Copertina
Autore Thorkild Hansen
Titolo Le isole degli schiavi
EdizioneIperborea, Milano, 2009, n. 178 , pag. 558, ill., cop.fle., dim. 10x20x3,3 cm , Isbn 978-88-7091-178-7
OriginaleSlavernes øer
EdizioneGyldendal Boghandel, Copenaghen, 1970
TraduttoreMaria Valeria D'Avino
LettoreLuca Vita, 2010
Classe narrativa danese , paesi: Danimarca , storia: America , storia criminale
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Indice


Capitolo I      Il Forte Rosso                          11

Capitolo II     Il testimone di Famurgaard              73

Capitolo III    Kong Juni                              110

Capitolo IV     La venuta del redentore                174

Capitolo V      I verdetti di Christiansted            234

Capitolo VI     Lo zucchero                            278

Capitolo VII    Gli uomini sensibili                   309

Capitolo VIII   Peter Von Scholten                     371

Capitolo IX     Il Generale Buddo                      443

Capitolo X      L'ultima compravendita                 514


 

 

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Gli abitanti neri si dividono in quattro classi: i negri liberi, gli schiavi di casa, gli schiavi delle piantagioni e i negri maroon. La prima classe, tenute in conto le donne, si può stimare in numero di cinquecento circa. I negri liberi sono per la maggior parte mulatti che in genere ottengono la libertà alla dipartita del loro signore o della loro signora, poiché è facile che i sopravvissuti non possano tollerarli, essendo stati generati dall'unione e dalla mescolanza del coniuge con degli estranei. Gli altri negri liberi sono coloro che per denaro possono comprarsi la libertà dal loro padrone. Ma ciò può avvenire solo per mezzo di un accordo con altri cristiani bianchi estranei, perché se il loro padrone viene a sapere che hanno del denaro, non li lascia andare ma prende loro il denaro, perché è convinto di avere sui loro beni e mezzi gli stessi diritti che ha sul loro corpo. Per comprare la libertà a uno schiavo occorrono da cinquecento a novecento talleri, ma ci sono anche schiavi che per la loro lettera di libertà hanno dovuto pagarne milletrecento. Questo è quando lo schiavo è mansueto, diligente, laborioso, giovane, forte, leale e capace.

Il resto degli abitanti neri a cui non è stata data la libertà in questo modo sono schiavi, sottomessi e servi, i cui corpi si possono sia comprare sia vendere, e disporre di essi per l'uso che si vuole. Tra loro gli schiavi di casa sono i più ricercati. Devono provvedere a tutti i lavori che è necessario siano fatti in casa. Il padrone ha i suoi schiavi maschi, la signora ha le sue schiave, e anche i bambini hanno i loro, così che i più ricchi possono avere in casa da sedici a ventiquattro di questi servitori o domestici attorno a sé. Un borghese ordinario ne ha soltanto da quattro a sei, questo se la casa è rispettabile e distinta e altrettanto lo è il suo governo. Il compito di tutti questi schiavi o schiave domestici è di attendere e servire continuamente il loro padrone o padrona, che siano in piedi o sdraiati, seduti o in movimento e ovunque si spostino. A causa di certe piccolissime zanzare che sono un tormento in tutto il paese, gli schiavi devono continuamente far vento ai loro padroni con un ramo verde e fitto di foglie finché non dormono. Quando la signora della casa viaggia per il paese, salendo e scendendo dalle montagne a trotto serrato, gli schiavi la devono seguire a piedi e con tutte le forze cercare di mantenersi presso la groppa del cavallo ed essere tanto veloci nella corsa quanto i bianchi lo sono a cavallo.

Il mantenimento di questi schiavi di casa è affidato solo al loro padrone. Ogni anno questi dà loro sei braccia di tela grezza e non sbiancata, o altri tessuti grezzi perché possano proteggersi il corpo dal calore di giorno e dal freddo la notte, quando giacciono sui loro pagliericci. Con questo sono contenti. Le persone che non possiedono personalmente schiavi, ma ne hanno bisogno per le incombenze domestiche, devono noleggiarli dai loro padroni e pagare per loro sette od otto talleri al mese, cibo e spese esclusi. Grazie a questi servizi gli schiavi rendono al padrone dieci volte di più del loro solo mantenimento quotidiano. Si possono anche trovare negri liberi in affitto per cinque talleri al mese, ma questi ultimi non sono affidabili quanto quelli che hanno un padrone, del quale temono il castigo.

