Autore Fabio Guarnaccia
Titolo Mentre tutto cambia
EdizioneManni, San Cesario di Lecce, 2021, Pretesti , pag. 144, cop.fle., dim. 14,5x20,5x1,1 cm , Isbn 978-88-3617-054-8
LettoreDavide Allodi, 2021
Classe narrativa italiana , ragazzi , citta': Milano












 

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Indice


   5   Prologo

   7   L'intruso

  13   A casa

  17   Il carrello

  22   Adesivi

  28   Un'altra morte

  33   Febbre

  39   Valerio

  44   Il braccialetto

  46   La Gloria

  55   Il Best

  63   Ivan

  67   La porta

  [...]



 

 

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Pagina 5

Prologo


Faceva molto freddo come capita nelle giornate limpide di gennaio. Nella galleria in cemento grezzo, circondato dai colombari, tre per ogni lato, uno sopra l'altro, ho rallentato il passo per guardare le foto. Erano perlopiù immagini di persone anziane, anche se talvolta ne sbucava qualcuna di giovani uomini e donne, ma nessun ragazzino. Il fondo dell'edificio si avvicinava troppo velocemente, chiuso da una grata metallica che dava sul campo cimiteriale, e ho cominciato a temere di avere frainteso le indicazioni del custode. Arrivato ormai alla fine del corridoio, l'ho trovato.

Non vedevo la sua faccia da qualche anno prima che morisse. Nella foto è al mare, probabilmente a Vasto o Caorle, i posti dove andava di solito. Non sapevo nemmeno dove fossero ma facevano parte della mia geografia privata. L'ho guardato incredulo, era cresciuto da come lo ricordavo, ma era lui. È in spiaggia, ha i capelli neri tirati indietro, sono bagnati. Indossa una canottiera bianca, ha la pelle dorata, non ancora un filo di barba. I colori sono quelli saturi ma un po' sbiaditi di quegli anni. Guarda in camera con un sorriso appena accennato, ha lo sguardo aperto, sicuro di sé, è bello.

Sono salito sulla scala del cimitero, alta con le ruote, tenendomi stretto al corrimano in ferro ghiacciato e ho infilato la mia rosa bianca nel vaso. Di fianco alla foto c'era un lumino elettrico che tremava, in bilico sulla cornice del marmo qualcuno aveva appoggiato una piccola capanna del presepe. Ho pensato ai suoi genitori e alla sorella, ora che sono padre.

Mi sono acceso una sigaretta sulla pedana della scala a pochi centimetri dalla foto, e gli ho parlato di me. Intorno non c'era nessuno. Stavo per dire "intorno a noi". Ho guardato fuori dalla grata, da lì in cima riuscivo a vedere oltre il muro di cinta del cimitero, c'era il parco che costeggia viale Turchia, lo stradone che porta a Segrate. Quante volte avevo fatto avanti e indietro per quella strada, per il servizio civile, per la fidanzata, senza mai pensare una volta a lui.

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Pagina 7

L'intruso


L'estate del 1989 iniziò col Caballero di Paolino che saliva dalla prima alla terza nel breve tratto a due corsie di via Guanella, tra il bar all'angolo e casa mia, per poi scalare subito cupo. Quattro scoppi amplificati dai palazzi che mi scagliarono alla finestra dove lo vidi sfilare con il Best e Ivan che gli tenevano in coda con le loro bici. Quanto morivo dietro a quella moto, mi prendeva un'invidia da starci male: avrà avuto pure i problemi alla tiroide ma almeno aveva il Caballero.

«C'è uno nella casetta», disse Mirko Bestetti, detto il Best, con quell'aria da adulto che mi faceva sentire indegno dei miei quattordici anni.

«Che facciamo?», mi chiese Ivan.

Erano in sella con le gambe divaricate, tese come i manici di uno schiaccianoci, in attesa di una mia risposta, come se avessi davvero potuto ritirare quella marea di curiosità e paura che li aveva già travolti, e che stava travolgendo anche me. Ne approfittai per montare sul Caballero di Paolino, che stranamente non ebbe nulla da obiettare, e andammo a vedere l'intruso.

Lo aveva scovato Ivan mentre bighellonava, incapace di starsene in casa due ore di fila; era stravaccato sulla poltrona vicina all'ingresso, quella dove di solito mi sedevo io, immobile, con gli stivaletti neri che spuntavano di fuori.

