Copertina
Autore Stuart Hall
CoautoreMiguel Mellino
Titolo La cultura e il potere
SottotitoloConversazione sui cultural studies
EdizioneMeltemi, Roma, 2007, Universale 44 , pag. 70, cop.fle., dim. 12x19x0,7 cm , Isbn 978-88-8353-596-3
TraduttoreMiguel Mellino
LettoreRenato di Stefano, 2008
Classe scienze sociali , paesi: Gran Bretagna
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  7 Presentazione
    Miguel Mellino

  9 Capitolo primo
    Cultural studies "at large"

 31 Capitolo secondo
    Teoria senza disciplina

 49 Capitolo terzo
    Diaspore e multiculturalismo ai tempi del New Labour

 63 Bibliografia


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Presentazione

Miguel Mellino


Stuart Hall è sicuramente una delle figure chiave all'interno del panorama intellettuale europeo degli ultimi cinquanta anni. Principale animatore dei cultural studies e una delle voci principali della critica postcoloniale, i suoi studi sui mass media, sulle sottoculture giovanili, sul razzismo, sul thatcherismo, sul rapporto tra capitalismo e colonialismo, sulla produzione culturale dei neri britannici, sulle dinamiche delle identità migranti e post-migranti e sul multiculturalismo sono stati oggetto di ampio dibattito nello scenario teorico-politico internazionale. Anche in Italia si riscontra ormai un sempre maggiore interesse per la sua opera, come dimostra la recente comparsa di due importanti raccolte contenenti buona parte dei suoi saggi più noti: Politiche del quotidiano. Cultura, identità e senso comune (Hall 2006b) e Il soggetto e la differenza. Per un'archeologia degli studi culturali e postcoloniali (Hall 2006a). Abbiamo incontrato Stuart Hall a Londra, dove ci ha concesso una lunga conversazione sui cultural studies e sui momenti più significativi di tale esperienza. Appena iniziato il dialogo, ci accorgiamo che parla più volentieri dei problemi — passati e presenti — riguardanti la "politica dei cultural studies" che non degli studi culturali in sé. Il dibattito sulla "disciplina" cultural studies è qualcosa che, notoriamente, lo affascina molto meno: è chiaro che trascurarlo significa per Hall cercare di salvaguardare il "teorizzare" dai pericoli della "teoria" (ovvero dell'accademicismo). Con grande passione ci racconta anche del suo attuale impegno nel progetto di Rivington Place, un ampio spazio espositivo interamente dedicato alle arti visive globali contemporanee che verrà inaugurato nel corso nel 2007 a Londra. Quasi volesse riaffermare ancora una volta che "non è attraverso Raymond Williams, Edward Thompson o Richard Hoggart che ho incontrato i cultural studies. È stata la mia appartenenza alla diaspora afro-caraibica, una condizione materiale vissuta, una certa dislocazione o dissidio culturale, a portarmi verso i cultural studies; che per me non sono che il prodotto di uno scontro dal vivo con la Gran Bretagna e con la cultura britannica, non fanno che sintetizzare il momento in cui ho iniziato a fare i conti con la cultura del padrone coloniale a casa sua".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Capitolo primo

Cultural studies "at large"


MM: Come si può iniziare oggi un discorso sui cultural studies? Voglio dire: cosa ti viene da pensare sul campo complessivo dei cultural studies dopo 15 anni di boom in quasi tutto il mondo, specialmente nei paesi anglosassoni? Cosa abbiamo oggi: l'internazionalizzazione dei british cultural studies, una loro ulteriore decostruzione o dislocazione, la loro decomposizione in singole realtà locali-nazionali o invece una sorta di global cultural studies?


