Copertina
Autore John Grisham
Titolo Ultima sentenza
EdizioneMondadori, Milano, 2008, Omnibus , pag. 408, cop.ril.sov., dim. 16x24x3 cm , Isbn 978-88-04-58091-1
OriginaleThe Appeal
TraduttoreNicoletta Lamberti
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe narrativa statunitense , gialli , thriller
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Pagina 9

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La giuria era pronta.

Dopo quarantadue ore di discussioni a seguito di un processo di settantun giorni, che aveva comportato cinquecentotrenta ore di deposizioni rese da una quarantina di testimoni, e dopo una vita intera trascorsa a sedere in silenzio mentre gli avvocati cavillavano, il giudice pontificava e gli spettatori scrutavano come falchi in cerca di segnali rivelatori, i giurati erano pronti. Chiusi a chiave nella saletta riservata, isolati e in totale sicurezza, dieci di loro firmarono orgogliosi il verdetto, mentre gli altri due se ne stavano rabbuiati nei rispettivi angoli, distaccati e scontenti nel loro dissenso. Ci furono abbracci, sorrisi e non poche congratulazioni reciproche perché erano riusciti a sopravvivere a quella piccola guerra e ora potevano rientrare con fierezza nell'arena con una decisione a cui erano arrivati per pura forza di volontà e testarda ricerca del compromesso. La dura prova era finita, il dovere civico adempiuto. Avevano servito al meglio delle loro capacità. Erano pronti.

Il portavoce bussò alla porta, scuotendo Zio Joe dal suo assopimento. Zio Joe, il vecchio ausiliario della giustizia, aveva fatto la guardia ai giurati, ne aveva ascoltato le lamentele, aveva trasmesso discretamente i loro messaggi al giudice e aveva anche provveduto ai pasti. Si vociferava che da giovane, ai tempi in cui il suo udito era migliore, Zio Joe avesse ascoltato di nascosto le discussioni delle giurie, origliando attraverso una sottile porta di legno di pino che lui stesso aveva scelto e installato. Ma ormai i giorni dell'ascolto erano finiti e, come aveva confidato solo alla moglie, dopo le fatiche di quel particolare processo non era escluso che decidesse di appendere definitivamente al chiodo la sua vecchia pistola. Lo stress del controllo della giustizia lo stava sfinendo.

L'ausiliario sorrise e disse: «Splendido. Adesso avverto il giudice», quasi che il giudice se ne fosse stato rintanato da qualche parte nei meandri del tribunale in attesa della chiamata di Zio Joe. Che invece, come d'uso, si rivolse a un'impiegata alla quale trasmise la meravigliosa notizia. Era veramente eccitante. Quel vecchio tribunale non aveva mai assistito a un processo così importante e così lungo. Concluderlo senza una decisione sarebbe stata un'autentica vergogna.

L'impiegata bussò delicatamente alla porta del giudice, poi fece un passo all'interno dell'ufficio e annunciò con orgoglio: «Abbiamo il verdetto», come se avesse preso parte personalmente ai faticosi negoziati e adesso ne stesse offrendo il risultato come un regalo.

Il giudice chiuse gli occhi ed emise un sospiro profondo e soddisfatto. Fece un sorriso felice e nervoso di enorme sollievo, quasi d'incredulità, e poi finalmente disse: «Convochi gli avvocati».

Dopo quasi cinque giorni di discussioni, il giudice Harrison si era rassegnato alla possibilità di una giuria incapace di decidere: il suo peggiore incubo. Trascorsi quattro anni di battaglie legali senza esclusione di colpi e quattro mesi di un processo combattutissimo, l'idea di un mancato verdetto lo faceva stare male. Non riusciva neppure a pensare alla prospettiva di dovere ricominciare tutto da capo.

Infilò i piedi nei vecchi mocassini, si alzò di scatto dalla poltrona sorridendo come un ragazzino e allungò la mano verso la toga. Era finita, il processo più lungo della sua variegata carriera si era concluso.

