Copertina
Autore James Hamilton-Paterson
Titolo Sette decimi
SottotitoloIn viaggio per i mari
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2001 , pag. 338, dim. 140x205x20 mm , Isbn 978-88-7928-542-1
OriginaleSeven-tenths
EdizioneHutchinson, London, 1992
TraduttoreDonatella Zanetti Ongaro
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe mare , natura , viaggi
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Indice


l.  CARTE NAUTICHE E NOMI                       13
    I.                                          15
    II.                                         50
    III. Marginalia. Zetetica                   55

2 . ISOLE E CONFINI                             61
    I.                                          63
    II.  Oggetti del desiderio                  85
    III. Marginalia. Le isole britanniche       98

3.  SCOGLIERE E VISIONE                        103
    I.                                         105
    II.  Percepire il trasversale              122
    III. Marginalia. Souvenir                  135

4.  NAUFRAGI E MORTE                           139
    I.                                         141
    II.  Un punto tra le narici                163
    III. Marginalia. Mal di mare               175

5.  GLI ABISSI E IL BUIO                       181
    I.                                         183
    II.  I mostri interiori                    210
    III. Marginalia. Dare un'età alla terra    218

6.  PESCA E PERDITA                            227
    I.                                         229
    II.  «Quale bellezza c'era»                260
    III. Marginalia. Pesce pappagallo          270

7.  PIRATI E NOMADI                            273
    I.                                         275
    II.  Versi per Tecla                       297
    III. Marginalia. Piroscafi/stelle filanti  314

Ringraziamenti                                 319
Indice dei nomi e dei luoghi                   321

 

 

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Pagina 9

Sono perduto... queste le parole che il nuotatore in preda al panico rivolge all'universo luminoso in cui emerge disorientato sputando acqua. Dieci minuti prima, forse venti, aveva sistemato delle lenze e si era lasciato scivolare dalla fiancata della sua barchetta - un insetto di legno provvisto di due bilancieri di bambù - con una cima che, avvolta alla caviglia, lo collegava alla prua dell'imbarcazione. Era rimasto a faccia in giù nell'oceano, con il sole sulla schiena, a fissare i primi trenta di un migliaio di metri d'acqua. Ai tropici le acque di superficie sono inondate di luce. Gli passano davanti agli occhi le spicole lucenti, e l'ingioiellato fitoplancton color cremisi e blu elettrico che fluttua attorno al globo producendo infinitesime reazioni chimiche le quali, moltiplicate, aiutano tutta la vita terrestre. Se l'uomo scende di circa sette metri verso il fondo può guardare in su e vedere dal basso altre creature: un banco di aguglie (le cui lische sono verde brillante) così in alto che i loro dorsi sfiorano l'increspato specchio dell'aria, qualche raro pesce volante che salta e scompare. Il nuotatore riflette su questo speccbio, immaginando il cielo che pesa sul mare e il mare che sostiene l'atmosfera, curioso di ciò che può esattamente accadere nella superficie di interiezione. Se fosse possibile farne un ingrandimento, verrebbe in luce una ronzante epidermide di molecole? Molecole d'acqua e molecole d'atia così mischiate e sature di atomi in comune cbe sarebbe impossibile stabilire quale composto abbiano prodotto. A che punto queste particelle in movimento sono diventate onde? Il nuotatore si perde in questo bisticcio quantico, nelle sue speculazioni sui confini della materia, poi di colpo ecco la consapevolezza d'aver perso qualcosa. Sente una tensione alla caviglia, ma troppo lieve. La lunga cima tira verso il fondo, ancora stretta a un piede. E la barca che se ne è andata.

La prima reazione spaventata dell'uomo è quella di ruotare nell'acqua cercando nel frattempo di tenersi più dritto possibile: una volta, due volte, tre volte, perlustrando un orizzonte esclusivamente piatto. Niente. È ancorato con sei metri di cima di canapa all'oceano. Il suo viso coperto dalla maschera torna a guardare in basso come se per un errore miracoloso di collocazione potesse scoprire cbe la barca galleggia tranquilla in una quarta dimensione alcuni metri più in giù. Niente. La cima penzola come quei coralli chiamati fruste di mare, appena attorcigliata, i filamenti di fibra che spiccano ingranditi dalle terrificanti lenti fino al nodo in fondo. Il messaggio cbe il nodo trasmette attraverso l'acqua è «alla deriva».

Il nuotatore solleva di nuovo la testa nell'aria. È tutto chiaro. Può sembrare impossibile, ma la barca è sparita. «Sono perduto.» Terrorizzato, ansima e gira su se stesso, senza barca, senza terra, e con un dolore alle viscere provocato dalla paura per la situazione in cui si è venuto improvvisamente a trovare: tutto solo sospeso nell'Oceano Pacifico. La mente prova a esercitare la sua capacità di ragionare. Quanto lontano può andare una barca in un giorno senza vento? Inoltre l'altezza degli occhi è sì e no di quindici centimetri sul livello del mare; una barca il cui bordo libero è solo tre volte più alto può facilmente venire nascosta dalla più piccola increspatura del mare. Senza dubbio sta apparendo e scomparendo alla vista proprio mentre lui scruta l'orizzonte dalla parte sbagliata... Comunque nell'uomo sta subentrando una calma assoluta: un languore, un fatalismo le cui radici si estendono non fino all'inizio della sua vita, ma, come la cima alla caviglia, giù nel mare stesso. Le fibre attorcigliate, come antichi filamenti di DNA, lo collegano con profondità scomparse, con oceani primordiali che giacciono su fondi diversi. Se ora è perduto è perché era già perso prima ancora di metter piede su una barca, prima della sua stessa infanzia. Egli non ha una sua propria esistenza; è soltanto una piccola cavità nell'acqua con la forma dei due terzi inferiori di un uomo. Non c'è alcuna possibilità che la massa dell'oceano possa essere tenuta a lungo separata impedendole di riempire quella forma.

E tuttavia non è possibile arrendersi, pochi minuti prima essere sano e felicemente occupato e poi rinunciare alla vita come se si fosse ricevuta una ferita mortale. La paura ritorna a tratti. Mentre guarda il deserto liquido sotto un cielo splendente l'uomo è sottoposto a intervalli a scariche di adrenalina: questo non sta succedendo a me... «Eppure è così.» Poi, per un po', non è più così; e tra una sensazione e l'altra, valutando le possibilità di morte per annegamento, attacco degli squali o assideramento, nella mente del nuotatore si forma una nitida, vanagloriosa immagine della drammatica situazione. In mancanza di ogni coordinata, l'uomo vede la propria testa occupare un posto preciso. La immagina sporgere da tutta quella estensione curva di oceano blu, una piccola palla rotonda brunita dal sole come il pomello di ottone in cima a un mappamondo scolastico. Nel momento in cui si perde, egli diventa il punto cardinale attorno a cui ruota l'intera terra.

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Pagina 24

È divertente l'idea che il mare segua la crosta terrestre come una coperta imbottita distesa su un materasso bitorzoluto. È anche strano pensare che in una certa misura le profondità dell'oceano possano venire studiate dallo spazio. Mentre mangio un pasticcio di rognone e carne (la cambusa non fa alcuna concessione ai tropici), penso che tutto ciò lascia presumere che talvolta una nave debba andare in salita e discesa.

«Certo. Ma le 'salite' sono così lievi che non te ne accorgi. Parliamo di poche decine di centimetri in una lunghezza di chilometri. Sicuramente una nave deve andare spesso in salita, anche se non userà energie supplementari. Tutti i punti sulla superficie convessa hanno lo stesso potenziale gravitazionale, com'è ovvio.»

Per me non è ovvio, e non lo è di più dopo che Roger l'ha spiegato diverse volte in modi differenti. Mi dico che la fisica è umiliante non quando sconfigge l'intelletto ma quando confonde l'immaginazione. Questo mi fa sentire meglio. Dandosi per vinto, Roger torna a un atteggiamento del tipo «che tu ci creda o no, le cose stanno così», il più adatto per la sua platea di profani. Roger è un geologo e nel descrivere il pianeta dà l'impressione di parlare di una palla da spiaggia riempita - ma non del tutto - di acqua: instabile, plasmabile, che si incurva e si increspa e si gonfia. Non sono solo gli oceani a rispondere con le maree al sole e alla luna; lo fa anche la superficie della terra, alzandosi e abbassandosi due volte al giorno. Quando la luna è allo zenit la superficie viene sollevata di mezzo metro. Sembra inoltre che questa crosta elastica abbia una frequenza propria che la fa entrare in risonanza. Un geologo russo, S.L. Solovëv dell'Istituto di Oceanologia di Mosca, ha fatto di recente dei sismogrammi di microterremoti nel Mar Tirreno. Usando sismografi da fondo (derivati dai rivelatori di esplosioni nucleari destinati in origine a far rispettare il trattato contro gli esperimenti nucleari), Solovëv ha cominciato a captare una chiara oscillaziorie a bassissima frequenza che ha ritenuto essere quasi certamente la frequenza fondamentale della stessa crosta terrestre.

