Copertina
Autore Jürgen Habermas
Titolo Tra scienza e fede
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2006, i Robinson , pag. 292, cop.fle., dim. 14x21x2,2 cm , Isbn 978-88-420-7882-1
OriginaleZwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze
EdizioneSuhrkamp, Frankfurt am Main, 2005
TraduttoreMario Carpitella
LettoreLuca Vita, 2007
Classe filosofia , politica , sociologia
PrimaPagina


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Indice

Introduzione                                          V

   Pluralismo religioso e solidarietà fra cittadini

1. Fondamenti pre-politici dello Stato
   di diritto democratico?                            5

2. La religione nella sfera pubblica. Presupposti
   cognitivi dell'«uso pubblico della ragione»
   da parte dei cittadini credenti e laicizzati      19

   Naturalismo e religione

3. Libertà e determinismo                            53

4. «Ma sono anch'io un pezzo di natura».
   Adorno sull'intreccio fra natura e ragione.
   Riflessioni sul rapporto fra libertà e
   indisponibilità                                   83

5. Il confine tra scienza e fede.
   Storia dell'influsso e attuale importanza
   della filosofia della religione di Kant          111

   Tolleranza

6. La tolleranza religiosa come battistrada
   dei diritti culturali                            151

7. La parità culturale di trattamento
   e i limiti del liberalismo post-moderno          171

8. Una costituzione politica per la società
   pluralistica mondiale?                           214

Note                                                255
Fonti                                               283
Indice dei nomi                                     287

 

 

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Pagina V

Introduzione



Due tendenze contrapposte caratterizzano lo spirito contemporaneo: la diffusione di rappresentazioni naturalistiche del mondo e il crescente influsso politico esercitato dalle ortodossie religiose.

Da una parte, si mettono con successo in evidenza i progressi della biogenetica, degli studi sul cervello e della robotica, ai quali si associano speranze per la terapia e l'eugenetica. Con questa serie di programmi, un'idea di sé scientificamente oggettivata delle persone è destinata a penetrare anche nei contesti quotidiani di comunicazione e di azione. La pratica acquisizione di una prospettiva di auto-oggettivazione, che riduce tutto il comprensibile e il vissuto a fenomeni osservabili, promuoverebbe altresì la disponibilità a una corrispondente auto-strumentalizzazione. Per la filosofia, a questa tendenza si collega la sfida di un naturalismo scientistico. Non si contesta che tutte le operazioni della mente umana siano totalmente dipendenti da substrati organici. La controversia verte piuttosto sul giusto modo di naturalizzare la mente. Una adeguata nozione naturalistica dell'evoluzione culturale deve infatti tener conto sia della costituzione intersoggettiva della mente, sia del carattere normativo delle sue operazioni guidate da regole.

Dall'altra parte, la tendenza alla diffusione di rappresentazioni naturalistiche del mondo si scontra con un'inattesa rivitalizzazione e con la politicizzazione su scala mondiale delle comunità e tradizioni religiose. Per la filosofia, la reviviscenza delle forze religiose, dalla quale soltanto l'Europa sembra esente, si collega alla sfida lanciata da una critica di fondo all'idea di sé della modernità post-metafisica e non-religiosa dell'Occidente. Non è in discussione il fatto che le possibilità di creazione politica esistono ormai soltanto entro l'universo senza più alternative delle infrastrutture tecnico-scientifiche ed economiche sorte nell'Occidente. Piuttosto, è controversa la giusta interpretazione delle conseguenze, in termini di laicizzazione, di una razionalizzazione culturale e sociale che gli assertori dell'ortodossia religiosa sempre più denunciano come la vera e propria devianza dell'Occidente nel quadro della storia mondiale.

Queste tendenze intellettuali contrapposte sono radicate in tradizioni contrastanti. Il crudo naturalismo si può intendere come conseguenza delle premesse scientistiche dell'Illuminismo, mentre la coscienza religiosa politicamente rinvigorita rompe con le premesse liberali degli illuministi. Però questi atteggiamenti mentali non solo si scontrano nelle controversie accademiche, ma si trasformano anche in forze politiche – sia nell'ambito della società civile della nazione-guida dell'Occidente, sia a livello internazionale, nell'incontro delle religioni mondiali con le culture che dominano il mondo.

Dal punto di vista di una teoria politica che si occupa dei fondamenti normativi e delle condizioni di funzionamento degli Stati di diritto democratici, questa contrapposizione tradisce anche una segreta complicità: le due tendenze opposte mettono a rischio, per così dire in collaborazione, la stabilità della comunità politica con la loro polarizzazione di visioni del mondo, quando dall'una parte e dall'altra manca la buona volontà di riflettere su di sé. Una cultura politica che – vuoi riguardo alle ricerche sugli embrioni umani, vuoi all'aborto e al trattamento dei malati in coma – si polarizza inconciliabilmente lungo la linea di frattura laicismo/religione mette alla prova il buonsenso dei cittadini perfino nella democrazia di più antica data. L' ethos civico liberale esige da ambe le parti l'accertamento riflessivo dei confini sia della fede, sia della scienza.