La prima telefonata dell'impiegata fu per lo studio legale Payton & Payton, una ditta marito-e-moglie che al momento aveva sede in un magazzino abbandonato in una delle zone più desolate della città. Fu un paralegale a rispondere. Ascoltò per qualche secondo, riattaccò e poi gridò: «La giuria ha il verdetto!». La sua voce echeggiò nel cavernoso labirinto di piccole postazioni di lavoro temporanee, facendo sobbalzare i colleghi.

Urlò di nuovo la stessa frase correndo verso "il Pozzo", dove anche gli altri componenti dello studio stavano convergendo freneticamente. Wes Payton si trovava già lì e, quando sua moglie Mary Grace arrivò di corsa, gli sguardi dei due si incontrarono in una frazione di secondo di smarrimento e paura sfrenata. Due assistenti, due segretarie e una contabile si ritrovarono intorno al lungo, ingombro tavolo da lavoro e di colpo si immobilizzarono, guardandosi attoniti in faccia, ognuno in attesa che qualcuno parlasse.

Possibile che fosse veramente finita? Dopo che avevano aspettato per un'eternità, possibile che tutto terminasse così d'improvviso? Così bruscamente? Con una semplice telefonata?

«Propongo un momento di preghiera in silenzio» disse Wes. Tutti si presero per mano formando un cerchio serrato e pregarono come non avevano mai pregato prima. Le suppliche che si alzarono verso Dio Onnipotente erano formulate in modi diversi, ma la richiesta comune era di vittoria. Per favore, Signore, dopo tutto questo tempo, tutti questi sforzi, spese, paura e dubbi, per favore concedici una vittoria divina. E salvaci dall'umiliazione, dalla rovina, dalla bancarotta e dal cumulo di altri mali che comporterebbe un verdetto negativo.

La seconda telefonata dell'impiegata fu al cellulare di Jared Kurtin, l'architetto della difesa. Mr Kurtin si stava tranquillamente rilassando sul divano di pelle noleggiato per il suo ufficio provvisorio in Front Street, nel centro di Hattiesburg e a soli tre isolati dal tribunale. Stava leggendo una biografia e lasciava che le ore trascorressero a settecentocinquanta dollari l'una. Ascoltò con calma, richiuse il cellulare con uno scatto secco e ordinò: «Andiamo. La giuria è pronta». I suoi soldati in abito scuro scattarono sull'attenti e si disposero in fila per scortarlo verso un'altra schiacciante vittoria. Uscirono dall'ufficio senza fare commenti e senza preghiere.

Altre telefonate raggiunsero altri avvocati e poi i giornalisti. Nel giro di pochi minuti la voce era già arrivata in strada e andava diffondendosi rapidamente.


Da qualche parte vicino alla sommità di un alto palazzo in lower Manhattan, un giovanotto apparentemente in preda al panico piombò nel bel mezzo di un'importante riunione e sussurrò la notizia a Mr Carl Trudeau, il quale perse immediatamente interesse per gli argomenti in discussione, si alzò in piedi di colpo e annunciò: «Sembra che la giuria abbia raggiunto un verdetto». Uscì dalla sala, percorse il corridoio ed entrò in un'ampia suite d'angolo, dove si tolse la giacca, allentò la cravatta, si avvicinò a una finestra e attraverso la penombra del tardo pomeriggio guardò il fiume Hudson in distanza. Aspettò e, come al solito, si chiese in che modo tanta parte del suo impero potesse dipendere dalla saggezza di dodici cittadini medi del retrogrado Mississippi.

Per essere un uomo che sapeva così tanto, continuava a trovare sfuggente la risposta.


C'era gente che si affrettava verso il tribunale da ogni direzione, quando i Payton parcheggiarono nella strada dietro l'edificio. Rimasero in auto per un momento, tenendosi per mano. Per quattro mesi avevano cercato di non toccarsi mai nelle vicinanze del tribunale: qualcuno avrebbe potuto vedere. Un giurato o un giornalista. Era importante essere il più professionali possibile. La novità di una coppia di legali sposati sorprendeva la gente e i Payton cercavano di comportarsi tra loro come avvocati, non come coniugi.