Quella notte vado a letto con la testa piena di meraviglie. Durante la serata ho anche imparato che i livelli del mare alle due estremità del Canale di Panama sono diversi di quasi mezzo metro, e lo stesso vale per il mare ai due lati della penisola della Florida. Ciò è dovuto a fattori quali l'effetto ammassante del vento e la forza di Coriolis. Sono però molto attratto dall'idea della crosta terrestre che vibra a una frequenza accertabile poiché ciò renderebbe, in teoria, possibile stabilirne la nota precisa. Certo, probabilmente non si avrebbe un tono puro per via dei tanti tipi di interferenze armoniche che vengono da irregolarità quali le catene montuose. E tuttavia dovrebbe essere possibile determinare la nota fondamentale del pianeta, la musica del nostro sferoide.

Mi meraviglio anche davanti all'idea della superficie del mare che si modella sulle pianure e le montagne, gli abissi e i bacini che si trovano sotto la nostra chiglia. In questo momento non è davvero difficile crederci, dato che stiamo rotolando nelle nostre cuccette a causa del beccheggio della Farnella, quasi stesse avanzando su un terreno impervio. Abbiamo raggiunto le pendici della dorsale Necker. Più di tre chilometri sotto di noi una catena montagnosa s'innalza ripida verso l'alto. Io sbatto di qua e di là nel mio guscio di legno e mi dico che è soìo un «interferenza».

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Pagina 28

Quanto è diversa la Farnella dalla vecchia Challenger! La vera differenza tra questo tipo di oceanografia e quella precedente non sta solo nel fatto che è cambiata la tecnologia e con essa sono cambiati i metodi per analizzare i dati. In verità, sono gli stessi scienziati che usano sensi diversi. Nessuno ascolta realmente quei segnali che ritornano carichi di informazioni da regioni inesplorate. Il laboratorio non è pervaso dai colpi sordi resi familiari dalle colonne sonore dei film di guerra sui sottomarini, ma dal clic e dal ronzio dei plotter e dagli scherzosi scambi di battute. Nessuno ora indossa le cuffie o ha uno sguardo assorto, lontano, attento nel silenzio circostante. Sebbene l'oceanografia moderna conti così tanto sulle tecniche acustiche, sono le macchine che ascoltano. Quando aziono su un quadro un interruttore che fornisce attraverso un piccolo altoparlante il vero rumore dei segnali, il tecnico americano Bob fa una smorfia di fastidio. «Quel suono mi dà il mal di testa», dice. «È così maledettamente monotono.» Mi astengo dal blaterare di complessità nascoste, dato che esse ci sono comunque; solo che sono scritte su un tabulato.

Il fatto di lasciare che i congegni elettronici sostituiscano i nostri sensi, mentre così tante informazioni si riducono a raffigurazioni visive, non può essere privo di conseguenze. In generale, le facoltà poco utilizzate tendono ad atrofizzarsi. È da tempo diventato un cliché chiedersi sulle pagine del «Lancet» o del «BMJ» se il vecchio medico di famiglia anteguerra abituato a osservare, ascoltare, annusare e perfino gustare potesse capire di più, sulla salute dei suoi pazienti, della sua controparte moderna che si affida alle tecniche di laboratorio e agli strumenti diagnostici. Forse, a occuparsi del mondo della natura con la mediazione dell'elettronica, gli scienziati di alcune discipline possono anche rischiare di perdere quanto hanno imparato. Ai nostri giorni, quanti naturalisti hanno l'occhio d'artista degli scienziati del diciannovesimo secolo che con tantaa passione disegnavano i loro esemplari sul campo? Non è solo la sensibilità ma la memoria stessa che si atrofizza, in quanto è richiesta meno attenzione nell'osservazione. La telecamera prende il posto dell'occhio, il registratore quello dell'orecchio, il computer quello della memoria. Un laconico dito sulla tastiera richiama i dati, un'immagine. C'è meno bisogno ora, meno tempo per i minuziosi pappagalli di Edward Lear o per gli uccelli americani di Audubon, per le centinaia di disegni fatti a bordo della Challenger o per schizzi anatomici dell'utero umano belli come quelli di Jan van Rymsdyck. E non si vede più l'utilità di scritti come quello in cui Philip Gosse descrisse la Cleodora, una piccola lumaca nota come la farfalla marina che galleggia negli oceani tropicali. «Una creatura di estrema delicatezza e bellezza... La parte posteriore sferica, pellucida e assai luminosa nell'oscurità, assume un aspetto straordinario allorché fa lampeggiare la sua laterna trasparente quant'altre mai.»

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Pagina 32

Ma questa superiorità da scolaro è troppo breve e incerta per essere soddisfacente. Inoltre è permeata di una certa tristezza. Un'altra cosa è caduta sotto lo sguardo rapace dell' Homo e come sempre la conoscenza non è neutrale. Per sua stessa natura questo progetto tiene sempre presente la questione della proprietà. Ogni cosa che troviamo laggiù appartiene agli Stati Uniti che, annettendosi la loro porzione di fondo marino, stanno in effetti aggiungendo 2,9 miliardi di acri ai 2,3 miliardi di acri di terraferma che già dominano: più che un raddoppio. Lasciando da parte ogni conseguenza militare, gli aspetti economici sono ben chiari. Ciò fa sì che la determinazione di tutti i confini della EEZ risulti di grande importanza, sia da un punto di vista scientifico che burocratico. Basta cominciare a prendere in considerazione ogni singolo dettaglio, perché si presentino ovvie difficoltà. In questo viaggio dovremmo tracciare la carta della EEZ attorno all'Atollo di Johnston. Le duecento miglia nautiche devono venire misurate dalla linea costiera dell'isola o dal suo centro? E ancora: se vengono misurate dalla linea costiera, il confine deve risultare un cerchio perfetto o deve seguire fedelmente ogni piccolo promontorio e insenatura con il risultato che sulla carta l'isola di Johnston apparirà come una macchiolina in mezzo a un profilo punteggiato della sua immagine enormemente ingrandita?

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Pagina 55

MARGINALIA. ZETETICA



Questa sezione ha costantemente fatto riferimento alla nozione di un globo, di uno sferoide schiacciato ai poli, per rappresentare il pianeta. E a ragione, dato che lo definiscono così non soltanto la fisica e la meccanica newtoniane, ma risulta tale anche visto dallo spazio. C'è stata per lungo tempo - ed esiste tuttora - una pseudoscienza chiamata zetetica secondo la quale la terra è in realtà piatta. I suoi seguaci sono conosciuti popolarmente come «quelli della terra piatta», un termine dispregiativo che implica l'idea di stupidità o di cieca brama di arcaismo. Questo dileggio non è esagerato, dato il tono ottuso con cui la loro tesi viene di solito esposta.

Nei casi in cui la zetetica presenta le sue prove nel modo più serio possibile, la procedura classica consiste nel citare una lista di enigmi matematici e di altra natura, che dovrebbero suscitare molti dubbi sulla teoria copernicana. Per prima cosa propone un modello della terra come un grande disco, un piano irregolare di spessore e circonferenza non specificati, al centro dell'universo, sopra la cui superficie il sole e le stelle girano in cerchi concentrici. La sua circonferenza non è determinabile perché il confine della terra conosciuta è costituito da una barriera di ghiaccio (che altri potrebbero chiamare il circolo polare artico e il circolo polare Antartico) oltre la quale «il mondo naturale è perso per la percezione umana. Fin dove si estenda il ghiaccio, come termini e cosa esista al di là sono domande alle quali nessuna attuale esperienza umana può rispondere». Le parole sono di un certo «Parallax», la cui seconda edizione di Astronomia zetetica è stata pubblicata a Londra nel 1873. Si può pensare che si tratti di S.B. Rowbotham, il quale aveva pubblicato un libro con lo stesso titolo nel 1849. Questa data ha una certa importanza perché coincide con un periodo di grande interesse e dibattiti sull'età della terra (vedi Marginalia nella sezione 5), e non sorprende affatto scoprire che «Parallax» è un convinto sostenitore del 4004 a.C. come data della Creazione.

