Autore Mohsin Hamid
Titolo Le civiltà del disagio
SottotitoloDispacci da Lahore, New York e Londra
EdizioneEinaudi, Torino, 2016 , pag. 202, cop.fle., dim. 13,5x20,8x1,7 cm , Isbn 978-88-06-22510-0
OriginaleDiscontent and Its Civilizations: Dispatches from Lahore, New York and London [2015]
TraduttoreNorman Gobetti
LettoreGiangiacomo Pisa, 2016
Classe narrativa pakistana , paesi: Pakistan , critica letteraria












 

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Indice


  3 Introduzione Le mie corrispondenze di straniero


    Vita

    Uno
 17 C'era una vita (2011)
 21 L'arte e gli altri Pakistan (2009)
 25 Quando Updike mi salvò da Morrison (e da me stesso) (2009)
 27 In concerto, non si tocca (2001)

    Due
 33 Relazioni internazionali (2000)
 36 Conto alla rovescia (2001)
 39 Una casa per le ninfee (2006)

    Tre
 45 In metropolitana (2006)
 49 Sulla paternità (2010)
 51 Doveva essere un segno (2009)

    Quattro
 57 Avatar a Lahore (2010)
 60 Non fatemi arrabbiare (2012)
 67 Personale e politico interconnessi (2013)


    Arte

    Cinque
 75 Trasforma Pereira (2010)
 79 Il mio fondamentalista riluttante (2007)

    Sei
 85 Rileggere (2012)
 86 Tenersi in forma con Murakami Haruki (2013)
 90 Amore duraturo per la seconda persona (2013)

    Sette
 97 Ci preoccupiamo troppo che i personaggi siano «simpatici»? (2013)
 99 Dov'è il Grande Romanzo Americano scritto da una donna? (2013)
102 Come cambiano l'esperienza di lettura gli e-book? (2014)
105 Le nuove serie dell'«età dell'oro» della tv sono i nuovi romanzi? (2014)


    Politica

    Otto
113 Il solito alleato (2001)
115 Divisi cadiamo (2006)
118 Dopo sessant'anni, il Pakistan rinascerà? (2007)

    Nove
125 Un inizio (2009)
128 Paura e silenzio (2010)
130 Nonostante la febbre e l'alluvione, il Pakistan può ancora prosperare (2010)

    Dieci
137 Le civiltà del disagio (2010)
141 Unire la minoranza e la maggioranza pachistane (2011)
145 La morte di Osama bin Laden (2011)

    Undici
151 Perché non capiscono il Pakistan (2011)

    Dodici
167 A sessantacinque anni il nazionalismo dovrebbe andare in pensione (2012)
171 Per combattere l'India, combattiamo noi stessi (2013)

    Tredici
177 Perché i droni non aiutano (2013)

    Quattordici
193 L'Islam non è un monolite (2013)


199 Ringraziamenti



 

 

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Pagina 8

In molti luoghi, gli ultimi quindici anni sono stati un periodo di disordine economico e crescenti disparità. La rabbia e il risentimento sono alle stelle. Eppure, politiche economiche in grado di dare una risposta a questi problemi sembrano impossibili da attuare. In luogo dei semi della riforma, ci viene dato il giogo del depistaggio. Ci viene detto di dimenticare le fonti del nostro disagio perché c'è in gioco qualcosa di piú importante: il destino della nostra civiltà.

Ma cosa sono queste civiltà, queste nozioni di islamicità, occidentalità, europeità, americanità, questi tentativi di definire dove e con chi dobbiamo stare? Sono illusioni: costrutti arbitrari dai confini porosi, fragili e sovrapposti. A quale civiltà appartiene un ateo siriano? E un soldato musulmano nell'esercito statunitense? Un professore cinese in Germania? Una stilista lesbica in Nigeria? Dopo quanti decenni di cittadinanza statunitense una coppia di lingua spagnola nata in Honduras, con una discendenza di due generazioni di figli e nipoti statunitensi, smette di appartenere alla civiltà latinoamericana e ottiene il proprio posto in quella americana?

Le civiltà sono illusioni, ma illusioni dilaganti, pericolose e potenti. Contribuiscono alla brutalità della globalizzazione. Ci consentono, ad esempio, di affermare la nostra fede nei liberi mercati globali e al contempo di non prendere nemmeno in considerazione la possibilità del libero movimento globale della forza lavoro; di sostenere che crediamo nella democrazia e nell'uguaglianza fra gli uomini e intanto ostacolare la creazione di istituzioni globali basate sul principio una-testa-un-voto e sull'uguaglianza di fronte alla legge.

Le civiltà incoraggiano il fiorire delle nostre ipocrisie. E cosí facendo minano alla base l'unica promessa plausibile della globalizzazione, ovvero che saremo liberi di inventare noi stessi. Perché, esattamente, un musulmano non può essere europeo? Perché una persona non religiosa non può essere pachistana? Perché un uomo non può essere donna? Perché una persona gay non può essere sposata?

Bastardi. Spuri. Mezzosangue. Reietti. Devianti. Eretici. Le nostre parole per dire l'ibridità sono spesso ingiuriose. Non dovrebbe essere cosí. L'ibridità non è necessariamente il problema. Potrebbe essere la soluzione. L'ibridità significa qualcosa di piú che mera mescolanza tra gruppi. L'ibridità rivela che i confini tra i gruppi sono falsi. E questo è fondamentale, perché la creatività nasce dall'eterogeneità, dal rifiuto di una purezza mortifera. Se non ci fosse che un unico essere umano, la nostra specie si estinguerebbe.

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Pagina 26

In concerto, non si tocca [2001]


Fu quando tornai in Pakistan subito dopo il college che una donna mi introdusse ai piaceri del sudore.

A far da scenario, un estatico evento di danza/trance sufi di ispirazione religiosa. Per il lettore non iniziato, lo paragonerei a un rave all'aperto, però a ingresso libero, e con una musica prodotta solo da tamburi suonati a mani nude e dalle cavigliere di ballerini dai lunghi capelli, alcuni vestiti da donna.

Come a ogni rave, nel pubblico non mancavano malati in cerca di guarigione, coppie che anelavano alla fertilità e non pochi spinellatori le cui canne profumavano l'aria come mazzi di tuberose.

Ero arrivato alle dieci e mezza perché era l'ora in cui Papu Sain scatenava i ritmi che molti ritenevano capaci di avvicinarti a Dio.