SH: Domanda interessante, ma a cui è difficile rispondere. Credo non si possa parlare di studi culturali globali. C'è tanta gente che lavora dentro il contenitore dei cultural studies, ma lo fa in modi molto diversi, producendo ulteriori differenze al suo interno. Ciò che abbiamo mi sembra più l' indigenizzazione dei cultural studies, la loro creolizzazione o glocalizzazione. Faccio un esempio per rendere meglio quanto sto cercando di dire: a Taiwan i cultural studies "locali" rappresentano ormai una tradizione politica e intellettuale piuttosto consolidata, nonché molto diversa da quella dei cultural studies così come vengono praticati negli Stati Uniti o in Gran Bretagna. Questa situazione ci dice che vi è in effetti una frammentazione del campo, che può significare anche la sua decomposizione, forse; ma è difficile dirlo. Poiché bisogna sempre tener presente che i cultural studies sono stati sin dall'inizio un campo di studi piuttosto ibrido, sono stati sempre intrecciati ad altre cose: alla sociologia, ai media-studies, ai film-studies, alla critica letteraria, all'antropologia, ecc. L'eterogeneità fa parte della natura stessa dei cultural studies. In sintesi, quello che voglio dire è che fare cultural studies non significa percorrere strade prefissate da qualcuno: possono nascere a partire da discipline, interessi e tradizioni estremamente eterogenei. Lavorare a partire da repertori concettuali diversi non fa nessuna differenza, anzi, mi sembra la cosa più naturale del mondo. È l'oggetto dello studio e il tipo di approccio ciò che conta.


Ma non ti sembra che così si rischia di restare entro confini un po' troppo elastici? Non ti voglio estorcere una definizione o delimitazione del campo, so che non ti piace il ruolo di "custode" di una presunta essenza dei cultural studies. Ma so anche che tu hai un parere su questo argomento.


In effetti, c'è un soggetto unificante dei cultural studies, qualcosa che devi sempre trovare per poter parlare di cultural studies. È il rapporto, la connessione e l'interazione tra cultura e potere. Affrontare la cultura o le espressioni culturali da un punto di vista meramente formale, intenderle semplicemente come valori o come significati, non costituisce affatto la tematica dei cultural studies. Fare cultural studies significa cercare di identificare i rapporti della cultura – del significato o del meaning making – con altre sfere della vita sociale, ovvero con l'economia, con la politica, con la razza, con la strutturazione delle classi, dei generi, ecc. Dal mio punto di vista, credo si possa parlare di cultural studies soltanto se si lavora per smascherare l'interpenetrazione tra cultura e potere. Poi non importa se, per esempio, in Argentina i cultural studies si collocheranno in un campo concettuale diverso da quello in cui si sono collocati in Gran Bretagna o altrove. E non potrebbe essere altrimenti, poiché, per forza di cose, i cultural studies dovranno affrontare in ognuna di queste società congiunture storiche specifiche molto diverse. Se accettiamo la natura congiunturale del campo dei cultural studies, dunque, come possiamo pensare che il rapporto tra cultura e potere possa essere lo stesso in Argentina e in Gran Bretagna? Impossibile! Per questo, si può dire che facciamo tutti cultural studies solo nel senso in cui – in rapporto alla nostra propria situazione storica specifica e all'interno delle tradizioni intellettuali in cui siamo stati formati – affrontiamo nelle nostre analisi i modi attraverso cui la cultura e il potere operano oggi nelle nostre società.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 40

Sei stato uno dei maggiori interpreti di Gramsci nel mondo anglosassone. Hai letto il thatcherismo, il postfordismo, lo strutturarsi del capitalismo globale neoliberale, le dinamiche e le politiche della razza, del razzismo e dell'etnicità attraverso la lente gramsciana e attraverso un uso delle concezioni di Gramsci molto diverso da quello a cui siamo abituati in Italia (cfr. Hall 1986; 1988a; 1988b; 1989; 1991). Puoi descriverci il modo in cui la problematica gramsciana ha "interrotto", per usare una delle tue più note metafore, il tuo lavoro?


