martelletto pneumatico e tutto terreno di IN THE SUMMERTIME dei Mungo Jerry. Leggero sgomento.

Svista della mia memoria compilativa o svista degli innamoramenti di una intera epoca?

E, soprattutto, era questo il catalogo?

Accesi di scatto la radio. C'è da spostare una macchina! L'urlo di Francesco Salvi illuminò parole come discrimine e confine, segnalando con forza che un'aria comune del tempo, tra tutti i pezzi della mia collezione privata di nastri, comunque sussisteva. E giunse a confortarmi circa l'esistenza di un presente che il tragitto Roma-Fontanellato aveva per un lungo momento fatto sprofondare.

Riavviai la macchina lentamente e passando sotto il voltone mi accorsi che stavo sempre più abbassando la mia posizione di guida. Mi protesi immediatamente sul volante scollando gli abiti dal sedile, e pensando che il grigio metallizzato e spento dalla polvere della mia Alfa 154 mi avrebbe consentito ancora per un po' di attutire il frastuono degli sguardi: che si insinuavano, credevano di riconoscere, si stupivano, prendevano forza dal convincersi che avevano davvero riconosciuto, si avvicinavano impietosi e insistenti, domandavano e non si spiegavano come mai solo ora. Forse, finalmente?


L'orologio della torre centrale del castello segnava le cinque in punto nel momento in cui con lo sguardo potevo di nuovo tornare ad abbracciare la piazza, che non era più la stessa. Forse aveva già cominciato a cambiare quando ancora abitavo lì, come la via Emilia e la strada bianca dopo Fontevivo: solo che per troppo guardare avevo finito per non accorgermene. O forse perché, talvolta, essendo ancora lì si è già partiti. Sparito il ciottolato irregolare su cui si correva scalzi ed era difficile controllare i rimbalzi della palla o il precario incedere dei primi tacchi, sparite le tinte sbiadite e le incrostazioni delle facciate che raccontavano di tempi ancora capaci di invecchiare, anche il castello sembrava diverso. Più piccolo, più lindo e meno maestoso, assediato da tutte le parti dalle trasparenze delle vetrine e delle banche, dalle geometrie regolari dei portici, delle sedie e dei tavolini dei due caffè. L'immagine complessiva non era sgradevole, ma i dettagli erano tutti traditori.


Per me era sempre stato difficile attraversare, da sola, la piazza, che allora mi sembrava immensa. Apparentemente calma. Insidiosa. Non era tanto per quel dover continuamente salutare ed essere salutati, sorridere, parlare, informare e essere informati: in un piccolo paese il tempo non è che espansione spaziale di un buongiorno o di una notizia; ma per quell'insopportabile idea di essere in piazza.

E poi, al Caffè Centrale, c'erano i ragazzi.

Mi sentivo più tranquilla quando avevo una meta da esibire e che tutti potevano direttamente controllare. Andare a prendere l'acqua alla fontana, andare al Bar Sport a chiamare il babbo per la cena, andare a chiamare la Cinzia che stava in piazza dalla parte opposta a casa mia, andare in tabaccheria a prendere le sigarette per mia madre. Cinque esportazioni nella bustina, e, per me, una bustina con le mentine. Più tardi, un pacchetto, due pacchetti, e, per me, le lamette per depilarsi i primi peli.


Di non trovare più la vecchia tabaccheria sotto il portico, all'angolo della piazza, non me lo sarei mai aspettata. Allora non fumavo, ma quella non era solo una tabaccheria. Era uno spazio di desideri e libertà. Un deposito ombroso e intricato, un labirinto in cui stazionavano accatastate tutte le cose utili e le più inutili delle meraviglie. Avevo potuto spiarci le copertine di Topolino e Grand Hotel, accarezzarci gli involucri di plastica dei giocattoli, acquistarci ombretti, profumi e il portafoglio similpelle: il primo regalo fatto. Lì, soprattutto, avevo saputo della morte di Kennedy e avevo pianto. Avevo poi anche saputo che tutti quelli della mia generazione ricordavano esattamente dove si trovavano quando era piombata su di loro quella notizia.

