Copertina
Autore Hella Haasse
Titolo Le vie dell'immaginazione
EdizioneIperborea, Milano, 2001, Iperborea 91 , pag. 171, dim. 100x200x13 mm , Isbn 978-88-7091-091-9
OriginaleDe wegen der verbeelding
EdizioneQuerido's Uitgeverij, Amsterdam, 1983
PrefazioneLaura Pignatti
TraduttoreLaura Pignatti
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe narrativa olandese , gialli
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Pagina 11

La notte è dei camionisti, pensava Maja ciondolando tra il sonno e la veglia sul sedile nella cabina di guida. Se riusciva a tenere gli occhi semiaperti per qualche secondo, vedeva sulla sinistra dell'autostrada costellazioni di luci simili a bizzarri alberi di Natale, o a giganteschi dadi da gioco con quattro, sei, otto punti o più, scivolarle incontro dall'oscurità, e piccole luci rosse serpeggiare dolcemenre davanti a lei a due a due in una lunga fila, a tratti sparendo per ricomparire l'attimo dopo nel buio. Il rombo del pesante motore era dentro di lei. Aveva come l'impressione di essere un insignificante ingranaggio di quel colosso su ruote, partecipava inerte alle vibrazioni e ai sussulti del tronco metallico e al ritmico accelerare e rallentare della corsa; e ogni volta che sentiva sotto di sé lo sbuffo di vapore dei freni idrauilici, era come se lei stessa si liberasse con un sospiro da una sensazione opprimente cui (stanca com'era) non sapeva più dare un nome. Ogni tanto riemergeva un attimo da quello stato di semincoscienza, nauseata dall'odore di olio, di rivestimenti di plastica e di sudore. Alla luce fioca del cruscotto il camionista accanto a lei era una montagna d'ombra. Sedeva lì, mezzo nudo nella sua canottiera, emanando calore come un grosso animale. Con stivali delle sette leghe venivano portati via nella notte, lei e i suoi tre bambini. Un gigante, una forza sovrumana, li aveva presi sotto la sua protezione.

Nuovi rovesci di pioggia sferzavano il parabrezza. Una mano destra pelosa tastò sul pannello pieno di numeri e lancette, ed ecco che i tergicristalli cominciarono a passare energicamente avanti e indietro sul vetro grondante.

Poco prima, quella sera, quando erano ancora sulla Mini, ogni scroscio di quel temporale estivo di una durata e di una violenza eccezionali le era parso il presagio di una catastrofe naturale. Klaas stringeva spasmodicamente il volante, proteso in avanti, imprecando tra sé, accecato dai fari dei veicoli in senso opposto, cercava di tenere la rotta tra quei marosi di pioggia; Maja puliva come meglio poteva con il palmo della mano il vapore che continuava a formarsi sul parabrezza. Imponenti ruote di camion passavano rasenti, le vetture dietro reagivano con impazienti lampeggiamenti alle manovre incerte della Mini. Temendo incidenti, Maja faceva star zitti i bambini che, eccitati da tutta quell'acqua che si riversava su di loro dal cielo e dalla strada, giocavano a far finta di essere in motoscafo o in sommergibile.

Ora, al sicuro su quel sedile sopraelevato nella cabina del camion, Maja trovava la bufera notturna di una grandiosa bellezza. Nubi di vapore fluttuavano tutto intorno, e in quella nebbia sfavillante sfrecciavano veicoli grandi e piccoli in un brulichio di luci bianche, rosse e gialle e di vaghi riflessi deformati sul manto bagnato della strada: ma lei troneggiava sopra i pericoli, tutt'uno con il leviatano che fendeva quell'oscurità e quella pioggia.

Tastò dietro di sé la brandina aperta; sentì un piedino in una calza (Nijn), una testa tonda e dura di maschietto (Koos) e un ginocchio con un cerotto (Rutger).

"Dormono come ghiri, quei marmocchi", disse il camionista.

Erano le prime parole che pronunciava da quando (da quanto, in effetti?) lei e i bambini erano saliti sul camion. Maja provò una tale gratitudine per quella voce che tutt'a un tratto dava un senso quasi familiare a quella corsa nella notte, che si svegliò del tutto.

"Sono pigiati uno sull'altro..."

"Come sardine", terminò lui.

Maja guardò di sottecchi quel corpo massiccio e quella testa barbuta che arrivava quasi fino al tetto della cabina. Aveva l'impressione di essere seduta accanto a un grande orso nero. Lui non aggiunse altro, ma lei aveva voglia di continuare la conversazione.