Egli comincia descrivendo numerosi esperimenti con bandiere, aste e navi, atti a dimostrare che la superficie dell'acqua - e perciò anche il mare - non è convessa, e a tempo debito arriva al test del cannone. La sua tesi è che, se la terra fosse una sfera rotante, una palla di cannone sparata verticalmente in aria non potrebbe ricadere nella bocca del cannone stesso. Questa idea, atta a suscitare la meraviglia di uno scolaretto, equivale a quella di un bambino che immagina di precipitare dentro un ascensore rotto e di salvarsi all'ultimo momento (diversamente dalle altre persone nell'abitacolo) facendo un abile saltino un attimo prima di toccare il fondo del pozzo. A ogni modo l'enigma della palla di cannone impegnò le menti di alcuni anziani «scolaretti» durante la Guerra di Crimea, e il 20 dicembre 1857 il primo ministro, Lord Palmerston, scrisse al suo ministro della Guerra, Lord Panmure, per chiarire alcune questioni riguardanti l'artiglieria inglese. Egli sosteneva che una palla di cannone sparata in aria non seguiva esattamente la rotazione della superficie terrestre, ma in qualche misura rimaneva indietro. Chiedeva allora al ministro della Guerra se non fosse il caso di cambiare la tattica moderna tenendo conto dell'ovvio fatto che la portata delle armi variava secondo la direzione in cui facevano fuoco. Se venivano sparate verso est, nella direzione della rotazione della terra, le palle «volavano meno lontano, sulla superficie del pianeta, di una palla sparata verso ovest».

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Pagina 75

«Tiwarik» è un buon esempio di un'isola che ha ceduto a una specie di broglio, a un nuovo tracciato dei suoi confini culturali. Il suo errore consiste nell'essere stata troppo amorfa, troppo anonima, reclamata solo da un europeo nomade che per breve tempo aveva piantato in essa i segni della propria identità e non aveva voluto in cambio nient'altro che silenzio. Era egoistico, senza dubbio. E anche innocuo. Sarebbe una scorrettezza storica guardarsi indietro di un secolo o due e pensare con struggimento alle isole disabitate, inutili, che ingombravano i mari del mondo. Due secoli fa la mente delle persone era assai diversa, con desideri e aspettative diverse, in un mondo completamente diverso. Così almeno supponiamo. Comunque le isole hanno sempre esercitato un loro fascino e - a differenza dei deserti, per esempio - sono depositi di fantasia abbastanza ricchi da farle risultare un tantino chimeriche. Raramente si guarda un'isola senza immaginare di vederla sparire dietro a un banco di nebbia o a nuvole tempestose che alla fine si diradano per rivelare un oceano vuoto. Non sarebbe una sorpresa e, come in un sogno, non se ne avvertirebbe la perdita. Fino a poco tempo fa il Nord Atlantico era pieno di isole che ora sono scomparse. La loro è una perdita di altro tipo, dovuta alla revisione delle mappe, a una cartografia e a una navigazione perfezionate, ma anche ad aspettative cambiate.

Questi luoghi si sono librati sui confini del reale e del credibile per centinaia di anni. Non possono essere emersi dal nulla né hanno perduto completamente i loro aspetti misteriosi. Le più famose di tali isole erano Antillia (o Seven Cities), Brasil, St Brandan, Buss e Mayda. L'isola di Seven Cities è nata da una leggenda che parla di profughi cristiani, tra cui parecchi vescovi, scappati dalla penisola iberica prima dell'invasione dei Mori del 711 e arrivati in una terra sicura molto lontana, nell'Atlantico. Viaggiatori hanno sostenuto di averla visitata dichiarando di aver trovato molti segni religiosi, e hanno portato indietro della sabbia che era per un terzo pura polvere d'oro. Non sorprende che sia rimasto un posto di notevole interesse per i navigatori. Così l'isola Brasil, che era apparsa sulla famosa carta di Dalorto nel 1325 come un'isola grande e circolare davanti alla provincia irlandese di Munster. Nel 1498 l'ambasciatore spagnolo a Londra riferì in patria che «la gente di Bristol, negli ultimi sette anni, ha mandato ogni anno due, tre e quattro caravelle in cerca delle isole di Brasil e Seven Cities».

Seven Cities, nella mappa di Desceliers del 1546, si trovava in una posizione che oggi sarebbe compresa tra le cinquecento e le seicento miglia al largo di New York. Da Colombo in poi, i marinai avevano solcato l'Atlantico occidentale con sempre maggior frequenza e alla fine del sedicesimo secolo l'isola aveva cominciato a sprofondare, spostandosi verso sud e verso gli spazi dell'Atlantico centrale. Un secolo più tardi era scomparsa del tutto. Brasil è durata molto più a lungo - anche in modo imbarazzante, dato che secondo una fonte «ha continuato a rimanere nei pensieri dell'Ammiragliato Britannico fino alla seconda metà del diciannovesimo secolo».

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Pagina 95

L'esempio di «Tiwarik» e della sua grandiosa conversione da isoletta indefinita a fantasia di un uomo d'affari, saltando al di là di uno stretto per appropriarsi di un pezzo di terraferma, serve a ricordare che, se i confini fisici e legali vengono spesso fissati solo con grande difficoltà, le aree del desiderio non possono mai venire tracciate chiaramente. I sogni sono avidi di espandersi in qualsiasi spazio loro negato. Fantasie, sogni a occhi aperti e sogni veri e propri si destreggiano come possono, ma tutti si annidano nell'inconscio e condividono la sua logica. Proprio come le fantasie sessuali sono in grado di coinvolgere contemporaneamente una singola persona e tante, guardare ed essere guardati, agire e subire, così un'isola può essere vissuta come piccola e infinitamente grande, parte della terra e parte del mare, rifugio ed esposizione al pericolo, terra firma e capricciosamente instabile. È facile che, mentre si sciolgono, gli iceberg si sbilancino, ruotando spesso su se stessi senza preavviso. Il soprannome «Tiwarik» era preveggente perché la parola significa «sottosopra», e qualcosa di quel posto aveva sempre suggerito grandi possibilità di capovolgimento. Non avrei mai pensato di vederlo capovolto fino a quel punto.

Tutto questo sta a indicare un confine che non appare ancora su una carta ma è sempre più reale e sempre più prepotente. Se si considera la ex «Tiwarik» come un pezzo di terreno che è stato annesso da poco perché se ne avvantaggi uno «stile di vita» estraneo, allora probabilmente non può esistere un'isola per le vacanze. Una volta diventata luogo di villeggiatura, un'isola cessa essenzialmente di essere un'isola e si trasforma in un'estensione della terraferma, anche se lontana mezzo mondo. E non occorre che questa terraferma esista come paese sovrano. È sufficiente quel romanzesco luogo internazionale alla cui cittadinanza tanti aspirano o che tanti rivendicano: lo stato senza nazionalità delle BMW, del Chivas Regal e degli accendini Dunhill; lo stato del denaro, del piacere e dell'ozio, garantito contro le tarme e inossidabile. Poiché questo posto favoloso si trova per lo più a latitudini gelide, deve protendersi in lunghe, tentacolari penisole verso climi più caldi: «Terra di Vacanza» che comprende parti altrimenti inutilizzate di paesi minori che stanno al sole. Basta che li fornisca della sua attrezzatura standard (equipaggiamento subacqueo, sci d'acqua, deltaplani, barbecue sulla spiaggia, musica rock, bibite, prostitute). E d'improvviso non ci sono più isole, solo fette sparse di un unico impero unite l'una all'altra da qualcosa che è più solido dell'acqua. O almeno così sembrava, aspettando «il permesso» nel nuovo padiglione da spiaggia di quella che una volta era «Tiwarik». Questo edificio è ora un posto di frontiera. Secondo la legge filippina nessun privato può possedere i primi nove metri di riva dalla linea dell'alta marea media. Quel tratto è proprietà nazionale. Quindi chiunque può sbarcare sulla spiaggia del «Fantasy Elephant Club». Ma, mentre una volta, secondo una comune usanza civile, la gente era libera di girare per il resto dell'isola, ora deve sottoporsi al controllo di un funzionario dell'immigrazione in uniforme blu e armato di pistola. La spiaggia, da paradiso, si è trasformata in frontiera.

C'è un ultimo tipo di isola, un'isola la cui elusiva presenza guizza al limite del campo visivo, veloce come un pesce. È l'isola immaginaria fedelmente segnata sulla carta di ogni psiche, per lo più insospettata, raramente scoperta, ancor più raramente abitata. Affioramento dell'io, sta al di là di uno stretto insidioso che ne scoraggia l'acquisizione e, anche in giornate di limpido cielo azzurro, spesso risulta scomparsa, quasi stesse vagando per gli oceani in cerca dell'unico degno abitante. Poi, un giorno non comune, la persona non comune si sveglia e vede davanti a sé l'isola. In una mattina del genere non fa alcuno sforzo ad attraversare lo stretto, la pagaia che brilla al sole, finché la prua dello skiff tocca la spiaqgia.