Tutti quelli. Ma quanti? E, soprattutto, la mia generazione?


L'altra tabaccheria invece, quella che stava sotto casa mia a Roma, sempre inondata di luce e del caldo riflesso delle cupole, era molto più piccola e vendeva solo sigarette e cartoline. Io ci andavo regolarmente per i biglietti dell'autobus. Il padrone all'inizio era simpatico, mi sorrideva e staccava i biglietti dell'autobus. Qualche volta parlava del tempo e di suo figlio che con un diploma non trovava lavoro. Poi cominciò a non aver più nulla da dire su suo figlio e sul tempo. E staccava sempre più silenzioso i biglietti dell'autobus.

Quando il disagio per quei silenzi divenne insopportabile, prima cambiai tabaccheria, poi cominciai a fumare. Venni così a sapere in quella luminosità che con un diploma, a Roma, qualche lavoretto sì, ma un lavoro fisso ancora niente.


Arrivai a casa di mia zia esausta. Ancora stordita dal rimescolio sudaticcio della piazza. Mani tese e poi strette, sguardi penetranti e talvolta respinti, rossori e stupori. "No, non mi sono sposata", Fai bene, c'è tempo, però una famiglia ci vuole, Roma sì che è una grande città, Però Funtanlè l'e un gran paes. E promesse di andare a trovare, rivedere, raccontare.

E il farmacista che si ricordava di quando, da piccola, mi facevo regalare tubetti di Formitrol in scadenza, anche senza la tosse perché lo masticavi come il pane. E Antonio che si ricordava di quando, da piccola, correvo con lui il sabato sera al Caffè Centrale: prima fila, mano nella mano, un bicchiere di acqua minerale con la fetta di limone, adesso tutti zitti!, sta per cominciare Studio Uno. E la Daria che si ricordava di quando, da piccola, camminavo al suo fianco alla processione dell'Assunta, davanti a tutti, anche al prete: vestite di tulle e di bianco, ghirlanda di fiori tra i capelli e, nel cesto, petali di rosa da lanciare lungo il percorso.

E tutti che, da piccola, prima o poi, mi avevano pagato un gelato da cinque lire.

Ero tornata. Dovevo ricominciare da piccola.

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Pagina 76

Cinzia versava da bere. Rideva, parlava e versava da bere. Carlo continuava a sorridere. Qualche volta annuiva, fumava e tornava a sorridere.

Aspettavano, Cinzia e Carlo. Timorosi e fiduciosi aspettavano: un gesto di assenso nei miei movimenti, qualche gesto di conferma in quelli di Franco. Ma i nostri gesti, già liberi dall'innocente trepidazione per quella prova, si muovevano ormai là, in quella zona franca e irraggiungibile in cui anche gli sguardi hanno cessato il loro assedio.

Sotto il tavolo, e con i bicchieri appoggiati sulle sedie, aveva le labbra tenere. E dolci. Gli tenevo la testa tra le mani come fosse una coppa dal contenuto prezioso: da assaporare lentamente, a lungo e ancora lentamente, sapendo che la bocca non ne sarebbe mai stata sazia.

Nessuno più parlava da un pezzo quando Cinzia decise che in quella casa c'era troppo disordine. Potevo sentirla lavare i piatti e i bicchieri accumulati in cucina, raccogliere stoviglie sparse sul pavimento, ripiegare giornali, spostare e rispostare sedie e divani. Fino al momento in cui anche Carlo decise che si era fatto troppo tardi. Franco se ne andò con lui, mentre io rimasi a dormire da Cinzia: avevo voglia di sentire raccontare di un paese che non conoscevo più.


Ma tutto quello che venni a sapere da Cinzia, quella sera, fu che la mamma di Franco se ne era andata in Svizzera, molti anni prima, con un altro uomo. Per il resto, aleggiava molto mistero e distanza tra noi e intorno al mio desiderio di chiedere. Non riusciva neppure a guardarmi quando riusciva, infine, a parlare. E continuava a trovare sempre nuovi dettagli da riordinare e strofinare.

