Copertina
Autore Jürgen Habermas
Titolo L'università nella democrazia
EdizioneDe Donato, Bari, 1968, Dissensi 10 , pag. 158, cop.fle., dim. 100x182x12 mm
Classe politica , universita' , storia contemporanea
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Indice

Riflessioni sul concetto
di partecipazione politica            7

Note                                 80

Università nella democrazia
e democratizzazione dell'Università  97

Note                                135

Intervento di Hannover              137

 

 

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Pagina 99

C'è qualcosa di nuovo nelle Università della Repubblica Federale. Si acuiscono conflitti che non nascono piú soltanto dalla mancanza di cattedre o dal sovraffollamento dei seminari e che non possono piú esser definiti con consueti concetti amministrativi. All'Università Libera di Berlino i conflitti si sono pubblicamente cristallizzati attorno a motivi di grande risonanza. Qui sono evidenti i conflitti che in altre Università ancora covano sotto la cenere, ma che presto potrebbero a loro volta manifestarsi.

Quelli che nel linguaggio stereotipo dei comunicati già da anni son chiamati «i fatti dell'Università Libera» sono certamente connessi anche con circostanze specificamente berlinesi. Da un lato sono connessi con un eccezionale afflusso di studenti politicamente svegli e uno statuto universitario relativamente liberale da un lato, con una sindrome di comportamento qui conservata dai tempi della guerra fredda meglio che altrove; dall'altro, il «muro» getta una lunga ombra, e la stampa fa il resto affinché i berlinesi non smettano di reagire e pensare in termini di guerra fredda. Spogliati del loro colorito locale, i conflitti scoppiati all'Università di Berlino e resi di pubblico dominio sono tuttavia della stessa natura di quelli che sembrano annunciarsi in altre Università: si tratta ogni volta, in poche parole, della funzione politica degli studenti, della riorganizzazione dell'insegnamento e della democratizzazione dell'Università nel suo complesso. Berlino fa in questo da modello.

La funzione politica degli studenti, intorno alla quale si disputa oggi tra rappresentanza studentesca e Senato Accademico, tra un'attiva e in generale qualificata minoranza di studenti e una maggioranza di professori, non è stata mai contestata sinché gli studenti si sono conformati alle concezioni dominanti: sinché le risoluzioni degli organismi studenteschi erano in favore della CED e non contro l'armamento atomico della Bundeswehr; sinché le manifestazioni di solidarietà erano a favore degli studenti fuggiti dalla Repubblica Democratica Tedesca e non dei patrioti algerini che combattevano il potere coloniale francese; sinché la guerra di Corea era considerata una difesa della libertà e le guerre condotte dagli americani non potevano essere ancora considerate, come nel Vietnam, un intervento in una guerra civile. Un'amministrazione universitaria assai pronta nelle reazioni si vide però nella necessità di limitare lo spazio politico degli studenti, cosí inopportunamente utilizzato: la serie degli affaires, via via provocati da una conferenza di Erich Kuby o da una dimostrazione per il Vietnam, acuiti ora da una politica di concessioni corporativistiche ora dal rifiuto del rettore di concedere sale per convegni definiscono la linea di un conflitto a tutt'oggi aperto. Gli fanno del resto da sfondo discussioni d'ordine costituzionale, che da parte conservatrice hanno lo scopo dichiarato di determinare una spoliticizzazione dell'Università.

Il dissidio all'interno di questa s'intreccia con un conflitto tra i settori politicizzati della categoria studentesca e l'opinione pubblica cittadina. Quest'opinione pubblica è sotto l'influenza di una stampa forcaiola, e rende dal canto suo piú rigido l'atteggiamento delle autorità verso gli studenti. Si è potuto vederlo ancora durante l'ultimo semestre nella serie di divieti di tenere dimostrazioni, nella brutalità dell'intervento della polizia e in una pressoché illegale perquisizione compiuta nella sede regionale del SDS.