E allora che piacere nel costruire una capanna, un essiccatoio per il pesce; nel ritornare all'acqua e alla luce, ai coltelli e alle punte di lancia, all'ordine e al silenzio! Donne avrebbe dovuto dire: Ogni uomo ha un'isola; il cerchione sospeso di una ruota che viene battuto in una cappella di cemento nella terraferma lontana non dovrebbe dirci niente di più di un pesce che si contorce e si agita fra le nostre mani, lasciando cadere nel mare fili di sangue color ruggine. Quei rintocchi che vengono dall'altra parte dell'acqua non ci portano novità, non dicono nulla che non sappiamo già, mentre risaliamo il promontorio per guardare il dolce crepuscolo che trabocca dalla linea dell'orizzonte ed eclissa l'oceano sottostante. Non è interessante addizionare i tramonti visti e quelli che potranno venire. Quelle morti, le nostre morti, non sono avvenimenti cupi, ma questioni di geologia. Siamo tutti, nel migliore dei casi, note in margine alla testimonianza fossile di un'altra èra. Tu, però, va' alla capanna attraversando una marea di lucciole. Accendi la lampada, cucina il riso. Non c'è nessun altro su quest'isola, non c'è mai stato e non potrà mai esserci. Fuori, le onde strappano verdi bagliori al plancton. La grande macchina minerale fa girare i suoi fluidi ingranaggi. La lucciola nella paglia del tetto ci attira nel suo campo gravitazionale.

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Era il canto della balena quello che i marinai udirono penetrare attraverso i risonanti scafi di legno delle loro navi e che essi scambiarono per le voci delle sirene che li chiamavano alla rovina. L'ascolto di quelle grida senza direzione e senza distanza al di là di pochi centimetri di quercia e rame deve aver suscitato negli uomini, distesi nelle loro cuccette notturne, il gelo della malinconia e della dissoluzione totali. E anche la percezione della loro inermità. La stessa cosa accade ascoltando i suoni della scogliera di notte. È qualcosa di più del sentirsi inermi e anche della vulnerabilità. E la sensazione che dei messaggi animali passino attraverso il corpo, come se, essendo formato di acqua per sette decimi, fosse trasparente.

Da principio la cosa è troppo snervante per permettere la concentrazione. Dopo un po', quando non è successo nulla di minaccioso per la vita, il ritmo della discesa e della risalita per respirare diventa tranquillizzante. Il mare è caldo. Con la morsa dell'acqua sugli orecchi e l'oscurità che preme contro la maschera, le condizioni si avvicinano a quelle dì una perdita sensoriale controllata, una tecnica disorientante e alla fine sconvolgente di moda qualche anno fa per le torture e gli interrogatori. Ma non è possibile un vero paragone. C'è troppa sensibilità fisica, troppo sforzo nel trattenere il respiro, nello stare sott'acqua invece che galleggiare, nel vedere e nel sentire. Si è in uno stato leggermente ipnotico, solo per pochi minuti (ma con un annullamento del tempo che rende impossibile misurare quei momenti). In sottofondo si avverte, continuo, il forte, innocente rumore di innumerevoli crostacei che stridulano con le chele, con le lamine cornee, con le mandibole e con chissà che altro. Molto saltuariamente tutto tace e nel silenzio che ne segue un brivido ci attraversa il corpo perché un milione di granchi e gamberi hanno sentito qualcosa che ha attirato la loro attenzione e che a noi è sfuggito completamente. Che cosa c'è là? O qua? Fanno così anche le rane delle risaie. Di notte avviano il loro motorino finché non gira a velocità costante. Va per un'ora, poi improvvisamente si ferma. Un colpo o due, ecco che alcune coraggiose cercano di avviarlo di nuovo, altre si accodano e il chiassoso motorino riparte. È la stessa cosa per i grilli.

Qui in acqua siamo sull'orlo di qualcosa: dell'annegamento, della paura, della comprensione. La stessa enorme città invisibile sembra sempre sul punto di sparire: è così delicata e la sua vera natura così sfuggente. È un posto la cui peculiarità è tanto più grande di quel che possiamo afferrare quanto più scrupolosamente cerchiamo di identificare ogni gamberetto, ogni pomadaside, il tenue urto - come di panno sbattuto - di un pesce di considerevoli dimensioni che si sottrae al combattimento da qualche parte, vicino a noi. Ma anche noi siamo più strani di quel che immaginiamo. Stiamo qui sospesi sul fondo con granuli di fuoco freddo che ci formicolano attorno mentre creature e correnti sommuovono i dinoflagellati nella luminescenza. Siamo qui sospesi, indiscrete forme di vita a base di carbonio, sapendo che ogni atomo di carbonio ora nel nostro corpo si trovava una volta all'interno di una stella. Per un istante ci dissolviamo, restiamo senza forma, diventiamo soltanto il punto in cui i tre assi che determinano questa zona di confine a tre dimensioni si intersecano. Ecco le tre dimensioni di una frangia corallina. Orizzontalmente, essa segna un confine tra il mare e la terra. Il terreno che emerge con la bassa marea e che sta esposto per ore al calore del sole nutre una varietà di animali marini in grado di sopravvivere fuori dell'acqua e di resistere a un'ampia escursione termica. Verticalmente, il fronte marino della scogliera arriva a pochi centimetri dalla superficie e può sprofondare per un chilometro in una scarpata scoscesa, contraddistinta all'inizio da un costante mutamento di colori e forme di vita. Trasversalmente, una scogliera esiste a lunghezze d'onda diverse da quelle che riusciamo a percepire. La corte segreta con il suo tumulto, le chiacchiere e la retorica, i colori e gli odori mai immaginati, è nascosta in grandi luminose sacche dello spettro elettromagnetico a noi inaccessibili, in suoni che non possiamo sentire, in feromoni che le nostre narici non possono scoprire. Questa consapevolezza ci fa soffrire, creature marine che eravamo un tempo, come per un paese che abbiamo perso al di là di una frontiera che possiamo appena distinguere. Ci ritroviamo con i sensi limitati e annebbiati. Ci ritroviamo anche a ricorrere a gesti ormai fossilizzati. Apro la bocca sott'acqua, per sentire meglio. Funziona in terraferma, ma non in modo evidente sotto il mare, dove una percentuale di suono ci raggiunge per conduzione diretta attraverso le ossa del cranio. È il gesto di una creatura con una memoria filogenetica, quasi che qualche progenitore con una diversa conformazione otofaringea avesse aperto la bocca per far entrare e uscire messaggi azionando un insieme di ossa in fondo alla gola. Forse rintraccio anche oscuramente la sopravvivenza di un frammento del mio perduto solco laterale. Un giorno, alla luce dal sole, noto dei piccoli pennacchi di sedimento che tremolano davanti a un buco ai piedi di un masso corallino a nove metri di profondità. Non so quale particolare verme o gamberetto sia occupato a scavare là dentro, ma avverto l'improvvisa urgenza di sentire quel minuscolo sbuffo e di osservarlo. Metto le punte delle dita a un centimetro di distanza ma non riesco a percepire nulla. Senza pensare, mi sposto con un certo impaccio fino a sistemarmi con la testa vicino al buco. Gli sbuffi si fermano per pochi secondi, poi ricominciano. Mi muovo delicatamente quasi a baciare il buco e posso avvertire le piccole onde di energia provocate dalle pinne o dai pedipalpi della creatura nascosta che si frangono contro il mio labbro superiore. È la versione sottomarina di quel moto inconscio che induce la gente a premersi la biancheria lavata sotto il naso per sentire se è asciutta: ex infanti la cui sensibilità tattile all'umidità e al movimento era destinata al seno.

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UN PUNTO TRA LE NARICI



La frequente fantasticheria del mare che si ritira o sparisce mettendo a nudo il fondo dell'oceano indica il suo stretto legame psicologico con il sentimento della perdita. Da ciò deriva una particolare malinconia e un senso di inquietudine. Tra gli attributi del mare ci sono la capacità di nascondere, quella di sostituire il tempo e il potere di distruggere.