Come questi schiavi di casa, maschi e femmine, devono assolvere a ogni sorta di compito, sia pesante sia delicato, così hanno l'obbligo di prestarsi anche a un insolito servizio: quando il padrone deve obbedire ai richiami della natura nel suo appartamento privato, lo schiavo o la schiava lo segue con il pennello per la sua comodità. Questo pennello è un fusto di mais, tagliato nella misura di tre braccia, che porta in fondo una nappa morbida, tondeggiante e allungata, come la stiancia che in Danimarca cresce presso gli stagni. Quando la natura ha avuto soddisfazione, tocca allo schiavo o alla schiava pulire il padrone con il pennello.

Questi schiavi di casa hanno una particolarità che li distingue dagli schiavi delle piantagioni: uno spirito audace e svelto, e hanno dato prova di una disposizione d'animo più nobile di quelli che provengono da regioni straniere. Credono che Dio è in cielo, credono nell'immortalità dell'anima e si dimostrano gentili, modesti e servizievoli nella loro condotta. Hanno grande stima di tutti i bianchi cristiani, che sarebbero molto lieti di poter frequentare, se il loro aspetto non li trattenesse. Ma non appena se ne dà loro la più piccola occasione non mancano di provocare, con espressioni, gesti e lusinghe, un convegno immorale, la qual cosa ha sedotto la maggior parte dei nostri giovani europei ad avere delle relazioni carnali con loro. Ammirano diverse virtù come l'onestà, la sincerità e la sobrietà, e odiano con tutte le forze molti vizi grossolani. Provano una particolare ripugnanza per l'ubriachezza e compatiscono molto i bianchi che vedono dediti a questo vizio. Nell'educazione dei loro figli sono molto zelanti nel punire l'impudicizia e tutti i bassi vizi. Alcuni vivono però secondo la loro natura selvaggia, senza alcuna vera e giusta conoscenza di Dio, né luce, anche se potrebbero essere diversi da come sono, se solo il loro padrone si lasciasse convincere a non opprimerli con troppa servitù, con il lavoro pesante, con la frusta e le punizioni, ma li trattasse con indulgenza e bontà.

Alla terza classe appartengono gli schiavi delle piantagioni. Gli schiavi delle piantagioni vengono utilizzati per la coltivazione dello zucchero, del cotone e di altri tipi di vegetali. Costoro danno prova di un natura molto più rozza e selvaggia di quelli del gruppo precedente, che sono nati e cresciuti sulle isole. Tra essi si trovano anche tante tribù e religioni quanti sono i luoghi dell'Africa da cui provengono. Tutti questi schiavi forestieri delle tribù più diverse sono detti bozaler, perché sembra che nella loro lingua, bozal significhi la stessa cosa che forestiero o straniero. Alcuni adorano i propri idoli in diverse figure umane o di animali, ma ciò avviene in segreto, perché se si scoprisse attirerebbe su di loro dei castighi. Altri pregano il sole, la luna, le stelle, la terra e la folgore, c'è perfino chi ha un dio per ogni giorno, poiché la prima cosa che incontrano al mattino, siano esseri umani, uccelli, serpenti o alberi, la pregano per tutto quel giorno, le preparano una scodella di cibo e ognuno ne offre un po' del suo, nel timore che non procurino loro qualche danno. Tra loro c'è pure chi non vuole sapere nulla di Dio né di idoli ed è quindi privo di religione. Sono perciò in tutto e per tutto come bestie nella loro natura, nonostante l'aspetto umano. Alcuni sono più feroci, più diabolici e assetati di sangue di altri, specie quelli che sono detti negri di Amine (cioè di El Mina). È questa la più indomabile e barbara delle tribù, un popolo infedele e generalmente bellicoso contro chiunque altro. Sono così fieri e tirannici che se si ordina loro di fare qualcosa che non accettano, o si dà loro da mangiare qualcosa che non gradiscono, si uccidono immediatamente. Afferrano in perfetto silenzio uno strumento affilato o un pezzo di legno appuntito e se lo conficcano nelle budella, così che muoiono in breve. Per questo occorre molta prudenza per trattare con loro. D'altro canto sono i più forti tra tutti i negri: possono sollevare e trascinare carichi come muli, quando si lascia che lo facciano da sé e senza costrizione. Ci sono anche negri tanto astuti e pigri da dover essere incalzati di continuo con la frusta, a volte si gettano perfino a terra e non si riesce a smuoverli di lì per quanto li si frusti. Preferiscono lasciarsi morire di fame piuttosto che coltivare qualcosa per nutrirsi. Vivono per lo più di pesci o serpenti o di qualunque altra cosa capiti loro sottomano. Ma due di queste tribù che ho nominato, se si mettono insieme sono così forti da sollevare facilmente un carico di novecento libbre a mani nude. Tutto quel che devono portare, che sia grande o piccolo, pesante o leggero, fosse anche solo una pipa da tabacco o un piatto vuoto, questi schiavi lo portano sulla testa e non possono tenere niente sulle spalle o in mano come le altre persone. Tra loro ci sono streghe così potenti che con un incantesimo possono ridurre un uomo alla grandezza di un gatto. Possono mettergli dentro con la magia una pallottola di capelli intrecciati, di unghie tagliate, o schegge taglienti di ferro arrugginito della misura di una palla di moschetto, e queste cose lo faranno morire entro un certo lasso di tempo. Sanno far scomparire un fucile, e quando vedono qualcuno sparare contro di loro, possono deviare la pallottola in qualunque angolo o direzione vogliano.