Come dimostra proprio l'esempio degli Stati Uniti, il moderno Stato costituzionale venne anche inventato per consentire un pacifico pluralismo religioso. Soltanto l'esercizio ideologicamente imparziale di un'autorità laica costituita in Stato di diritto può garantire la convivenza, nella tolleranza e a parità di diritti, di comunità religiose che permangono inconciliabili nella sostanza delle loro dottrine e visioni del mondo. La secolarizzazione dell'autorità statale e la libertà positiva e negativa dell'esercizio della religione sono due facce della stessa medaglia. Esse hanno protetto le comunità religiose non soltanto dalle conseguenze distruttive dei sanguinosi conflitti fra di loro, ma anche dallo spirito antireligioso di una società laicistica. È vero che lo Stato costituzionale può proteggere i suoi cittadini religiosi e non religiosi gli uni dagli altri soltanto quando questi non solo trovano un modus vivendi nella reciproca frequentazione, bensì vivono per convinzione in un ordinamento democratico. Lo Stato democratico si nutre di una solidarietà che non si può imporre con le leggi, fra cittadini che si considerano reciprocamente membri liberi ed eguali della loro comunità politica.

Nella sfera pubblica politica, questa solidarietà riscossa in moneta spicciola deve dar prova di sé anche e soprattutto al di là dei confini ideologici. Ad esempio, il riconoscimento reciproco significa che i cittadini credenti e non credenti sono disposti a prestarsi ascolto e a imparare gli uni dagli altri in pubblici dibattiti. Nella virtù politica della reciproca frequentazione civile si esprimono determinati atteggiamenti cognitivi. Questi non possono essere prescritti, ma soltanto appresi. Ma da ciò risulta una conseguenza che nel nostro contesto è di particolare interesse. Lo Stato liberale, in quanto esige dai suoi cittadini un comportamento collaborativo al di là dei confini ideologici, deve presupporre che gli atteggiamenti cognitivi a cio indispensabili sia da parte laica, sia da parte religiosa, si siano già sviluppati come risultato di processi storici di apprendimento. Tali processi non sono semplici cambiamenti casuali di mentalità, che «avvengono» indipendentemente da idee razionalmente verificabili. Ma nemmeno si possono produrre e governare tramite gli strumenti del diritto e della politica. Lo Stato liberale dipende a lungo termine totalmente da mentalità che non è in grado di creare in base alle proprie risorse.

Ciò risulta ovvio se si pensa alla tolleranza che nello Stato liberale ci si aspetta dai cittadini credenti. Lo spirito fondamentalista è inconciliabile con la mentalità che un numero sufficiente di cittadini deve condividere se non si vuole che la comunità democratica abbia a disgregarsi. In una prospettiva storico-religiosa gli atteggiamenti cognitivi che i cittadini credenti debbono assumere nella civile frequentazione con cittadini di altre fedi e non credenti possono intendersi come risultato di un processo di apprendimento collettivo. Nell'Occidente segnato dal cristianesimo è evidente che la teologia ha assunto un ruolo di battistrada in questa autoriflessione ermeneutica delle dottrine tramandate. Se la rielaborazione dogmatica delle sfide cognitive poste dalla scienza moderna e dal pluralismo religioso, dal diritto costituzionale e dalla morale sociale laica, sia «riuscita» e se nel caso si possa mai parlare di «processi di apprendimento», si può naturalmente giudicare solo dal punto di vista interno di quelle tradizioni che in questo modo trovano un aggancio con le condizioni di vita moderne.

Insomma, la formazione dell'opinione e della volontà nella sfera pubblica democratica può funzionare soltanto se un numero sufficiente di cittadini soddisfa determinate attese circa la civiltà del loro comportamento anche al di là di profonde divergenze in materia di fede e di visione del mondo. Ma i cittadini credenti possono confrontarsi con questo compito solo a patto che soddisfino fattualmente i presupposti cognitivi a ciò indispensabili. Debbono aver imparato a porre le proprie convinzioni religiose in un rapporto riflessivamente comprensivo con la realtà del pluralismo di religioni e visioni del mondo, e debbono aver conciliato con la loro fede il privilegio conoscitivo delle scienze socialmente istituzionalizzate, come pure il primato dello Stato secolare e della morale sociale universalistica. Su ciò la filosofia, diversamente dalla teologia che è strettamente connessa con la fede delle comunità, non può esercitare alcun influsso. Per questo rispetto, la filosofia si limita al ruolo di un osservatore dall'esterno, cui non compete giudicare su ciò che nell'ambito di una dottrina religiosa possa valere come motivazione oppure vada respinto.

La filosofia entra in gioco soltanto per la parte laica. Infatti, anche i cittadini non credenti possono soddisfare le aspettative di solidarietà civica solo a patto di assumere un determinato atteggiamento cognitivo di fronte ai loro concittadini credenti e alle loro affermazioni. Quando le due parti si incontrano nella democratica babele di voci di una sfera pubblica ideologicamente pluralistica, e discutono questioni politiche, dall'obbligo di reciproco rispetto risultano certi doveri cognitivi. Anche i partecipanti che si esprimono in un linguaggio religioso possono pretendere di venir presi sul serio dai loro concittadini non credenti. A costoro non è quindi consentito negare a priori il contenuto razionale dei contributi formulati in linguaggio religioso.