Avevo bisogno di concedermi un po' di sensualità. Nel mio paese, tradizione, rispetto e scarsa popolarità dei metodi contraccettivi complottavano per far sí che qualunque giovane di ritorno dopo aver studiato all'estero si trovasse a dipendere solo da se stesso in materia di atti amorosi, a un livello cui non arrivava dal tempo ormai semidimenticato della scuola maschile.

Nel mio caso sarebbe piú onesto dar la colpa alla timidezza, e a una maldestra inettitudine. Ma, qualunque fosse la causa, in quel periodo per me la compagnia femminile si limitava alle donne della mia famiglia e alle ragazze dei miei amici piú fortunati. Tale carenza era esacerbata da un generale occultamento delle forme femminili, poiché, in fatto di pelle esibita, Lahore era molto piú indietro del New Jersey.

La televisione satellitare e le riviste d'importazione, con immagini di donne perlopiú fisicamente molto diverse da quelle che avevo intorno, creavano una lacerante bramosia senza alcun rimedio a portata di mano.

Perciò mi adattai. Sviluppai un gusto per la sottigliezza, per quelle microincrespature che in un contesto di deprivazione sensoriale diventano degli tsunami.

Imparai ad apprezzare un sorriso, il lieve tocco di una mano. Studiavo gli sguardi. Sceglievo le parole con cura e assaporavo quelle che mi venivano rivolte.

Ero in questo stato di sensibilità acuita dal bisogno quando mi trovai al Baba Shah Jamal ad appena un metro da una donna della mia età. Il velo le copriva la gola e l'emisfero posteriore della testa come un casco da moto con la visiera alzata. Il vestito era morbido come l'amore, quanto bastava per rendere snello un corpo pieno, e formoso uno esile. All'altezza del petto e dei fianchi, era rigonfio.

La osservai mentre si sfregava delicatamente il naso con un pollice. Lei notò il mio sguardo, ed entrambi distogliemmo gli occhi e ci mettemmo a scrutare davanti a noi con l'aria imbarazzata di persone la cui attenzione è concentrata sulla visione periferica.

Faceva caldissimo.

E, insieme, sudammo.

Mi sentivo fremere mentre i pori si aprivano come bocche spalancate di pesci su una spiaggia deserta. Il calore mi scaturiva dal corpo. La sudorazione si raccoglieva fra i capelli rasati sulla nuca.

Un rivolo inatteso mi scese come un'unghia lungo la spina dorsale, e buttai fuori il fiato di getto, con le viscere che mi si contraevano per lo shock. Il viso di lei ora luccicava. Si asciugò la bocca col polso. Sentii lungo le costole un'altra carezza, che giunse a lambire la carne umida del fianco. I miei pensieri si espansero nell'aria e si condensarono sulla pelle di lei. Una lingua scese lentamente da un'ascella.

Insieme, ci arrendemmo al crescendo delle carezze bagnate dei nostri corpi, mentre restavamo quietamente discosti. Sotto di noi gli uomini roteavano estatici. Chiudendo gli occhi e alzando la testa, lei mostrò la parte di sotto della mascella in una danza di corteggiamento vecchia come il mondo, una pavonessa che occhieggia vezzosa il merengue di un pavone che fa la ruota.

Grosse gocce mi scivolarono lungo il ventre come erratiche uova di salmone.

Azzardai un sorriso destinato a lei tenendo gli occhi fissi sulla scena sottostante. Con uno sguardo furtivo, ostruito solo a metà dal naso, mi accorsi che l'estremità della sua bocca rispondeva, allungandosi languidamente verso di me.

In queste cose c'è un codice molto semplice: le tue intenzioni devono essere onorevoli. Per spingerti oltre, devi avere in mente l'amore. Noi non ce l'avevamo, perciò non ci spingemmo oltre.

Però avevamo sudato e, quando lei se ne andò senza una parola, io non ero privo di gratitudine.

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Pagina 33

Relazioni internazionali [2000]


Il passaporto che avevo fatto scivolare attraverso la feritoia nella sua paratia di vetro aveva un aspetto sospettosamente antiquato: si apriva da destra, e sopra le spade ricurve dei caratteri urdu esibiva la scritta «Islamic Republic of Pakistan». Per una funzionaria addetta al rilascio visti, parole da far tremare le vene ai polsi.

La scena si svolge al consolato italiano di New York, entrata posteriore, in un locale sotterraneo dove lavorano tre cortesi sentinelle. Il loro compito è presidiare il muro che protegge le democrazie ricche, e la loro postazione è meno problematica di tante altre perché si trova all'interno delle fortificazioni di un alleato.

Io sono vestito bene. Abito blu scuro, gessato, con tre bottoni. Camicia bianca, cravatta azzurra, faccia marrone, occhi marroni. Stamattina mi sono rasato, ma ho dimenticato una chiazza su un lato del mento. Quella peluria, per quanto corta, è molto fitta. Peluria fondamentalista. Peluria da ayatollah, da hezbollah. Peluria da guerriglia sulle vette del Kashmir. Ma appena appena.

Con mani niente affatto callose, sciupate solo da cuticole che avrebbero bisogno di una lezione, porgo i restanti documenti: lettera del datore di lavoro, estratto conto, certificato assicurativo, cedolino dell'ultimo stipendio, biglietto aereo, prenotazione alberghiera. Una madre potrebbe combinare un matrimonio con meno informazioni di quante ne vengono richieste a me. Ho le occhiaie per lo stress o la mancanza di sonno. Sudo un po', malgrado la giornata sia fresca, e le tempie, dove sono state disertate dai capelli, luccicano.

Il mio sorriso è disonesto, il sorriso di un uomo che sorridendo spera di rendere le cose piú facili, insincero come ogni sforzo di essere sinceri. Lei da parte sua è quasi amichevole. Dopotutto siamo entrambi giovani, membri sani della stessa specie, e in età riproduttiva.

L'ispezione che un pachistano deve superare per essere considerato degno di viaggiare ha solo centouno punti. Vengo bocciato, perché in passato ero stato promosso. Sono stato in Italia troppe volte.

Perché cosí tante volte in un periodo cosí breve?, mi domanda lei.

Per amore, dico. La mia ragazza è italiana.

Fa una pausa, preferirebbe evitare. Ma deve: è suo dovere. Basta una piccola breccia per far crollare il muro.