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Il trentunenne Engelbret Hesselberg era conosciuto come uno dei più prominenti giovani giuristi del suo tempo. Veniva dalla Norvegia, dove suo padre era mercante di legname e magistrato. All'età di ventitré anni aveva conseguito il titolo di dottore in teologia e legge presso l'Università di Copenaghen e in seguito aveva proseguito gli studi giuridici in vista di una carriera scientifica. Difese con grande abilità una tesi su problemi di scienze giuridiche e scrisse un libro, intitolato Collegio giuridico, che fu lodato come un'opera acuta e incisiva, uscì in diverse edizioni e fu adottato come libro di testo all'Università di Copenaghen. Poco dopo Hesselberg ebbe una lite con un compagno dell'Elers Kollegium, e il rettore con il presidente del consiglio accademico dovettero intervenire. Il loro parere avverso a Hesselberg contribuì alla decisione del giovane di talento di interrompere la sua promettente carriera e di partire per le colonie. La scelta non era stata difficile: il suo desiderio di arricchirsi era altrettanto forte delle sue ambizioni scientifiche. Non poteva diventare professore a Saint Croix? Di certo non sarebbe nemmeno diventato un uomo ricco all'Università di Copenaghen.

Così Engelbret Hesselberg divenne uno dei molti nuovi funzionari che fecero la loro comparsa a Saint Croix dopo che il re ebbe rilevato la Compagnia. Fu prima segretario comunale e poi, dopo solo un anno, divenne anche balivo della città. L'abilità di cui fino a quel momento aveva dato prova nelle questioni teoriche, si dimostrò anche nella pratica. Aveva la capacità di orientare un processo in modo tale che le spese processuali fossero le più alte possibili, e in poco tempo mise insieme un capitale sufficiente per comprarsi una piantagione e un numero adeguato di schiavi negri. La proprietà di Hesselberg si trovava nell'estremità occidentale dell'isola: sulle carte moderne la zona porta tuttora il suo nome.

In qualità di piantatore, il balivo Hesselberg apparteneva alla cerchia dei funzionari ben disposti verso la categoria che aveva reso la vita amara a Reimert Haagensen. Ma non condivideva la visione primitiva sugli schiavi negri del contabile, più anziano di sette anni. Non credeva che essi fossero malvagi di natura. Non vedeva nella loro pelle nera la prova della loro crudeltà, e dubitava che fossero stati destinati alla servitù dal Creatore. Non riusciva a vedere nulla di deprecabile nel fatto che cercassero la libertà ogni volta che se ne presentava l'occasione. Al contrario. Con il suo acume abituale, Hesselberg aveva riflettuto a lungo sull'aspetto teorico della faccenda: voleva basare il suo verdetto su principi chiari, aveva considerato la condizione legale della schiavitù, e nell'introduzione al suo rapporto stilò un breve resoconto dei risultati ai quali era giunto.