È vero che nell'idea comunemente condivisa di costituzione democratica rientra il principio che tutte le leggi, tutte le decisioni giudiziarie, tutti i decreti e provvedimenti siano formulati in un linguaggio egualmente accessibile a tutti i cittadini, e che per il resto debbano essere suscettibili di una giustificazione laica. Ma nel conflitto informale di opinioni della sfera pubblica politica, i cittadini e gli organismi della società civile si trovano ancora al di qua della soglia di una appropriazione del potere sanzionatorio statale. Qui la formazione dell'opinione e della volontà non può venir canalizzata né privata di possibili risorse di creazione del senso ad opera di divieti linguistici. In questo senso il rispetto che i cittadini laicizzati debbono dimostrare al loro concittadini credenti ha anche una dimensione epistemica.

D'altro canto, l'apertura a un possibile contenuto razionale dei contributi religiosi – e soprattutto la disponibilità a partecipare alla traduzione cooperativa di questi contenuti dagli idiomi religiosi in un linguaggio universalmente accessibile – potrebbe venir richiesta ai cittadini laicizzati in base a una premessa cognitiva che è sostanzialmente controversa. Giacché ai loro occhi il conflitto tra le convinzioni laiche e quelle certificate dalla dottrina ha prima facie il carattere di un dissenso che è ragionevole aspettarsi soltanto se anche da parte secolare si può plausibilmente ritenere che le tradizioni religiose non siano senz'altro irrazionali o prive di senso. Solo con questo presupposto i cittadini non credenti possono partire dalla convinzione che le grandi religioni mondiali potrebbero comportare intuizioni ragionevoli e istruttivi momenti di esigenze insoddisfatte ma legittime.

Si tratta certamente di un oggetto di discussione aperta, che non può venir pregiudicata da principii costituzionali. Non è affatto deciso quale parte finirà per avere ragione. Il laicismo dell'immagine scientifica del mondo insiste nell'affermare che le arcaiche forme concettuali delle dottrine religiose sono state superate e svalutate in blocco dai progressi della scienza ufficiale. Invece il pensiero post-metafisico, sicuramente fallibilista ma non disfattista, nel corso della riflessione sui propri limiti – e sulla sua insita tendenza agli sconfinamenti – si distingue sia dall'una, sia dall'altra parte. Esso diffida vuoi delle sintesi scientifiche naturalistiche, vuoi delle verità rivelate.

La polarizzazione di visioni del mondo dei due campi, il laico e il religioso, che mette a rischio la coesione dei cittadini dello Stato, è oggetto della teoria politica. Ma non appena si considerano i presupposti cognitivi della condizione di funzionamento della solidarietà civica, l'analisi deve spostarsi su un altro piano. Come la coscienza religiosa diventa riflessiva nella modernità, così anche il superamento riflessivo della coscienza laicizzata ha un risvolto epistemologico. Già il semplice dar nome a questi due processi complementari di apprendimento tradisce la distanza da cui li descrive un osservatore post-metafisico. Ma dal punto di vista degli interessati, dei quali questo stesso osservatore fa parte, la controversia è aperta. Il contenzioso è chiaro. Da una parte, la discussione verte sul giusto modo di naturalizzare una mente costituita per sua natura intersoggettivamente e guidata da norme. Vi corrisponde dall'altra parte la discussione circa la retta comprensione di quella spinta cognitiva che è contrassegnata dalla nascita delle religioni mondiali verso la metà del primo millennio avanti Cristo (Jaspers parla dell'«era assiale»).

In questa controversia io sostengo la tesi di Hegel, che le grandi religioni rientrano nella storia stessa della ragione. Il pensiero post-metafisico non può intendere se stesso se non include nella propria genealogia, accanto alla metafisica, anche le tradizioni religiose. In base a queste premesse sarebbe irragionevole emarginare quelle tradizioni «forti», quasi fossero un residuo arcaico, invece di illuminare la connessione interna che le collega alle forme moderne di pensiero. Le tradizioni religiose provvedono ancora oggi all'articolazione della coscienza di ciò che manca. Mantengono desta una sensibilità per ciò che è venuto meno. Difendono dall'oblio le dimensioni della nostra convivenza sociale e personale, nelle quali anche i progressi della razionalizzazione culturale e sociale hanno prodotto distruzioni immani. Perché non dovrebbero pur sempre contenere racchiusi in sé potenziali semantici che, una volta trasformati nel linguaggio della motivazione, e dopo aver dato alla luce il loro contenuto profano di verità, possono esercitare una loro forza d'ispirazione?


Il presente volume raccoglie saggi che si muovono entro l'orizzonte di queste problematiche. Sono nati nel corso degli ultimi anni da occasioni di carattere contingente, e non formano un contesto sistematico. Ma tutti i contributi sono percorsi da un filo rosso: l'intenzione di rispondere alle sfide contrapposte ma complementari tra naturalismo e religione con l'insistenza post-metafisica sulla caparbietà normativa di una ragione detrascendentalizzata.

