Copertina
Autore Marziano Guglielminetti
Titolo Viaggiatori del Seicento
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007 [1967], Classici italiani , pag. 742, cop.fle., dim. 12x19x4 cm , Isbn 978-88-02-07615-7
CuratoreMarziano Guglielminetti
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe classici italiani , viaggi
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Indice

  7 Introduzione

 61 FRANCESCO CARLETTI

 65 "Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo":
    Primo ragionamento dell'Indie occidentali, 67
    Secondo ragionamento de' viaggi dell'Indie occidentali, 74
    Terzo ragionamento dell'Indie occidentali, 81
    Quarto ragionamento dell'Indie occidentali, 93
    Quinto ragionamento dell'Indie occidentali, 106
    Sesto ragionamento dell'Indie occidentali, 121
    Primo ragionamento dell'India orientale, 141
    Secondo ragionamento dell'India orientale, 175
    Terzo ragionamento dell'India orientale, 215
    Quarto ragionamento dell'India orientale, 227
    Quinto ragionamento del secondo discorso orientale, 248
    Sesto ed ultimo ragionamento dell'India orientale, 263

285 CARLO RANZO

    Dalla "Relazione d'un viaggio fatto da Venezia a Costantinopoli":
    In Albania, 289
    L'ingresso del sultano in Costantinopoli, 292

298 BERNARDO BIZONI

    Dalla "Relazione in forma di diario del viaggio che corse
    per diverse provincie d'Europa il signor Vincenzo Giustiniano":
    In Romagna, 301
    Da Innsbruck a Monaco, 303
    Alla corte di Enrico IV, 304
    Campagne di Francia, 307

311 TOMMASO ALBERTI

    Dal "Viaggio a Costantinopoli":
    Da Venezia a Costantinopoli sulla nave «Buona ventura», 315
    Gli appartamenti reali del Gran Serraglio, 320
    La cucina del Gran Serraglio, 322

327 PIETRO DELLA VALLE

    Da "Delle condizioni di Abbas re di Persia":
    Elogio dello scià Abbas I, 331
    Dai "Viaggi":
    Napoli o Costantinopoli?, 341
    Bevande turche: il caffè, 344
    Le mummie della necropoli di Saqqàra, 347
    Un'escursione sul monte Sinai, 358
    Sabato santo al santissimo Sepolcro, 361
    Attraverso il Curdistan, 366
    Agonia e morte di Sitti Maani, 377
    La fortezza di Ormuz, 389
    Il rogo di una vedova, 400
    Processioni religiose in India, 403

407 CRISTOFORO BORRI

    Dalla "Relazione della nuova missione delli Pp. della
    Compagnia di Giesù al regno della Cocincina":
    Aspetti naturali della Cocincina, 411
    Un'immagine di Buddha, 414

421 GIOVANNI BATTISTA BONELLI

    Dalla "Relazione di alcune cose cavate dalle lettere scritte
    negli anni 1619, 1620 e 1621 dal Giappone":
    Persecuzioni dei Cristiani in Giappone, 425

429 FRANCESCO BELLI

    Dalle "Osservazioni nel viaggio":
    Itinerario svizzero, 433
    La valle del Reno, 439
    L'Olanda vista dall'Aja, 442
    Verso Torino, 449

455 ARCANGELO LAMBERTI

    Dalla "Relazione della Colchide oggi detta Mengrellia":
    Il vestire dei Mingreli, 459
    I «pope» ortodossi, 463
    Il miele della Colchide, 467

471 GIOVANNI FILIPPO DE MARINI

    Dall' "Istoria e relazione del Tunkino e del Giappone":
    Le galee del Tonchino, 475
    Elogio di Confucio, 478

483 FRANCESCO GIUSEPPE BRESSANI

    Dalla "Breve relazione d'alcune missioni dei Pp. della
    Compagnia di Giesù nella Nuova Francia":
    I barbari della Nuova Francia, 487

497 GIOVANNI FRANCESCO ROMANO

    Dalla "Breve relazione del successo della missione de' Frati
    Minori Capuccini del serafico P. S. Francesco al regno del Congo":
    Strumenti musicali africani, 501
    Le parate militari in Congo, 503

505 MICHELE BIANCHI

    Dalla "Relazione della Moscovia":
    Natura e società in Russia, 509
    Dalla "Relazione dell'origine e dei costumi dei Cosacchi":
    Costumi dei Cosacchi, 517

519 GIOVANNI ANTONIO CAVAZZI - FORTUNATO ALAMANDINI

    Dall' "Istorica descrizione de' tre regni Congo, Matamba ed Angola":
    Infelice condizione delle donne africane, 523
    Malattie tropicali, 525
    Lo scoglio di Maopongo, 532

535 ANTONIO MURCHIO

    Dal "Viaggio alle Indie orientali":
    Cronache italiane, 539
    Lungo le rive del Tigri, 545
    Frutti dell'India, 551

557 PROSPERO INTORCETTA

    Dalla "Compendiosa narrazione dello stato della missione cinese,
    cominciando dall'anno 1581 fino al 1669":
    Cina cristiana e pagana, 561

565 FRANCESCO NEGRI

    Dal "Viaggio settentrionale":
    Moralità e religiosità dei Lapponi, 569
    I funerali in Svezia, 575
    Il palombaro, 580
    I cacciatori di foche, 584
    Le meraviglie naturali della Norvegia, 591

605 DIONIGI CARLI

    Da "Il moro trasportato nell'inclita città di Venezia":
    Istantanee brasiliane, 609
    La tratta degli schiavi, 615

625 GIOVANNI PAGNI

    Dalle "Lettere a Francesco Redi":
    Il leone africano, 629

635 ERCOLE ZANI

    Dalla "Relazione e viaggio della Moscovia":
    Ingresso in Mosca, 639
    Magnificenza e grandezza dello zar Alessio, 642

645 CORNELIO MAGNI

    Dalla "Relazione della città d'Atene":
    Passeggiate in Atene, 649

659 GIOVANNI BATTISTA PACICHELLI

    Dalle "Memorie de' viaggi per l'Europa cristiana":
    I Protestanti sono fratelli?, 663
    La «Royal Society», 668

673 MICHELE BENVENGA

    Dal "Viaggio di Levante":
    Le rovine di Troia, 677

681 GIOVANNI FRANCESCO GEMELLI CARERI

    Dai "Viaggi per l'Europa":
    La decadenza di Venezia, 685
    Il Duomo di Milano, 689
    L'Inghilterra alla vigilia della «Gloriosa Rivoluzione», 690
    Dal "Giro del mondo":
    Il camaleonte, 696
    La pesca delle perle, 697
    Goa e il problema razziale, 700
    Nelle isole Filippine, 704
    Le isole Marianne, 708
    La traversata dell'Oceano Pacifico, 710
    Le miniere d'argento del Messico, 713

723 Indice dei nomi



 

 

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INTRODUZIONE



Molti generi letterari barocchi ricorrono alla dimensione spaziale del viaggio per sviluppare o variare la loro trama narrativa. In particolare la tragedia, la commedia, il romanzo e la novella amano sovente servirsi del viaggio per allargare la scena della loro azione, cogliere i personaggi in situazioni imprevedibili, lusingare la fantasia del lettore con la presenza di paesaggi remoti e favolosi. È facile accorgersi, però, che l'origine di questo continuo movimento nello spazio non deriva da un'autentica esperienza di viaggiatori; e se talora (nei romanzi in special modo) si trovano dei riferimenti a qualcuno dei paesi recentemente scoperti, come l'America, è solo per meravigliare chi legge, in quanto sono ancora i vecchi itinerari del romanzo greco, con le loro avventure prefissate (tempeste, incontro coi pirati, salvataggi miracolosi, ecc.), ad attrarre l'attenzione di chi racconta. La convenzionalità di questo schema narrativo appare evidente solo se si ha il coraggio e la pazienza di esaminare i testi contemporanei della prosa di viaggio, in un arco di tempo che va dalla morte di Filippo II alla guerra di successione spagnola. Sono anni difficili per l'Italia, allontanata dai commerci internazionali e costretta ad entrare sempre di più nell'orbita dell'influenza spagnola prima e francese dopo; anni in cui andare all'estero significava molte volte rendersi conto delle condizioni precarie del proprio paese e nello stesso tempo non volere credere subito che Italia e cattolicesimo (nei casi migliori Europa e cristianesimo) fossero diventati dei puri nomi, dietro i quali si nascondeva solo volontà di sopraffazione e di dominio.

Ci è parsa caratteristica, di questo contegno la Relazione d'un viaggio fatto da Venezia a Costantinopoli del vercellese Carlo Ranzo, la quale sebbene illustri un avvenimento del 1573 (l'anno dopo la battaglia di Lepanto), viene stampata solo nel 1616. Ebbene, in questo lungo intervallo di tempo l'autore è riuscito a dimenticare la grande vittoria della flotta cattolica e la sua memoria è tutta occupata dallo spettacolo di magnificenza e di organizzazione offertogli dall'impero ottomano. È uno stato d'animo nuovo, questo del Ranzo, ormai estraneo al sogno tardo cinquecentesco di una ripresa in grande stile della crociata contro gl'infedeli, sogno, non dimentichiamolo, coltivato da Filippo II, auspicato da molti pontefici ed infine realizzato poeticamente dal Tasso. Il Ranzo, al contrario, se pur trova modo di dipingere le condizioni di arretratezza dei Balcani e di deridere i sacerdoti maomettani, è affascinato dal fasto e dall'efficienza che regnano nello stato turco. Quando racconta l'ingresso del sultano a Costantinopoli, è sì sorpreso dalla rassegna variopinta e sgargiante di vesti e di armi dei partecipanti, ma soprattutto lo colpisce l'immagine di una perfetta macchina di governo, congegnata e guidata dalla volontà misteriosa ed assoluta del sultano, il quale, machiavellicamente, «ancorchè non sia di natura piacevole, ... mostrava assai grata ciera al populo». E se questo profilo può sembrare troppo benevolo, c'è da chiedersi quali altri modelli di regime e d'istituzione poteva offrire allora l'Europa, alla vigilia della guerra dei Trent'Anni, quando bisognava ancora risolvere con le armi i problemi dell'indipendenza nazionale o della libertà di professare la propria fede.