"La maggior parte degli schiavi nelle colonie di recente fondazione, come Saint Croix, sono nati liberi e hanno diritto alla loro libertà quanto noi ne abbiamo alla nostra", scrisse. "Alcune circostanze fatali li hanno privati della naturale somiglianza con noi, in cui per nascita si trovavano, e hanno trasformato nei nostri schiavi quelle stesse persone che, se si fosse verificata una circostanza opposta, sarebbero potuti diventare i nostri padroni. Come stupirsi dunque che essi cerchino la libertà, quando sono provocati dall'ingiusta condotta di un padrone insensato, e quando giudichino l'impresa realizzabile? Il desiderio di libertà che è così inseparabile dalla natura umana, ha sempre generato e sempre genererà la ribellione, ed essa è soprattutto da temere da parte dei negri più sensibili, che sono stati liberi nella loro terra di nascita. Un uomo che possieda un centinaio di questi schiavi ha perciò più bisogno di una buona e naturale capacità di giudizio, se vuole guidarli senza incorrere nel loro giusto risentimento, di quanta ne occorra a un professore di ebraico, di greco o di latino. Perché le imperfezioni in cui nasciamo non ci appaiono così intollerabili come quelle che ci colpiscono per caso."

Gli ottantaquattro schiavi che, nei giorni intorno al Natale del 1759, attendevano di conoscere il proprio destino nella prigione di Christiansted, avevano motivo di sperare in un verdetto mite. Avevano un giudice che li capiva. Ancora una volta il giovane giurista si dimostrava molto in anticipo sui suoi tempi. Ma Hesselberg non era il solo a sostenere quel punto di vista, in contrasto con quell'Haagensen la cui rettitudine era stata lodata da Johannes Ewald. Nemmeno Zinzendorf e i suoi missionari avevano mai dimostrato un simile intuito riguardo alla condizione degli schiavi. Il giurista norvegese Hesselberg appare qui come rappresentante del vecchio, radicato, e vincolante senso nordico della giustizia, che sempre ha difeso la libertà e l'eguaglianza dell'individuo contro le varie correnti di pensiero autoritario che dalle patrie di Descartes, di Leonardo e di Schiller si avvicinavano furtive ai regni che circondano il mare del Nord. C'era speranza.

In tutta questa vicenda, il magistrato di Christiansted poteva sperare nell'appoggio del potere legislativo di Copenaghen, il cui senso della giustizia era altrettanto nordico. Dopo il passaggio delle isole alla corona, quando von Pröck arrivò a Christiansted per ricoprire il ruolo di primo Governatore Generale delle Indie Occidentali, portò con sé un nuovo codice degli schiavi, destinato a sostituire le norme di Gardelin del 1733. Ora che non era più una società privata, ma lo stato danese nel suo insieme a dover mettere il nome a un concetto così poco nordico come traffico umano e schiavismo, era auspicabile introdurre delle norme che potessero migliorare le condizioni di vita degli schiavi, portando così la pratica leggermente più vicina alla teoria. Il nuovo codice definiva pur sempre gli schiavi come "una parte e porzione della proprietà", ma d'altra parte decretava una serie di obblighi per i proprietari. Dovevano mantenere gli schiavi secondo razioni minime stabilite, razioni che in nessun caso potevano essere sostituite con del kildevil. Dovevano far sì che il loro vestiario fosse appropriato, i malati e gli anziani dovevano ricevere un trattamento decente e in generale i negri dovevano essere trattati in modo umano e conveniente. I proprietari potevano bensì usare frusta e catene, ma in nessun caso erano autorizzati a porre gli schiavi sul banco della tortura o alla ruota ed era espressamente proibito ucciderli. Le coppie sposate non dovevano essere separate con la vendita di una delle parti, i minori non dovevano esser tolti ai genitori, e il vangelo di Dio doveva essere portato a tutti.