Gli studi che seguono sviluppano la problematica centrale, qui per sommi capi anticipata, nella visuale di una teoria normativa dello Stato costituzionale, mentre i testi della seconda parte passano alla tematica epistemologica, e cercano di illuminare la posizione del pensiero post-metafisico tra naturalismo e religione. I tre ultimi contributi riprendono temi della teoria politica. Qui mi interessano soprattutto le corrispondenze esistenti, da una parte, tra il governo del pluralismo religioso e ideologico all'interno dello Stato, e dall'altra la prospettiva della costituzione politica di una società mondiale pacificata.

Jürgen Habermas, Starnberg, marzo 2005

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2
La religione nella sfera pubblica.
Presupposti cognitivi
dell'«uso pubblico della ragione»
da parte dei cittadini credenti e laicizzati



(I) Le tradizioni e le comunità religiose hanno acquistato, a partire dalla svolta del 1989/90, una nuova importanza politica, fino allora inattesa. Naturalmente noi pensiamo per prima cosa a varietà del fondamentalismo religioso che compaiono non solo nel Vicino Oriente, ma anche in paesi dell'Africa, del Sud-est asiatico e nel subcontinente indiano. Esse si collegano occasionalmente a conflitti nazionali ed etnici, ed oggi rappresentano il terreno di cultura delle unità decentrate di un terrorismo operante su scala globale, rivolto contro le ingiustizie inflitte da una civiltà occidentale sentita come superiore. Ma sono sintomatici anche altri fenomeni.

Così in Iran, dalla protesta contro un regime corrotto, insediato e protetto dall'Occidente, è sorto un vero e proprio potere clericale, che serve da modello ad altri movimenti. In molti paesi musulmani, ma anche in Israele, il diritto familiare religioso sostituisce già il diritto civile dello Stato o rappresenta un'opzione alternativa ad esso. In paesi come l'Afghanistan e l'Iraq un ordinamento costituzionale grosso modo liberale è sottoposto alla riserva di compatibilità con la shari'a. Anche nell'arena internazionale si assiste a fenomeni di infiltrazione del pensiero religioso in commistione con altri aspetti. Le speranze collegate alla programmazione politica delle multiple modernities traggono alimento dall'autocoscienza culturale di quelle religioni mondiali che hanno dato fino ad oggi un'impronta inequivocabile alla fisionomia delle grandi civiltà. Anche da parte occidentale la percezione delle relazioni e dei conflitti internazionali si è modificata alla luce dei timori di un «clash of civilizations» – «l'asse del male» è solo un esempio ben noto. Anche gli intellettuali occidentali, fino ad oggi autocritici, cominciano a reagire con forza all'immagine che gli altri si fanno dell'Occidente.

Il fondamentalismo in altri continenti si può intendere tra l'altro come conseguenza a lungo termine di una colonizzazione forzosa e di una fallita decolonizzazione. Una modernizzazione capitalistica che penetra dall'esterno provoca, in circostanze sfavorevoli, incertezze sociali e ripudii culturali. Stando a questa lettura, i movimenti religiosi elaborano i rivolgimenti nella struttura sociale e le asincronie culturali, che nel caso di una modernizzazione affrettata o fallita sono avvertite come uno sradicamento. Più sorprendente è la rivitalizzazione politica della religione all'interno degli Stati Uniti, cioè nella società occidentale in cui la dinamica della modernizzazione si dispiega con maggiore successo. Certo, noi in Europa conosciamo fino dai tempi della Rivoluzione Francese le forze di un tradizionalismo religioso che si presenta come controrivoluzionario. Ma in questa evocazione della religione come potere della tradizione si tradiva pur sempre il dubbio tormentoso di un calo di vitalità della pura e semplice tradizione. Invece il risveglio politico di una coscienza religiosa di forza inalterata negli Stati Uniti non sembra intaccato dal dubbio circa un potere reso già vacillante dalla riflessione.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, tutte le nazioni europee, a eccezione dell'Irlanda e della Polonia, sono state investite da un'ondata di laicizzazione che va di pari passo con la modernizzazione sociale. Invece per gli Stati Uniti i dati di tutte le inchieste dimostrano che durante gli ultimi decenni la percentuale, di per sé già relativamente alta, di cittadini credenti e religiosamente attivi è rimasta costante. Ancor più importante è il fatto che la destra confessionale negli odierni Stati Uniti non è un movimento tradizionalistico. Proprio perché libera energie spontanee di risveglio, essa provoca irritazioni paralizzanti nei suoi nemici laicizzati.