Cercai la via più facile verso la complicità e provai a mettere un disco. Invano. Mentre la voce di Mina intonava lo stupore della notte spalancata sul mar, ci sorprese che eravamo sconosciuti io e te, Cinzia continuava a riordinare senza guardarmi. Fu irremovibile anche al primo se telefonando... Ma quando arrivò se guardandoti negli occhi potessi... la urlammo insieme a squarciagola, quella frase, e ci abbracciammo.

Mi accorsi che piangeva. E non riuscii proprio a capire perché, subito dopo la fine del disco, Cinzia avesse ripreso a preparare la camera e il letto per me, sempre senza parlare.


Sui suoi 32 anni potevo anche non aver nulla da ridire. Il senso diceva che era molto giovane, troppo giovane per me, ma il numero era assolutamente perfetto. E allora perché, subito, in quel modo, aver avuto voglia di baciarlo? Prima di sapere, conoscere, aspettare, verificare, controllare: avere delle prove. "Ti ho baciato tutta la sera e non so neppure che libri leggi", gli avevo detto ridendo prima dei saluti. In realtà non si potevano chiamare semplicemente baci, i nostri. Ci eravamo saputi, conosciuti, perlustrati, leccati, assaporati, aspettati, verificati, controllati dentro le bocche, tra le nuche, lungo le attaccature dei capelli e delle orecchie. Tra le mani che non riuscivano a fermarsi e nei respiri che si fermavano insieme.

Più che cercare di capire dovevo soprattutto cercare di rivederlo.

Cinzia era uscita da poco. Aveva preparato la colazione e cercato in tutti i modi di non svegliarmi. Io avevo cercato di non deludere i suoi movimenti accorti, ma il rumore della porta che si chiudeva mi aveva immediatamente autorizzata ad aprire gli occhi, alzarmi, bere il caffè e accendermi una sigaretta. Dopo pochi minuti ero già vestita e pronta a uscire. Non erano ancora le nove ma avevo già voglia di essere in quella piazza che costringe a salutare e a essere salutati, in cui incontrarsi diventa una necessità perché in essa tace il potere del caso.

Non bevvi il solito espresso al Caffè Centrale. Ci aggiunsi molto latte. Volevo durasse più a lungo.

Qualcuno parlava di un poker finito all'alba, cose grosse, roba da milioni, ha perso ancora Malesani. Immaginavo Daniele nel gesto di arraffare e nascondere centinaia di fiches dentro il suo enorme borsello color ruggine. Non lo aveva mai abbandonato, la sera della cena da Marco. Daniele amava vincere. Diversamente da Carlo, che giocava per il piacere di assecondare o trasgredire le regole del poker. Il gioco lo richiedeva, oppure Questa volta volevo sfidare le carte, era solito ripetere dopo un punto perso.

Il proprietario del Caffè Centrale smentiva indignato: "volete far venire i carabinieri? Ma era un semplice tresette...". Io sfogliavo i giornali in modo diverso dal solito: saltavo i titoli, assaporavo le parole. Anche se gli esiti dei titoli mi rimbalzavano nelle orecchie con fragore: per la prima volta in Polonia vanno su i non comunisti, nelle procure ci sono dei gran corvi, degli uccellacci neri e mentitori... "Ma a me Giovanni Falcone non me lo possono proprio toccare", commentava Enzo il calzolaio. Che non aveva più il grembiule di cuoio marrone allacciato con due stringhe sopra la canottiera blu.

Non dovevo guardare con troppa insistenza verso quella strada che sbucava nella piazza subito dopo la macelleria, a destra del caffè. Programmai i miei sguardi in quella direzione. 2 4 6 8...

Al primo 64 apparve la mamma di Angelo, arrivò fin davanti a me e cominciò a fissarmi con attenzione: i saluti furono brevi e svagate le mie parole. Al secondo e al terzo 64 non apparve nessuno. Ma da altre parti era sbucato il barbiere che andava a comprare il giornale e due vecchiette vestite di nero che accelerarono il passo quando dal campanile risuonò l'ultimo richiamo della messa domenicale delle 9:30.