La capacità dell'oceano di nascondere non si estende solo alle cose che possono cadere fuori bordo o alle persone, a navi e carichi che da sempre l'acqua ha ingoiato. Gli abissi possono celare l'ignoto e il mostruoso ma anche i posti che non sono mai stati dimenticati del tutto e che qualcuno continua a cercare: Atlantide e quei mondi lontani la cui ostinata presenza ha a che fare più con il desiderio che con la fantasia di un cartografo. Questo, non tanto per sminuire lo spazio immaginativo che occupano, ma per chiedersi se la futura identificazione di una parte particolare di fondo marino con la terra leggendaria, le Isole della Felicità o Mayda stessa, non potrebbe, dopo l'iniziale euforia del riconoscimento, lasciare insoddisfatti i suoi sostenitori e perfino costringerli a cercare qualcos'altro su cui indirizzare la loro ricerca.

C'è un bisogno del mito della terra perduta che spesso ha un significato utopistico o aureo. L'interesse per un'Atlantide sommersa crebbe quando l'incremento delle esplorazioni e dei viaggi tolse di mezzo aree di terraferma che potevano ancora plausibilmente nascondere il Chersoneso Dorato, Ophir, l'Eldorado e le varie Città Perdute di civiltà più alte.

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Così le città costiere hanno un'aria diversa da quelle interne, nel loro perenne esitare tra il continuare il viaggio o il tornare indietro. Trasudano precarietà, come se tutti lì fossero preda di questa cruciale indecisione. Nemmeno i loro fabbricati ne sono immuni, quasi le case stesse sapessero che prima o poi subiranno l'erosione o si troveranno arenate nell'entroterra. Il vecchio porto di Dunwich, antica capitale e centro dell'East Anglia, cominciò a franare in mare a metà dell'undicesimo secolo e ora giace sotto le onde. E dall'altra parte del Mare del Nord ci sono villaggi olandesi di pescatori a molti chilometri dalla costa, separati dal mare dalla costruzione della Grande Diga del 1932. (Tarsis è oggi sepolta sotto le paludi nell'entroterra della foce del Guadalquivir, a nord di Cadice. Ai tempi di Giona e molto prima, era stata un punto franco su una baia che si estendeva quasi fino a Siviglia.) In nessun luogo l'idea di una città non duratura è più evidente che sulla costa, dove nel corso dei secoli il mare traccia e ritraccia i suoi margini.

Forse è per questo che in Gran Bretagna molti anziani emigrano verso il mare per aspettare la morte. Perché non sia troppo ovvio che essi si lasciano attrarre dal precario per abituarsi alla propria fine, le città di mare sono spesso costruite in modo da apparire solide e sono situate in posti rinomati per le proprietà terapeutiche. Tuttavia, ritirarsi a Bournemouth vuol dire ammettere di essere in via di transizione. Eccoli lì, le sedie sistemate in file interminabili sul lungomare, passeggeri in un viaggio interno. Forse per qualcuno si tratta di un ritorno a una cosa profonda e originaria che è rimasta da sempre sopita dentro di loro. È la morte, quella che si stende davanti a loro all'orizzonte: una grande distesa sotto la quale, assolti, scivoleranno. Cosa c'è che li fa stare lunghe ore a guardare? Il flusso costante delle acque possiede qualcosa che incanta l' Homo, sebbene non sia chiaro se parli di origini umane o di destino individuale. L'acqua in movimento ha in sé un fascino tanto acquietante quanto imperioso. Forse tutti i movimenti ininterrotti, siano essi le fiamme di un focolare, la folla per strada, gli alberi nel vento o il tremolio di uno schermo televisivo possono catturare la mente e metterla in uno stato di introspezione. Di tutte queste cose, solo l'oceano non si muove mai senza una implicita gravità, anche nei giorni sereni e spensierati. Nessun tempo è inappropriato per una sepoltura in mare.

La morte come viaggio è un traslato comune, e il mare sollecita l'imbarco sia che i morti siano letteralmente mandati alla deriva in una barca con pochi beni personali sia che vengano cuciti dentro un lenzuolo funebre con l'ultimo punto fissato alla cartilagine tra le narici e affidati agli abissi. Alcuni di essi sono, ancora in permesso a terra, sistemati sulle panchine comunali lungo un molo. Prima che la vita se ne vada con la marea, non è detto che le schiere degli anziani in attesa siano tristi, dato che la loro scelta consapevole, nel migrare verso questi ultimi luoghi di soggiorno, è stata tutt'altro che malinconica. Rosei ricordi di feste e vacanze giovanili a Blackpool, Margate e Skegness destano speranze di un dignitoso ringiovanimento. Dal ritiro in località rivierasche un'intera vita di desideri estivi inappagati potrebbe trarre un vantaggio o una tregua. Tutto viene razionalizzato con discorsi sul clima più mite e sanzionato dagli ordini del medico. Di sicuro, però, anche una mente in pensione sa che per la maggior parte dell'anno non è estate. Nei lunghi mesi invernali, quando fa buio, quando invisibile sotto la passeggiata un mare nero batte con nocche perentorie sulla ghiaia, è tempo infine di andare.

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I miti del viaggio spaziale includono visite a mondi che si trovano a uno stadio di evoluzione anteriore al nostro, spesso immersi in «oscure» profondità spaziali come se nella fantasia dei soggettisti lo spazio corrispondesse a un vasto oceano in cui le regioni più sviluppate tendono a essere quelle che dalla terra appaiono più luminose. (Rigel Concourse, nelle storie di Jack Vance, ne è un buon esempio, poiché Rigel è una bianca, pura stella di prima grandezza. È proprio il posto dove ci si aspetta di trovare i nostri discendenti pionieri dello spazio, piuttosto che attorno a qualche cupa cefeide variabile nelle galassie.) Le creature che s'incontrano più frequentemente nelle opere sullo spazio in ufologia sono comunque di un'intelligenza superiore alla nostra e, con il declino della paranoia americana nei riguardi del comunismo, sono sempre meno portate al rapimento e al lavaggio del cervello. Oggi gli alieni possono avvicinarsi al divino, cioè presentarsi come esseri da cui potremmo acquisire conoscenza, miglioramento intellettuale, la luce stessa, prima che sia troppo tardi.

La mitologia degli oceani del nostro pianeta è l'opposto di tutto questo, tanto che il mondo inferiore talvolta non sembra nemmeno far parte della terra. Vale la pena di esaminare per un momento la cosa dal punto di vista popolare perché capiremo come il concetto «abissi» dipenda da un insieme di idee associative. Dato che è molto improbabile trovare spiegazioni man mano che si scende, ci aspettiamo di incontrare creature sempre più mute. Inoltre - esattamente al contrario della realtà - immaginiamo che vicino al fondo siano ancora più grandi, più terrificanti nella loro forza bruta e più ripugnanti... In una parola, mostri. Creature notevolmente simili a quelle da incubo dell'inconscio: orrori tentacolari che avvolgono le loro vittime e le portano giù in tane dove, a tempo debito, comincia l'azione della terribile bocca che lacera e degli occhi sgranati. Le stesse fasi del sonno sembrano suggerire una discesa verticale nell'annullamento, dato che i livelli più profondi del sonno sono quelli dell'oblio. I livelli del sogno, come gli strati dell'oceano che possono sostentare le forme di vita più grandi, si trovano vicini alla superficie. A ogni modo, calandoci nel mare ci aspettiamo di incontrare più il mostruoso che il divino. Gli dèi sono l'ultima cosa che ci immagineremmo di trovare negli abissi. Non è un caso che anche gli uomini che incontriamo tendano a essere persone come il Capitano Nemo, sinistro in qualunque modo ne interpretiamo il nome. Astronauti hanno sostenuto di aver avuto incontri ravvicinati con un Essere Supremo, cosa mai riferita da chi si immerge a grandi profondità. Non c'è di che sorprendersi. Gli esseri superiori sono per definizione in alto, mentre solo gli inferiori possono celarsi in basso. Gli abissi ci ricordano anche il luogo da cui supponiamo di essere venuti in origine, ciò che ci siamo lasciati alle spalle. Ritornare alle nostre radici genetiche piuttosto che all'idillio soleggiato dell'Eden è una cosa inquietante. Non abbiamo abbandonato la nostra oscurità ancestrale per trascinarci verso la luce?

No; non è così. Il mare, per i suoi abitanti, non è un posto buio. Con occhi straordinariamente acuti che percepiscono bassi livelli di luce e complessi segnali di bioluminescenza e con una sensibilità ai suoni, agli odori e alle minime differenze di pressione molto più vasta della portata dei nostri sensi, parlare in puri termini umani di «luce» e «buio» è inutile come fare ipotesi su ciò che vede un pipistrello. Un pipistrello «vede» con gli orecchi, con grande precisione e velocità. In breve, non esiste una cosa come l'oscurità. Esiste solo nella percezione di chi osserva. La vista non dipende dalla luce.