Persino la sicurezza dei commerci con l'Oriente era in balia dei Turchi. Tommaso Alberti, un mercante bolognese (o veneziano) che andò in Oriente qualche decennio dopo il Ranzo, ci ha lasciato pagine drammatiche sui rischi continui di saccheggio e di morte a cui andavano incontro le navi mercantili che facevano rotta da Venezia a Costantinopoli; e non solo per opera delle scorrerie sistematiche ed organizzate dei Turchi, ma anche per i gesti di pirateria di altri marinai europei, specialmente se di una diversa confessione cristiana. Non c'è da meravigliarsi, perciò, se il giornale di bordo dell'Alberti si risolva tutto nel racconto di una serie aperta di rapporti di forza e di violenza che si compone solo alla fine: nel resoconto dettagliato ed entusiastico del Gran Serraglio di Costantinopoli, là dove la barbarie sembrava redimersi e farsi motivo di meraviglia barocca. Quando gli riesce d'introdursi negli appartamenti segreti del sultano, o quando può elencare i personaggi ed i luoghi che fanno da tramite nell'organizzazione dei vettovagliamenti all'interno della reggia, l'Alberti abbandona lo stesso periodare convulso e nervoso che aveva inarcato le sue pagine marinare fino ai limiti della rottura sintattica; ed il discorso, allora, gli si fa piano e sorvegliato, cosparso di attributi variamente alterati (ora superlativi, ora diminutivi, ora vezzeggiativi), pur di esprimere il fascino sottile e struggente che esercitano sulla sua fantasia le sale, gli arredi ed i manicaretti disposti attorno alla persona del sultano. L'impressione conclusiva, tuttavia, ci appare di nuovo, come nel caso del Ranzo, superare i confini di una meraviglia suscitata da forme e colori inusitati per un uomo di mediocre estrazione sociale, quale doveva essere l'Alberti; difatti, se prima erano le parate militari a suggerire il pensiero di una notevole efficienza statale, adesso lo sono le cucine del Gran Serraglio. E se lo spostamento dell'interesse dei due viaggiatori può sembrare eccessivo, si dovrà soltanto attribuirlo alla loro diversa professione; l'importante è che, cortigiano o mercante, il viaggiatore italiano in Levante, agli inizi del secolo XVII, non era in grado di superare il trauma suscitato in lui dallo spettacolo di ricchezza e di buon funzionamento offerto dall'impero ottomano. In altri termini, il mondo che gravita attorno a Costantinopoli lancia, attraverso queste umili pagine, una sfida al mondo che nominalmente gravita ancora attorno a Roma, ma che in realtà è lacerato da conflitti nazionali ed intestini. Ed i viaggiatori, che sono uomini di media cultura, non possono non risentire di questo esaurimento dei motivi ideali della superiorità europea; finiscono così per cadere vittime dell'illusione quasi fiabesca di vitalità loro comunicata dalle immagini della magnificenza turca.

Ci si potrebbe obiettare che l'Alberti si distingue dal Ranzo, perché non giunge mai alla parodia della religione mussulmana. In effetti nella mentalità dell'Alberti contano poco gli scrupoli cavallereschi e le preoccupazioni cattoliche che trapelano dalla scrittura del Ranzo. Come mercante l'Alberti assume un contegno molto più libero e spregiudicato nei confronti della realtà orientale, proprio di chi non dimentica mai il profitto personale e non s'impegola, quindi, in giudizi estranei a calcoli d'interesse. Un contegno non dissimile, ma irrobustito dalla coscienza dei difficili compiti di mediazione (non solo economica) che attendono il mercante italiano sul finire del XVI secolo, si riscontra nel testo più rappresentativo della prosa di viaggio secentesca: i Ragionamenti di un mio viaggio intorno al mondo del fiorentino Francesco Carletti. Il Carletti, infatti, non si limita a registrare i fatti accadutigli e a disporli nelle prospettive suggerite dalla «ragion di mercatura», perché, come appare a più riprese nei Ragionamenti, vuole collegarsi a quei mercanti scrittori che nei secoli precedenti avevano fatto della loro professione uno strumento privilegiato di conoscenza del mondo, ed avevano innalzato il viaggio commerciale al livello delle avventure culturali. Ricorda, perciò, con ammirazione ed orgoglio Marco Polo, Niccolò de' Conti, Amerigo Vespucci, mentre trascura le lettere dell'ultimo insigne viaggiatore ch'era stato prima scrittore e poi mercante, quel Filippo Sassetti morto a Goa un decennio prima del suo viaggio ed amico, inoltre, di suo padre. In realtà l'eccezionalità dell'itinerario percorso dall'autore non tollerava come modelli le lettere del Sassetti, che rivelava fin dalla scelta della struttura, discorsiva e privata, l'intenzione di minimizzare la portata del viaggio alle Indie; e richiedeva piuttosto la presenza remota, ma indicativa, del Milione e delle relazioni del Conti e del Vespucci, dove l'indugio su particolari personali ed autobiografici non andava mai a discapito dell'importanza culturale del viaggio affrontato e della maturità intellettuale necessaria per condurlo a termine. Nascono così i Ragionamenti, una struttura narrativa che, sotto l'apparente aspetto dialogico (il Carletti si rivolge al granduca Ferdinando I di Toscana), riesce sempre a trasferire la materia del resoconto in spazi espressivi composti e dignitosi, dove la memoria si raffina, e deposita sulle pagine impressioni e riflessioni spoglie d'ogni emozione occasionale, affidate ormai al giudizio di lettori sereni ed attenti, lontano dall'atmosfera agitata e rischiosa del lungo periplo attraverso il mondo.

Del resto, quando si dice che i Ragionamenti nascono da un'intera circumnavigazione della terra, bisognerebbe subito precisare che non ci troviamo di fronte ad un'avventura leggendaria ed eroica come quella di Magellano, che, difatti, viene citato dal Carletti senza alcun segno di commozione. Egli, piuttosto, appartiene alla schiera di quei navigatori come gl'inglesi Drake e Cavendish, i quali avevano percorso nei medesimi anni l'intero globo per dimostrare che il regime di monopolio commerciale, instaurato da Spagnoli e Portoghesi in Asia ed America, era violabile per uomini coraggiosi e temerari. Il Carletti, in altri termini, non ha la stoffa dell'esploratore, ma dell'«avventuriero», come ha visto bene il Braudel; e lo giocherà soltanto il fatto che, mentre alle spalle di un Drake c'era la maestà della regina Elisabetta I, dietro di lui c'è solo Ferdinando I, un sovrano che ha pur voluto il porto franco di Livorno (ed il Carletti lo rammenta con soddisfazione, quando lo confronta con città del Messico), ma che non può certo garantire ai suoi mercanti più intraprendenti appoggi e protezioni, come quelli offerti dalla corona inglese. Ecco perchè, fra tutti i tipi di mercante incontrati lungo il mondo, il Carletti non ha dubbio alcuno nel raffigurare come invidiabile solo la condizione dei commercianti spagnoli del Perù e dei funzionari militari portoghesi che trafficano nell'isola di Giava, perchè, sotto la protezione dei loro monarchi, non corrono i pericoli occorsi a lui, nella sua condizione di privato che tenta d'inserirsi con vantaggio nella lotta scatenatasi fra Inghilterra ed Olanda per occupare o controllare le fonti di ricchezza possedute ed amministrate dai popoli iberici nelle Indie Orientali ed Occidentali. I mercanti peruviani, infatti, sono così ricchi che con le «barre e verghe d'argento» «fanno letti e distendendovi sopra le materasse vi dormono»; i militari portoghesi, a loro volta, «senza nessuno capitale e senza rischio alcuno, ma con la mercanzia d'altri», «non vi mettendo altro che parole», giungono al punto di rivendere le spezie ad un prezzo maggiorato. Nei loro confronti i mercanti indigeni di Goa, per quanto «dimostrino una estrema virtù morale» in parole ed azioni, sembrano i residui di un'idea ormai superata del commerciante, quella che si fondava sull'onestà professionale e sul rispetto della parola data; ed è forse questa la ragione per cui il Carletti s'interessa soprattutto alla loro tecnica per non far perdere «reputazione» alla merce non venduta, quasi che il loro rigore moralistico fosse solo una veste per ricoprire quella smania di guadagno veloce e cospicuo che sta dominando tutto il commercio internazionale. Lo stesso Carletti, del resto, aveva iniziato le sue fortune praticando la tratta degli schiavi, il mezzo più rapido per arricchirsi, sebbene all'epoca della stesura dei Ragionamenti sostiene di rammentare questi fatti con «una certa tristezza e confusione di coscienza» e dichiara di aver mantenuto anche allora «intenzione e volontà... repugnante a questo negozio». Sono espedienti giustificativi, questi avanzati tardivamente, che la mentalità casistica del tempo suggeriva con frequenza per conciliare una nuova pratica di vita con l'ossequio a norme superate di costume; ma oggi sarebbe davvero assurdo non additarne il subdolo compromesso, se si vuol capire quale carica segreta di novità si cela sempre dietro la facciata conformistica d'un testo autenticamente barocco. Nel nostro caso, poi, sarebbe fare un grosso torto al Carletti assolverlo dall'aver partecipato a quel mondo di speculatori e di affaristi che si era formato in Europa alla fine del Cinquecento per sfruttare le ricchezze elargite a Spagna e Portogallo dalle scoperte geografiche del secolo precedente. Tanto varrebbe disconoscere la sua natura di scrittore disincantato e calcolatore, a cui lo spettacolo del mondo non è solito offrire motivi di superficiale meraviglia, ma solo di fruttifera curiosità.