Fin qui le parole. Anche su questa base, i ribelli agli arresti potevano sperare in un trattamento comprensivo. Von Pröck non aveva però tardato a rendersi conto che i nuovi articoli di legge erano stati stilati da gente che non aveva la minima conoscenza della situazione reale nelle Indie Occidentali. È vero che il codice conteneva anche leggi che permettevano una pratica più severa di quella seguita fino ad allora: gli schiavi non potevano possedere nulla senza l'assenso dei loro padroni, non potevano sposarsi senza il suo consenso e la poligamia e il concubinaggio non sarebbero stati più ammessi in nessuna circostanza. Fino a quel momento i piantatori erano stati del tutto indifferenti a quello che gli schiavi facevano in questi ambiti, ma era inaudito che gli schiavi potessero arrogarsi dei diritti nei confronti dei loro padroni. Lo svantaggio di questa nuova legge era che l'introduzione degli articoli severi non avrebbe avuto nessun riscontro pratico, mentre il tentativo di attuare quelli clementi avrebbe costituito un'interferenza nel diritto dei piantatori alla proprietà, e avrebbe sollevato un mare d'indignazione. Il fatto decisivo, comunque, fu che il governo di Copenaghen aveva dato al Governatore Generale von Pröck la discrezione di decidere quali delle nuove regole introdurre. Von Pröck non tardò a scoprire che non bisognava introdurne nessuna. Gettò la nuova legge sugli schiavi in fondo a un cassetto da cui non fu mai più tirata fuori. Il senso della giustizia nordico restava sulla carta, le parole non divennero mai realtà, non furono mai rese pubbliche né rese effettive.

Quando Hesselberg si trovò a dover decidere del destino degli ottantaquattro schiavi ribelli, aveva perciò soltanto il codice di Gardelin cui attenersi. Fu il primo a lamentarsene e invocò nel suo rapporto un codice danese per gli schiavi basato su quelli in uso nelle isole inglesi e francesi, e rivisto dai piantatori più sensibili. Era questo il punto cruciale. Non si poteva legiferare sugli schiavi senza consultare i loro proprietari. I piantatori andavano ascoltati, i principi andavano piegati alla realtà. Lo stesso valeva per il verdetto che Hesselberg era ora chiamato a pronunciare. Nelle Indie Occidentali c'era differenza tra la teoria e la pratica. Se avesse dovuto considerare unicamente i suoi principi teorici, avrebbe liberato ognuno dei neri ribelli; ma i piantatori pretendevano rigore, e le autorità dovevano ascoltare le loro richieste. Andando avanti al ritmo di un'insurrezione di schiavi ogni tredici anni, le isole danesi si sarebbero fatte la fama di luoghi insicuri, in cui nessun imprenditore poteva desiderare d'investire il suo capitale. I bianchi avrebbero cominciato a trasferirsi, perché nessuno avrebbe potuto garantirne la sicurezza, e i mulini da zucchero si sarebbero fermati. D'altra parte Hesselberg non poteva nemmeno arrivare all'estremo opposto, tenere un processo breve e tagliare la gola a tutti e ottantaquattro gli accusati. Le sue convinzioni glielo impedivano, sicuro, e inoltre i proprietari avrebbero avanzato richieste di risarcimento.

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"Bruciatelo! Bruciatelo!" gridava la folla.

Ma la sentenza di Hesselberg era molto più ricca di sfumature. Decisivo per la determinazione della pena era il ruolo che il condannato aveva avuto nel tentativo di rivolta, e se aveva confessato o no, e se la confessione era avvenuta spontaneamente o sotto costrizione. Tutto era in accordo con il principio di deterrenza. Gli schiavi trovati colpevoli sulla base di testimonianze, ma che avevano mantenuto il silenzio anche sotto tortura, avevano la punizione più estrema. Quelli che avevano confessato "sotto costrizione" erano puniti più severamente di quelli che avevano reso una confessione spontanea. Al fratello di Cudjo, Qvamina, al quale Hesselberg doveva le informazioni che avevano portato a scoprire l'intero complotto, fu concessa perfino una ricompensa.

"Qvamina, che era stato il primo a confessare, e senza esservi costretto, fu liberato. Al suo padrone si riconobbe la somma di trecentotrentatré talleri e due marchi in base al prezzo corrente e lui stesso fu ricompensato con cinquanta talleri", scrive Hesselberg.