La problematica di Gramsci ha interrotto il mio lavoro in diversi modi. Prima di tutto dal punto di vista della specificità storica. Ho sempre letto Gramsci sapendo che egli aveva in mente la congiuntura italiana e che quindi dovevo lavorare parecchio per riadattare la sua prospettiva a congiunture come quelle britanniche o quella caraibica postcoloniale. Quindi sono stato sempre consapevole del fatto che Gramsci parlava da un contesto storico molto diverso dal mio. Come si sa, Gramsci non ha mai scritto su questioni legate alla razza o al razzismo, così mi sono chiesto: quali elementi del lavoro di Gramsci possono consentirmi di capire situazioni storiche "razzialmente strutturate" in modo più efficace? Inoltre mi interessava molto, come sai, il suo concetto di egemonia, l'ho sempre trovato stimolante per chi come me aveva incentrato il suo lavoro sull'analisi del rapporto tra cultura e potere. Ero e sono più sensibile alla questione del modo di produzione del potere che non allo sfruttamento economico in senso stretto, poiché quest'ultimo mi sembra più "conseguenza" che non "causa" dell'esercizio del potere. Non è che sottovaluti il momento dello sfruttamento, so che esiste e che costituisce un'istanza centrale nella produzione delle società, ma mi piace iniziare l'analisi sociale dalla questione del potere. Il potere, chiaramente, è qualcosa di infinitamente complesso e contraddittorio, non è mai condensato in un unico luogo, circola dappertutto, è diffuso lungo tutto il tessuto sociale. Come ci ha insegnato Gramsci, un potere che sia capace di inquadrare la società all'interno di un nuovo progetto storico deve operare egemonicamente, deve necessariamente intrecciare i modi di pensare, i media, la cultura, la lingua, la filosofia, l'economia, la cultura popolare, la Chiesa, ecc. Comunque, sono interessato sia a quelle forme di potere che pervengono all'egemonia, sia a quelle che non vi pervengono. In effetti, il concetto di egemonia non deve essere usato come se fosse adatto a descrivere ogni formazione politica, poiché certamente non tutte le formazioni sociali perseguono o conseguono questo processo di (auto)costruzione egemonica. Solo certe forme di potere riescono a raggiungere questo stadio politico; per esempio, il New Labour in Gran Bretagna si sta avvicinando ora al suo momento egemonico, sta ottenendo la mercificazione di ogni cosa, di ogni istituzione, sta trasformando ogni sfera della società in una sfera di mercato, basti qui pensare all'attuale tentativo di privatizzare il servizio sanitario nazionale. Sta espandendo il mercato ad aree che finora ne erano rimaste escluse. Tutto sta diventando una questione di mercato, e non solo economicamente, sta anche producendo un modo di pensare completamente pervaso dalla logica del mercato. Questo modo di pensare è iniziato con il thatcherismo, che aveva collocato persone provenienti dall'economia in ogni posto chiave della società. Il thatcherismo è stato il primo stadio, il blairismo è quello successivo all'interno di questo lungo movimento storico. Il New Labour di Blair sta riplasmando ogni istituzione – sociale, economica, culturale – in funzione di questo modello relativamente nuovo, in funzione di quello che Philip Bobbitt ha chiamato "the market-state", ovvero di un nuovo tipo di Stato (Bobbitt 2003). Si tratta di uno Stato che fonda la sua legittimità non tanto (come il vecchio Stato-nazione) sulla promessa di un maggior benessere materiale per tutti i suoi cittadini quanto sull'impegno a massimizzare fin dove è possibile le opportunità di ogni singolo soggetto (Hall et. al. 2003). Come dicevo, ho capito da Gramsci che il potere che affonda le sue radici, i suoi fondamenti, in ogni singolo interstizio o nervo dell'intera società sta portando quella società verso un nuovo progetto storico. Devo aggiungere però che ho capito molto di più sulle trasformazioni del potere con la Microfisica di Foucault, ma il mio Foucault è rimasto sempre un Foucault piuttosto gramsciano. Posso dire che nelle mie analisi la microfisica dei rapporti di potere di cui parla Foucault viene interpretata sempre in funzione dei processi particolari di egemonizzazione che investono le società. In sintesi, ho ripreso da Gramsci il concetto di specificità storica, la nozione di congiuntura e l'analisi egemonica delle forme di potere. Tuttavia, credo che Gramsci non possa aiutarci più di tanto a capire quella nuova congiuntura di cui abbiamo parlato prima, soprattutto perché aveva come orizzonte il momento della costituzione del nazional-popolare, e questo momento sembra oggi davvero passato. Il livello dell'interpenetrazione tra processi globali e Stati-nazione è arrivato a un punto tale che qualsiasi soluzione politica progettata a partire da una sfera meramente nazionale appare piuttosto anacronistica. Il modo in cui Gramsci pensava alla creazione di una coscienza nazional-popolare in quanto cornice dell'azione politica è proprio quel momento che il globale si è lasciato alle spalle. Dunque, a questo punto su Gramsci possiamo farci le stesse domande che io mi sono posto quando cercavo di utilizzare il suo lavoro per pensare il razzismo nelle società contemporanee: cosa possiamo imparare dalla sua nozione di egemonia in riferimento all'attuale congiuntura globale? Serve? Non serve? Perché questo concetto forse non serve più? Cosa può dirci dell'oggi, anche per opposizione? In Iraq, in Libano, non c'è nessun processo egemonico in corso, c'è puro dominio o pura coercizione e basta. Sono i carri armati o gli aerei militari i veicoli del potere di fronte alla popolazione... I media, certo, parlano di formazione della società civile irachena, di ricostruzione dello Stato, ecc... ma sono tutte idiozie!