Mi distrassi poi per un lungo momento all'arrivo in piazza del Grigio. Chiamavamo così, da piccoli, l'uomo che distribuiva il ghiaccio nelle case. Sempre con quel suo camice reso più grigio dal bagnato, e quella faccia ancora più grigia e quella schiena ricurva come ora. Il suo arrivo per noi era però una festa. Ci schieravamo tutti intorno al suo carrettino e restavamo in attesa, immobili e golosi. Ansiosi di vedere qualche scheggia staccarsi dal blocco granitico mentre la lama d'acciaio lo divideva in parti per la consegna, ansiosi di portare alle labbra quel freddo duro e insapore. Felici di rincorrerne con la lingua e le labbra l'anima gelata che si scioglieva senza sosta lungo il braccio.

Per molti altri 64 ancora non apparve nessuno. L'apertura della strada alla mia destra restava irrigidita come una bocca spalancata e muta. Chiara passò rapida e in silenzio con la bicicletta, solo con la mano fece un gesto di saluto. Anche le orecchie del suo barboncino champagne che fluttuavano fuori dal cestino davano aria al nostro scambio silenzioso. Daria, invece, si sedette al mio tavolo per qualche minuto, il tempo giusto per un caffè e sigaretta e per lasciarmi osservare in piena luce che nei suoi capelli non c'erano più tracce di segatura. D'altra parte, suo padre non era più il proprietario della segheria di compensato che stava appena fuori del paese sulla provinciale verso San Secondo, ma il titolare della Fratelli Dallatana "mobili in stile, sei occhi di vetrine". Un'attività che era andata a occupare tutto lo spazio enorme lasciato libero dal vecchio asilo. Disse ancora proprio così, Daria, prima di andarsene, "sei occhi di vetrine".

Cambiai tattica. Cominciai a seguire il movimento delle persone che dalla piazza si dirigevano verso quella strada. Alcune procedevano sicure, decise a lasciarsene inghiottire. Le accompagnava la mia approvazione. Altre tentennavano, si fermavano, tornavano indietro. Mentre io cercavo prima di sospingerle con il mio sguardo, per poi abbandonarle al più totale disprezzo.

Come si chiamava quella strada? Via Milano? Via Roma?

No, via Roma era certamente il viale, ne ero sicura. Lo leggevo sulla Gazzetta di Parma il giorno dopo della gara ciclistica del 16 agosto: Si è svolta ieri, nello splendido anello di viale Roma...

Non era solo un problema di memoria o di distanza. È che nei paesi non si sanno i nomi delle strade. Si conoscono a memoria, si amano, si percorrono mille volte al giorno senza aver bisogno di chiamarle mai per nome. Oppure si chiamano con i nomi delle cose e dei posti che ci stanno dentro. Soprattutto quando bisogna dirle ai forestieri che cercano di qualcosa o di qualcuno: la strada della farmacia, la strada del forno, la strada della chiesa, la strada del voltone... Ecco, quella che cercavo di non guardare in quel momento era proprio la strada del voltone. Era la più breve e la più bella tra quelle che, dalla piazza, si aprivano a raggiera verso il viale.

Partiva piano, stretta come la parte inferiore di un imbuto, con il fruttivendolo e la merceria che si fronteggiavano e si rubavano lo spazio quando riuscivano, in estate, a mettere fuori i loro banchetti. Poi si distendeva nella curva ampia della drogheria, inondata tutti i giorni, verso sera, di profumo di ciambella e crostate, che si mescolava con quello più acre del castagnaccio, nei sabati d'autunno.

Dopo la curva, e prima del breve rettilineo che portava i muri a raccogliersi e confondersi nei mattoni rossi dell'antica arcata, sulla destra, lungo il profilo regolare del caseggiato, si apriva un minuscolo e sempre polveroso cortile quadrato: là c'era la casa di Franco.


Era di un azzurro tenue, smorzato dalle troppe volte in cui doveva essere stato lavato, quasi grigio, senza avere del grigio la spenta bellezza, il colore della camicia di Franco quando quella domenica mattina, verso le dieci, sbucò dalla strada del voltone, si avvicinò al mio tavolo, ordinò un caffè, mi sorrise e, sedendosi, disse:

– Sai, nella mia famiglia abbiamo nomi come Ermete e Ubaldina. Volevo che lo sapessi da me prima che da altri.