E nel corso del processo c'erano state ben poche possibilità di toccarsi anche lontano dal tribunale, o da qualsiasi altra parte.

«Come ti senti?» chiese Wes senza guardare sua moglie. Il cuore gli martellava e si sentiva la fronte sudata. Stringeva ancora con forza il volante con la mano sinistra e continuava a ripetersi che doveva rilassarsi.

Rilassarsi. Si fa presto a dirlo.

«Non ho mai avuto tanta paura» rispose Mary Grace.

«Io neppure.»

Una lunga pausa, mentre tutti e due respiravano a fondo e osservavano il furgone di un'emittente televisiva che per poco non investiva un pedone.

«Possiamo sopravvivere a una sconfitta?» chiese Mary Grace.

«È questa la domanda.»

«Dobbiamo sopravvivere, non abbiamo scelta. Ma non perderemo.»

«Bravo il mio ragazzo. Andiamo.»

Si unirono al resto dei dipendenti dello studio e tutti insieme entrarono in tribunale. In attesa al solito posto al piano terra, accanto ai distributori delle bibite, c'era la loro cliente, la parte attrice: Jeannette Baker, che non appena li vide cominciò a piangere. Wes la prese per un braccio, Mary Grace dall'altro e insieme la scortarono su per la scala e poi fin dentro l'aula principale del primo piano. Avrebbero potuto facilmente trasportarla di peso. Jeannette pesava meno di quarantacinque chili e, nel corso del processo, era invecchiata di cinque anni. Era depressa, a volte paranoica e, anche se non era anoressica, semplicemente non mangiava. A trentaquattro anni aveva già sepolto un figlio e un marito, e adesso era arrivata al termine di un orribile processo che nel suo intimo desiderava non avere mai intrapreso.

L'aula era in stato di massima allerta, come se stessero suonando le sirene per annunciare un bombardamento. Decine di persone vagavano agitate nella sala, altre cercavano un posto a sedere, altre ancora chiacchieravano nervosamente, gli occhi in continuo movimento. Quando Jared Kurtin entrò da una porta laterale accompagnato dal suo esercito della difesa, tutti lo studiarono con attenzione, come se avesse potuto sapere qualcosa che loro non sapevano. Giorno dopo giorno, durante gli ultimi quattro mesi Kurtin aveva dimostrato di essere in grado di vedere più avanti di chiunque altro, ma al momento il suo viso non rivelava niente. Con aria grave, raccolse intorno a sé i suoi subordinati.

Sull'altro lato dell'aula, a pochi metri di distanza, i Payton e Jeannette si sistemarono al tavolo riservato alla parte attrice. Stesse sedie, stesse posizioni, stessa deliberata strategia per imprimere nella mente dei giurati il fatto che quella povera vedova e i suoi due solitari avvocati avevano avuto il coraggio di affrontare una gigantesca società che disponeva di risorse illimitate. Wes Payton lanciò un'occhiata a Jared Kurtin. Gli sguardi si incontrarono e i due si scambiarono un educato cenno del capo. Il miracolo di quel processo era che i due avvocati riuscivano ancora a trattarsi reciprocamente con una modesta dose di civiltà, addirittura a parlarsi quando assolutamente necessario. Era diventata una questione di orgoglio. Per quanto tesa e difficile fosse la situazione – e situazioni del genere erano state frequenti –, entrambi erano decisi a mantenere un livello dignitoso e a stringersi la mano.

Mary Grace non alzò lo sguardo, e in ogni caso, se l'avesse fatto, non avrebbe salutato con un cenno né avrebbe sorriso. Ed era un bene che non avesse una pistola nella borsetta, altrimenti metà dei legali della controparte non sarebbe stata lì. Sistemò un nuovo blocco per appunti sul tavolo davanti a sé, scrisse la data, il proprio nome e poi non riuscì a trovare nient'altro da scrivere. In settantun giorni di processo aveva riempito sessantasei blocchi legali, tutti dello stesso colore e delle stesse dimensioni, ora archiviati in perfetto ordine dentro un classificatore metallico di seconda mano nel Pozzo. Mary Grace tese un fazzolettino di carta a Jeannette. Nonostante contasse praticamente tutto, non aveva tenuto il conto delle scatole di fazzolettini che la sua cliente aveva consumato durante il processo. Come minimo parecchie decine.