I movimenti di rinnovamento religioso nel cuore della società civile della potenza-guida occidentale accentuano sul piano culturale la divisione politica dell'Occidente provocata dalla guerra in Irag. Con l'abolizione della pena di morte, le norme liberali sull'aborto, la pari legittimità degli orientamenti sessuali, l'equiparazione delle coppie omosessuali, il rifiuto assoluto della tortura, e in generale col primato riconosciuto ai diritti rispetto ai beni collettivi, ad esempio la sicurezza nazionale, gli Stati europei sembrano procedere da soli sulla strada che, a partire dalle due rivoluzioni costituzionali del tardo XVIII secolo, essi avevano intrapreso insieme agli Stati Uniti. Nel frattempo è cresciuta in tutto il mondo l'importanza delle religioni impiegate a fini politici. In questo orizzonte la divisione dell'Occidente viene percepita nel senso che l'Europa è isolata dal resto del mondo. Dal punto di vista della storia mondiale, ora il «razionalismo occidentale» di Max Weber viene percepito come una vera e propria devianza.

Da questa visuale revisionistica, le ininterrotte correnti tradizionali delle religioni mondiali sembrano cancellare o quanto meno livellare le distinzioni fin qui mantenute fra società tradizionali e società moderne. Così, l'immagine occidentale che la modernità ha di sé subisce, come in un saggio di psicologia della forma (Gestalpsychologie), un effetto di riorientamento: quello che era il normale modello per il futuro di tutte le altre culture diventa ora un caso a sé stante. Anche se questa suggestiva commutazione della forma (Gestaltswitch) non regge a una più attenta verifica sociologica, e se le interpretazioni della laicizzazione in chiave di teoria della modernizzazione possono venir accordate con le evidenze apparentemente contrastanti, non è lecito dubitare di queste stesse evidenze e soprattutto del sintomatico inasprirsi del clima politico.

Due giorni dopo le ultime elezioni presidenziali è comparso, col titolo «Il giorno in cui l'Illuminismo si spense», un articolo di uno storico che poneva l'allarmistica domanda:

Un paese che crede con maggior fervore nel Parto Verginale che nell'evoluzione può ancora dirsi una nazione illuminata? L'America, la prima vera democrazia della storia, è stata un prodotto dei valori dell'Illuminismo [...]. I suoi fondatori, pur con le loro numerose divergenze, condividevano i valori di quella che era allora la modernità [...]. Sembra che il rispetto per l'evidenza non sia più in voga, da quando un'inchiesta effettuata poco prima delle elezioni ha dimostrato che il 75% degli elettori di Bush credono che l'Iraq sia in stretta collaborazione con al-Qa'ida o forse direttamente coinvolto negli attentati dell'11 settembre.

Comunque si valutino i fatti, le analisi delle elezioni confermano che la frattura culturale dell'Occidente divide la stessa nazione americana: degli orientamenti valoriali contrastanti si sono evidentemente sovrapposti a più concreti conflitti d'interesse. Il presidente Bush deve comunque la sua vittoria a una coalizione di elettori motivati soprattutto dalla religione. Questo spostamento degli equilibrii politici segnala un corrispondente mutamento nell'atteggiamento mentale della società civile, che costituisce altresì lo sfondo del dibattito accademico sul ruolo politico della religione nello Stato e nella sfera pubblica.

Ancora una volta, la disputa verte sulla sostanza della prima proposizione del Primo Emendamento: «Il Congresso non farà alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione o che ne proibisca il libero culto». Gli Stati Uniti sono stati il battistrada sulla via della libertà religiosa, che si fonda sul reciproco rispetto della libertà religiosa degli altri. Il magnifico articolo 16 del Bill of Rights della Virginia, dell'anno 1776, è il primo documento di una libertà religiosa concessa come un diritto fondamentale che i cittadini di una comunità democratica si riconoscono reciprocamente, al di la dei confini delle diverse comunità religiose. Diversamente dalla Francia, l'introduzione della libertà religiosa negli Stati Uniti non significa una vittoria del laicismo su un'autorità che nel migliore dei casi aveva concesso alle minoranze religiose una tolleranza secondo propri criteri imposti alla popolazione. L'autorità statale, resa ideologicamente neutrale, non aveva come scopo precipuo quello negativo di proteggere i cittadini dagli obblighi di fede e di coscienza. Essa era piuttosto destinata a garantire ai coloni che si erano lasciati l'Europa alle spalle la libertà positiva di praticare la loro rispettiva religione senza impedimenti. Perciò, nella controversia sul ruolo politico della religione, fino ad oggi tutte le parti possono dichiarare la loro lealtà alla Costituzione. In che misura questa affermazione sia nel giusto, lo vedremo in seguito.

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Pagina 53

3
Libertà e determinismo



In Germania è in corso un dibattito sul libero arbitrio che ha trovato ospitalità anche nei quotidiani nazionali. Sembra di essere tornati all'800. Giacché ancora una volta sono i risultati delle ricerche sul cervello, ora suffragati dalla tecnica di riproduzione delle immagini, a conferire nuova attualità a un venerando dibattito filosofico. Neurologi e cognitivisti discutono con filosofi e altri cultori delle scienze umane sulla concezione deterministica secondo la quale un mondo causalmente chiuso non lascia spazio alla libertà di scelta fra comportamenti alternativi. Questa volta la controversia prende le mosse dai risultati di una tradizione di ricerca che risale agli esperimenti compiuti da Benjamin Libet già negli anni Settanta.