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Pagina 110

Una visita a Carlo invece avrei potuto fargliela. Ero arrivata proprio lì, davanti alla porta d'ingresso della biblioteca. Non c'era nulla da spiegare e giustificare. Bastava aprire la porta e dire semplicemente "sono passata a salutarti". Come si faceva una volta a Fontanellato e a Bologna: si passava a prendere, salutare, fermarsi a parlare. Non come a Roma dove bisognava telefonare, avvisare, prenotare.

Mi sembrò un pensiero gentile che Carlo avrebbe accolto con il suo bene, bene, bene. E c'era anche da chiedergli di queste giovani guide che stravolgono la nostra storia.

Mentre mi avvicinavo alla porta della biblioteca però quella visita inattesa assumeva sempre più i contorni dell'intrusione inopportuna. Forse Carlo non aveva piacere a farsi scoprire sul luogo di lavoro dai suoi amici. Forse lo avrei messo in imbarazzo sorprendendolo tra quegli scaffali dentro cui aveva volontariamente deciso di seppellire ogni ambizione. Ambizione: faticavo a ritrovare in Carlo l'espressione e gli atteggiamenti di chi ne aveva avuta, almeno una volta, qualcuna. E poi lavorare in quella biblioteca gli era sempre piaciuto, conforme com'era, quella scelta, al suo ideale di vita vissuta con il minimo dispendio di energie. Diceva Carlo: "tu stai lì tutto il giorno seduto a fumare e a leggere dei librini. Al caldo in inverno e al fresco in estate. E ti pagano pure".

Chissà cosa leggeva, in quel periodo, Carlo. Era stato lui a parlarmi la prima volta di Pavese. Quando ancora il vecchio bibliotecario continuava a dirci di leggere i russi, che con quelli si impara a vivere. Lui era per LA BELLA ESTATE, io per LA LUNA E I FALÒ: è meno bello lo so ma mi fa sempre piangere. E poi è suddiviso in trentadue capitoli. Non gli era invece riuscito il tentativo di trascinarmi sulla strada di Proust, che avevo percorsa con una estenuante e solo diligente lettura.

Accarezzai anche l'idea di dire che ero lì per prendere un libro in prestito. In fondo quello era un luogo pubblico in cui la gente era invitata e sollecitata a entrare, chiedere libri, firmare un registro, salutare e andarsene. Era tutto molto semplice: bastava convincersi che una biblioteca era proprio una biblioteca.

Ma quale libro? FUGA SENZA FINE. Certo, Joseph Roth, Carlo lo conosceva, e quell'irrimediabile girare a vuoto di Franz Tunda doveva essergli anche piaciuto. Così simile al suo irrimediabile stare sempre lì, a Fontanellato. Troppo allusivo, meglio chiedere HOTEL SAVOY. O cambiare del tutto autore affidandosi a DOPPIO SOGNO, di Arthur Schnitzler. E se Carlo avesse trovato tutti quei libri solo troppo di moda? Chiedere Proust sarebbe stato un gioco troppo scoperto. Una vera e propria prova del fatto che non ero lì per chiedere un libro in prestito.

"Sono passata a darti un saluto in attesa degli aperitivi", mi dissi decisa aprendo la porta di legno della biblioteca. "FUGA SENZA FINE", pensai in un lampo chiudendomela lentamente alle spalle.

Perché il posto era molto più grande e molto più stracolmo di libri di quanto ricordavo, ma ancora più grande fu l'imbarazzo di Carlo nel vedermi entrare.

Stava seduto, sulla destra dell'ingresso della biblioteca, sotto la grande finestra, dietro una scrivania barricata di libri. Al suo fianco, un'altra scrivania, più piccola e anch'essa barricata di libri. Fino quasi a nascondere il volto di un giovane ragazzo.

Erano entrambi intenti a scrivere qualcosa quando entrai, e l'impressione che Carlo tentasse maldestramente di nascondere questo qualcosa non mi abbandonò per tutto il tempo in cui rimasi in quella biblioteca.