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 49

Capitolo terzo

Diaspore e multiculturalismo ai tempi del New Labour


Vorrei chiederti qualcosa sugli attentati del 2005 a Londra. I media e la maggior parte dell'establishment politico e intellettuale, almeno fuori dalla Gran Bretagna, non hanno fatto differenza tra questi attentati e quelli di New York e di Madrid. La lotta contro Al Qaeda ha assorbito qualsiasi altro discorso sulla vicenda. Per quello che sappiamo può darsi che vi siano delle connessioni tra tutti e tre gli attentati, tuttavia penso che il caso inglese resti piuttosto singolare e che ci riporti direttamente - più che verso qualcosa di fantomatico come Al Qaeda – verso la storia del multiculturalismo e del razzismo in Gran Bretagna. Sono gli stessi vostri lavori sulla produzione della razza e del razzismo in Gran Bretagna a spingere in questa direzione. Qual è la tua opinione su questi fatti?


Qualche somiglianza fra i tre episodi in effetti c'è. Anche in Gran Bretagna vi è stata la politicizzazione dell'Islam. Ma non possiamo capire il significato di questo processo per le terze generazioni di musulmani inglesi senza guardare prima alla storia del colonialismo e poi del multiculturalismo britannico. Quindi, il nuovo quadro internazionale c'entra e non c'entra. Il processo di esclusione subito da questa parte della società inglese va avanti da molto tempo prima che comparissero sulla scena Al Qaeda e Bin Laden. Negli anni delle grandi migrazioni, nei Cinquanta e Sessanta, afro-caraibici, asiatici e africani sembravano essere discriminati tutti più o meno allo stesso modo, tutti "razzializzati" come black. In realtà, la storia non è andata proprio così. Le discriminazioni subite non sono state le stesse. Certe comunità islamiche sono rimaste ingabbiate in situazioni molto particolari. Nonostante siamo alla terza generazione di musulmani britannici, si continua a "orientalizzarli", a considerarli come la vera "alterità". Ora inizia a esserci una qualche consapevolezza di tutto ciò: le bombe nel centro di Londra hanno dato da pensare a qualcuno. La risposta, però, come accade spesso, è stata la peggiore possibile: governo, media, establishment pensano che la soluzione politica sia costringere pakistani, bengalesi, afghani, ecc. a sentirsi più britannici. Così si elaborano sempre più programmi destinati a diffondere ancora di più il senso della "britishness". Siamo a una sorta di incredibile rilancio dell'assimilazionismo. Si sta adottando quella che ho definito prima come una "strategia neo-civilizzatrice", per di più in un quadro internazionale in cui la Gran Bretagna ha un ruolo del tutto attivo nell'aggressione a paesi islamici come l'Iraq, la Palestina, l'Afghanistan. Blair accanto a Bush, con Guantanamo e Abu Ghraib come sfondo, non potrà mai far sentire più britannici i musulmani britannici. È in questo modo che la religione diviene una questione surdeterminata (tornando a Althusser ), che si trasforma in una sorta di elemento di resistenza politica inerente alle identità egemoniche. Paradossalmente, la religione finisce a volte per politicizzare molte persone, anche se questa politicizzazione arriva in un modo che ha poco a che vedere con l'Islam in sé. Ha più a che vedere con soggetti e comunità subalterne che reagiscono come possono al nuovo processo di "civilizzazione" in corso, a processi globali che vengono percepiti come profondamente iniqui e in cui lo stato di segregazione patito dalle comunità palestinesi in Israele assume un significato emblematico.