A queste «opposizioni» e alle loro associazioni (su/giù, sopra/sotto, superiore/inferiore, paradiso/inferno) si dovrebbe aggiungere tensione/cedimento, dove il primo termine di solito implica aspirazione verso l'alto e accrescimento e il secondo fa venire in mente un sentiero in discesa che porta ai bassifondi, un Jack che trova il suo livello mentre non è ancora annegato. «Cedimento» viene anche usato per descrivere i malati nel letto di morte, come se il loro problema fosse solo la debolezza e non potessero più resistere alla forza di gravità che le trascina in basso verso la tomba. Che possa esserci qualcosa di più sottile di queste coppie di opposizioni è suggerito dalla parola latina altus, che vuol dire sia alto sia profondo (come in italiano, dove alto riferito all'oceano significa profondo, accezione che resiste anche nel'espressione inglese «the high seas»). Almeno nell'inconscio freudiano tale idea non implica una contraddizione, dato che non ci sono contraddizioni nell'inconscio. Asserzioni del tutto antitetiche e che si annullano reciprocamente possono coesistere senza difficoltà.

Forse la cosa meno strana del mare è il grado in cui ha conservato la sua forza fisica, la sua sonora e raggelante grandiosità, la sua fusione di altezza e profondità, di abissi di spazio e di tempo. Qualunque cosa venga fatta agli oceani, per quanto esplorati e sfruttati, perfino saccheggiati e inquinati, il mare ci sorprende con la sua resistenza alla contaminazione. A questo riguardo assomiglia alla luna, che sembra sempre la stessa anche se sappiamo che sulla sua polvere ci sono leggere impronte di stivali che hanno giocato a golf. Il fatto è che quella su cui sono atterrati gli astronauti era una luna diversa, come è un mare diverso quello che il GLORIA assorda con i suoi segnali sonar e il cui sedimento viene raschiato da apparecchiatura controllate a distanza che raccolgono ciò che devono raccogliere. Né Beebe né Piccard né Ballard hanno mai visitato il Mare. Essi hanno raggiunto varie profondità, perfino il fondo dell'oceano, ma portavano il Mare dentro di loro. Non è uno spazio al quale si possa accedere fisicamente. Tuttavia, un'aura di mistero, non importa quanto tenue, avvolge ancora gli oggetti riportati in superficie, anche le bottiglie di birra e le tazzine di polistirolo calate dai curiosi. Alla gente piace toccare le cose che provengono dal fondo marino, fossero anche cassette piene di noduli. Prova piacere a sentire il freddo dell'eternità prima che svanisca, proprio come ama maneggiare le meteoriti e i sassi lunari. Se l'oceano scomparisse domani, il suo mistero non verrebbe scoperto nel complesso delle creature che si dimenerebbero, morirebbero e si decomporrebbero sul suo fondo. Il mistero si nasconde da qualche altra parte, come sapeva bene Tennyson quando sfruttò la sua sublime malinconia per esprimere il dolore per la morte di Arthur Hallam: «Se ne va da profondo a profondo».

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I mercati dell'Asia Orientale vengono tuttora riforniti con i salmoni pescati illegalmente nelle acque dell'Alaska. La flotta con reti alla deriva cattura circa cinquantamila tonnellate di salmoni all'anno, e l'Earthtrust ha stimato una pari quantità di «dispersi», feriti e «fuggiaschi» moribondi. Se ciò può accadere dentro la EEZ americana, non è difficile immaginare cosa succede nelle acque internazionali. C'è una sola Zona Regolamentata nell'intero Pacifico, quella della regione centrale per la pesca dei calamari rossi. Le flotte cacciate dalle acque nazionali si sono radunate lì, ma non rispettano molto le regole in quella zona vasta e non pattugliata. Per un accordo internazionale i confini di tale area protetta avanzano verso nord mensilmente da giugno a settembre per tener conto della stagione della riproduzione, ma spesso le barche pescano fuori dei limiti stabiliti.

Ogni tanto è possibile uscire dalla «inesorabile disperazione» di Bertrand Russell per una breve vacanza. Alla fine del 1991, sotto una forte pressione internazionale, il Giappone annunciò finalmente la cessazione di ogni attività di pesca alla deriva entro il 1993, una decisione che dovrebbe portare al divieto mondiale. Grande giubilo, dunque. Ma coloro che hanno il senso della storia continueranno a essere pessimisti finché una contrastata industria da miliardi di dollari continuerà a sviluppare una tecnologia destinata a colpire con precisione specie particolari, con il pericolo della loro eliminazione (come nel caso del maestoso tonno comune). Saranno fissate ancora una volta delle «quote» da organismi internazionali dal nome altisonante, che non possono dire quante perdite ha già sostenuto l'oceano né indovinare cosa è ancora in grado di sopportare. Se il Mare del Nord, circondato com'è da una comunità di nazioni sviluppate con accesso alle migliori informazioni scientifiche, può venire sistematicamente distrutto per conflitti di interessi e vantaggi politici, che reale speranza c'è per il Pacifico? Chi controllerà le sue enormi aree non reclamate e chi imporrà la legge? Sotto la virtuosa bandiera di un abuso corretto, ci sarà probabilmente un cinico indebolimento delle leggi e un'evasione dei controlli, proprio come succede nel piccolo stagno del Mare del Nord. I problemi resteranno in sospeso per anni come reti vaganti con i loro carichi putrefatti.

Intanto, anche persone non direttamente interessate alla pesca hanno notato un declino nella fauna del Pacifico. Come disse un pomeriggio a bordo della Farnella un geofisico che scrutava dal parapetto la vuota distesa dell'oceano su cui galleggiava un grosso foglio di plastica macchiato di catrame, mentre otto o addirirrura soltanto cinque anni prima nella stessa acqua avrebbe giocato un banco di delfini: «Noi non meritiamo questo mondo». I rifiuti alla deriva, la mancanza di ogni segno di vita per due settimane, eccettuati pochi pesci volanti e il raro, triste albatro, costringevano tutti a fare un bilancio. Homo sapiens sapiens. In questo secolo soltanto abbiamo massacrato mille volte più gente di tutti i Gengis Khan della storia messi assieme. Per giunta abbiamo devastato il nostro pianeta. Niente male, per cento anni soltanto. E che cosa abbiamo avuto in cambio? Attrezzature per rilevare il fondo dell'oceano e una nuova, coraggiosa razza. Avevamo il Tipo Lambicco, ora abbiamo il Tipo Consumatore. Homo supermercatus.


La caratteristica della razza umana di raccogliere prima e di valutare le conseguenze dopo e senza fretta è chiaramente un'eredità genetica. Diversamente dai felini, che mangiano la quantità loro sufficiente e poi se ne vanno, noi siamo più vicini ai canidi come le volpi, che uccidono tutte le galline di un pollaio anche se non le mangeranno né le terranno di riserva per il giorno dopo. C'è qualcosa di irreparabile nel miscuglio di brutalità e pietà che caratterizza l' Homo, una contraddizione insanabile.

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C'è un particolare sentimentalismo riguardo alla caccia che improvvisamente non mi piace affatto, forse perché una volta l'ho condiviso anch'io. È quello che parla di una profonda, quasi mistica «intesa» tra il cacciatore e la preda: una sorta di reciproco rispetto quando dopo ore di sforzo il cacciatore è più o meno felice che la sua selvaggina scappi via o, al contrario, questa sembra quasi contenta di morire. Probabilmente trae la sua origine dalle frottole della cavalleria e dal codice della tenzone. Ciò che conta nella caccia è vincere. Quando la novità dell'esperienza si esaurisce e la tecnica di base è ben acquisita, resta il compito di procurarsi il cibo il più velocemente ed efficacemente possibile perché ci restano molte altre cose da fare, come raccogliere la legna da ardere, costruire un'altra fiocina, riparare un essiccatoio sgangherato o semplicemente starsene seduti sotto un albero ombroso. A questo livello cacciare è procurarsi il cibo, un lavoro necessario e spesso piacevole. È una cosa ben diversa da quei grandiosi, allegorici duelli tra vecchi e il mare o tra capitani brizzolati e balene bianche. Tuttavia, pescare giorno per giorno davanti allo stesso tratto di spiaggia e, dove c'è una lunga barriera corallina, davanti agli stessi gruppi di coralli vuol dire vedere dal di dentro l'impatto della pesca locale. Oggi preferisco nuotare al di là delle scogliere, uscire di notte e, anziché uccidere i pesci pappagallo nelle loro tane o le triglie addormentate sulla sabbia, aspettare che arrivino le specie pelagiche più forti come i pampano. All'estremità del fascio di luce della torcia si intravede per un secondo una pallida forma. Potrebbe essere solo l'immaginazione o un «guasto» momentaneo della retina (la pressione provoca strani fenomeni nella visione notturna). Vale però la pena di gettarsi all'inseguimento; si tiene fissa la luce sul punto in cui dovrebbe essere il pesce e si scatta con l'aiuto delle pinne di compensato. Di notte la maggior parte dei pesci è immobilizzata dal buio o scompare con un colpo di coda; i pampano sono strani per il fatto che sembrano lasciarsi cacciare, in parte allarmati e in parte attratti dalla luce. Potrebbero benissimo scappare, ma spesso dopo un inseguimento estenuante si riesce a raggiungerli. Alla luce sono rotondi e argentei, grandi circa come un piatto da portata, e al contrario della maggior parte delle specie coralline hanno carne buona. La tecnica consiste nel tenere la torcia col braccio teso e di lato. Come tutti i pesci lateralmente piatti, il pampano si gira in modo da presentarsi all'assalitore di taglio, ma l'assalitore ha previsto la mossa e per un attimo il pesce gli presenta il fianco. Se la mira è buona e il fucile funziona quell'attimo dovrebbe bastare. La portata non è mai superiore a due metri o due metri e mezzo. A distanze superiori, la fiocina non penetra. Il limite effettivo di visibilità con una torcia a due batterie è il doppio di quella distanza. Un paio di pampano (perché se ce n'è uno ce ne sono altri) bastano. In una buona nottata si può andare, tornare e preparare il fuoco in quaranta minuti.