Questi risultati sembrano confermare le strategie riduzionistiche di ricerca, che si prefiggono di spiegare i fenomeni mentali soltanto in base a condizioni fisiologiche osservabili. Tali approcci partono dalla premessa che la coscienza di libertà che gli attori si attribuiscono è basata su un'illusione. La sensazione di agire autonomamente è in certo senso una ruota che gira a vuoto. La libera volontà intesa come «causazione mentale» è quindi un'apparenza, dietro la quale si nasconde una rete di condizioni neuronali secondo leggi di natura.

Tuttavia, questo determinismo è inconciliabile con la quotidiana idea di sé dei soggetti agenti. Nella vita di tutti i giorni noi non possiamo fare a meno di attribuirci reciprocamente e provvisoriamente la paternità responsabile delle nostre azioni. Il chiarimento scientifico così prospettato circa la determinazione del nostro agire secondo leggi di natura non può mettere seriamente in dubbio l'idea di sé, intuitivamente radicata e verificata pragmaticamente, di attori capaci di intendere e di volere. Il linguaggio oggettivante della neurobiologia attribuisce al «cervello» il ruolo grammaticale svolto finora dal pronome «io», ma così facendo non trova alcun accordo col linguaggio della psicologia quotidiana. La provocazione consistente in ciò, che il «cervello» penserebbe ed agirebbe in luogo del mio «sé», è sicuramente un semplice fatto grammaticale; ma in questo modo il mondo della vita riesce a proteggersi dalle dissonanze cognitive.

Naturalmente questa non sarebbe la prima teoria scientifica che fa a pugni col senso comune. Essa dovrebbe certo toccare anche la psicologia quotidiana, al più tardi quando le applicazioni tecniche del sapere teorico interverranno nella prassi giornaliera, ad esempio tramite l'assuefazione alle tecniche terapeutiche. Le tecniche con le quali le conoscenze della neurobiologia interverranno un giorno nel mondo della vita potrebbero acquistare quella rilevanza ai fini di un mutamento delle coscienze che manca alle conoscenze stesse. Ma la concezione deterministica può mai essere una tesi scientificamente fondata, oppure si tratta di una semplice componente di un'immagine naturalistica del mondo dovuta a un'interpretazione speculativa di conoscenze scientifiche? Io vorrei continuare il dibattito su libertà e determinismo come una discussione sul giusto modo di naturalizzazione della mente.

Noi da una parte ameremmo rendere giustizia all'evidenza intuitivamente inconfutabile di una consapevolezza di libertà che accompagna performativamente tutte le nostre azioni, dall'altra intendiamo soddisfare anche l'esigenza di un'immagine coerente dell'universo che comprende l'uomo come essere naturale. Kant poté conciliare la causalità naturale con quella derivante dalla liberta soltanto al prezzo di un dualismo tra il mondo dell'intelligibile e quello fenomenico. Oggi noi vorremmo poter fare a meno di simili ipotesi metafisiche di fondo. Ma in questo caso dobbiamo accordare ciò che abbiamo appreso da Kant circa le condizioni trascendentali della nostra conoscenza con ciò che ci ha insegnato Darwin sull'evoluzione naturale.

Io dimostrerò anzitutto, in una sezione critica, che i programmi riduzionistici di ricerca possono aggirare la difficoltà di un dualismo tra prospettive d'interpretazione e giochi linguistici soltanto a prezzo dell'epifenomenalismo. La seconda parte, quella costruttiva, segnala le radici antropologiche di questo dualismo di prospettive, che non esclude una visione monistica della stessa evoluzione naturale. Il quadro più complesso dell'interazione tra un cervello che determina la mente e una mente che programma il cervello, è il risultato della riflessione filosofica e non è a sua volta una conoscenza scientifica. Io propugno un naturalismo non-scientistico o naturalismo «morbido». Secondo questa concezione, è «reale» tutto e soltanto ciò che può venir rappresentato in enunciazioni vere. Ma la realtà non si esaurisce nella totalità delle enunciazioni limitate a singoli ambiti, che secondo i criteri odierni passano per enunciazioni vere delle scienze sperimentali.

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8
Una costituzione politica
per la società pluralistica mondiale?



Oggi, dopo la violazione del diritto internazionale rappresentata dall'invasione dell'Iraq, le probabilità di riuscita del progetto di una «costituzione cosmopolitica» non sono peggiori che nel 1945, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, e nel 1989/90, dopo la fine della costellazione bipolare di potere. Ciò non significa che oggi le probabilità siano buone, ma noi dobbiamo anche tenere presenti le proporzioni. Il progetto kantiano è entrato nell'agenda politica soltanto con la Lega delle Nazioni, dunque più di duecento anni dopo Kant, e l'idea di creare un ordinamento cosmopolitico ha assunto una durevole forma istituzionale solo con la fondazione delle Nazioni Unite. A partire dai primi anni '90, queste hanno visto aumentare il loro peso politico, e sono diventate un non trascurabile fattore nelle controversie della politica mondiale. Perfino la superpotenza è stata costretta a un confronto con l'organizzazione mondiale, quando questa negò la legittimazione minacciosamente richiesta di un intervento deciso unilateralmente. Al successivo tentativo di emarginarle, le Nazioni Unite hanno così ben resistito che hanno potuto accingersi a una radicale riforma ormai matura.