Ma quali sono stati gli effetti concreti di questi attentati sull'opinione pubblica britannica, in particolare sul dibattito riguardante Il futuro della Gran Bretagna multi-etnica, per citare il titolo del noto "Parekh Report" (2000)?


Blair e i suoi si sentono in guerra, e vogliono resistere invocando una sciocca coesione socioculturale. Lanciano invettive contro il multiculturalismo, lo dichiarano morto ogni giorno, poiché non aiuterebbe a farci sentire tutti uguali, ovvero tutti inglesi. Il New Labour si è imbarcato in una politica estremamente contraddittoria su queste cose: cerca di far sentire più britannici i giovani islamici mentre incoraggia, in nome della diversità, le scuole confessionali. La cosa più deleteria è che tutto questo dibattito non riesce a uscire dalla banalità quotidiana, si parla solo di lotta contro Al Qaeda, come dicevi tu prima, o della necessità di espellere certi imam radicali che "riempiono" la testa dei giovani musulmani. Nessuno si chiede perché, a volte, questi ragazzi appaiano del tutto disposti a sentire ciò che dicono questi imam, nonostante siano nati in questo paese e abbiano vissuto qui per tutta la loro vita. Si tratta di ragazzi cresciuti ed educati qui, che parlano solo l'inglese, che fanno la vita dei loro coetanei, vanno a ballare ai club, si vestono e ascoltano la stessa musica degli altri giovani. Perché allora sentono a volte il bisogno di ascoltare gli imam radicali? È questo che bisogna chiedersi per iniziare a capire qualcosa, ma nessuno lo fa nel modo giusto. Si pensa unicamente a contenere la paura sotto l'ansia sicuritaria e non a interrogarsi sui motivi che hanno prodotto l'alienazione di una buona parte dei giovani musulmani inglesi. La verità è che il New Labour non ha mai capito veramente le questioni legate alla "razza" o alla diversità. Affrontano il multiculturalismo da un punto di vista filantropico: bisogna tollerare la differenza, essere buoni con i bambini neri, aperti con i nostri vicini stranieri, solidali con l'Africa. Oggi il confine tra questo filantropismo e l'imperialismo culturale è sempre più sfumato. Per esempio, quest'anno ricorre il bicentenario dell'abolizione britannica della schiavitù. Blair ha già detto che la schiavitù è stata una brutta cosa, ma non ha chiesto scusa per le responsabilità dell'Inghilterra nella tratta degli schiavi. Sul tema questa Sinistra mostra tutta la sua ambiguità. Per 400 anni l'Inghilterra ha schiavizzato mezzo mondo e a un certo punto ha deciso l'abolizione della schiavitù. Magnifico! Da allora, viene celebrata la "fine" di questa brutta storia, rimuovendo però il fatto che l'intera storia dei Caraibi è stata deformata da 400 anni di schiavitù, colonialismo e dipendenza. Ancora oggi i caraibici vivono ogni giorno della loro vita all'ombra di questa lunga storia, ma la Sinistra britannica non ha una parola da dire su queste cose, vive in una sorta di oblio totale.

| << |  <  |