Si ritorni, ad esempio, sulle pagine dedicate alla tratta degli schiavi. Il carletti non nega che il suo contegno, nella circostanza, fosse ispirato da mere ragioni d'interesse, tanto da scrivere che i negri si acquistavano «in un branco come tra di noi si compra un armento di pecore, con tutte quelle avertenze e circostanze di vedere se siano sani e ben disposti e senza difetto alcuno della persona loro». Ma poi non mostra scrupolo alcuno nel descrivere i loro selvaggi costumi sessuali e si spinge persino, giunto in Perù, a considerare come legittime le comunità locali di schiavi sfuggiti ai coloni in nome del diritto alla «libertà»; analogamente, quando si trova in Messico, non condanna il formarsi di comunità d'indigeni che nutrono sentimenti di «fierezza» indomita nei confronti degli Spagnoli. Con questo non si vuol dire ch'egli conservi dubbi sulla soluzione finale che attende le popolazioni cadute sotto il dominio dei «conquistadores», «si come è seguito — sono parole sue — nell'isola di San Domenico ed altre, che erano tanto popolate nel tempo che furono discoperte dal Colombo e ora restano deserte e senza abitatori». E non è il caso, perciò, che egli elevi la sua protesta moralistica in difesa di questi ed altri abitatori, come aveva fatto non molti anni prima il vescovo Bartolomé de las Casas nella sua Brevísima relación de la destruyción de las Indias; i coloni, in tanto variare di fortune (si stanno affermando gli Olandesi e dietro loro si profilano già gl'Inglesi), gli appaiono solo «mutatori, per non dire destruttori, d'ogni cosa», quasi rispettassero storicamente le continue trasformazioni naturali a cui, secondo il Carletti, sarebbe soggetto «questo corruttibile universo». Qui forse, in questa desolata costatazione del carattere non solo variabile, ma putrido della realtà, egli tocca il punto più segreto e dolente della sua visione delle cose, quello che gl'impedisce sempre di prospettarsi costruzioni ottimistiche del mondo e non lo aiuta, però, a prospettarsi soluzioni dei rapporti fra gli uomini affidate a cause extra-naturali. Ma solo così, discorrendo ancora del dominio coloniale instaurato dagli Spagnoli, può rimproverare loro che «dove non sentono ricchezze, non vi si accostano, le quali servono per allettare li soldati a far la strada con l'arme a' relligiosi e a difenderli dalli barbari, come essi dicono». In questo modo, inoltre, la possibilità di attribuire ai coloni dei compiti di conversione religiosa e di educazione civile viene limpidamente demistificata, grazie appunto alla capacità dell'autore di svelare i profitti commerciali d'ogni situazione ed impresa. Altre osservazioni di questo genere dimostrano il suo gusto accanito nello smascherare ogni operazione analoga, che fornisse, cioè, giustificazioni religiose o morali ad atti di sfruttamento colonialistico; non bisogna dimenticare, infatti, che il Carletti, esperto negriero, era sempre in grado di valutare il margine di guadagno ricavabile da attività che sfruttassero la forza-lavoro rappresentata dagli indigeni. Una volta, ad esempio, gli basta far sapere che il vescovo delle isole di Capo Verde ed il suo clero «si mantengono» con la tratta degli schiavi; ma un'altra volta si diverte palesemente a raccontare il tentativo assurdo di conversione dei selvaggi delle isole Marianne operato da un cappuccino, a cui pareva «che quella povera gente, per mancamento di chi le insegnasse conoscere Iddio, si perdesse»; ed infine, quasi a dimostrare che l'apostolato non sorretto dalle armi è destinato all'insuccesso, porta l'esempio di altri cappuccini visti crocifiggere in Giappone, perchè, «mossi da carità e dall'amore della patria e della loro nazione», avevano cercato di evitare la confisca di «robbe» appartenenti a mercanti spagnoli. Ma qui, al solito, nella denuncia del compromesso e della mistificazione, s'arresta l'impegno del Carletti, il quale, malgrado la consapevolezza superiore, condivide l'incapacità, sofferta dal Ranzo e dall'Alberti, di opporre alla civiltà dei nuovi paesi un'immagine convincente della civiltà europea, ed italiana in particolare. Stupisce, infatti, nelle pagine di queste prime relazioni secentesche di viaggio la mancanza di confronti diretti con le terre d'origine: una mancanza, per altro, che impedisce ai loro autori di coltivare assurdi propositi di rivoluzione e li induce piuttosto o ad una generosa disponibilità verso realtà nuove (è il caso del Ranzo e dell'Alberti) o ad una costante ricerca degli autentici motivi dell'espansione coloniale europea (è il caso del Carletti).

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Eppure, bastava che il viaggiatore avesse il coraggio di confrontare scopertamente le condizioni dell'Italia con quelle dei paesi più progrediti d'Europa, perchè le contraddizioni manifestate dal Negri esplodessero. La conferma è nei Viaggi per Europa di Giovanni Francesco Gemelli Careri, pubblicati sul finire del secolo. L'autore, un magistrato allontanatosi da Napoli per sfuggire persecuzioni di nemici altolocati, è disposto naturalmente al rifiuto di conciliare le immagini di vitalità della nuova Europa con lo spettacolo di decadenza offerto dalle maggiori città italiane. Di conseguenza il ritratto che profila di Venezia o di Milano alla vigilia del nuovo secolo è quello appena lasciato intravedere dai viaggiatori precedenti, un ritratto di squallore e d'inerzia così diffusi da suscitare solo la reazione liberatrice del riso. Da un lato ci sono i nobili veneziani, che, spiantati dal gioco e timorosi del giudizio della plebe, si vedono camminare «per la città senza famigli e talvolta anche con qualche fagottino sotto la sopravvesta»; Venezia, a sua volta, sembra diventata una grande «tavola di giuoco», a cui affluisce il «molto danaio» dei turisti stranieri. D'altro lato c'è l'immagine incompleta del Duomo di Milano, un edificio la cui architettura tardo-gotica pare il segno di un ritorno nefasto alla «barbarie» medievale (il Belli, al contrario, in pieno Seicento s'era detto favorevole alla linea gotica delle fontane svizzere). In entrambi i casi, però, non è consentita al Gemelli Careri altra speranza di salvezza che quella tutta letteraria rappresentata dal ricordo nostalgico della grandezza e dignità di Roma, quando per le strade d'Italia si vedevano le «toghe degli antichi romani» e si ammiravano i loro edifici, caratteristici per «pulitezza e civiltà». Qui forse, nel disprezzo dello stato di decadenza in cui l'Italia era precipitata durante il Seicento (non si dimentichino le considerazioni del Cipolla a suo tempo fatte presenti), è da porre l'origine morale di certa mentalità classicista fin-de-siècle, desiderosa dell'antico solo nella misura in cui non riesce ad adeguarvi i tempi moderni. Solo così, nel culto di una tradizione spenta, il Gemelli Careri poteva vincere il trauma provato alla vista dell'Italia decaduta, già da allora meta di turisti ed incapace di avviarsi all'imminente trasformazione industriale, mentre gli accadeva pure di tracciare un quadro vivo e palpitante dell'Inghilterra alla vigilia della «gloriosa rivoluzione». Infatti, a differenza d'altri viaggiatori europei recatisi in questo paese dopo il 1660 (l'anno, secondo l'Hazard, in cui «commença la période active du vovage en Angleterre»), il Gemelli Carenri si sforza di demolire la nuova visione della politica, liberale e parlamentare, che gli Inglesi stavano conquistando allora per tutta l'Europa; nè potrebbe essere diversamente per un uomo la cui educazione non sopportava certo la validità di episodi come il regicidio di Carlo I o l'esistenza di numerose professioni di fede cristiana. Nello stesso tempo, però, questa decisa rivoluzione d'idee e di atteggiamenti non era più interpretabile in chiave barocca, come un segno prevedibile e catalogabile della variabilità del reale, perchè minacciava d'instaurare una visione antitetica delle cose, una visione dinamica e progressiva. E così, dopo essersi sfogato contro la libertà di coscienza, «foriera dell'ateismo», e contro il progettato regime costituzionale, peggiore di quello «turchesco», il Gemelli Careri è costretto ad ammettere la nascita di un nuovo sistema di governo accanto a quello assolutistico imperante nel secolo: una «strana meschianza d'aristocrazia e di democrazia», a sua detta, eppure destinata ad inaugurare un altro periodo nella storia politica europea, il periodo riformistico.