Dal dicembre 2004 sono giacenti le proposte di una commissione per le riforme insediata dal segretario generale. Le riforme proposte risultano, come vedremo, da perspicaci analisi degli errori commessi. Tale processo di apprendimento indirizza inequivocabilmente la volontà politica nel senso di una continuazione del progetto kantiano. In esse infatti non si manifesta soltanto l'idea di una sicura condizione di pace a lungo termine. Già Kant aveva ampliato il concetto negativo dell'assenza di guerre e di interventi militari nel concetto di una pace intesa come implicazione di una libertà conforme a leggi. Oggi il concetto estensivo della sicurezza collettiva comprende anche le risorse per creare quelle condizioni di vita che sono le sole nelle quali i cittadini di tutti i continenti possono arrivare a godere fattualmente delle libertà garantite dalla legge. Noi possiamo pur sempre orientarci sull'idea kantiana di una costituzione cosmopolitica, purché la concepiamo abbastanza astrattamente. Io intendo mostrare che l'alternativa kantiana fra repubblica mondiale e lega dei popoli è incompleta (I), e in che modo il progetto kantiano può venire inteso nella situazione attuale (II). Vorrei poi spiegare perché dal successo di questo progetto dipende niente di meno che la sostanza democratica delle forme oggi ancora possibili di socializzazione politica (III). Infine, voglio esaminare due tendenze storiche che vengono incontro a questo progetto (IV e V).

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III


Le concezioni costituzionali moderne si riferiscono esplicitamente al rapporto dei cittadini con lo Stato. Ma implicitamente esse delineano sempre anche un ordinamento giuridico complessivo, che abbraccia lo Stato e la «società civile» (nel senso di Marx e Hegel), dunque la totalità di Stato amministrativo, economia capitalistica e società civile. L'economia entra in gioco già perché lo Stato moderno, in quanto Stato tributario, dipende dal mercato regolato dal diritto privato. E nelle teorie contrattualistiche la società civile viene messa a tema come la rete dei rapporti fra i cittadini – vuoi che siano intesi, come nel concetto di costituzione liberale, nel senso delle relazioni fra membri della società civile che massimizzano i propri interessi, vuoi, come nel modello repubblicano, nel senso delle relazioni fra cittadini solidali dello Stato.

Certo, l'istituzione giuridica di una comunità di cittadini liberi ed eguali è il vero e proprio tema di una costituzione. I termini «sicurezza», «diritto» e «libertà» da una parte pongono l'accento sull'autoaffermazione della comunità politica verso l'esterno, dall'altra sulla garanzia dei diritti che persone libere ed eguali si riconoscono reciprocamente come membri di un'associazione che si autoamministra. La costituzione definisce il modo in cui la forza organizzata in Stato si trasforma in potere legittimo. Con la soluzione del problema «diritto e libertà» vengono però implicitamente decisi anche i ruoli che l'economia, come sistema funzionale portante, e la società civile, come fondamento della formazione dell'opinione e della volontà pubblica, debbono svolgere nel rapporto col potere organizzativo dello Stato.

Con l'aumentato numero dei compiti statali, che non siano la conservazione dell'ordine e la tutela della libertà, emerge chiaramente questo carattere inclusivo insito nell'ordinamento costituzionale. Vanno eliminate le ingiustizie sociali della società capitalistica, scongiurati i rischi collettivi della società imprenditoriale, promossa la parità di diritti delle forme culturali di vita nella società pluralistica. È vere che nelle differenze di status generate dal capitalismo, nei pericoli provocati dalla scienza e dalla tecnica e nelle tensioni del pluralismo di culture e visioni del mondo, lo Stato deve affrontare delle sfide che non si piegano tout court agli strumenti della politica e del diritto. Esso però non può sottrarsi alla sua responsabilità politica complessiva, perché dipende dalle prestazioni integrative dei sistemi funzionali privati, dunque in primo luogo dall'economia, tanto quanto dalle prestazioni socialmente integrative della società civile. Lo Stato, che cura la previdenza e la prevenzione, deve accordarsi in funzione moderatrice con la caparbietà dei sistemi funzionali e con la dinamica propria della società civile. Espressione di questo nuovo stile sono i sistemi negoziali societarii, nel cui ambito lo Stato deve però continuare ad orientarsi sulla costituzione – o su una sua interpretazione adeguata ai tempi.

Il relazionarsi della costituzione politica alla triade Stato-economia-società civile è spiegato sociologicamente da ciò, che tutte le società moderne vengono integrate tramite tre media – chiamiamoli «potere», «denaro» e «intesa». Nelle società funzionalmente diversificate, le relazioni sociali si stabiliscono mediante l'organizzazione, il mercato e la creazione del consenso (ossia tramite la comunicazione linguistica, i valori e le norme). Tipi corrispondenti di socializzazione si condensano nello Stato burocratico, nell'economia capitalistica e nella società civile. La costituzione politica è intesa a modellare ed armonizzare fra loro questi sistemi, in modo tale che essi assolvano le loro funzioni in vista di un supposto «bene comune». Per poter dare un contributo alla massimizzazione del bene comune, la costituzione deve, grazie all'azione strutturante di un ordinamento giuridico complessivo, prevenire gli errori di sviluppo specifici dei sistemi.