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«QUALE BELLEZZA C'ERA»



La popolarità del concetto di tutela ambientale ha contribuito a promuovere l'ipotesi che dovesse esistere un ideale «equilibrio della Natura» prima che l' Homo cominciasse a sconvolgerlo. Si tratta di un'assurdità, naturalmente. La storia della vita sulla terra è piena di episodi come le grandi estinzioni del Permico alla fine del Paleozoico. Con esse non solo scomparvero le onnipresenti trilobiti, che erano sopravvissute dal Cambriano, ma anche circa il 96 per cento di tutte le specie viventi di fauna.

Se c'è una triste conseguenza della fascinosa e seria teoria «Gaia» di James Lovelock, è che si presta a essere saccheggiata da ogni sorta di pseudoteorici e usata per sostenere le loro barcollanti affermazioni. Così, l'idea che la biosfera potesse autoregolarsi in modo da mantenere le condizioni favorevoli alla vita è stata travisata fino a trasformare il pianeta in una senziente Madre Terra. Antropomorfizzar«la» nell'atto di compiere le «sue» battaglie per mantenere un antichissimo equilibrio di fronte al saccheggio dell' Homo ha qualcosa di deliberatamente riparatorio, perfino di nobile. In questa interpretazione «Gaia» ci appare come una sorta di padrona santificata, che fa l'impossibile per accontentare i suoi ultimi inquilini rivelatisi rozzi e vandali, intenti a rovinare la sua deliziosa dimora. Una simile visione è assurda e non scientifica, e non deve essere imputata a James Lovelock. È quello che succede quando delle persone piene di Angst, sensi di colpa e visioni moralizzate della biologia, adattano un'ipotesi seria ai loro schemi. Loro si occupano di una dea o forse di un vecchio tiranno che una volta lasciò morire tutti i suoi inquilini animali tranne il quattro per cento. Noi ci occupiamo di evoluzione. Le condizioni su questo pianeta cambiano continuamente, ed è sempre stato così. L'estinzione e l'evoluzione delle specie è un flusso alternatamente mutevole e costante proprio come la stessa crosta terrestre è plasmabile sotto l'effetto delle eruzioni vulcaniche e della forza di attrazione dei corpi celesti. L' Homo sapiens sapiens è solo una delle trenta milioni di specie stimate, ed è possibile sostenere che, essendo una creatura «naturale», diciamo, come la stella marina corona di spine, Acanthaster planci, ogni risultato della sua presenza, non importa quanto devastante, è altrettanto «naturale».

Le motivazioni della campagna pubblica per l'ambiente sono spesso fumose, il che equivale a una disonestà di principio. Alle soglie del 2000, si ha la sensazione che l'intervento sull'equilibrio della biosfera da parte dell'Homo abbia fatalmente compromesso ogni cosa. L'astuta scelta televisiva delle specie di cui parlare, cetacei e grandi mammiferi come balene, delfini, elefanti, panda, è riuscita in realtà a evidenziare l'improvvisa consapevolezza della minaccia dell'Homo verso se stesso. Negli ultimi dieci anni si è avuto un impressionante aumento del numero di programmi televisivi e radiofonici, articoli di giornali e pubblicazioni scientifiche dedicati alle minacce fisiologiche e psicologiche all'esistenza dell'uomo. Per quel che riguarda le prime, si continua a ripetere che egli è minacciato sia dai suoi stessi veleni, effluenti e loro conseguenze, sia dal suo sconsiderato sfruttamento di delicate strutture del globo. Nelle seconde, si suggerisce in modo oscuro che l'urbanizzazione porta inesorabilmente alla disgregazione del comportamento sociale, alla malattia mentale, all'invidia endemica e all'insoddisfazione, al fanatismo e al massacro («Basta guardare cosa sta succedendo in America...»). L'uomo è visto come minacciato contemporaneamente dal di fuori e dal di dentro. L'adozione tempestiva di simpatiche specie di grandi animali che servono soltanto da lente d'ingrandimento per le preoccupazioni che l'uomo nutre nei propri confronti non possono essere dissociate dall'approssimarsi del millennio. Allunghiamo la mano verso i panda come un bambino l'allunga verso il suo orsacchiotto.

È del tutto lecito voler preservare ogni specie esistente sulla terra, siano esse magnifiche creature (ai nostri occhi) o umili forme che vivono nella melma; e non solo a causa della loro interdipendenza. L'Homo è un animale estetico e ha un alto concetto del sublime. Si sente sminuito quando scompare ciò che gli è familiare. È turbato come mai prima dal fantasma della perdita che percorre i suoi giorni e le sue notti. Tutto ciò desta in lui una sensibilità affine alla vulnerabilità, al punto che gran parte della sua ansiosa preoccupazione per le balene e l'ambiente è il più delle volte paura per se stesso dirottata su altro, un'intensa, bramosa ricerca di qualche posto su cui fermarsi. Per lui diventa vitale sapere che le balene e la vita selvaggia esistono ancora da qualche parte sulla terra, anche se non le vede mai e non ne ha diretta esperienza. Esse costituiscono i punti cardinali della mappa che ha ereditato dagli antenati, rappresentazioni di un mondo precedente dove simili cose fissavano i termini della vita quotidiana. Sente oscuramente che senza di esse è perduto o almeno che non può perderle senza conseguenze che non è in grado di prevedere o formulare. Se solo lo dicesse! Gli alti principi ci sono, fin troppo; ma c'è anche disonestà, perché nello spostare l'attenzione su determinate specie l'uomo procrastina il riconoscimento della propria dolorosa inadeguatezza, della propria strana debolezza. In questo senso l'Homo ha bisogno di maggiore non di minore egoismo, a patto che lo diriga su quella mappa interiore, su quello spazio che è l'antica e comune eredità della sua specie e il cui territorio egli necessariamente abita.

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Il problema non sta solo nel sapere che cosa accadrà se e quando la navigazione stellare diventerà un'arte perduta. Chi, allora, a parte gli astronomi, continuerà a prestare attenzione al cielo? E chi, a parte gli scienziati, continuerà a prestare attenzione al mare? Anche quando accade davanti ai nostri occhi, non è facile accettare l'idea che le specie si estinguono, che la cosa è sempre successa e che continuerà a succedere sempre perché senza estinzione non c'è evoluzione. L'idea, però, che interi corpi di conoscenza si estinguano è altrettanto sconvolgente, ed è difficile capire come si possa evitarlo quando essi sono parte così integrante di un raro e speciale modo di vivere. Adesso è troppo tardi per salvare molte tribù - gli indios dell'Amazzonia, ad esempio - che ci avrebbero potuto risparmiare anni di dolorosa e costosa ricerca se fossero state consultate in tempo sulle proprietà medicinali delle piante che conoscevano. (Ma questo è l'approccío utilitaristico al problema della conservazione.) Forse, in fin dei conti, i corpi di conoscenza specifici di una tribù dovrebbero essere lasciati estinguere, come le specie, una volta che le circostanze sono cambiate e né gli uni né le altre riescono più ad adattarvici.