La sensibilità spiccata agli importanti mutamenti sociali e culturali di fine Seicento dovette persuadere il Gemelli Careri che toccava a lui il compito di stendere il racconto del periplo terrestre che tenesse conto della nuova «Weltanschauung» e potesse, così, sostituire quello ormai superato del Carletti. Tutta una serie di coincidenze cronologiche contribuisce ad avvalorare questa ipotesi: la partenza del Gemelli Careri, che avviene quasi un secolo dopo quella del Carletti; la durata del viaggio, che è di poco inferiore; ed infine la data di stampa del suo Giro del mondo, che precede di un anno quella postuma dei Ragionamenti, usciti nel 1701.

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FRANCESCO CARLETTI


PRIMO RAGIONAMENTO DELL'INDIE OCCIDENTALI



Contiene la partenza che detto Carletti
fece di Firenze per Spagna e di quivi
all'Isole di Capo Verde, e prima.



L'aver io, Serenissimo Prencipe, insieme con li mia beni di fortuna, perso anche tutte le mie scritture e memorie, ch'io avevo fatto delli viaggi conseguiti da me nel circondare tutto il mondo, sarà causa ch'io non potrò così minutamente raccontare a Vostra Altezza ogni particularità di quanto ho visto ed aveva osservato e notato ne' suddetti mia scritti; de' quali non mi rimane altro che una poca di memoria travagliata dalle miserie occorsemi, la quale al meglio che mi sarà possibile vedrò di riscorrere e d'andarmi rammemorando solo di quelle cose che ho fatte e viste in detti mia viaggi, e d'ogn'altro mio successo, fino ad essere ritornato in questa città di Firenze alla presenza di Vostra Altezza Serenissima questo dì 12 di luglio 16o6.

E cominciando dico, Serenissimo Prencipe, che nell'anni di nostra Redenzione 1591, alli 20 di maggio, essend'io di età d'anni 18, mi partii di questa città di Firenze per andare in Spagna in compagnia ed al servizio di Nicolò Parenti mercante fiorentino, con il quale m'imbarcai a Livorno sopra il galeone di Pietro Paolo Vassallo genovese, che arrivò dopo 20 giorni di prospera navicazione in Alicante; del qual luogo noi per terra andammo a Siviglia, città della provincia d'Andalusia, nella quale il detto Parenti doveva fare la sua residenza ed io per commandamento di mio padre restare al suo servizio per imparare da esso quella professione di mercante. Di poi, essend'io stato quivi sino all'anno 1593, venne il suddetto mio padre, Antonio Carletti, di Firenze nella città di Siviglia, dove fece pensiero e risoluzione, per aumentare le sue facultà, di mandarmi al viaggio di Capo Verde, cioè all'isole chiamate altrimenti Esperie, per quivi comprare delli schiavi neri, per portarli all'Indie occidentali e quivi venderli. Laonde, dovendo per ciò potere fare ordinato tutto quello che conveniva per un tal viaggio e negozio, stando già per partire, accaddero poi tante difficultà che fecero risolvere mio padre a venire ancora lui nel viaggio, che aveva determinato ch'io dovessi fare solo. E perchè questi viaggi e navicazioni dell'Indie non possono farsi d'altri che dalla propria nazione spagnola, noi come Italiani e forastieri venivamo a cascare in pregiudizio di perdere tutto l'avere che avessimo messo in un tal negozio, se mai si fusse saputo essere nostro. Talché, per rimediare a questo inconveniente, ordinò mio padre che tutto si negoziasse sotto nome di terza persona, la quale fu la moglie di Cesare Baroncini di nazione pisana, maritato in Siviglia; ed a me da essa mi fu dato procura e piena facultà d'amministrare questo negozio come suo agente, e poi in secreto si fecero incontra altre scritture che manifestavano la verità di questo fatto. Per mettere in esecuzione questo viaggio si prese a nolo una piccola navetta di portata poco più di quattrocento salme, tutta a nostra requisizione: nella quale, dopo aver avuto il suo dispaccio dalla casa della contrattazione dell'Indie, che risiede in Siviglia, secondo l'uso d'essa, m'imbarcai e mio padre ancora lui s'imbarcò, ma di nascosto, perché non aveva licenza di potere passare all'Indie. Io mi feci notare e descrivere nel numero degli altri marinari, e nel principio dell'anno 1594, alli 8 del mese di gennaio, fattosi prima la visita e riscontro delle persone che erano imbarcate sopra la nave dall'offiziali del re, ci partimmo dal porto di San Lucar di Barrameda, posto alla foce del fiume Betis detto comunemente Guadalchevir, che vale «fiume grande» in lingua moresca; e di quivi spiegate le vele al vento drizzammo il nostro camino, soli e senza altra conserva verso le prenominate Isole di capo Verde.

Dopo diciannove giorni di prospera navicazione, avendo avuto prima vista delle isole Fortunate dette Canarie, che sono sette, nominate Lanza Rotta, Forte Ventura, La Gomora, Il Ferro, La Gran Canaria, Teneriffe e La Palma, tutte popolate e possedute da Spagnoli, fertilissime di vini e bestiami, e appresso della terra ferma d'Africa, nel Capo Bianco, dove fermatoci per tre o quattr'ore si pescò al fondo di sei o sette braccia marinaresche di buoni pesci molto grossi e di colore rossi, detti dalli Spagnuoli «pagros», e dipoi continuando il nostro viaggio, arrivammo alle dette isole di Capo Verde e pigliammo porto in una d'esse, nominata Santo Jacopo, sita tra l'altre, che sono sei insieme, cioè quella che si chiama del Sale, che si trova prima, e poi quella di Buona Vita, appresso l'Isola Mayo e quella del Fuoco e Viana non molto lontano; ve ne sono quattro altre tutte insieme, poste tra li diciassette e diciotto gradi dell'equinoziale verso settentrione, che si chiamano Sant'Antonio, Santo Vincenzo, Santo Nicolò e Santo Luca. Ma quella di Santo Jacopo, dove noi approdammo, resta in sedeci gradi lontana della linea equinoziale verso tramontana, distante dalla Spagna millecinquecento miglia in circa e dalla terra ferma del Capo Verde nel continente dell'Africa miglia trecento. Nella qual isola vi è una piccola città detta del Nome di Dio, con il suo porto non troppo grande, volto verso mezzogiorno. Ha il suo vescovo ed abitanti di circa a cinquanta case di Portughesi amogliati, chi con donne bianche di Portogallo, e chi con nere d'Affrica, ed altri con mulatte, donne nate quivi di uomo bianco e di more o nere che vogliamo dire; le quali nere amano molto più che le proprie loro Portughese, tenendo per cosa certa e provata che il conversare con quelle sia molto meno nocivo e anche di più sollazzo, perché dicono essere di nature più fresche e sane, essendo che in quel clima le persone d'Europa non vi si possano mantenere con un'ora di salute, talché gli uomini e le donne portughesi pare sempre che vadino barcollando per le strade ad ogni passo e con un colore più pallido, o per dir meglio giallo, che paiono più morti che vivi; e massime nel tempo delle pioggie, che vi durano quattro mesi continui, incominciando dal principio di maggio insino a tutto agosto, nel qual tempo li Portughesi abbandonano la città e se ne vanno ad abitare alla campagna e nel più alto dell'isola, in certe loro ville, per godere la freschezza dell'aria e delle palme, delle quali sono coltivate quelle che fanno frutta grosse come un capo d'uomo, chiamate da loro «cochos» e comunemente noci d'India.

Godono ancora la frescura d'un'altra pianta, che fa le foglie molto verdi e grandi, a tale che vi può star sotto una persona al rezzo, e fa una certa sorte di frutte lunghe un palmo e altre meno, che chiamano «bananas», grosse come un citriolo e da la buccia liscia, che si monda come quella del fico nostrale, ma assai più grossa e soda, e quello che resta di dentro si mangia ed è di sapore dolce ed aspetta al dente, quasi popone ben maturo ma più asciutto e senza sugo; si mangiano ancora rostite e cotte sotto la brace, come le pere, e poi vi si versa sopra un poco di vino bianco, ed è cosa molto cordiale e dilettevole al gusto. Quando questa frutta è verde, si arrostisce, levandoli prima la buccia, e dove sarebbe impossibile il mangiarli crudi per la loro asprezza, divengono cotti tanto buoni che servono in cambio di pane. Finalmente di questa frutta si fanno e possono fare diverse vivande, sì come fanno li Castigliani nell'Indie occidentali, che la chiamano «plantanos», e li Portughesi nell'India orientale «figos», dove ve ne sono d'infinite sorte e di quelli così piccoli che si mangiano in un boccone.