Degli altri ottantatré condannati, cinquantanove furono prosciolti e rimandati alle loro piantagioni, dove i proprietari avrebbero potuto punirli a loro piacimento, ma senza pretendere alcun rimborso. Per altri sette, Hesselberg trovò un compromesso. Si trattava degli schiavi maschi Hanny, Neptunus, Josva, Jack, Pamper, Goffe e Simon.

"Contro tutti loro ci sono così tanti sospetti che sono condannati ad essere venduti fuori dall'isola", scrive. "I loro padroni devono incaricarsi personalmente della vendita, ma essi resteranno al forte fino al momento di lasciare il paese."

La stessa sorte ebbe Qwasi, che confessò spontaneamente senza costrizione, e il giovane George, costretto dal padre a partecipare al complotto. A parte il caso di Qvamina, tutte queste sentenze non costarono nulla alle finanze pubbliche. Lo stesso valeva per una singola condanna a morte che riguardava però un negro libero. In un altro caso Hesselberg riuscì addirittura a ottenere un vantaggio per le casse dello Stato. Si trattava del mulatto Goffe.

"Contro di lui esiste un forte sospetto", scrive Hesselberg. "È condannato a essere venduto come schiavo ed esiliato dal paese; il suo valore sarà versato nelle casse dello Stato."

Con ciò Hesselberg aveva ridotto a dodici il numero degli schiavi per i quali la pubblica autorità avrebbe dovuto offrire un risarcimento. Non si poteva fare di meglio. Il tentativo di rivolta sarebbe costato al re circa trentaseimila talleri. In nessuno di quei dodici casi Hesselberg poteva evitare una condanna a morte. A essi andava aggiunto il citato negro libero, che andava egualmente condannato, ma per il quale nessuno avrebbe preteso un risarcimento. Erano questi tredici che ora andavano castigati. L'esempio delle loro condanne doveva essere abbastanza spaventoso da compensare il numero relativamente alto di schiavi liberati. Il balivo Hesselberg motivò il suo verdetto caso per caso.

"Frank. Negro libero. Accusato da testimoni, ma non ha ammesso nulla. Gli sono state spezzate le membra ed è stato posto sul palo, dove è sopravvissuto per dodici ore. La testa in seguito conficcata su una pertica e le mani inchiodate al patibolo.

Qvako. Proprietà di Sua Maestà. Accusato da testimoni e reo confesso. Giustiziato allo stesso modo di Frank e sopravvissuto per due ore.

Wiel. Proprietà di Søren Bagge. Accusato da testimoni e reo confesso. Bruciato vivo e sopravvissuto nel fuoco per quattordici minuti.

Sylvester. Proprietà di James Conningham. Reo confesso supportato da testimonianze. Bruciato vivo e sopravvissuto al fuoco per quattro minuti e mezzo.

Jupiter. Proprietà di M. Raunnet. Reo confesso supportato da testimonianze. Bruciato vivo e sopravvissuto al fuoco per un minuto e mezzo.

Georg. Proprietà di Johan Coackly. Reo confesso supportato da testimonianze. Gli sono state applicate le tenaglie roventi ed è stato impiccato per il collo.

Fino a questo punto Hesselberg aveva utilizzato castighi tradizionali, e il tempo d'esecuzione era stato di pochi minuti. Ora proseguì con metodi propri. Si trattava dei tre schiavi Gomar, Georg e Londan, che avevano tutti reso una piena confessione.

"Prima è stata applicata loro la tenaglia rovente", scrive Hesselberg. "Poi sono stai appesi per entrambi i piedi su una forca, e un cane è stato ugualmente impiccato per il collo in mezzo a loro. Gomar è vissuto mezz'ora ed è morto strangolato. Georg è vissuto tre ore ed è morto strangolato. Londan è vissuto dodici ore ed è morto strangolato."

Rimanevano solo i tre capi, William David, Samuel Hector, e Mikkel, più un quarto schiavo di nome Jacob. Samuel e Mikkel, sul banco di tortura, avevano aperto bocca solo per schernire i giudici che li interrogavano. Con Jacob non era andata molto meglio. William David si era tagliato la gola da sé. Nel suo caso Hesselberg s'era dovuto accontentare di eseguire la sentenza su un cadavere:

"Il suo cadavere fu legato per un piede a un cavallo e trascinato per le strade, dopo di che il corpo è stato appeso per il piede destro a una forca, tirato giù di nuovo e infine bruciato su un rogo."