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Pagina 62

"Welling, credimi, stiamo vivendo un ritorno del buon vecchio giallo. Non quelle storie imbottite di psicologia di cui ci inondano da anni, non quei cosiddetti thriller cretini pieni di spiriti ed esorcisti, basta, non ne posso più, no, il vero, onesto giallo: X viene assassinato, chi è stato e perché? Niente fronzoli, facts. E' successo questo e quest'altro, Tizio ha visto questo, Caio quest'altro. Capisci? Ti assicuro che c'è un vuoto nel mercato."

Klaas si strinse nelle spalle dubbioso. Non era molto amante del genere.

"Welling, a partire dal primo settembre voglio pubblicare un romanzo a puntate di questo tipo. Un nuovo, sensazionale whodunit."

"Le cose migliori che escono in Inghilterra e in America si trovano in genere subito tradotte in libreria", iniziò Klaas.

"Io voglio un giallo originale olandese", proseguì il suo datore di lavoro.

"Non saprei proprio a chi chiedere di scrivere una cosa del genere", disse Klaas. Senza entusiasmo si mise a tagliare il suo médaillon de veau à l'estragon in piccoli pezzetti. Prevedeva fastidi a non finire: un incarico accettato troppo in fretta da un antico scrittore a corto di soldi, i suoi sforzi ogni mese per riuscire ad avere il testo in tempo.

"Welling, ragazzo mio, sei tu che lo scriverai quel giallo."

Klaas era troppo sorpreso per reagire. Appoggiò lentamente la forchetta sul bordo del piatto. Il proprietano di Enigma si fregava le mani.

"Tu sei una buona penna, Welling lo so. Quanti tuoi articoli non ho avuto sotto gli occhi ormai? Sì, sì, so cosa mi dirai. Non sei un romanziere, non sei un narratore... and so what? Fantasia ne hai, no? Sono sicuro che hai fantasia per due, tu. Non venirmi a parlare di ispirazione. Questo genere di cose si costruisce, punto e basta, ragazzo. Secondo una formula inossidabile, a tenuta stagna. E' una costruzione matematica. Prima la testa, poi la penna. Scommetto che se ti ci metti, in no time ci tiri fuori una trama così." (Sollevò in aria i pollici di entrambe le mani).

"Non sono capace..." sbottò Klaas. Un senso di ripulsa paralizzava lutto il suo essere.

"Welling, non ho ancora finito. Non sai neanche cosa ti chiedo di preciso."

Klaas smise di mangiare e rimase ad ascoltare il suo datore di lavoro che gli spiegava il nuovo progetto. Ispirandosi a una rubrica che stava già facendo furore su riviste simili in America e in Germania, bisognava fornire una «situazione data». Tutti i fatti e le circostanze nei dettagli, una presentazione. E a questo punto qual è il clou di tutto? Gente, questi sono i dati, la soluzione trovatela voi. Voglio dai lettori stessi la risposta alla domanda chi-è-stato?, in non più di mille parole. Tu scegli la migliore, e la pubblichiamo, e poi lasciamo ancora che quelli che hanno scritto confrontino tra loro le diverse soluzioni. Allora?"

Klaas sospirò profondamente. "Non funzionerà mai."

"Dannazione, ma se va come un treno negli States, in Germania..."

"Qui non funziona."

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Pagina 92

«... Ogni mattina al risveglio Adamo scopre nuovi aspetti della realtà: piante, animali, panorami, forme di pietre e nuvole, luci, suoni, odori. Sopraffatto dalle impressioni, cerca le parole per descrivere quello che percepisce senza ancora sapere che cosa significhi il senso di inquietudine che continua ad avvertire: non basta vedere, sentire, odorare, toccare, assaggiare. Adamo è al confine tra un'esistenza passiva e una attiva. Non riesce (più) a sentirsi tranquillamente parte del creato. Quello che lo ispira in realtà è la pulsione di conquistare prima il mondo attraverso la lingua, e poi di trasformarlo, un processo creativo infinito secondo la propria immagine. Ma il Creato è incommensurabile, inesauribile, letteralmente onnipotente. Ogni volta Adamo sperimenta i propri limiti. Soltanto nel gioco dell'amore con Eva vive momenti di reale padronanza dei propri poteri: al suo tatto il suo corpo diventa paesaggio, flora, fauna, luce e tenebra, ma dopo l'unione il divino senso di potere scompare, e della sua "creazione" resta soltanto un ricordo onirico, una sensazione di caos. In modo grandioso, attraverso il ritmo e la scelta delle parole, Bernard Mork riesce a evocare il ripetuto, sempre vano anelare a uno stato orgastico permanente. Nelle prime fasi predominano le associazioni con armonie di colori pacate, azzurro, verde, viola, e movimenti fluidi affini al vento e all'acqua; più avanti tutto è rosso, nero, ardente: lava incandescente, fuoco sotto la cenere, pietre roventi, tempeste e cicloni, maremoti, una violenza cosmica che dopo il risveglio, alla luce del mattino, si rivela essere nient'altro che immaginazione, come la chiarezza trasparente e fredda dell'inizio. Ed Eva risorge, ogni mattina rinnovata, davanti allo sguardo meravigliato di Adamo, altrettanto intatta, fresca e misteriosa del Paradiso irrorato di rugiada. Il loro rapporto non ha nome. Sia il costante rinnovamento del desiderio sia il "naturale" distacco che segue sono estremamente alienanti. Adamo è molto solo, solo con la sua nuova ma non liberatoria conquista: il pensiero.