Be', è un'ottima ragione, dice. Ma temo che abbiamo bisogno di prove: una lettera autenticata da un notaio e una copia del passaporto della ragazza.

Avete bisogno di una lettera con cui una donna conferma che abbiamo una relazione?, domando.

L'addetta al rilascio visti è un essere umano. E si comporta in modo umano. Arrossisce. Temo di sí, dice. Ma manderò avanti lo stesso la pratica, cosí non le toccherà ripassare. Sarà sufficiente che abbia con sé la lettera quando verrà a ritirare il visto. Non se ne dimentichi, però: gliela chiederanno.

So di essere fortunato. Avrebbe potuto, a sua discrezione, rifiutare. Altri funzionari in altri consolati respingono regolarmente quelli come me per ragioni molto piú futili. Tuttavia non sono contento.

Quel giorno, in ufficio, dove vigeva un codice d'abbigliamento informale, i miei colleghi se la ridevano vedendomi in giacca e cravatta. Ma io mi vergognavo. Quell'abbigliamento era un modo di riconoscere implicitamente un'accusa che avrei voluto avere la fierezza di ignorare. Ma in cosa consiste esattamente questa accusa?

La razza è diventata una scorciatoia troppo grossolana per i confini giuridici che solcano le democrazie liberali come gli Stati Uniti. La nazionalità, quando non è travalicata dalla ricchezza, è un espediente molto piú accettabile. Le nazioni giudicate inclini alla povertà e alla violenza vengono segregate, in modo che divorino se stesse e vadano in malora. E cosí la discriminazione basata sulla nazionalità si è aggiunta alla discriminazione razziale nel tenerci ai margini negando tanto la nostra comune umanità quanto la nostra incredibilmente variegata individualità.

Io posso restare qui, nella cosmopolita New York, solo col beneplacito del mio principale, essendo in possesso di un visto H-IB per motivi di lavoro, della durata di sei anni di cui tre già trascorsi. Il ministero del Lavoro e il Servizio immigrazione e naturalizzazione sono talmente a corto di personale che ora come ora sono necessari diversi anni perché la richiesta di una green card venga presa in considerazione. E se anche oggi facessi domanda, rischierei lo stesso di venire espulso. Come quasi tutti i lavoratori a contratto, mi sento insicuro. Devo presentare ai check-point lettere d'amore autenticate dal notaio. Appartenere alla mia categoria non è piacevole.

Eppure faccio come mi viene detto, e ottengo il mio visto per l'Italia.

Prendo un taxi per tornare in ufficio. Il conducente ha tutta l'aria di un terrorista: sguardo fisso, barba folta, la circospetta vigilanza del devoto. Dallo specchietto retrovisore penzola un versetto del Corano. Potrebbe essere mio zio.

Da dove arrivi?, mi chiede in urdu.

Sono stato a chiedere un visto, gli spiego.

Hai avuto una mattinata difficile, fratello, dice lui, spegnendo il tassametro. La corsa te la offro io.

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Pagina 67

Personale e politico interconnessi [2013]


Quando stavo scrivendo il mio primo romanzo, Nero Pakistan, cercavo di mostrare lo stato mentale del protagonista attraverso l'ambiente che lo circondava. Non che piova perché il personaggio è triste, ovviamente, però - cosí ragionavo - è piú probabile che un personaggio triste si accorga che piova, e che di conseguenza se ne faccia menzione.

Il mio romanzo successivo, Il fondamentalista riluttante, era per molti aspetti diverso dal precedente, ma anche in quel caso c'era un forte legame fra il mondo esterno e quello interiore. Continuavo ad aderire con convinzione all'idea che il personale e il politico siano inestricabilmente interconnessi.

Quando sono tornato a vivere a Lahore, dov'ero cresciuto, avevo appena cominciato a lavorare al mio terzo romanzo. Era il 2009. Avevo trascorso la maggior parte degli anni Novanta a New York, scrivendo di Lahore in Nero Pakistan. Avevo trascorso la maggior parte degli anni Duemila a Londra, scrivendo di New York nel Fondamentalista riluttante. Adesso, pensavo, avrei fatto l'esperienza di vivere nello stesso paese di cui stavo scrivendo.

Perciò, mentre rimugino sui quattro anni scarsi che ho trascorso in Pakistan, su come il paese è cambiato e si è evoluto in questo periodo, mi trovo a diffidare delle mie impressioni. Il Pakistan che vedo io, mi chiedo, non sarà solo un riflesso della mia vita? Quelli che considero i suoi cambiamenti non saranno in realtà solo l'eco dei miei stati d'animo, delle mie emozioni?

Per la prima volta nella storia del paese, un governo civile eletto dal popolo ha completato i cinque anni del suo mandato. La nostra stampa litigiosa è sempre piú determinata, e anche la nostra alquanto idiosincratica Corte suprema. L'esercito si è tenuto perlopiú in disparte, preferendo (per il momento) non intervenire, come invece in passato aveva fatto cosí di frequente. Sono tutti sviluppi promettenti.

Però da quando sono tornato la situazione economica è peggiorata. La rupia è crollata rispetto al dollaro, i prezzi dei generi alimentari continuano ad aumentare per l'inflazione e i blackout sono ormai talmente frequenti che spesso abbiamo l'elettricità solo un'ora su due.

La situazione dell'ordine pubblico è pessima. In Belucistan si è scatenata un'insurrezione. In tutto il paese aumentano le uccisioni di sciiti. Ahmadi, indú, cristiani e appartenenti ad altre minoranze religiose vengono presi di mira da bigotti violenti. Un governatore liberale della mia provincia, il Punjab, è stato assassinato. Nella mia città natale, Lahore, una folla inferocita ha dato fuoco alle case di centinaia di cristiani. Incontro sempre piú pachistani all'estero che a causa delle persecuzioni non prendono nemmeno in considerazione l'idea di rientrare nel paese.

Tuttavia nei campus universitari incontro migliaia - letteralmente migliaia - di studenti intelligenti, appassionati e desiderosi di imparare. E a quanto pare leggono romanzi. Almeno per metà - cosa senza precedenti per il Pakistan - si tratta di studentesse. L'anno scorso mi è stato detto che nel paese ci sono piú studenti iscritti all'università oggi di quanti se ne siano laureati nel mezzo secolo seguito all'indipendenza del 1947.