Dall'anno scorso il dibattito sulla funzione politica degli studenti si connette con le discussioni provocate dalle raccomandazioni del Consiglio Scientifico sul tema della riforma nei corsi di studio. La riorganizzazione dell'insegnamento tocca immediatamente gli interessi e le necessità degli studenti in rapporto al posto di lavoro, sempre che ne trovino uno. Si sono formate in proposito posizioni intersecantisi in modo tutto particolare, che occultano il conflitto vero e proprio piú spesso di quanto non lo esprimano apertamente. Persino la parte piú critica della stampa si accontenta anche troppo spesso, prendendo alla leggera le parti del Consiglio Scientifico, di venire incontro al comprensibile risentimento di quanti si son visti un tempo trattare da un' alma mater come da una matrigna, e di trovar conferma nelle furiose reazioni di difesa che si scatenano nella coscienza, a sua volta offesa, della tradizione. In verità si tratta di vedere se il riordinamento dei corsi di studio all'interno delle autoritarie strutture esistenti, ormai maturo e da molte parti sostenuto con energia, debba meramente servire a tenere a cassetta una corporazione ormai cadente. In questo caso un insegnamento riordinato in funzione delle esigenze della riproduzione del corpo accademico andrebbe a esclusivo vantaggio di una ristretta élite. Ne conseguirebbero una rigida limitazione dei tempi di studio, l'esclusione degli studenti dalle attività di ricerca e una spoliticizzazione delle Università. All'Università Libera si ha ormai l'impressione che i suggerimenti del Consiglio Scientifico saranno attuati in questo senso repressivo. Due facoltà berlinesi si sono affrettate a introdurre la «dematricolazione» forzosa; l'attività politica delle associazioni studentesche è stata di quando in quando limitata; e ai rilievi critici circa certe lezioni universitarie apparsi anonimi su un giornale studentesco, i professori chiamati in causa hanno risposto col narcisismo tipico della nostra categoria insegnante. Ne sono seguite altre proteste, culminate la scorsa estate in sit-in di tremila studenti. Nel frattempo sono state insediate commissioni paritetiche a livello di Senato Accademico e di facoltà per studiare la riforma degli studi, nelle quali professori e studenti discutono sulle conclusioni da trarre dai suggerimenti avanzati dal Consiglio Scientifico.


I continui conflitti che si accendono sul tema della funzione politica degli studenti e del riordinamento degli studi portano a coscienza la problematica di uno statuto universitario, i cui elementi fondamentali risalgono al primo Ottocento. Proprio perché l'Università di Berlino, fondata solo dopo la guerra e per protesta contro la repressione della libertà d'insegnamento, si è data uno statuto piuttosto liberale che ha previsto alcuni mutamenti di struttura, in particolare la diversa posizione degli studenti, proprio per questo il cosiddetto modello berlinese si trova al centro di un fuoco incrociato. Gli uni vorrebbero che fossero revocate le innovazioni liberali, gli altri premono per una riforma complessiva. A ragione questi ultimi possono rilevare che le riforme sinora attuate e tutte quelle proposte ufficialmente lasciano inalterate le strutture dell'Università. Ancora nel gennaio di quest'anno il Senato Accademico dell'Università Libera ha ribadito la sua concezione dell'armonia d'interessi che collega tutti i componenti della corporazione accademica: «Agli ordinamenti dell'Università Libera sono estranei tutti quegli atteggiamenti che concepiscono per principio gli studenti e il corpo insegnante come gruppi con interessi antitetici». Per contro, agli studenti l'Università appare, dalla loro prospettiva, un'associazione gerarchica di potere. Per le trattative col borgomastro sulla nuova legge universitaria che il Senato berlinese sta preparando, i rappresentanti del comitato generale studentesco hanno compendiato in pochi principi la loro concezione di un'Università nuova e libera in senso autentico. Nell'introduzione di questo documento si afferma:

Nella discussione sulla riforma dell'Università partiamo da tre principi:

1) dalla necessaria indipendenza dell'Università nella sua attività scientifica da ogni diretta influenza statale o del mondo industriale;

2) dalla necessità di creare le condizioni dell'attività scientifica nell'Università per mezzo di una comunicazione quanto piú intensa e vasta possibile in tutti i campi ed impedendo ogni decisione arbitraria;

3) dalla necessità di formare gli studiosi per mezzo dell'informazione sull'attività di ricerca e la partecipazione ad essa, e di orientare lo studio in funzione delle professioni future.

È chiaro che l'Università non corrisponde oggi adeguatamente a questi tre principi.

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Questo è, come s'è detto, un principio. Un principio vincolante, ma non reale. Perciò, almeno se ci poniamo da un punto di vista analitico, nel processo democratico della formazione della volontà dobbiamo tener distinti due momenti: a) la discussione delle proposte e delle motivazioni, b) la dimostrazione di una volontà, tenendo conto delle argomentazioni precedenti. Nella misura in cui non si tratti di dibattiti tra componenti universitarie circa la politica dell'Università, l'Università non è il luogo per dimostrare una volontà politica. Essa è invece a mio parere un luogo quanto mai eccellente per discutere questioni politiche se e nella misura in cui questa discussione si attiene alle stesse regole razionali entro le quali si muove la riflessione scientifica. Accennando a questo nesso strutturale è anche possibile spiegare come gli studenti facciano dei loro diritti civili un uso estensivo, per dimostrare anche la loro volontà al di fuori degli Atenei. E viceversa si può altrettanto comprendere che dagli universitari, nella loro funzione di cittadini, ci si attenda che colleghino chiaramente le loro dimostrazioni con argomentazioni preventive.