Nel tempo delle pioggie si fanno de' molte pescagioni di diverse sorti di pesci, essendone in quel mare abbondante quantità; ma bisogna, subito preso, o salarlo o mangiarselo, non si potendo conservare fuora dell'acqua per un'ora, per l'intemperie e caldezza di quell'aria. E maggiormente, tutte quello che si piglia di notte bisogna avertire che non vi batta sopra il lume della luna, perché subito lo infetta di tal sorte che non è più buono a niente, salvo a dare alli schiavi neri, che lo mangiano volentieri come farìamo noi il fresco, per essere quello più sapiente al gusto, che è quello ch'essi ricercano; sì com'ancora fanno di ogn'altra putredine e cose fradice, non ostante che le trovino nel mezzo delle vie e nelli luoghi più immondi. Ma realmente tutte queste sporcizie causano loro di molte malattie; e però si procura che non le mangino. Inoltre si spassano nelle caccie di diversi animali: in particolare pigliano molte di quelle galline che loro chiamano di Ghinea e noi galline di faraone, non meno buone che belle, per esser tutte piene di macchie bianche sparse per disopra la loro piuma nera in forma rotonda, che a vederle sono molto vaghe e dilettevoli al gusto. Ma sopra tutto vi sono in queste isole grandissime quantità di carne di capre, particolarmente nell'isola che si chiama del Fuoco per causa d'un vulcano, del quale continuamente n'escono fiamme: dove se ne insalano assai, e vengono di Portogallo e dell'isole Canarie e Madere vascelli, che loro chiamano caravelle, con mantenimenti di farine e di vini e ligumi e frutte secche, con le quali cose comprano le carni di capre salate dall'abitatori di quest'isola e le portano a quelli che abitano nell'isola di San Tommè, che è situata sotto l'equinoziale, ed ancora nel Brazil e altri luoghi dell'America. Vi sono ancora per tutte quest'isole assai gatti, di quelli che fanno il zibetto, a' quali danno a mangiare con poca spesa del pesce cotto in cambio di carne e ne cavano assai zibetto, che è molto buono. Vi sono similmente numero infinito di quelle bertuccie che noi chiamiamo gatti mammoni, che hanno le code lunghe, nominate in quel paese dalli Portughesi «bugios», alle quali insegnano ballare ed a fare molti altri giuochi e buffonerie. Io ne ho viste di quelle imparare a stare sopra un canto della tavola, mentre si cenava, con una candela in mano, facendo lume a quelli che vi mangiavano, con un certo avvedimento straordinario di non gocciolare sopra la tovaglia e di non fare qualch'altro errore; e ben spesso, finendosi la candela e scottandole, l'andavano trapassando da una mane all'altra per non cuocersi, avanti che se la lassassero cadere, il che non fanno mai se non forzate da non poterla più sopportare, e poi con un dimenare di bocca e battere di denti pare che voglino dire la causa perché l'abbino gettata via, nel che hanno avvertenza di fare in maniera che la non caschi sopra la tavola. Il simile fanno fare alli loro schiavi, li quali tutti nudi alle teste ed a' piedi delle loro mense stanno con le candele in mano, mentre i padroni mangiano e discorrono, servendo di candelieri non meno pregiati che se fossero d'argento.

Ma tornando al proposito delli uomini maritati, cioè delli Portughesi che abitano in queste isole, certa cosa è che loro fanno più conto d'una donna mora di quel paese, che d'una bianca di Portugallo; e pare, in un certo modo, che quel cielo inclini e voglia che s'appetischino più quelle naturali del paese che queste straniere, poiché si vede per sperienza certa che chi non le ha per moglie subito procura averne per concubine, con le quale poi, vinti dall'affezione, alla fine le sposano e vivono con esse molto più contenti che se fossero della loro nazione; ma gli è bene anche vero che vi si ritrovano di queste more che di valore, giudizio e di fattezze e disposizione di corpo e ordine di membra, eccetto il colore, sopravanzano di gran lunga le nostre donne d'Europa, ed in questo confesso ingannarmi ancor io, perché alcune mi sono parse bellissime e quel colore nero non mi dava punto di noia, sì come si vede che segue all'altri che si usano di giorno in giorno a non vedere altro, e con la frequenza non pare tanto strano; e quelli che abitano per tutta l'Affrica, Capo Verde, Congo ed Angola ne sono buoni testimoni, e spezialmente quelli di quest'isola, nella quale sono anche molti altri mercanti e passeggieri che negoziano in quelle bande, e tutti riconoscono ubbidienzia a un loro governatore, che vi è mandato da Portogallo, per esser paese sottoposto all'acquisto di quella corona, e quivi e in tutte l'altre isole non vi sono altre sorte d'abitatori che Portughesi, mori e mulatti, che nascono di madre mora e padre portughese o altr'uomo bianco. Inoltre vi sono numero grande di schiavi mori, tra' quali ve ne sono ancora de' liberi che fanno il mercante e fra loro di quelli che sono preti, sacerdoti ordinati ad amministrare tutti li santissimi sacramenti; li quali si mantengono quivi, sì come fa ancora il loro vescovo che è portughese, in comprare e vendere delli suddetti schiavi mori, che sono condotti quivi da mercanti portughesi; e da essi dalla terra ferma d'Affrica, Capo Verde e da Los Rios, che tanto vale come dire dalle fiumare che per quelle coste d'Affrica vi sono navicabili tutto l'anno, per via di commercio si cavano grandissime ed innumerabili quantità di mori, che poi contrattano con diverse sorte di mercanzie, in particolare panni di bambagio, che nasce nelle dette isole. Con le quali mercanzie ed ancora con di molto vino bianco, che vi viene portato dall'Isole Canarie e Madera, se ne vanno per quelle fiumare e porti, entrando e salendo dentro a terra con certe loro barche a modo di fregate che vanno a vela ed a remo, e per tutti quelli porti vi sono fattorie di Portoghesi che contrattano barattando li detti schiavi mori a dette mercie, le quali cambiano poi con quelli del paese ad altri schiavi che sono stati presi in guerra o rubati fra loro; e così di mano in mano sono strasportati nella detta isola di Santo Jacopo, per venderli a quelli che di Spagna vi vengono con le loro nave per comprarli a danari contanti e per trasportarli alle Indie occidentali con licenza del re di Spagna; sì come facemmo noi, che portammo parte del nostro avere in doppie d'oro e parte in crediti fattici da mercanti di Lisbona, per li quali, dando noi lettere di cambio sopra di loro, quelli dell'isola ci davano li schiavi.

Ma per tornare a dire delle licenze regie, ha da sapere Vostra Altezza Serenissima che non si può cavar mori, o dicasi neri d'Africa o di qual si voglia altra regione di Ghinea, per trasportarli in luoghi di Spagnoli, che prima non si comperino le dette licenze dalla camera regia o vero da altri che l'abbino in appalto o tenghino in donativo fattoli dal re: le quali sono di due sorte, le prime si chiamano di libertà, l'altre sono nominate del quarto. Di quelle prime noi ne comperammo ottanta a scudi venticinque l'una a denari contanti, e per ciascuna di queste licenze avevamo facoltà di poter cavare un schiavo di Capo Verde, cioè di quella isola, e trasportarlo libero senza pagare altro dazio alla corona di Castiglia, salvo alcune spese minute in India; ma non ci assolvevano già del dritto che si deve alli contrattatori del negozio di questi schiavi, dependente della corona di Portogallo, che si paga nella detta isola di Capo Verde sedeci scudi per ciaschedun schiavo che si cava dal paese. E se le licenze sono di quell'altre che si chiamano del quarto, se bene costino la metà meno che quelle di libertà, bisogna poi, arrivato nell'India, dare al re per gabella la quarta parte delli schiavi, che vi si conducono vivi in specie. Ma se della una sorte di licenze come dell'altra si portasse più numero che schiavi, si possono rivendere, e se in contrario, cioè che fossero meno le licenze che li schiavi, all'ora si perderebbono tutti li schiavi, che fossero di più di dette licenze, per confiscati, senza rimessione alcuna. Questo è quanto mi occorre alla memoria per dire a Vostra Altezza Serenissima di questo affare per oggi; domani, se così li piacerà, li narrerò il modo e come negoziano in detta isola di Capo Verde e della maniera che si comprano detti schiavi e della partenza con essi, sino ad arrivare in la città di Cartagena nell'Indie.

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SECONDO RAGIONAMENTO
DE' VIAGGI DELL'INDIE OCCIDENTALI


Trattasi del modo di comprare li Mori schiavi
nell'isola di Capo Verde e del condurli a dette Indie
nella città di Cartagena.



Ieri, Serenissimo Prencipe, promessi a Vostra Altezza Serenissima di raccontarli il modo di negoziare che tenemmo nell'isola di Capo Verde, dove, sbarcati che fummo in terra, pigliammo una casa e cominciammo a dar voce di voler comprare schiavi; onde quelli Portughesi, che li tengono alla campagna nelle loro ville a branchi come il bestiame, ordinorno che fossero condotti alla città per farceli vedere. Vistone alcuni e domandando de' prezzi, trovammo che non ci riusciva l'incetta di tanto guadagno quanto con la penna stando in Spagna avevamo calculato, e ciò avveniva perché ne chiedevano molto più del solito per causa della quantità delle nave che erano venute quivi; e tutte volevano caricare schiavi per le Indie, il che causò tanta alterazione ne' prezzi, che, dove si soleva vendere un schiavo per cinquanta scudi, al più sessanta, fu forza comprarli per cento scudi l'uno e beato a chi ne poteva avere per spedirsi, essendo un gran cimento il dire convien bere o affogare; al qual prezzo ne comprammo settantacinque, li dua terzi maschi e l'altro terzo femmine, mescolatamente vecchi e giovani, grandi e piccoli tutti insieme, secondo l'uso di quel paese, in un branco come tra di noi si compra un armento di pecore, con tutte quelle avertenze e circostanze di vedere se siano sani e ben disposti e senza difetto alcuno della persona loro. Poi ciascun padrone li fa segnare o, per dire più propriamente, marcare della sua marca che si fa fare d'argento e poi infocata al lume della candela di sego, con il quale si unge la scottatura e segno che si fa loro sopra il petto, overo sopra un braccio o dietro le spalle, per riconoscerli. Cosa veramente ch'a ricordarmi di averla fatta per comandamento di chi poteva in me mi causa una certa tristezza e confusione di coscienza, perché veritieramente, Serenissimo Signore, questo mi parve sempre un traffico inumano ed indegno della professione e pietà cristiana. Non è dubbio alcuno che si viene a fare incetta d'uomini o, per dire più propriamente, di carne e sangue umano; e tanto più vergogna, essendo battezzati, che, se bene sono differenti nel colore e nella fortuna del mondo, nulladimeno hanno quella medesima anima formatali dall'istesso Fattore che formò le nostre. Io me ne scuso appresso a Sua Divina Maestà, non stante che io sappia molto bene che, sapendo Quella la mia intenzione e volontà esser stata sempre repugnante a questo negozio, non occorra. Ma sappialo ogn'uno e siane Vostra Altezza Serenissima certificata che a me questo negozio non piacque mai; pure, come si sia, noi lo facemmo e forse, ancora per questo insieme la penitenza sì come si vedrà nel fine del seconde discorso di questi viaggi e ragionamenti, che io andrò facendo a Vostra Altezza Serenissima di ogni nostro successo.