Quella donna piangeva quasi ininterrottamente, e Mary Grace, anche se profondamente solidale, era stanca di tutte quelle maledette lacrime. Era stanca di tutto: lo sfinimento, lo stress, le notti insonni, lo scrutinio, il tempo sottratto ai bambini, l'appartamento dimesso, la montagna di fatture insolute, i clienti trascurati, il cibo cinese freddo a mezzanotte, la sfida di doversi truccare e pettinare ogni mattina per risultare abbastanza attraente davanti alla giuria. Era quello che ci si aspettava da lei.

Affrontare un processo importante è come tuffarsi in uno stagno dall'acqua scura e piena di alghe con una cintura zavorrata. Riesci a riemergere per una boccata d'aria, ma tutto il resto del mondo non ha più importanza. E hai sempre l'impressione di essere sul punto di annegare.

Qualche fila dietro i Payton, seduto all'estremità di un banco che andava rapidamente riempiendosi, il loro consulente finanziario si mangiava le unghie e cercava di sembrare calmo. Tom Huff, Huffy per gli amici, aveva fatto spesso un salto in tribunale per assistere alle udienze e recitare una sua silenziosa preghiera. I Payton dovevano quattrocentomila dollari alla banca per cui lavorava, e l'unica garanzia era un terreno coltivabile di proprietà del padre di Mary Grace nella Cary County. In un giorno fortunato quel terreno si sarebbe potuto vendere per centomila dollari, lasciando evidentemente una sostanziosa fetta di debito non garantito. Se i Payton avessero perso la causa, la carriera un tempo promettente di Huffy sarebbe finita. Il presidente della sua banca aveva smesso da tempo di strillare con lui. Adesso le minacce gli arrivavano tutte via e-mail.

Ciò che era cominciato abbastanza innocentemente con una semplice seconda ipoteca di novantamila dollari sulla deliziosa casa dei Payton in periferia si era via via trasformato in un buco infernale di inchiostro rosso e spese folli. Folli perlomeno secondo Huffy. Ma la bella casa ormai se n'era andata, così come l'elegante ufficio in centro, le auto di importazione e tutto il resto. I Payton stavano rischiando tutto e Huffy era costretto ad ammirarli. Un verdetto favorevole e lui stesso sarebbe stato un genio. Un verdetto sfavorevole e si sarebbe ritrovato in fila dietro di loro al tribunale fallimentare.

Gli uomini della Krane sull'altro lato dell'aula non si stavano mangiando le unghie e non erano particolarmente preoccupati dall'idea del fallimento, anche se l'argomento era stato discusso. La Krane Chemical disponeva di una montagna di denaro, di profitti e di beni, ma c'erano anche centinaia di potenziali attori che aspettavano come avvoltoi di sentire ciò che il mondo avrebbe ascoltato tra qualche istante. Un verdetto pazzo e le cause si sarebbero moltiplicate.

Al momento i manager della Krane costituivano un gruppo molto sicuro di sé. Jared Kurtin era il miglior avvocato che il denaro potesse comprare. Le azioni della società erano scese solo di pochissimo. Mr Trudeau, a New York, sembrava essere soddisfatto.

Non vedevano l'ora di tornarsene a casa.

Grazie a Dio, per quel giorno i mercati avevano già chiuso.

Zio Joe gridò: «Restate seduti», e il giudice Harrison entrò dalla porta dietro il banco. Aveva abolito già da molto tempo lo stupido rituale di chiedere che tutti si alzassero in piedi solo perché lui potesse prendere posto sul suo trono.

«Buon pomeriggio» disse seccamente. Erano quasi le cinque. «La giuria mi ha informato che è stato raggiunto un verdetto.» Il giudice si stava guardando intorno per accertarsi che tutti gli interessati fossero presenti, «Mi aspetto il massimo decoro in ogni momento. Nessuna manifestazione emotiva. E che nessuno esca dall'aula finché non avrò congedato la giuria. Qualche domanda? Qualche altra frivola mozione da parte della difesa?»