Sono sbalordito dal talento dei giovani musicisti underground che sento alle jam session e da quello dei giovani artisti che vedo esporre le proprie opere. Sono incoraggiato dai giovani scrittori che incontro. E dai giovani lettori. Al Lahore Literary Festival, tenutosi per la prima volta questo febbraio, l'affluenza ha raggiunto i venticinquemila visitatori. È stato strabiliante. Non mi viene in mente, nei miei vent'anni di attività come romanziere, nessun altro evento pubblico cui io abbia partecipato con maggiore soddisfazione.

In questi anni, nel paese che mi circonda, ci sono state molte cose orribili, molte cose belle, e molte cosí cosí.

Però non so quanto il mio modo di vedere le cose sia accurato. Anche la mia vita ha avuto i suoi alti e bassi e, al pari di un personaggio dei miei libri, può anche darsi che l'ambiente che percepisco intorno a me non sia che un'eco di quel che provo dentro di me. (Ma potrebbe anche essere vero il contrario).

Dopo due decenni di esistenza monogenerazionale a Londra e New York, sto di nuovo vivendo un'esperienza quotidiana multigenerazionale. Io e mia moglie abitiamo coi nostri due figli in un appartamento sopra la casa dei miei genitori. Tre generazioni a un unico indirizzo, come quando ero bambino.

C'è qualcosa di meraviglioso nel vedere, ad esempio, mia figlia che ogni mattina gioca col nonno in giardino prima che lui vada a insegnare all'università, e lei alla scuola materna. C'è anche qualcosa di malinconico nell'assistere all'invecchiamento di una generazione di miei zii e zie molto piú numerosa di quella dei miei coetanei, i cugini che ancora vivono a Lahore.

La nostra è una grande famiglia estesa: mia madre ha otto fratelli e sorelle, mio padre tre. Di tanto in tanto uno di noi viene derubato, o finisce in ospedale, o per sopravvivere si vede costretto a dipendere economicamente dagli altri. E noi stiamo di gran lunga meglio della maggior parte della gente.

Eppure qui c'è saggezza, e amore, e una certa pace fra un'esplosione di violenza e l'altra. Continuo a piantare alberi lungo il perimetro della nostra casa. Per avere ombra, e anche per tenere in qualche modo a bada la città che incalza.

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Pagina 75

Trasforma Pereira [2010]


A volte mi chiedono quali sono i miei libri preferiti. La lista cambia, a seconda dello stato d'animo, dell'anno, degli scherzi giocati dalla memoria. Magari una volta cito romanzi di Nabokov, Calvino e Tolkien, e un'altra di Fitzgerald, Baldwin e E. B. White. Spesso compare Camus, e anche Tolstoj, oppure Borges, Morrison e Manto. E poi ho un asso nella manica, che tendo a tirar fuori per ultimo e col piú grande piacere, perché per me è come rivelare un segreto.

Sostiene Pereira, dico, di Antonio Tabucchi.

Di solito queste parole sono accolte con una o l'altra delle seguenti reazioni: sconcerto (di gran lunga la piú comune) oppure un sorriso deliziato e cospiratorio. Ho l'impressione che in inglese Pereira non sia ancora molto letto, ma sui pochi che l'hanno provato esercita un'attrazione pari a quella dell'eroina su un tossico.

Per me il vizio di Pereira ha avuto inizio una decina d'anni fa, nella libreria City Lights di San Francisco, dove una fidanzata italiana mi consigliò di fare un tentativo. San Francisco era il posto ideale per quella prima lettura: i colli, i tram e la malinconia del lungomare ricordavano la Lisbona dove si svolge la storia; il retaggio italiano della città, dalla fabbrica di cioccolato Ghirardelli in centro ai vigneti nelle valli circostanti, evocava la nazionalità dell'autore; mentre le reminiscenze del progressismo degli anni Sessanta e del cinema noir degli anni Quaranta si accordavano alla perfezione con la visione politica e il ritmo narrativo del libro.

Ho sempre avuto un debole per i romanzi sottili, e l'aspetto di Pereira, la sensazione che mi ha dato quando l'ho preso fra le mani, mi è subito piaciuto. Me lo sono portato in albergo, poi a letto, che a quell'età poco avventurosa era ancora il mio posto preferito per leggere. Aveva un'aria elegante, lí accanto a me sulle lenzuola. Ho passato un pollice sul davanti, sul taglio delle pagine, sottile e affilato contro la pelle. L'ho preso, l'ho aperto e mi ci sono sprofondato.

La prima lettura è durata un pomeriggio e una serata. L'ho letto tutto da cima a fondo, senza riuscire a fermarmi.

Ero ipnotizzato dalla sua bellezza. Nella sua brevità si avvicinava alla perfezione. Mi ha trascinato di peso nella Lisbona degli anni Trenta, in un «bel giorno d'estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e una città che scintillava, letteralmente scintillava» sotto una finestra. Mi sono preso una cotta per il personaggio di Marta, tratteggiato in modo cosí essenziale, che nel suo «cappello di refe» e nel «vestito con delle bretelle che si incrociavano dietro la schiena», chiede a Pereira di ballare, un valzer che lui danza «quasi con trasporto, come se la sua pancia e tutta la sua carne fossero sparite per incanto».

Sebbene sia estremamente sintetico, Pereira non è mai sbrigativo. Tira fuori dal suo piccolo cappello un senso di umanità sconfinato e toccante. Quando il protagonista eponimo, un anziano giornalista sovrappeso, si confida ogni giorno con la fotografia della defunta moglie, io ho percepito quella relazione come un organismo vivente. Quando lui le dice che il giovane Rossi «potrebbe avere l'età di nostro figlio, se avessimo avuto un figlio», ho capito perché Pereira si assume il rischio di pagarlo per articoli che sicuramente non potranno essere pubblicati, data la loro implicita critica al regime autoritario portoghese.

Non ho mai condiviso l'idea secondo cui l'arte dev'essere tenuta separata dalla politica. In Pereira ho trovato la confutazione definitiva di quella posizione. Sono stato conquistato dal riluttante risveglio politico del protagonista, dal suo gesto finale di ribellione, silenzioso e avventato al tempo stesso. Ecco un romanzo che aveva il coraggio di essere un libro sull'arte, sulla politica e sulla politica dell'arte, nonché la capacità di suscitare risonanze emotive di una potenza devastante.