Non bastò a tranquillizzarmi neppure il suo bene, bene, bene. È proprio grasso, pensai mentre gli chiedevo se aveva qualche lettura divertente da consigliarmi.

– Il divertimento è già nel poter leggere – disse alzandosi e sistemandosi la maglietta a polo color beige che cascava così compattamente sui pantaloni grigi da non dare affatto l'impressione di aver dovuto attraversare il punto vita.

Quell'ammasso imperturbabile di fibre senza energia non avrebbe mai potuto spingersi da un treno all'altro, da una città all'altra, ogni settimana, tutti i lunedì. Poteva però mettermi comodamente al corrente delle sue ultime riflessioni in materia di buste:

– Avrei maturato questo pensiero: una busta vuota è come la nebbia o il deserto. Una sfida al senso e alla sua unicità.

Sempre a maturare pensieri, Carlo. A sfidare luoghi comuni e ovvietà. A tenerci costantemente in esercizio contro ogni conquista definitiva. Anche quelle della ragione. E infatti aggiunse:

– Mi riferisco al deserto dei sentimenti, ovviamente, quello di cui ben si narra nel passaggio in cui Caterina Caselli, dice: l'amore mi fa molto, molto ridere.

Tornavo a casa leggera e frizzante come una fortanina, dopo ogni pomeriggio con Carlo. Mai stanca, e interamente protesa sul mondo.

Adesso cercava di illustrarmi il criterio di catalogazione dei libri negli scaffali, un criterio che ignorava i più recenti corsi di aggiornamento in biblioteconomia. Perché "se è vero che un uomo si conosce a partire dalla sua biblioteca ho provato ad agevolare il lavoro dei posteri".

– Qui ci sono i cento libri che, in caso di naufragio, vorrei portare con me su un'isola deserta: libri, ricordati, non autori, solo per Proust vale il concetto complessivo di opera. La lettera S che li identifica sta per sublime, e la progressione numerica è semplicemente alfabetica.

Che cosa ci faceva in quello scaffale LA CRITICA DEL GIUDIZIO, di Kant? Quel libro l'avevamo maledetto a lungo insieme, durante l'interminabile estate che precedette il nostro primo esame di estetica. Lungo le sue pagine, molte volte, era corso avanti veloce, si era fermato, girato e sempre mi aveva aspettato paziente. Non aveva mai nominato il suo amore per me. Solo raccolto la mia stanchezza nel palmo accogliente della sua larga mano.

– Qui ci sono i mille libri che bisogna aver letto, almeno una volta, nella vita. Perché con essi, forse non si impara a vivere, come diceva il nostro vecchio bibliotecario, ma a condividere la comune condizione umana, questo sì. E la lettera U sta per utile.

Era curioso seguire con lo sguardo quella progressione numerica, semplicemente alfabetica, che aveva portato il libro U 937 e U 938 a starsene abbracciati sull'ultimo ripiano: cioè LA LUNA E I FALÒ e FUGA SENZA FINE.

– Questi invece sono i libri A N, cioè assolutamente necessari, sono alcune migliaia e destinati a crescere.

Ebbi un sobbalzo e non mi rincuorò talvolta approdare sui nomi familiari di Hammet, Chandler e Simenon, dispersi in quel deserto anonimo di autori e titoli su cui campeggiava la serie completa dei gialli Mondadori. Era tutto giallo, giallo intenso, giallo ocra, giallo-arancione e giallo canarino un po' spento.

Carlo si accorse del mio sgomento e si vide costretto a spiegare:

– In fondo il giallo è l'unica forma che ci è rimasta per descrivere il nostro presente.

Non mi divertiva più e non riuscivo più a guardarlo mentre diceva:

– Ci sono poi i libri che insegnano a trovare un centro di gravità permanente e quelli che insegnano a ritrovare le nostre tradizioni: tutti catalogati nella R, R come radici. Tutti i libri di politica li ho invece lasciati senza nome.