Jared Kurtin non mosse muscolo. Non diede segno di notare la presenza del giudice e continuò a scarabocchiare sul suo blocco come se stesse dipingendo un capolavoro. Se la Krane Chemical avesse perso, avrebbe immediatamente presentato appello e la pietra angolare del ricorso sarebbe stato l'evidente pregiudizio dell'onorevole Thomas Alsobrook Harrison IV, un ex avvocato con un'antipatia acclarata nei confronti di tutte le grosse società in generale e, nel caso specifico, della Krane Chemical in particolare.

«Prego di fare entrare la giuria.»

La porta accanto al banco della giuria si aprì e fu come se un gigantesco aspirapolvere invisibile risucchiasse dall'aula ogni grammo d'aria. I cuori si fermarono, i corpi si irrigidirono. Gli occhi trovarono oggetti su cui fissare lo sguardo. L'unico suono era quello prodotto dai piedi dei giurati sul tappeto consunto.

Jared Kurtin continuò i suoi metodici scarabocchi. La sua prassi era non guardare mai le facce dei giurati quando rientravano con il verdetto. Dopo centinaia di processi sapeva bene che era impossibile leggere quelle espressioni. E perché, poi, prendersi il disturbo? La decisione sarebbe stata annunciata nel giro di pochi secondi. La squadra di Kurtin aveva rigide istruzioni di ignorare i giurati e di non mostrare alcuna reazione alla lettura del verdetto.

Naturalmente Jared Kurtin non doveva vedersela con la rovina finanziaria e professionale. Wes Payton invece sì, e non riuscì a staccare gli occhi dai giurati mentre si sedevano. Il lattaio aveva lo sguardo altrove: brutto segno. L'insegnante sembrava guardare attraverso Wes, altro brutto segno. Mentre il portavoce dei giurati porgeva una busta all'impiegata, la moglie del pastore lanciò a Wes un'occhiata compassionevole, ma era anche vero che la donna aveva avuto quella stessa faccia mesta fin dalle dichiarazioni di apertura.

Fu Mary Grace a cogliere il segnale, anche se non lo stava cercando. Mentre porgeva un altro fazzolettino a Jeannette Baker, la quale ormai stava praticamente singhiozzando, lanciò un'occhiata al giurato numero sei, quello che le era più vicino: la dottoressa Leona Rocha, docente d'inglese in pensione. Dietro la montatura rossa degli occhiali da lettura, la dottoressa Rocha fece il più rapido, il più simpatico e il più sensazionale occhiolino che Mary Grace avesse mai visto.

«Avete raggiunto il verdetto?» stava chiedendo il giudice Harrison.

«Sì, vostro onore» rispose il portavoce.

«È unanime?»

«No, signore, non lo è.»

«Almeno nove giurati concordano sul verdetto?»

«Sì, signore. La votazione è dieci a due.»

«Questo è ciò che conta.»

Mary Grace scribacchiò un appunto a proposito dell'occhiolino, ma poi, nell'emozione del momento, non riuscì a leggere la propria grafia. Cerca di sembrare calma, continuava a dirsi.

Il giudice Harrison accettò la busta dall'impiegata, estrasse un foglio e cominciò a studiare il verdetto, la fronte solcata da rughe profonde e lo sguardo accigliato mentre si stringeva l'attaccatura del naso. Dopo un'eternità annunciò: «Sembra essere in ordine». Non un guizzo dei muscoli, un accenno di sorriso o un movimento degli occhi, niente che indicasse che cosa c'era scritto su quel foglio.

Abbassò lo sguardo, fece un cenno allo stenografo e si schiarì la voce, godendosi appieno il momento. Poi le rughe intorno agli occhi si spianarono, i muscoli del mento si rilassarono, le spalle si abbassarono leggermente e, almeno per Wes, ci fu l'improvvisa speranza che la giuria avesse massacrato il convenuto.

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