Questo nesso non manca affatto nella maggior parte delle dimostrazioni. Ci sono due possibili tipi di dimostrazione che lo negano: intendo da un lato l'anarchismo di quei dinamitardi in pectore che sono convinti dell'inutilità della discussione e che ormai confidano soltanto nell'azione immediata. Rompendo unilateralmente il dialogo, costoro rinunciano allo strumento della politica, l'unico che può essere giustificato all'interno dell'Università. Rifiutando ormai di ascoltare gli altri, si definiscono per gli altri mero oggetto dell'indagine sociologica o della psicopatologia. Se tuttavia studiassimo questa forma di politicizzazione, non potremmo nasconderci che tali studenti vivono in un'Università che non sa loro offrire adeguate occasioni di studio. Dovremmo tener presente che sono cresciuti in una democrazia che spaventa persino uno Jaspers, nella quale vogliamo dire la politica estera è occultata dietro le cortine fumogene di una sistematica mistificazione e nella quale l'integrazione progredisce a spese degli atteggiamenti liberali con i progetti di leggi eccezionali, la politica di blocco dei salari e i toni sempre piú aspri e reazionari della stampa. Gli istituti di una democrazia realizzata sarebbero, al modo di reti sospese, intessuti della piú sottile trama intersoggettiva, viceversa, le nostre istituzioni potrebbero un giorno presentarsi come valli trincerate circondate dalla muta abbaiante degli individui sopravvissuti.

Un altro gruppo di dimostranti sembra credere che questo futuro sia già cominciato. Costoro non solo troncano la discussione, ma negano anche i traguardi politici. Vivono nella speranza che non soltanto al cinema ci possa essere una rivoluzione che diverta. Qualunque cosa sappia di ordine, eccoli li a provocare, specialmente i tutori del medesimo. Di fronte a questa forma di dimostrazione, mi opprime un pensiero soprattutto. Supponiamo che un giorno la polizia a Berlino o anche a Monaco o a Francoforte prenda direttamente partito, contro il suo compito costituzionale, in politica interna e si configuri, per il suo stesso atteggiamento, come avversario politico: chi in tale situazione eserciterebbe l'inevitabile resistenza politica, se nel frattempo ci fossimo tutti spoliticizzati diventando dei provos?

Scivolare nell'anarchismo e nel provocazionismo, in forme quindi di autoavvilimento politico, significa soltanto la follia, e questa follia rende tanto piú evidente che gli universitari, anche nella loro funzione di cittadini in generale, non debbono mai dimenticare il nesso tra manifestazione della propria volontà e premessa argomentazione. Ma, assicurato questo presupposto, la discussione critica delle questioni politiche deve valere di certo come componente della vita universitaria.

Questa tesi mi sembra trovar la riprova cercata nella dimostrazione che abbiamo tentato di dare di un rapporto immanente tra l'esercizio della scienza nell'Università e la critica. Ma si può corroborarla anche ricordando il bisogno che la compagine universitaria ha di un'autoprotezione politica. In una democrazia come la nostra, che non si può dire consolidata, dobbiamo tener conto di casi in cui vale un latente stato di necessità e che, secondo l'interpretazione delle istanze competenti, non sono riconosciuti come offesa alla legalità. In tali casi non opera piú che il meccanismo dell'autodifesa solidale della minacciata istituzione nel suo complesso. All'interesse particolare sembra allora di accrescere la propria forza convergendo strettamente con l'interesse generale che va oltre il suo proprio ambito. L'affare dello Spiegel ne è stato un esempio. Contro l'oltraggio alla libertà di stampa, l'intera istituzione insorse con rara unanimità in propria difesa. Se s'infirmasse l'autonomia salariale, si può esser certi che i sindacati protesterebbero con non minor decisione. E analogamente, dovesse di nuovo esser umiliata la norma costituzionale che garantisce libertà d'insegnamento e di ricerca, la prima resistenza non potrebbe che partire dalle Università, e vedrebbe fianco a fianco studenti e professori. Da una Università spoliticizzata ci si aspetterebbe invano un simile atto di legittima difesa.

Se dunque, anche per questo motivo concreto, non solo ammettiamo, bensí promuoviamo la discussione di problemi politici nell'Università, va da sé che gli studenti partecipino a discussioni nelle quali l'Università come tale è una dimensione politica. Gli studenti, e nessuno lo contesta, partecipano alla politica dell'Università. Ma un'attiva e preparata minoranza di studenti da anni va chiedendo una democratizzazione dell'Università. L'Università come monopolio degli ordinari che simula una comunità di docenti e discenti dev'essere sostituita da una struttura alla cui gestione tutte e tre le parti in causa siano interessate con la possibilità di promuovere i loro particolari interessi: gli studenti, gli assistenti, gli incaricati e i professori. Va inoltre superato il dualismo tra gerarchia della cattedra e amministrazione dell'Università, e anche qui studenti e non ordinari, relativamente alla loro funzione, dovrebbero poter disporre degli strumenti inerenti all'istituzione.

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