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Pagina 44

Il braccialetto


Nei pomeriggi che seguirono la sepoltura del tossico la noia restò l'opzione migliore. La città non aveva nulla da offrirmi se non le sue strade e la gente che le percorreva, la metropolitana che in pochi minuti era in centro, tra eleganti palazzi di pietra, i negozi e la possibilità di prolungare la noia semplicemente camminando, senza una meta precisa, come uno di quegli squali nutrice che nuotano inoffensivi nell'acqua bassa delle baie con il solo scopo di ossigenare il sangue. Milano era un'entità indefinita con la quale le nostre vite confinavano, ci attraeva ma non ne avevamo veramente bisogno, era lì come una frontiera invisibile che non avremmo varcato. Ma in quei giorni camminai a lungo per corso Vittorio Emanuele fino al Duomo, dove spaesato mi guardavo intorno chiedendomi cosa ci facevo lì. In questa nebbia, l'unico ricordo che conservo chiaramente è il braccialetto borchiato di pelle nera che presi nel negozio di via Giardino, proprio dietro piazza Duomo. Ci avevo accompagnato il Best qualche volta per comprare dischi e magliette dei suoi gruppi metal preferiti. Ci capitai guidato dall'istinto, senza averlo scelto davvero, ma quando fui lì, sentendomi tutti gli occhi addosso, mi rintanai nella vetrina e vidi quel braccialetto, uguale a quello che indossava il tossico. La commessa lo mise in un sacchettino di plastica, pagai e uscii tenendolo stretto in mano. Appena giunto in corso Vittorio Emanuele me lo infilai al polso esibendolo come un Rolex, e mi sentii all'istante superiore a tutte quelle persone che percorrevano quel tratto orribile di strada. Mi fermai alla base della scalinata che portava al Burghy di San Babila per guardare un sosia di Michael Jackson ballare il Moon Walk. Un gruppo di ragazze molto truccate indicò me e il mio braccialetto per poi mettersi a ridere.

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Pagina 67

La porta


La presenza del Vulcaniano certo non aiutava, ma incombeva su di noi come una iattura. Ogni volta che compariva si portava appresso la sua aura negativa e qualsiasi cosa stessimo facendo veniva interrotta all'istante. Da molto tempo desiderava stare con noi e ora finalmente poteva raggiungerci ogni giorno alla casetta, dopo il turno di lavoro in officina, che finiva inspiegabilmente alle quattro del pomeriggio, e stare lì allungato su una poltrona, con una sigaretta in mano, lasciando che la nostra vita si mischiasse alla sua e gli strappasse di dosso un po' di quella rogna marcia che lo perseguitava. Arrivava sempre puntuale, parcheggiava la Golf nera GTI sul vialone che portava ai cantieri, si presentava con la maglietta girocollo bianca, la catenina d'oro, i capelli neri ondulati dal gel, pulito, profumato, con la barba appena fatta. Ogni giorno. La barba appena fatta alle quattro del pomeriggio. E tutti i giorni portava qualcosa. La focaccia. Il Mars. Il fumo. Non si presentava mai a mani vuote.

I suoi occhi bruciavano, stavo per dire brillavano e invece bruciavano di una passione che non trovava riscontro nella vacuità dei nostri sguardi. Con lui in giro non ci veniva di comportarci normalmente. Non sto dicendo che in sua presenza evitavamo di scorreggiare, specie il Best non si tratteneva affatto, o di dire parolacce. Facevamo tutte queste cose come sempre, ma di sicuro non ci azzardavamo a sfogliare i porno o a fare le gare a chi viene prima. Valerio era una presenza ambigua e per quanto ai tempi non ne avremmo parlato in questi termini, avevamo il sospetto che gli potessero piacere i ragazzini. In ogni caso in quei giorni il sesso, come l'avventura, era l'ultima cosa a interessarci.


Per tenerci occupati lavorammo alla casetta mettendo in pratica alcune migliorie progettate da Ivan. La prima prevedeva di buttare quella che era stata la mia poltrona e che era diventata la poltrona del tofa. Poi ci occupammo della porta, dovevamo proteggere il nostro posto. I soldi per i cardini ce li misi io e così, dato che ero il finanziatore, mi sentii in diritto di chiedere a Paolino di accompagnarmi dal ferramenta di viale Monza con il Caballero. Il Best recuperò alcune assi che potevano andare bene, ne scartammo un paio e segammo via un pezzo della terza per farla delle dimensioni giuste. Applicammo i cardini direttamente ai pannelli d'ingresso, montammo la porta e per poco non ci cadde tutto addosso. Avevamo accorciato troppo la tavola e così tutto il peso scaricava sui cardini e sulla struttura portante della casetta. Fu del Vulcaniano l'idea di usare un telaio. Andò a casa a prendere dei pali in legno che aveva in cantina e tornò con i suoi attrezzi, una pala e una mazzetta. Fece due buchi nel terreno e vi infilò i legni, che poi piantò con colpi decisi. Dopo aver costruito il telaio, montammo la porta e il chiavistello in ferro, anch'esso acquistato con i miei risparmi destinati al Caballero. A porta chiusa, senza alcuna finestra, l'interno della casetta risultava più asfissiante e più buio del solito. Duplicammo le chiavi per tutti, ma al momento di darne una copia al Valerio preferimmo fare finta di nulla.

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