Quando da San Francisco sono tornato a New York, ho cominciato subito a consigliare Pereira a chiunque mi chiedesse il titolo di un bel libro da leggere.

Non c'è voluto molto perché lo riprendessi in mano anch'io. Quell'anno avevo appena pubblicato il mio primo romanzo, e avevo cominciato a lavorare al secondo. Questa volta avevo consapevolmente deciso di fare qualcosa di diverso, di abbandonare la molteplicità dei narratori e gli interludi saggistici in favore di un approccio piú sobrio, apparentemente piú semplice... e conciso. Pereira l'avevo incontrato inizialmente come lettore. Quando ci sono tornato su, mesi dopo, è stato come apprendista.

Ho cominciato cercando di capire come riuscisse a realizzare cosí tanto con cosí poche parole. Ma presto mi sono trovato a pormi un'altra domanda. Come poteva, pur affrontando temi cosí seri e pressanti, essere tanto difficile da mollare? Detto altrimenti, come poteva un romanzo cosí squisitamente letterario essere anche tanto avvincente?

La risposta l'ho trovata nella forma. Era la sua concisione, mi sembrava, a conferire a Pereira una leggerezza che controbilanciava la ponderosità del soggetto. Inoltre, essendo cosí breve, il romanzo riusciva a muoversi in fretta, o almeno a dare l'impressione di muoversi in fretta. Dopotutto, fra l'inizio e la fine il lettore non aveva da percorrere un tratto molto lungo.

Ma, per quanto la sua compattezza fosse inusuale, quello che in Pereira mi colpiva di piú era il fatto che si presentasse sotto le spoglie di una deposizione. Non si tratta di una tradizionale narrazione in terza persona in cui Pereira è un semplice personaggio. E nemmeno di una tradizionale narrazione in prima persona in cui Pereira ci racconta la storia del suo «io». Si tratta invece di una deposizione resa a qualcuno, in cui presumibilmente Pereira fornisce un resoconto delle sue azioni trascritto da qualcun altro.

Il risultato è misterioso, inquietante, ammaliante ed enigmatico, tutto in uno. Scegliendo la forma della deposizione, Pereira trasforma i suoi lettori in investigatori. Siamo destabilizzati e dobbiamo darci da fare. Un inatteso spazio interpretativo ci si apre davanti, ci alletta, ci seduce. Ci sentiamo come personaggi, cosa a cui non siamo abituati. E, se la mia esperienza è emblematica, ci piace molto.

La visione politica di Pereira diventa ogni giorno piú attuale, man mano che cresce l'impatto di ideologie assolutiste e stati paranoici sulle nostre vite. E le lezioni che il romanzo ci fornisce riguardo a come funziona la narrativa hanno un potere trasformativo. Sicuramente hanno cambiato me. Senza Pereira, il mio secondo romanzo non sarebbe stato scritto cosí. Per questo, e per i piaceri che mi ha ripetutamente dato, provo verso Pereira una profonda gratitudine.

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Pagina 125

Un inizio [2009]


Nel valutare il discorso del presidente Obama al Cairo, bisognerebbe tener conto di una semplice verità: nessun essere umano è solo un musulmano e nessun essere umano è solo un americano. Le persone che possono essere definite musulmane, o americane, sono anche donne e uomini; madri, padri, figlie e figli; amanti e medici e scrittori e insegnanti; povere e ricche; politicamente impegnate e apatiche; sicure delle proprie idee ed estremamente incerte. Sono, in altre parole, complesse, pluridimensionali, uniche e in continuo cambiamento. Osservate da vicino la massa compatta dei musulmani e vedrete una nube di un miliardo di atomi ben distinti.

La religione e la nazionalità sono solo due della miriade di dimensioni che costituiscono la nostra identità di persone. Come esseri umani, lo comprendiamo istintivamente. Quando qualcuno allunga una mano per tenerci aperta la porta di un ascensore che si sta chiudendo, di quella persona non notiamo il fatto che è musulmana, o americana, ma il fatto che è premurosa. E quando siamo spaventati, e soprattutto quando qualcuno specula sulle nostre paure e le manipola a proprio vantaggio, che tendiamo a ridurre gli altri a identità univoche e semplificate (nonché artificiali) enfatizzando la religione, la nazionalità o la razza.

Il discorso del presidente Obama è stato un gradito tentativo di ridurre la paura che abbiamo gli uni degli altri. Ha detto che i musulmani e gli americani collimano in sette milioni di cittadini americani musulmani, in secoli di storia condivisa e anche nella sua stessa famiglia. Ha richiamato l'attenzione sulle somiglianze tra la fede musulmana, quella cristiana e quella ebraica. Ha preso posizione contro la rozzezza degli stereotipi. Ha respinto l'idea che l'Islam e gli Stati Uniti siano in competizione fra loro. Ha chiesto rispetto reciproco, maggiore impegno e piú apertura.

Il suo discorso è stato un inizio promettente, una benaccetta presa di distanza dal terrificante atteggiamento del governo statunitense che l'ha preceduto. Ma perché sia qualcosa di piú di un inizio, è necessario che alle parole seguano i fatti. In quanto romanziere, do grande importanza alle parole, e sono riconoscente per molte delle parole che ho sentito dire al presidente Obama. Un cambiamento di tono cosí drastico può rendere possibili azioni prima impossibili. Ma saranno le azioni a decidere in che modo questo discorso sarà giudicato dalla storia.

Ci sono motivi di ottimismo. Il passo del discorso che piú mi è rimasto impresso è: «Gli Stati Uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani». Diventa sempre piú palese che il presidente Obama intende esercitare forti pressioni su Israele perché si raggiunga una pace duratura coi palestinesi. Se seguite da gesti concreti, parole come queste potrebbero avere un effetto positivo sulla vita di milioni di persone.

Anche il ritiro delle truppe dall'Iraq, la chiusura del campo di detenzione di Guantánamo e il ripudio dell'uso della tortura sono reali promesse di cambiamento, e conferiscono al discorso ulteriore peso, anche se sono tutti provvedimenti già annunciati in precedenza.

Invece altri passi del discorso di Obama, ad esempio quello sulla democrazia, mi sono parsi in contrasto con le sue azioni da presidente. L'Arabia Saudita e l'Egitto, due fra i piú stretti alleati degli Stati Uniti nella regione, sono nazioni decisamente non democratiche. Ed è stato ipocrita anche parlare di «evitare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente» come se fosse stata innescata dall'Iran, senza menzionare lo spiegamento di armi nucleari da parte di Israele.