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Pagina 153

Quello che però avevo veramente temuto fin dall'inizio della serata accadde verso mezzanotte, quando Marco salì sul palco sulle note di LET'S TWIST AGAIN di Chubby Checker, si impossessò del microfono e chiese qualche attimo di silenzio. Mentre cercavo di riallineare nella mente il repertorio di belle frasi che avevo a disposizione per quella occasione, potevo constatare soddisfatta che la miscela di musica, vini frizzanti, cocktail e superalcolici componeva un profilo shakerato e ondeggiante che avrebbe potuto smorzare l'impatto di qualsiasi onda d'urto emotiva. Marco si cimentò allora nella facile impresa di rinsaldare il vecchio spirito di gruppo, e, prima, ci costrinse a cantare con Shel, tutti in piedi, il braccio proteso verso la linea dell'orizzonte, è la pioggia che va e ritorna il sereno. La risposta fu generale, a pieni polmoni e compatta. Marco però ci costrinse anche a saltare come forsennati sul dumdumdumdumdum... dum di GIMME SOME LOVIN'. E questa volta qualche debito d'ossigeno e di coesione venne registrato lungo il blu del linoleum. Senza scoraggiarsi, Marco riprese il microfono e cominciò a parlare.

Diceva dei favolosi anni Sessanta, quelli che hanno dato al paese le forze migliori, questa mia generazione destinata a un mondo nuovo a una speranza appena nata, l'ultima vera generazione che abbia avuto questo nostro paese.

Parlava di Fontanellato o dell'Italia?

Ultima vera generazione fu comunque accompagnato da molti applausi e molti fischi. Non riuscii a decidere se erano di più i fischi o gli applausi, ma il dato risultava irrilevante e comunque inquietante di fronte alla constatazione che proprio io stavo per essere chiamata a salire sul palco.

Il momento arrivò. Marco continuava a dire "solo quelli che hanno vissuto gli anni Sessanta da protagonisti...", spiegava che costoro dovevano salire uno a uno sul palco e scegliere il disco-simbolo, per ciascuno, di quel periodo, e doveva cominciare proprio...

Aspettavo che il mio nome si abbattesse su di me. E lui, lo pronunciò: Francesca.

– Francesca, la migliore tra noi perché se ne è andata, ma soprattutto perché non è riuscita a non tornare.

Con ampi gesti delle mani e del capo, io tentavo ancora di cambiare il corso della storia, Cinzia oltre a dire che si trattava di un tributo necessario mi afferrò un braccio sollevandomi dalla sedia, il Blu Not cominciò a scandire Fran-ce-sca Fran-ce-sca e Carlo disse:

– Questi ottomila sguardi concentrati verso di noi stanno producendo una smodata sudorazione della mia polo.

Mi alzai e, su gambe molto rigide, arrivai fino a Marco che mi accolse con un abbraccio, mi baciò sulla bocca e riuscì a colpirmi sotto il mento con il microfono. Dissi letteralmente che ero confusa e felice, tipo concorso letterario o consegna di altri premi.

Sul disco avevo già deciso, perché ogni volta che in quei giorni ripensavo a quei favolosi anni tornava sempre fuori quella contentezza un poco idiota e stralunata. Quella che ti prendeva ogni volta che i Kinks suonavano WONDER BOY. C'erano dei pezzi più belli e più famosi dei Kinks, ma WONDER BOY riempiva proprio l'aria di quel che eravamo. E poi, quel disco, non era arrivato a Fontanellato dalla radio, ma lo aveva portato Marco, direttamente da Londra.

Sulla frase da dire, invece, aleggiava ancora molta incertezza, perché si poteva prender tempo con la distanza che non è vera distanza e le radici che sono vere radici, ma dalla tautologia prima o poi bisognava uscire. Assolutamente da escludere lontano dagli occhi lontano dal cuore, date le circostanze. Da biasimare mariti e buoi dei paesi tuoi e un paese come il sangue non è acqua.

Decisi per una frase breve e un po' birichina, densa di ammiccamenti ma che lasciava aperte molte altre strade, carica di storia ma infilzata direttamente nel vuoto. Prelevata, soprattutto da paesaggi su cui continuavano a splendere LA LUNA E I FALÒ. Feci una lunga sospensione e dissi: — ...PERÒ UN PAESE CI VUOLE.

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