Ma, tornando ora al negozio delli schiavi, dico che, avendo noi compero li predetti settantacinque mori e more al prezzo di scudi cento l'uno di primo costo, alcuni di avvantaggio ci stavano con tutte le spese a più di centosettanta, compresovi li scudi venticinque della licenzia regia e scudi sedici per il dritto all'uscita dell'Isola di Capo Verde e scudi vent'uno per il nolo di quivi sino a Cartagena d'India, e di più vi era il vitto e altre spese minute. Inoltre quelli che morsero aggravarono maggiormente questo negozio. De' quali schiavi io ne ebbi la cura e ordinai per ogni dieci di essi un moro per capo, scegliendo fra di loro quello che mi pareva più fiero ed accorto, acciò attendesse a far quello ch'io provederei per li loro bisogni, specialmente del mangiare, che se dà loro due volte il giorno d'una certa sorte de fagiuoli grossi che quivi nascono, i quali si cuocono semplicemente con acqua e poi se li condiscono con un poco d'olio e sale. Di così, insino a che venne il tempo dell'imbarcarli, si tennero in due stanze tutti separatamente, li uomini nell'una e le donne nell'altra, nudi e senz'altro vestito, contentandosi di quello che la natura ha dato loro della pelle, nascondendo solo con un poco di panno di bambagio o vero con un poco di cuoio o altra pelle o cencio o foglie d'alberi quella parte del corpo che il primo peccato ci ha fatto parere esser più vergognosa che l'altre; e molti ancora, e maschi e femine in particolare, non se ne curando sia per necessità o per semplicità o dappocagine, si lassano stare come la natura li ha fatti, senza conoscere che sia vergogna coprire quelle parti che altri per ciò coprano. Ma molti usano una certa galanteria a lor modo e si legano il membro con un nastro e altri fili fatti di erba, e, tiratoselo tra le coscie indietro, lo nascondono di tal maniera che non si conosce se siano maschi o femmine; e altri se lo ricuoprono con metterlo in un cornetto di qualche animale o nicchi marittimi, altri se lo riempiono con tanti anelletti d'ossa overo d'erba tessuti, a tal che resta tutto coperto e insieme ornato, e molti ancora se lo depingono o per meglio dire imbrattano de qualche mistura che glielo faccia rosso o giallo o verde. In questi modi e altri cercano di ricoprirsi queste parti, che molti di loro senz'altra cerimonia le lassano scoperte.

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FRANCESCO NEGRI



MORALITÀ E RELIGIOSITÀ DEI LAPPONI



Hanno i Lapponi alcuni luoghi assegnati dalla regia munificenza dell'università di Upsala, per poter trattenervi agli studi i loro figliuoli gratis e disporli ad esser preti per servizio della nazione; ma a poco a poco si sono andati scemando, sin tanto che, stando io in Stokholm, un solo di loro, che vi restava, se n'è fuggito al paese: è credibile, con tutto ciò, che i suoi superiori ne faranno venir altri. La principal cagione, perché questa gente ha avversione al mandar allo studio i suoi figliuoli, è perché vorrebbe che fosse loro insegnato senza batterli e senza patimenti, parendole che a troppo caro costo debbano essi comperar la virtù. Oltre di che quelle speranze, a dir il vero, di cavarne utile, onore e dilettazione, la commodità delle conferenze con altri virtuosi, l'uso delle biblioteche ed altro che alletta i popoli, a questo mancano. Se bene non curano di uscir dal loro paese, i Lapponi godono però di veder qualche forastiere; portano gran rispetto andando a parlar al prete o al «fogdè»; se gli mettono avanti alcuni in ginocchio di propria volontà: essi cedono a tutti e si riputano gli infimi, direi, del mondo, se lo conoscessero. Rimproverati di qualche mancamento, o a torto o a ragione, senza adirarsi s'umiliano; percossi leggermente, non ne fanno risentimento alcuno, ma se la pigliano in pace; se temono di peggio, fuggono. Non portano mai armi, se non per la caccia; pochissime risse nascono tra di loro; l'omicidio è quasi inaudito, e così il furto. Alla loro partenza verso i monti lasciano parte delle loro sostanze, cioè reti, archi, balestre, ceste, pesce secco, carne secca e cascio, in certa piccola casuccia che si fabbricano di legno, a guisa dl un piccolo molino da vento, sopra un albero tagliato all'altezza di alcuni palmi, la quale in loro lingua chiamano «stabur», e serve per salvarobe. E se bene alcuni rimangono nel paese, massimamente qualche povero che ha poca terra e pochi rangiferi, nondimeno il tutto resta sicuro sino all'arrivo de' padroni; anzi l'altre famiglie de' Lapponi, che fanno l'istesso viaggio, vedono le casuccie sopradette senza custodia veruna, e la porticella invece di ferramenti è serrata e sostenuta da vimini ritorti, ma né meno pensano di toccarle. Una specie di ladri, però, è in Lapponia che non le porterebbero questo rispetto, se potessero arrivarci; e questi sono gli armellini, che però in tal altezza le fabbricano e con tal figura, perché restino da quelli ed altri simili animali assicurate. È però anche vero che quei pochi Lapponi, che hanno denaro, non si curano di far tanta prova della fedeltà della propria nazione, ma si contentano di restar con tal dubbio, privandosi di questa scienza esperimentale: non lasciano i danari tra l'altre robe nello «stabur», ma li ripongono e nascondono in qualche foro d'un monte o in altro sito, in modo che nessuno lo sappia.

Il fomite poi della concupiscenza qui più che altrove è represso e per la freddezza dell'aria e molto più per la privazione delle delizie: Cerere e Bacco qua non ponno giungere; Venere sì, ma con poco calore. E più chiaramente direbbe san Girolamo: «Venter et genitalia sunt sibi propinqua, ut ex vicinitate membrorum colligatur confoederatio vitiorum». Non temono che di loro si verifichi quel detto della Scrittura Sacra: «Prodiit quasi ex adipe iniquitas eorum»; ma né meno l'altro: «Propter inopiam multi deliquerunt»; le poche occasioni non poco giovamento apportano loro. Rare volte praticano fuori della loro famiglia; non sanno che cosa siano teatri, festini, gozzoviglie. Quel che ho detto del fomite della concupiscenza, posso dirlo di tutte le specie de' vizi. Già narrai che i Lapponi sono umili e mansueti: l'umiltà si oppone alla superbia e la mansuetudine all'ira. Da quello segue che né meno sono invidiosi i Lapponi, perché mancando la madre manca la figliuola: «Invidia est filia superbiae; sed ista mater nescit esse sterilis; ubi fuerit, continuo parit», dice sant'Agostino. Provai che i Lapponi sono liberali: dunque l'avarizia non li domina. Alla gola qui mancano gli incitamenti artificiali; solo ne provano uno naturale, un buon appetito che condisce i cibi. Oltre di questo io faccio riflessione sopra l'eccesso del calore della zona torrida e l'eccesso del freddo della zona glaciale, e ritrovo che fanno anche contrari gli effetti negli animali: produce quella le tigri, i leoni, le pantere ed altri animali feroci, draghi e serpenti velenosi, gli uomini similmente fieri e crudeli sino a mangiarsi gli uni gli altri; produce questa gli animali piacevoli, non ci sono i velenosi, e gli uomini sono pacifici.

La speranza degli onori e delle dignità, siccome anche la paura, di non conseguirle o il timore di perderle, e così la grazia e la disgrazia de' superiori, non è pericolo che facciano romper il sonno a questa gente, e tanto meno guastarle la sanità o perder la vita, come intraviene nelle primarie corti de' monarchi e de' potentati: «Beata vita nihil sperantis, nihil metuentis». Io credo che la disperazione si disperi di poter giungere, non che abitar in Lapponia. Direbbe di questi oggi ciò che disse de' Finni contigui Tacito: «Securi adversus homines, securi adversus deos, rem difficillimam assecuti, ut illis ne voto quidem opus sit». Non sarebbe alieno dal vero chi dicesse che le qualità dell'animo di questi abitatori corrispondono a quelle della loro terra, che non produce né frutti né spine: essi non hanno né virtù né vizi. Pare in un certo modo che goda delle qualità del secolo d'oro questa nazione, che o poca o nulla ha notizia dell'oro.