Sono queste cadute a rivelare la portata della sfida che il presidente Obama si trova di fronte. Io lo considero un uomo eccezionale. E credo che il mondo sia fortunato ad avere lui come presidente degli Stati Uniti. Ma alla fine non è possibile sostenere nel medesimo tempo la supremazia della propria nazione e l'uguaglianza fra gli esseri umani. O il valore che si attribuisce alla vita di un iracheno o di un pachistano è uguale a quello che si attribuisce alla vita di un americano, oppure no. O il valore che si attribuisce alla vita di un palestinese è uguale a quello che si attribuisce alla vita di un israeliano, oppure no.

Gli Stati Uniti devono misurarsi con questa contraddizione. Si ergono in difesa della supremazia della loro nazione e allo stesso tempo dell'uguaglianza fra gli esseri umani. Ma la supremazia degli Stati Uniti si fonda in parte sulla negazione dell'uguaglianza di altri esseri umani al di fuori delle loro frontiere. Tale negazione nasce dall'enfatizzazione di un singolo aspetto dell'identità umana, la nazionalità, e suscita reazioni speculari che a loro volta enfatizzano un singolo aspetto dell'identità umana, ad esempio la religione.

Barack Hussein Obama è stato eletto presidente degli Stati Uniti, non presidente di un qualche governo mondiale. Ma il suo senso morale dev'essere radicato principalmente nella sua umanità, non nella sua carica. Dal suo discorso si evince che, nello spettro che va dalla supremazia della propria nazione all'uguaglianza fra gli esseri umani, lui si colloca piú vicino all'uguaglianza rispetto al suo predecessore. Questo è motivo di giubilo. Ma sospetto che la maggior parte dei musulmani non americani, come anche la maggioranza dei non musulmani non americani, nutra la speranza che, quando dice: «Facciamo agli altri quello che vorremmo che gli altri facessero a noi», il presidente Obama si renda conto della straordinaria portata del cambiamento politico che tale credo comporta.

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Perché non capiscono il Pakistan [2011]


Quasi dieci anni dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 e l'inizio della guerra contro l'Afghanistan condotta dagli americani, l'alleanza fra Stati Uniti e Pakistan traballa. L'uccisione di Osama bin Laden da parte delle forze speciali statunitensi lo scorso maggio ad Abbottabad ha irritato i funzionari di entrambe le parti: gli americani perché il luogo scelto da Bin Laden per nascondersi sembra una dimostrazione della slealtà del Pakistan; e i pachistani perché l'incursione statunitense ha violato in modo umiliante la loro sovranità nazionale.

Ted Poe, deputato repubblicano e membro della commissione Affari esteri della Camera dei rappresentanti, ha dichiarato: «A meno che il Dipartimento di stato possa dimostrare al Congresso che il Pakistan non ha dato ricetto al nemico numero uno degli Stati Uniti, il Pakistan non dovrebbe piú ricevere un solo centesimo di aiuti americani». Parole drastiche, considerato che per il Pakistan è stato stanziato ben piú di qualche centesimo. Ma quei soldi non sono bastati a comprare l'amore dei pachistani. Secondo un sondaggio del Pew Global Attitudes Project, solo il 12 per cento dei pachistani ha un'opinione favorevole degli Stati Uniti, e solo l'8 per cento sarebbe contento se le truppe statunitensi «restassero in Afghanistan finché la situazione non si sarà stabilizzata». Questo perché?

Per il Pakistan l'ultimo decennio è stato devastante. Il numero delle vittime di attentati terroristici nel paese si è impennato dalle 164 del 2003 alle 3318 del 2009, più degli americani uccisi l'11 settembre. Circa 35000 pachistani, fra cui 3500 esponenti delle forze di sicurezza, sono morti a causa della violenza terroristica e antiterroristica. Milioni di altri sono stati costretti ad abbandonare le proprie case a causa dei combattimenti. È difficile esprimere a parole quanto in profondità il paese è stato ferito. Nel 1989 io e i miei compagni della Scuola americana di Lahore (ragazzi provenienti da Pakistan, Stati Uniti, Canada, Svezia, Germania e Corea) andammo in gita scolastica nella splendida valle dello Swat girando in autobus per una settimana senza alcuna misura di sicurezza. Nel 2009 la battaglia per riprendere lo Swat conquistato dai taliban ha coinvolto due intere divisioni dell'esercito e ha fatto centinaia di vittime fra i soldati pachistani. (Analogamente, fino a pochi anni fa a Lahore non c'era mai stato un attentato suicida. Adesso se ne conta uno ogni tre o quattro mesi). Il governo stima che negli ultimi dieci anni le perdite economiche dirette e indirette derivanti dal terrorismo ammontino a 68 miliardi di dollari.

Dei 20,7 miliardi di dollari di fondi stanziati dagli Stati Uniti per il Pakistan fra il 2002 e il 2010, 14,2 miliardi sono andati alle forze armate. Sulla carta, l'assistenza economica ammontava invece a 6,5 miliardi, meno di un terzo del totale. In realtà la percentuale destinata a usi civili era anche piú bassa, probabilmente meno di un quarto, perché la cifra di 6,5 miliardi si riferisce agli «impegni» (la somma preventivata dagli Stati Uniti), non agli «esborsi» (la somma effettivamente elargita al Pakistan). Il Government Accountability Office statunitense riferisce che solo il 12 per cento del miliardo e mezzo di aiuti economici al Pakistan previsti per il 2010 è stato realmente erogato. Secondo i calcoli del Center for Global Development, indipendente dal governo, attualmente 2,2 miliardi di dollari di aiuti già preventivati e destinati ai civili non sono stati erogati, il che significa che negli ultimi nove anni il totale dell'assistenza economica realmente ricevuta ammonta all'incirca a 4,3 miliardi di dollari, ovvero 480 milioni all'anno. (Per fare un paragone, le rimesse annue dei pachistani all'estero ammontano a 11 miliardi di dollari, piú di venti volte tanto).

Il Pakistan è un paese grande, con 180 milioni di abitanti e un prodotto interno lordo pari a 175 miliardi di dollari. La media dell'assistenza economica annua statunitense corrisponde a meno dello 0,3 per cento dell'attuale prodotto interno lordo del Pakistan, ovvero 2,67 dollari per cittadino. Qui a Lahore, da Pizza Hut è il prezzo di una pizza monodose del diametro di quindici centimetri senza guarnizioni extra.