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Tutti i girovaghi dell'oceano, «quelli che camminano sul sale», i navigatori solitari, i mistici, quelli che vanno a vivere nelle isole, i vagabondi e gli eremiti hanno un certo grado di insofferenza, per ignoranza, del mondo più grande. Un'ulteriore caratteristica, condivisa da molti nomadi, è un'assoluta incertezza sulla geografia unita a una precisa scienza dell'orientamento. Nessuna carta mirabilmente disegnata può essere fatta coincidere con le loro mappe interiori. Esse sono prive di qualsiasi rapporto. Ho incontrato tribù, nel profondo deserto dell'Egitto occidentale, che ignoravano se erano in Egitto o in Libia. Né, per quel che ne sapevano, avevano una particolare cittadinanza. Le distinzioni che facevano erano linguistiche e tribali, e gli elaborati intrecci di parentela che avevano in testa equivalevano a delle mappe. Non sarei sorpreso se fosse lo stesso per alcuni eschimesi; mentre sanno sempre esattamente dove si trovano, possono invece non sapere se altri chiamano quel posto «Groenlandia», «Canada» o «Russia».

C'è qualcosa di affascinante in questo, perché afferma l'antica omogeneità di terra e oceano, un'unità di esperienza umana che trascende i provvisori confini politici. Quanto ai mari, non c'è dubbio che queste grandi estensioni, sette decimi della superficie del pianeta, siano misteriose e ossessionanti. In genere, si tirano dietro un'infinità di gente: marinai pazzi, avventurieri, solitari quasi sempre disadattati a terra che, una volta a bordo, si trasformano. Le chiglie scalfiscono con piccoli graffi la superficie di un abisso con creature e fondali che per lo più non saranno mai visti da occhio umano. Da quelle profondità scaturisce qualcosa che soddisfa e nutre quegli uomini.

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È uno di quei giorni in cui tutto ciò che facciamo sembra il nostro ultimo gesto. Il mare è torbido e biancovenato del suo collasso. È come se stessimo dicendo addio a un intero sistema di conoscenza, alle abitudini di una vita. Niente subentrerà al loro posto, né un momento illuminante né una morte che si rispetti. Anche i nomadi tengono conto delle stagioni, del grandioso movimento degli astri. Così un'ansiosa creatura interiore (oh, ventesimo secolo!) dà continui colpetti sul polso sinistro in un gesto sconosciuto prima dell'invenzione dell'orologio da polso. Questo moderno battito di nocche codifica un mondo di potere e - implicitamente - di impotenza di fronte a una continua ansia. Sicuramente in passato esisteva un gesto analogo per un uomo di mondo, forse un particolare spostamento della mano destra verso il pomo della spada, più o meno inconsapevole, l'arma (niente di più che un capo di vestiario) mai sguainata, un momento che non resta nella memoria, che sta da qualche parte tra un gesto fossilizzato e un tic sociale.

Non c'è bisogno di portare un orologio per sentire un immaginario braccio che si piega un polso che si gira. Guardiamo il sole. Anche quello sembra alla fine, visto attraverso le lenti tormentose dell'inquietudine. Sta arrivando qualcosa, qualcosa che distruggerà tutto. Ci siamo preparati in qualche modo oscuro, ci sentiamo irrequieti, come il giorno prima di una partenza, sapendo che non possiamo farci nulla. Quando succederà, succederà a noi, volenti o nolenti. In giorni come questo guarda il sole e le nuvole. Guarda il mare. È tutto scritto li.

Nel frattempo, cos'è successo al nuotatore che ha perso la barca all'inizio di questo libro ed è stato lasciato solo e terrorizzato in mezzo all'oceano?

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MARGINALIA. PIROSCAFI/STELLE FILANTI



L'arcipelago di Sulu è un buon esempio di luogo che, se mai lo si debba vedere, va raggiunto con un'imbarcazione. Solo una barca, al contrario di un aereo, porterà il viaggiatore sulle sue esatte coordinate. C'è sempre il rischio di essere attaccati dai pirati o di affondare in una nave come la Doña Marilyn, ed è importante correrlo. Inoltre, un approccio scomodo, accompagnato dal caldo e dal vomito, attraverso un mare cosparso fino all'orizzonte di piccole isole, è l'approccio giusto. È necessario svegliarsi all'alba in coperta, su una brandina pieghevole di tela, stretto tra gli altri come su una barella in un affollato ospedale da campo, la faccia appiccicaticcia per il sale, bagnata di rugiada e sfiorata dai capelli di un estraneo. Da quel sonno intermittente e turbato è emersa un'isola sul mare turchese, e quelli che devono scendere cominciano a muoversi, svegliano i bambini e radunano le loro cose. Questo approccio lento e onirico va sperimentato. Nessun posto riesce a sopravvivere a un primo contatto sbagliato.

Volendo formulare una Prima Legge del Viaggio questa dovrebbe essere che il modo di viaggiare determina il posto raggiunto.

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La partenza di una nave è lenta, rituale, dolente. Lascia il tempo di pensare e il giusto spazio in cui lasciar cadere il proprio sale in quello più grande che sta sotto. Sta succedendo qualcosa d'importante, e in questo qualcosa c'è una parte di paura o rancore verso il mare quale causa di lunghe assenze, lente lettere e notizie terribili. Chiunque essi siano, giù sui moli in un pomeriggio ventoso - amici, amanti, fratelli - sono già separati. Ci sono quelli sul molo e quelli già a bordo, e gli uni e gli altri continuano a guardarsi. La nave sta per salpare. Le passerelle vengono tolte, gli ormeggi mollati. Pesanti garze cadono nella fessura di acqua oleosa tra i parabordi di gomme da camion e la murata di ferro. Si levano grida. La sirena suona una, due volte, con quella modulazione che squassa lo stomaco e scioglie nuove lacrime. Resta comunque un'illusione di congiungimento, alimentata dalle allegre stelle filanti colorate tenute, a un capo, dalle mani di chi sta partendo e, all'altro, dalle mani di chi resta.

Il senso di perdita aleggia su tutta la scena, in cerca di un punto in cui fissarsi. Nell'addio già pronunciato? Nell'ultimo contatto dei corpi? Nelle grida dei gabbiani? Oppure adesso vibra lungo quel sottile nervo di carta? Si spezza; le persone si separano. Continuano tuttavia a vedersi mentre il senso di perdita colma lo spazio che si apre tra di loro, stendendosi tra la nave e la riva, tra lo scafo e la punta di terra, tra il puntino e la sagoma indistinta, prima di spargersi attraverso la superficie del globo. Ma era già presente sul treno, lungo la strada per il porto. E prima, nell'attenta preparazione dei bagagli. E prima ancora.

E dopo? Anche qui il viaggio aereo non offre alcuna consolazione perché la velocità unifica la partenza con l'arrivo, cancellando le differenze, confondendoli in una febbrile sensazione di non essere da nessuna parte. Non sappiamo cosa pensare. È troppo brutale affrontare un atterraggio all'alba in uno strano continente, avendo ancora addosso gli odori del commiato. Abbiamo camminato per le strade di una città asiatica con le mani graffiate di fresco da un gatto dell'Oxfordshire. Una simile confusione rende irreali sia il gatto sia la città e ci induce a pensare che non riusciremo mai a cogliere nulla nel modo giusto.

Percorrere grandi distanze per mare, invece, ci regala tempo. Il viaggio somiglia alla morte perché richiede un periodo di dolore. La leggera malinconia nell'osservare una costa che si allontana è un rito necessario. Partecipiamo volentieri alla vita di bordo quando lo desideriamo, e non prima. Altrimenti scriviamo nella nostra cabina o passiamo ore a guardare la scia del nostro passaggio. I gorghi scavati nella superficie dell'acqua dal movimento di eliche invisibili ciascuno appena diverso, ciascuno marezzando la scia che si allunga, elastica stella filante - diventano ipnotici. Ci mandano alla deriva in viaggi interiori che ci lasciano a malapena l'energia sarcastica necessaria a non farci vedere come paradigmatici i nostri fragili gusci sull'oceano sconfinato. Questo tempo, questo lungo indugiare al limite del banale, è estremamente riposante. Quando viene annunciato che l'arrivo è imminente, siamo liberi di esserne eccitati. Più tardi, ci sembra di poter sbarcare senza affanni, solo perché abbiamo respirato abbastanza a lungo l'aria salmastra della perdita. Ci siamo adattati. I nostri orologi biologici sono regolati di nuovo, il nostro equilibrio omeotermico si è modificato con la latitudine, le nostre mappe interiori - di cui si è avuta la sensazione di percorrere ogni miglio nautico - hanno ora un senso. Dietro di noi l'oceano è attraversato da migliaia di strisce multicolori, un pianeta ornato di festoni d'addio.

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