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DIONIGI CARLI


ISTANTANEE BRASILIANE



Smontati in terra, ringraziammo Dio d'averci condotti a salvamento nel Mondo Nuovo (tralascio l'allegrezza che da tutti si fece, perché il lettore per se stesso lo può considerare); poscia, incaminandoci, osservai fra la gran folla della gente una mora, che genuflessa batteva le mani sopra le coscie, sul petto e assieme. Io curioso di sapere a che fine ella facesse tali atteggiamenti, mi disse un Portoghese: «Padre, quella mora è naturale del Congo, battezzata da un cappuccino, e avendo inteso ch'eglino vanno colà per predicare e battezzare quelle genti, si rallegra e festeggia». Nell'andare poscia al nostro ospizio, qual è fuori dall'altra parte della città, ci bisognò passare per mezzo di questa, quale è di grandezza ordinaria, ma popolatissima, massime di mori, quali sono condotto si dal regno d'Angola, com'anche da' regni di Congo, Dongo, Mattamba, Loango, Cassange e altri paesi dell'Africa, ogni anno diecimilla per schiavi, quali servono per il lavoro del tabacco, zuccaro e bombace, essendovene le campagne vastissime; e nasce sopra alberi dell'altezza poco più d'un uomo e produce pallotte della grandezza d'un ovo, con pelle sottile e verde; e compita la misura destinatagli dalla natura la corteccia si secca e apre, mostrando di dentro come stoppia bagnata e del medesimo colore, qual poi col sole e ruggiada diviene bianca, fin tanto che, pervenuta alla perfezione di bombace, cadono in terra tre fagiuoli neri, che servono per la semente e da se stessi nascono, moltiplicando all'incredibile. Lavorano il cocco e l'avorio, tagliano di tutte le sorti di legno, sì per tingere come per far lavori, ma particolarmente del verzino, chiamato in quella lingua «brasil»; e tanta è la qualità che il paese ha pigliato il nome dal legno.

Le genti che abitavano questo paese sono detti «Tapuij» o «Cabocoli», non in mori né bianchi, ma di color tané o lionato. Vanno affatto ignudi, e per arma portano un arco più alto d'un uomo e la frezza di lunghezza due braccia, fatta parte di canna e parte di legno durissimo; e per non aver ferro, l'assotigliano con pietre, accomodandole come una sega, acciò nel ferire faccia più squarcio e nel cavarla sia più difficoltosa: tira il detto arco al pari d'un moschetto, con tal veemenza che trapassa una tavola semplice. Viddi un giorno uno di questi lionati, qual era vestito in questo modo: aveva infilato una filza di penne, lunghe un braccio, tutte di diverse sorti, e la portava cinta a' lombi e la parte della piuma rivolta verso terra; un'altra filza ne aveva attorno al capo con la piuma volta all'in su. E questo era fatto cristiano e mi raccontò cose orrende delle sue genti, quali non sono stati soggiogati da' Portoghesi, ma all'arrivo di questi si sono ritirati dentro terra, in vastissimi boschi, e si rendono difficilissimi da superare. Questi mi mostrò un suo figlio di dieciotto anni, di color di rosa secca, cosa curiosa da vedere; e ciò è avvenuto per aver lui pigliato per moglie una mora, e tutti i suoi figli nascono del medesimo colore, sì che in una casa o capanna vi sono genti di tre colori, il padre di color di tané, la madre mora e figli di color di rosa secca.

[...] Si portassimo un giorno per vedere la villa d'Olinda distante una lega, già città riguardevole; ma fu distrutta la maggior parte dagl'Olandesi, quando fabricarono Pernambuco. Nel camino ci furono mostrati alberi ch'avevano le radici sopra le foglie nella cima, sì che si possono dire alberi da due radiche, da una parte radicate nella terra e dall'altra nell'aria, e nel mezzo i rami con le foglie, cosa curiosa a vedere. Rimirassimo poscia quantità di papagalli, peruchetti, gatti maimoni, scimie di diverse sorti e specie, e particolarmente di quelle che chiamano «sagoini», stimatissimi per la loro picciolezza. Questo breve viaggio fu fatto da noi quasi tutto per acqua in una barca detta «canoa», qual'è un legno d'un sol pezzo incavato e guidato da doi mori, che coprono con un palmo di straccio malamente le parti più vergognose; e questo è l'abito solenne di tutti li mori in generale, non portano altrimenti tovaglie o fazzoletti, come alcuni pretendono publicare (io ne ho veduti alcuni eziamdio vestiti di tutto punto, alcuni altri con tovaglie o fazzoletti, ma è da sapersi che questi hanno qualche talento particolare, e perciò usano anche particolare vestito; ma io parlo in generale). Guidavano dunque la nostra canoa doi mori, posti ciascuno di loro nelle due estremità del legno col remo in mano, fatto a guisa d'una spalletta; e non vogano alla nostra usanza, ma pare che zappino l'acqua. Il temperamento di questo clima, abenché sia molto caldo, non è però molto nocivo, né meno la ruggiada né la luna, onde si può caminare la notte, servato però il pericolo delle tigri, essendovene grandissima quantità. V'è anche una bestia detta «zamendoa»: è grande come un porco, ma (ha) l'ungie smisurate e vive di formiche; e avendo trovato il buco dove stanno, vi caccia dentro la lunga lingua che tiene, quale, caricata di formiche, la tira a sé e le mangia; ha la coda tanto grande che vi nasconde sotto tutto il corpo. I nostri padri avevano in casa un animale detto «tetusia», fatto come un picciolo porchetto, cosa curiosa da vedere. Io non sapendo cosa alcuna di questo animale, in passando per una stanza e vedendolo, ebbi non poco timore, perché si nasconde tutto nelle grosse scaglie che tiene, eziamdio le gambe, che sono lunghe mezzo palmo, in modo che sembra una palla, e per questo nell'allongarsi ebbi qualche paura. Un'altra curiosa bestia viddi in casa d'un mercante, quale ha sotto il ventre due borse, ove ne' bisogni e pericoli accolgono in un tratto e portano via li suoi figliolini: lo chiamano «cerigone». Parimenti ne viddi un altro assai più curioso, grande come una volpe, ma di moto tanto lento ch'è cosa incredibile, né si move del suo passo né per carezze né per bastonate: i Portoghesi questi lo chiamano «pigrizia», nome molto confacevole alla sua destrezza.

[...] Per essere il paese sabbioso, vengono afflitti gli abitatori e forestieri dal travaglio di certi animaletti, di color e grandezza di picciola pulice. Questi nel caminare entrano all'improviso sotto l'ungie de' piedi e, succhiando il sangue, si fanno grassi e rotondi come una granella di lente, ma di color bianco, per il che è necessario farsi vedere ogni sera da qualche moro prattico per cavarli, perché, trascuratamente restando, in brevissimo tempo tutto il piede si mangiano, moltiplicando all'incredibile; e però ogni sera un moro faceva la cerca de' già detti animaletti, chiamati da' Portoghesi «bichios», ne' piedi di tutti noi, e a chi ne cavava dieci, a chi quindeci e fino a vinti per uno, e guai a chi li lasciasse incarnare sotto in modo che non si potessero vedere, perché bisognarìa tagliar il dito o piede; e perciò tutti stavamo molto ben avertiti, perché noi vedevamo che né meno a' Portoghesi, quantunque calzati, la perdonano. Un giorno, andando per la città, ritrovai un moro d'età de sedici anni in circa, nel mezzo d'una strada assentato sopra d'una pietra, con le mani e piedi incatenati e sopra il capo una lastra di ferro al modo di celata. Alla qual veduta fermatomi, l'interrogai per qual causa stesse così legato; rispose per esser fuggito dal suo padrone, quale doppo d'averlo fatto sferzare molto bene (quando ciò fanno, li legano le mani insieme con i piedi, come si fa da noi a' vitelli), l'aveva di più fatto esporre a quel modo legato, a vista del popolo. Questi mi pregò che volessi essergli padrino; il che, non intendendo io, gli replicai che si dichiarasse meglio, e mi disse che, quando fuggivano e poscia ritornavano, cercavano una persona di qualche autorità, acciò gli perdonasse. Al che volentieri m'offersi e ottenni con qualche difficoltà però, per esser la terza volta ch'era fuggito, ché poi non s'ammette padrino; nulladimeno, per essere quel signore tutto de' cappuccini, restai sodisfatto e il moro liberato. Ne viddi poi molti altri, a quattro, a sei e otto incatenati, chi per i piedi, chi per le mani, chi per il collo e simile medicina salutare, ché senza questo fuggirebbero tutti; al principio, mosso da una natural compassione, mi parve una crudeltà, ma poi, fatto capace della loro natura e come ne' loro paesi d'Etiopia sono dati totalmente all'ozio, stimai il tutto fatto prudentemente. Per un tal giorno nella chiesa maggiore, chiamata il Corpo Santo, per solennizare la festa del santissimo rosario, fecero un apparato veramente vistoso. Tutta la chiesa con il soffitto era coperta di spaliere di color giallo; ne' comparti, divisi per le pitture, in bellissimi svolazzi pendevano aggiustati drappi preziosi dell'Indie; e tutto l'addobbo si vedeva bizzaramente rabescato co' nastri di seta di color di fuoco, in tanta quantità che per detto servizio ne avevano posto in opera vintimilla braccia e tutto appeso con gl'aghi. Il gran tabernacolo era ammantato di seta e d'oro, tutto di fiamme, ché, illuminato dal chiarore d'un passamano d'argento, abbacinava la vista, quasi si mirasse al naturale nella propria sfera del fuoco. Il tutto poi veniva animato dallo spirito di quelle corde e dal fiato di quei spiriti che, tasteggiate e inspirati, animavano quelle arpe, fagotti e cornetti a decantare le sacre lodi. Ed acciò che il tutto riesca con ordine e senza confusione, in tal solennità fra tutti della città eleggono uno de' più ricchi mercanti, quale con la persona indefessa assiste e con la borsa aperta soccorre ad ogni qualunque dispendio che gli viene ambiziosamente in capriccio: il padrone, che fece la già detta, mi giurò d'aver speso solo ne' fuochi della sera antecedente quattromilla ducati, in tal modo però. Desiderando noi di partire con la maggior celerità che si potesse dal Mondo Nuovo e portarsi al vecchio, cioè nell'Etiopia meta delle nostre fatiche, fossimo un giorno a ritrovare questo mercante ricchissimo, acciò, doppo caricato un suo vascello che velleggiava in Africa, ci facesse la carità di convederci la camera di poppa per nostra abitazione. Al che tutto volentieri assentito, mentre eravamo per imbarcarsi (per voler di Dio!) fu scoperto inabile alla navigazione, che però bisognò disfarlo tutto per sciegliere i feramenti e altre cose migliori, e delle tavole si fecero quei fuochi che disse costare quattromilla ducati, ché tanto sborsò quel mercante per la compra di detto vascello: e forse ci liberò Iddio per averci destinati ad altro più accettabile sacrificio. In questo mentre andassimo a vedere il curioso ordegno dell'espressione del zuccaro. Questa è una gran ruota girata con veemenza grande da molti mori, quale supprime una gran macchina d'un torchio di ferro massiccio, sotto del quale s'infrangono le canne di zuccaro tagliate in pezzetti, il liquore del quale va stillando in una vasta caldaia a cui sta sottoposto il foco. Il vedere poi travagliare a sudori anelanti questi poveri Etiopi in simile esercito ha del miracoloso, massime a chi ha capacità della loro pigrizia e vigliacca natura: poi mirargli in questo caso, tutti affacendati e snelli, particolarmente nell'aggiongere tanto occulatamente sotto il gran torchio quei minuti di canne, per non restar monchi del braccio o della mano sotto quella gran massa di ferro! È però vero che gli neghittosi e annoiati dal lavorare sono svegliati da nervate terribili, che fanno compassione: lenitivo, però, stupendo alla dapocagine di costoro, che sono genti che non sanno altro che ballare, come dirò scrivendo del Congo.