Perciò l'alleanza fra gli Stati Uniti e il Pakistan è di fatto un'alleanza fra gli Stati Uniti e le forze armate pachistane. Al momento, entrare negli Stati Uniti in quanto civile pachistano «alleato» (un'impresa erculea, considerate le sempre piú severe restrizioni sui visti) significa sottomettersi, all'arrivo, a ore di assurdi controlli supplementari. («Ha mai ricevuto addestramento militare, signore?») Nel frattempo, da un decennio a questa parte, una sfilza di ministri delle Finanze pachistani va a Washington a recitare il mantra «commercio, non aiuti». Una proposta sempre rifiutata con sdegno, nonostante un cablo del 2010 dell'ambasciata statunitense a Islamabad reso pubblico da WikiLeaks sostenesse con forza la necessità di un accordo commerciale col Pakistan, citando una ricerca secondo cui un simile accordo potrebbe creare in Pakistan un milione e quattrocentomila nuovi posti di lavoro, aumentando il prodotto interno lordo del paese dell'1,5 per cento all'anno e raddoppiando l'afflusso di investimenti esteri, e (dal momento che le esportazioni pachistane riguarderebbero perlopiú il settore tessile, che gli industriali statunitensi stanno già abbandonando) senza un «impatto percepibile» sul futuro dell'occupazione negli Stati Uniti.

Forse la grande maggioranza dei pachistani maldisposti verso gli Stati Uniti ritiene semplicemente che una pizza gratis all'anno non valga il prezzo di un conflitto che ogni anno provoca la morte di migliaia di suoi concittadini.

In The Scorpion's Tail, un'analisi dell'ascesa dei miliziani in Pakistan, il giornalista pachistano Zahid Hussain chiarisce che la responsabilità della violenza che affligge il paese va imputata a entrambe le parti dell'alleanza fra Stati Uniti e forze armate pachistane. A portare all'attuale bagno di sangue è stata una lunga serie di reciproci passi falsi.

Come Hussain ci ricorda, negli anni Ottanta gli Stati Uniti e l'esercito pachistano spalleggiarono congiuntamente la guerriglia afghana contro l'invasione sovietica, lasciando in eredità al mondo reti internazionali di jihadisti ben addestrati che prima non esistevano. Come già negli anni Cinquanta e Sessanta, per gli Stati Uniti l'obiettivo principale dell'alleanza con le forze armate pachistane era contrastare i sovietici. Per le forze armate pachistane, come sempre, l'obiettivo principale era ridurre la superiorità indiana in fatto di armamenti convenzionali. Gli Stati Uniti ottennero una forza combattente per procura, ovvero i mujaheddin (letteralmente: «persone che fanno la jihad»). Le forze armate pachistane ottennero l'accesso ad armi avanzate di produzione statunitense, fra cui quaranta caccia F-16. Troppo pochi, ovviamente, per respingere un attacco aereo sovietico su larga scala, ma abbastanza per rafforzare in modo significativo l'aeronautica militare pachistana rispetto a quella dei rivali indiani.

Col ritiro dei sovietici, gli Stati Uniti voltarono improvvisamente le spalle alla regione, lavandosene le mani delle milizie armate che avevano co-creato; nel vuoto di potere che ne segui, l'Afghanistan precipitò in una sanguinosa guerra civile fra ex mujaheddin. Gli Stati Uniti troncarono anche l'alleanza con le forze armate pachistane, interrompendo la fornitura delle parti di ricambio per le armi americane in dotazione al Pakistan e congelando la consegna di altri F-16 che il Pakistan aveva pagato ma non ancora ricevuto.

Le sdegnate forze armate pachistane videro seriamente compromessa l'entità del proprio arsenale convenzionale rispetto all'India. In compenso, come spiega Hussain, avevano maturato un'enorme esperienza nell'esercizio indiretto del potere attraverso i jihadisti, e avevano due opportunità per continuare a farlo. La prima era costituita dal Kashmir (il territorio diviso, a maggioranza musulmana, rivendicato nella sua interezza tanto dall'India a maggioranza indú quanto dal Pakistan a maggioranza musulmana), nella cui metà controllata dall'India, nel 1989, a seguito di elezioni truccate, era scoppiata un'insurrezione contro le truppe indiane.

La seconda opportunità era costituita dall'Afghanistan, dove i taliban sostenuti dal Pakistan, in gran parte di etnia pashtun, combattevano contro l'Alleanza del Nord sostenuta dall'India, in gran parte di etnia non pashtun e composta da tagichi, uzbechi, hazara e altri. Nel corso degli anni Novanta, scrive Hussain, «il movimento jihadista in Pakistan si concentrò esclusivamente sul sostegno alla strategia regionale dell'establishment militare pachistano: liberare il Kashmir dall'India e insediare in Afghanistan un governo pashtun».

Ma in seguito agli attentati terroristici dell'11 settembre, collegati a membri di Al Qaeda che vivevano sotto la protezione dei taliban in Afghanistan, gli Stati Uniti tornarono in forze nella regione e pretesero che il Pakistan scegliesse da che parte stare. La decisione del presidente Pervez Musharraf di schierarsi con gli Stati Uniti fu percepita da molti militanti come un «tradimento». Tuttavia Musharraf sperava di riuscire a circoscrivere il conflitto tra le forze armate pachistane e la loro furente progenie jihadista «seminando zizzania fra i militanti pachistani e gli stranieri di Al Qaeda».

Tale piano, che sottovalutava la portata della minaccia posta al Pakistan dai jihadisti, fu vanificato dalla strategia statunitense, una strategia che mostrò fin dall'inizio quelle che Hussain definisce due «pecche fondamentali». La prima fu l'incapacità di comprendere che, se non si fosse dato ascolto alle rimostranze dei pashtun - in particolare la loro richiesta di un'equa fetta del potere -, la guerra in Afghanistan sarebbe diventata «una guerra pashtun, e i pashtun in Pakistan sarebbero diventati [...] stretti alleati sia di Al Qaeda sia dei taliban».