Questa evoluzione nei Canti mattutini per Eva diventa un ciclo di venti poesie, che offrono ognuna un quadro di grande originalità. Il numero e la lunghezza dei versi sono molto variabili, tutte le combinazioni immaginabili delle rime e della struttura delle strofe vengono esplorate, e il risultato ha la magia di un caleidoscopio. Il lettore continua a scoprire nuove connessioni, sia per quanto riguarda il significato sia il tono musicale e la suggestione visiva delle parole.

Voglio cercare di seguire attentamente poesia per poesia, strofa per strofa - letteralmente verso per verso - e tentare, se non proprio di svelare la ricchezza inaudita di questa poesia (non oso sostenere che la comprendo a tutti i suoi livelli), per lo meno di segnalarla...»

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Pagina 130

QUARTO RACCONTO DEL CAMIONISTA


«Per un certo periodo Joop rimase in patria compiendo quotidianamente lo stesso tragitto. Il percorso, tra l'altro, attraversava una città, prima in una galleria, poi in una strada incassata tra due file di edifici, e a un certo punto su un viadotto. Su entrambi i lati c'erano case il cui retro era praticamente attaccato al ponte. Dalla sua cabina Joop poteva vedere attraverso le finestre del primo piano. Dopo un paio di settimane conosceva tutte quelle stanze: quella con la sansevieria sul davanzale e proprio in faccia alla finestra un orologio a muro sopra una credenza, quella con la tappezzeria a fiori, quella con le tende sporche, quella con la gabbia degli uccelli, e quella con il bambino.

Joop passava ogni mattina davanti alla fila di case più o meno alla stessa ora. Notava quotidianamente piccole differenze: una luce era accesa ora qua e ora là, le tende erano ancora tirate, una finestra era aperta, a volte da qualche parte c'era del bucato ad asciugare su uno stenditoio fuori dal davanzale. Ma il bambino c'era sempre, come se restasse lì seduto sul suo seggiolone giorno e notte. Joop gli dava tra l'uno e i due anni. Aveva una grossa testa pallida, e per lo più un asciugamano o un panno legato a mo' di bavaglino, dietro cui si nascondeva il piccolo torace. Il bambino era gírato verso la finestra, in una stanza che per il resto dava l'impressione di essere del tutto vuota e spoglia.

Joop provava, non sapeva perché, un senso di compassione per quel bambino, sì, un po' di preoccupazione. Passava apposta lentamente sul viadotto per poter registrare più particolari possibili. Certe volte il bambino stava rosicchiando o succhiando qualcosa di commestibile, o un angolo di asciugamano, altre si dondolava avanti e indietro, come fanno ogni tanto i bambini piccoli prima di addormentarsi. Una volta stava chiaramente piangendo. Joop non vedeva mai nessun altro in quella stanza.

Un giorno, un venerdì, il bambino gli parve profondamente addormentato. Era tutto piegato di lato sul seggiolone, e chiaramente solo una (invisibile) cinghia poteva impedirgli di cadere. Con rabbia e sgomento dopo il fine settimana Joop lo vide ancora lì seduto, o meglio, ciondolone, nella stessa identica posizione. Si sentì assalire da tutt'una serie di pensieri. Il bambino era ammalato? Chi si occupava di lui? Aveva una madre? Ricordava articoli di giornale che parlavano di bambini lasciati soli per giorni interi da genitori irresponsabili. Continuò a rimuginare su tutto questo. E santo cielo, ventiquattr'ore dopo non era ancora cambiato nulla. O sì, in realtà: l'aspetto, la posizione del bambino lo inquietavano. Ora sembrava più una bambola di pezza imbottita di segatura. Era già un bel tratto più avanti, quando il possibile significato di quel cambiamento gli balzò agli occhi. Il giorno dopo non ebbe più dubbi. Il bimbo sul seggiolone era morto.

Joop era così sgomento per la scoperta, che alla prima uscita abbandonò l'autostrada. Fermò il camion nel parcheggio di un centro commerciale. Rimase un momento lì, appoggiato al volante, a pensare cosa doveva fare. Tanto per cominciare, comunque, doveva trovare l'indirizzo. Si avviò a piedi attraversando le vie parallele alla strada su cui rombava il grande traffico. Dai pali della luce che sbucavano sopra i tetti riconobbe infine il viadotto.

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