[...] Un giorno il signor governatore, chiamato don Bernardo Miranda, mandò un essercito per soggiogare i mori delle palme, quali sono schiavi fuggiti da' patroni che, cresciuti al numero di vintimilla atti al combattere, infestano del continuo li confinanti (siano bianchi o di qualsivoglia colore) con furti, rapine di bestiami e fino d'uomini, donne e ragazzi: e però prudentemente era stata inviata la sudetta gente contro di costoro. Intesi poi che i Portoghesi ne avevano pigliato e uccisi molti, nulladimeno si sono fatti forti poco lontano dal Rio della Plata, dove comincia il dominio del re Cattolico e continua settemilla miglia di costa (monarchia per sé sola, se tu hai riguardo alle ricchezze di tal paese) e quello de Portoghesi quasi duemilla miglia, che tanto s'estende il Brasil; in faccia del quale v'è l'isola di San Paolo, qual si può dire sia la cuccagna del mondo. In quelle parti capitando qualche forastiero per accidente, questo, abenché povero e miserabile, se vuole, ritrova subito moglie, con patto però rigoroso di smemorarsi ogni travaglio né pensar ad altro ch'a mangiar e bere; ma sopra il tutto star avertito di non famigliarizarsi, né anche per poco, con altra donna che la propria moglie, né di rendersi un tantino sospetto di fuga coll'abbandonarla, però che questa, divenuta una furia, gli dà il veleno e col veleno la morte; ma per il contrario, mostrandosi contento, questa fa ogni sforzo, adopra tutte l'invenzioni per corrisponderli e di più farlo comparire più addobbato e polito degl'altri. Quest'isola è felicissima di clima, sì alli uomini per renderli di bellissimo sangue, com'alla terra perché influisce alimento fecondissimo di tutte le cose necessarie, anche soprabondanti, per li stranieri, ad ogni loro disgrazia. Scorre per questo paese un fiume sì dovizioso che col suo tesoro soccorre alle miserie di tutti, pescando fra quelle arene preziose tant'oro sufficiente a saziare ogni ingordiggia: vero è che la quinta parte si paga al loro sovrano di tributo, e, sodisfatto al loro bisogno, non moverebbero un piede per raccogliere altr'oro. Stravaganti e maravigliosi costumi si raccontano di questo paese, ma, non v'essendo che passato avanti o poco lontano, non posso affermare ciò che mi fu riferito: ma dico bene che in tali parti niente si rende incredibile, perché a coloro ogni sproposito si rende fattibile.

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LA TRATTA DEGLI SCHIAVI



Già stava allestito il vascello, e però fu necessario portarmi al porto in una rete, partendo dall'ospizio non senza lacrime, avendo ringraziato tutti li padri e fratelli della carità fattami con addimandare loro perdono d'ogni disturbo dattogli. Entrato in un battello, arrivai a bordo e con un poco d'aiuto entrai nel vascello già caricato di mori, in numero di seicento, quali erano tutti marcati (come si costuma), chi sopra una spalla, chi nel braccio destro, chi nel sinistro e altri sopra le mammelle: ciascuno la marca del suo padrone. Fra marinari, soldati e passeggieri eravammo settecento e vinti persone in circa. Veramente era uno spettacolo vedere il modo che stavano i mori, perché avevano posto gl'uomini nel terzo corridore da basso, non avendo altra luce che quella [che] ricevevano dalla bocca della scottiglia; né meno questa era totalmente libera, essendo framezzata di grossi pali a guisa di gabbia: e ciò fanno perché, se fossero in libertà e più numerosi de' bianchi, potrebbero causar disordini col buttare in mare o dar il fuoco al vascello e simili. E ciò avviene perché li mori hanno opinione d'essere condotti da' Portoghesi nell'America per ucciderli e farne dell'olio, e perciò ne' viaggi di mare, quando possono farlo, facilmente dal vascello si lanciano in mare, overo, ostinandosi, non vogliono mangiare per morire in vascello; e con tutto che io li dicessi esser falsissimo e mera buggia, nulladimeno non restano capaci. E che questo sia vero, occorse che questo nostro pilotto, avendo una sua mora che non voleva mangiare, essendo nel secondo solaio, perciò la fece venir sopra, acciò pigliasse aria e fosse dalle genti consolata e anche esortata a cibarsi; ma questa un giorno, vedendo non esser osservata, si buttò fuori del bordo col capo avanti per annegarsi, come sarebbe successo, se il pilotto, che non la perdeva di vista per il sospetto che ne hanno, ben presto non l'avesse pigliata per un piede e tiratala dentro il vascello. Tanta e tale è l'ostinazione di questi Etiopi! Le donne erano nel secondo corridore o solaio, ma quelle che erano gravide, in numero di quaranta, le avevano poste nella camera grande di poppa. I ragazzi, detti «mulechi», nel primo solaio, e stavano sì stretti che, se volevano dormire, si riposavano uno sopra l'altro; per le necessità corporali avevano ben sì accomodati alcuni luoghi, ma molti, per non perdere il posto, le facevano ove stavano, onde per il gran caldo del clima e fiato di tanta gente il fettore e puzza era insopportabile. Con fatica mi portai sopra il castello di poppa, ove il capitano aveva fatto accomodare il mio letticiuolo, coperto di stora al modo d'una capanna, per diffendermi da' cocenti raggi del sole e anche della pioggia o ruggiada, ch'in queste parti cade in grand'abbondanza. Mi posi in questo luogo con pensiero di non muovermi; ma non fu così, perché, credendo noi partire il giorno seguente, non potessimo, essendo arrivati altri settanta mori per imbarcarsi, ma non essendo cristiani, bisognò cattachizzarli e battezzarli, essendovi la scomunica condurre schiavi d'Angola ad altre parti che non siano prima fatti cristiani: e però tardammo la partenza. Terminate le mie fonzioni, furono marcati e posti al rollo, sì che fra bianchi, mori e mulati eravammo novecento persone in circa.

Sarpato, dassimo le vele al vento e l'addio all'Africa. Questo viaggio si suol fare in un mese o al più in trentacinque giorni, non essendo necessario andar al Capo di Buona Speranza, ma si camina per dritta linea fino all'America, regnando tutto l'anno il vento favorevole e in poppa; nondimeno a noi non fu concesso tal grazia, perché, mancandoci il vento, restassimo in calma in più volte, in quindeci giorni; e però sempre più cresceva il calore e puzza. In tempo che non si faceva viaggio procuravo si moltiplicassero le orazioni e divozioni, discorrendo io col capitano del nostro pericolo; perché il non far camino è una gran borasca, gl'addimandai se fossero battezzati tutti li mori, perché, incorrendo noi nella scomunica, era impossibile il far buon viaggio. Il capitano, ciò udito, stette sopra di sé alquanto e poi disse: «Padre, dite il vero, ché nell'ultimo si sono imbarcati quattro mori senza il battesimo»; e subito fattigli salire il castello e instruitigli al meglio che fu possibile, li battezzai con altri tre che erano nati allora, ch'ancor fumavano.

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