Così, l'autorità organizzativa dello Stato è tenuta a garantire la legge e la libertà senza degenerare in potere repressivo, tutela paternalistica o costrizione normalizzatrice. L'economia deve promuovere produttività e benessere, senza violare i criteri della giustizia distributiva (deve avvantaggiare quante più persone possibile, danneggiarne quante meno possibile) e la società civile deve provvedere alla solidarietà fra cittadini indipendenti dello Stato, senza scivolare nel collettivismo e nell'integrazione forzosa, o provocare frammentazione o la polarizzazione delle visioni del mondo. Il bene comune che viene postulato è minacciato non solo dal «fallimento dello Stato» (incertezza del diritto e oppressione) ma anche, in pari misura, dal «fallimento del mercato» e dalla de-solidarizzazione. Il carattere indeterminato del bene comune, sostanzialmente controverso, si spiega in particolare in base all'equilibrio che va instaurato tra queste tre grandezze indipendenti.

Anche se lo Stato assolve i suoi compiti veri e propri, la conservazione dell'ordine e la tutela della libertà, non può alla lunga mantenere l'indispensabile livello di legittimazione se un'economia funzionante non crea le premesse per una distribuzione accettabile degli indennizzi sociali, e se un'attiva società civile non crea le motivazioni per un sufficiente orientamento al bene comune. Lo stesso vale vice versa. Perciò la costituzione addossa allo Stato democratico la paradossale responsabilità dei presupposti economici e culturali per la sussistenza della comunità politica, che esso può sì influenzare e promuovere, rendendoli in questo modo politicamente «dominabili»; ma non può garantire legalmente il successo. La disoccupazione e la segmentazione sociale, così come la de-solidarizzazione, non si possono eliminare mediante divieti o misure amministrative.

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Ma dove sta realmente il pericolo? L'esportazione in tutto il mondo del progetto di società che il presidente Bush ha ancora una volta illustrato con grande effetto nel novembre 2003, in occasione del ventesimo anniversario della fondazione del «National Endowment for Democracy», non può appellarsi a un'adesione su scala mondiale. Il cosiddetto «Washington Consensus» si basa piuttosto su una teoria fallibile e altamente controversa, per essere precisi sul collegamento tra le dottrine della Chicago School e una certa variante della teoria della modernizzazione. Il problema non consiste in ciò, che questa, come ogni altra teoria, potrebbe risultare errata. Più inquietante è piuttosto una conseguenza derivante dalla ristrutturazione neoliberale a lungo termine dell'economia mondiale. La politica di conversione delle forme politiche di normativa in meccanismi del mercato contribuisce alla propria perpetuazione, perché un cambiamento di politica viene tanto più ostacolato quanto più si restringe lo spazio d'azione degli interventi politici in genere. L'auto-limitazione, voluta politicamente, dello spazio d'azione della politica in favore di forze sistemiche di autogoverno priverebbe le future generazioni proprio dei mezzi indispensabili per correggere la rotta intrapresa. Anche se ogni nazione «decide consapevolmente e democraticamente di essere uno 'Stato della concorrenza' piuttosto che uno 'Stato del benessere'», questa decisione democratica dovrebbe distruggere i propri fondamenti, se portasse necessariamente a un'organizzazione della società nella quale sia impossibile revocare a sua volta democraticamente quella stessa decisione.

Questa valutazione delle conseguenze è consigliabile non solo per il caso che le prognosi neoliberali falliscano. Anche se le assunzioni teoriche fossero grosso modo nel vero, la vecchia formula delle «contraddizioni culturali del capitalismo» potrebbe acquistare un nuovo significato. Già nell'ambito dell'Occidente, che ha avviato la modernizzazione e continua a portarla avanti, sono in concorrenza diversi modelli di società. Non tutte le nazioni occidentali sono disposte ad accettare, al loro interno e in tutto il mondo, i costi culturali e sociali di una mancata compensazione di benessere, che i neoliberali vorrebbero addossar loro per amore di un accelerato aumento di benessere. Tanto maggiore è l'interesse al mantenimento di un certo spazio d'azione politica in altre culture, che con l'accesso al mercato mondiale e l'adesione alla dinamica della modernizzazione sociale si mostrano disposte ad adattare e modificare le loro forme di vita, ma non a rinunciarvi e a farle sostituire da forme importate. I molti volti culturali della pluralistica società mondiale – le multiple modernities – non si conciliano con una società del mercato mondiale politicamente disarmata e totalmente deregolata. In essa infatti le culture non occidentali, segnate dall'impronta di altre religioni mondiali, verrebbero private dello spazio d'azione per appropriarsi con le proprie risorse delle conquiste della modernità.

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