All'inizio della campagna americana in Afghanistan, scrive Hussain, Musharraf «avverti gli Stati Uniti di non permettere che l'Alleanza [del Nord] entrasse a Kabul prima che venisse insediato un governo di unità nazionale». Ma gli Stati Uniti ignorarono il suo consiglio, e alla conferenza di Bonn del dicembre 2001 il pashtun Hamid Karzai venne nominato capo di stato provvisorio (e in seguito presidente) «a mo' di specchietto per le allodole, mentre l'Alleanza del Nord controllava i posti chiave del nuovo governo».

Spalleggiando l'Alleanza del Nord contro i taliban e poi evitando di concedere ai pashtun una fetta significativa del potere, gli Stati Uniti non si limitarono a prendere le parti dell'India nella guerra per procura fra India e Pakistan in Afghanistan, ma diedero la preminenza a una coalizione di etnie minori invece che al gruppo etnico maggioritario. Il conflitto era inevitabile e, poiché in Pakistan vivono il doppio dei pashtun che in Afghanistan, era anche inevitabile che si riversasse oltreconfine.

Per il Pakistan le conseguenze furono catastrofiche. Nel decennio successivo, come Hussain racconta in dettaglio, i tentativi da parte delle forze armate pachistane di separare i militanti «buoni» da quelli «cattivi» fallirono miseramente. Si svilupparono invece forti legami fra i gruppi radicali nell'Est punjabi del paese e nell'Ovest pashtun. A ogni mossa dell'esercito pachistano contro di loro, la frequenza e la ferocia dei contrattacchi da parte dei terroristi all'interno del Pakistan su obiettivi sia militari sia civili si intensificavano. E le vittime non hanno fatto che aumentare.


L'unico modo per uscire da questo vicolo cieco in cui una «guerra pashtun» che non si può vincere rischia di rendere impossibile neutralizzare i miliziani, suggerisce Hussain, è affrontare la seconda «pecca fondamentale» della strategia americana, ovvero «non rendersi conto del fatto che per combattere la minaccia posta dalle milizie ci vuole qualcosa di piú di una campagna militare», vale a dire un «accordo politico con gli insorti, che comporta colloqui diretti con i taliban».

Altrettanto cruciale, andrebbe aggiunto, è raggiungere un accordo politico sul Kashmir fra India e Pakistan. Questo conflitto che continua a covare alimenta la guerra per procura fra Alleanza del Nord e taliban in Afghanistan, spinge le forze armate ad appoggiare le milizie e contribuisce a subordinare i governi civili al potere militare (consentendo che in Pakistan si trascini una crisi della sicurezza quasi perenne). A quanto pare, nel 2007 le linee guida di un trattato sul Kashmir furono segretamente concordate, ma qualunque progresso si è interrotto da quando nel 2008 Musharraf ha perso il potere e Mumbai è stata colpita dagli attentati.

Da candidato alla presidenza, Barack Obama ha riconosciuto il ruolo centrale del Kashmir. «Di fatto, la cosa piú importante che dovremo fare riguardo all'Afghanistan è occuparci seriamente del Pakistan, - ha detto nell'ottobre 2008. - Probabilmente dovremmo cercare di facilitare una maggiore intesa fra Pakistan e India, e cercare di risolvere la crisi del Kashmir in modo che i pachistani si possano concentrare non sull'India ma sulla situazione con quei miliziani».

Una volta eletto, però, i discorsi sul Kashmir e sulla pace fra l'India e il Pakistan sono scomparsi dalle sue dichiarazioni ufficiali, mentre la politica che ha adottato in Afghanistan può essere definita «prima sparare, poi parlare». I bombardamenti coi droni nella cintura pashtun del Pakistan si sono intensificati, raggiungendo nel solo 2009, il primo anno del suo mandato, un numero piú alto (53 attacchi) che durante l'intera amministrazione Bush (42 attacchi), per poi aumentare ulteriormente nel 2010 fino a raggiungere i 118 attacchi. A queste incursioni teleguidate si è accompagnato il triplicarsi delle truppe statunitensi in Afghanistan, e di conseguenza il quadruplicarsi del tasso di mortalità fra i soldati americani, con piú caduti in ventinove mesi sotto Obama (974) che negli ottantasette sotto Bush (630).

Poi Obama ha cominciato a invertire la marcia. Nel suo discorso del 22 giugno 2011 ha annunciato che 33 000 soldati statunitensi (li ha chiamati quelli del suo «contingente», ma di fatto corrispondono al secondo dei suoi due contingenti di dimensioni all'incirca equivalenti) inizieranno a ritirarsi quest'estate e torneranno tutti a casa entro la fine della prossima. Dopodiché, ha detto, il ritiro procederà «a ritmo regolare» finché entro il 2014 il passaggio della missione «dal combattimento al supporto [...] sarà completo». Ha anche affermato che «gli Stati Uniti aderiranno a iniziative volte a riconciliare il popolo afghano, inclusi i taliban».

Il giorno dopo, in un'intervista rilasciata a Voice of America, Obama ha riconosciuto che «l'attenzione degli Stati Uniti si è spostata sul Pakistan» e ha dichiarato:

Ritengo che nel corso del tempo la relazione [fra Stati Uniti e Pakistan] sia diventata piú onesta, e non si può negare che sussistono alcuni motivi di disaccordo. E ovviamente l'operazione per scovare Osama bin Laden ha creato ulteriori tensioni, ma ero sempre stato molto chiaro col Pakistan sul fatto che, se l'avessimo trovato e avessimo avuto un'occasione, non ce la saremmo lasciata sfuggire. Credo che, se il Pakistan prenderà coscienza della minaccia posta alla sua sovranità dagli estremisti al suo interno, non ci sarà motivo di non collaborare.

Con Obama, il tono del messaggio sottostante rivolto al Pakistan è certamente molto migliorato rispetto al settembre 2001, quando, a quanto si dice, il vicesegretario di stato Richard Armitage minacciò di riportare il Pakistan «all'età della pietra» a suon di bombe se non avesse collaborato con l'imminente campagna americana in Afghanistan. Ma, implicita nelle parole di Obama, ed esplicita nelle sue azioni, resta immutata la volontà di intensificare l'intervento armato in Pakistan qualora la collaborazione si rivelasse insufficiente. L'alleanza fra gli Stati Uniti e le forze armate pachistane continua di conseguenza a essere una relazione fra parti avverse che si scrutano attraverso un mirino. Ciascuna accusa l'altra di mettere in grave pericolo i suoi cittadini, e ciascuna delle due ha le sue ragioni.

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