Poi fu il turno dei capi della rivolta. Il freddo Samuel Hector, che sapeva leggere, scrivere e tacere. I suoi due principali compagni di congiura, Mikkel e Jacob, anch'essi capaci di restare a bocca chiusa sotto tortura. Davanti a loro stava un uomo della loro stessa età. Non meno dotato. Una persona convinta che i neri avessero lo stesso diritto dei bianchi alla libertà. Un uomo che aveva scritto un manuale di diritto in uso all'Università di Copenaghen. Un essere umano. I suoi tre verdetti dicevano così:

"Samuel Hector. Proprietà di Peter Heiliger. Giudicato colpevole in base a testimonianze, ma l'accusato non ha ammesso nulla. Confinato in una gabbia di ferro. Sopravvissuto per ventiquattro ore.

Mikkel. Proprietà di O'Donnal. Giudicato colpevole in base a testimonianze, ma l'accusato non ha ammesso nulla. Stessa pena di Samuel Hector. Sopravvissuto novantuno ore.

Jacob. Proprietà di Mannan Radgeas. Giudicato colpevole in base a testimonianze, ha ammesso qualcosa. Confinato in una gabbia di ferro. Vissuto dal pomeriggio del 18 gennaio alle tre e mezzo al 27 mattina, alle otto e mezzo."

I mulini da zucchero giravano. Venne giorno e venne notte, e alla fine venne anche il 27 gennaio. Alle otto e mezzo del mattino l'ultimo spasimo scosse Jacob che giaceva sul fondo della gabbia di ferro, rannicchiato e nudo come un cane, il corpo reso viscido dagli sputi dei passanti. Forse per lui era durata tanto più a lungo perché era stato maltrattato meno degli altri due durante gli interrogatori? In ogni caso ora era finita. La giustizia aveva parlato. La rivolta era stata debellata, non solo questa ma anche tutte quelle future. L'effetto della sentenza di Hesselberg superò ogni previsione, i terribili giorni di gennaio a Christiansted si fissarono nella memoria dei neri come un inestricabile nodo di orrore. La storia dei ribelli e del loro destino fu tramandata di generazione in generazione. Da allora in poi le Isole degli schiavi non conobbero che pace per ottantotto anni.

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CAPITOLO VI
LO ZUCCHERO



                            Nero è l'uomo nero, bruciato dal sole
                            L'orgoglio della piantagione.

                                               Johannes V. Jensen



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I mulini da zucchero giravano. La Danimarca dei più bei prati e campi era anche la Danimarca dell'età d'oro. E l'età d'oro erano anche le ricchezze che si riversavano nel paese dalle Isole degli schiavi. Erano le tasse di bollo e le imposte sulla proprietà, i dazi sui negri importati, le tasse pro capite degli schiavi e le onerosissime decime dovute dai piantatori stranieri quando desideravano trasferire i loro guadagni nel paese natio. Era l'esportazione danese di arnesi, abiti e cibo per gli schiavi, la vecchia fabbrica di Carstens a Ørholm che aveva ottenuto il monopolio della fornitura di coltelli da zucchero e coltellacci, i contadini delle tante fattorie danesi che fabbricavano "panni da negri" in quantità sempre maggiori: un volume di esportazioni che nel complesso fruttava alle casse dello Stato circa mezzo milione di talleri l'anno.

Ma soprattutto era lo zucchero. Zucchero per il pudding di grano saraceno e zucchero per la marmellata. Zucchero candito e sciroppo, zucchero raffinato intero e semolato, zucchero in polvere, in pastiglie, in cristalli e in pani. Zucchero. Nel 1746, l'anno precedente al primo tentativo di rivolta degli schiavi a Saint Croix, si diceva che i danesi usassero il triplo dello zucchero che in passato. Quando il re rilevò la proprietà delle isole nel 1755, la produzione annua di zucchero aveva toccato i duemila barili e cinque anni dopo, quando Hesselberg emise i suoi verdetti, quel numero era già raddoppiato. Per il resto del secolo la produzione si mantenne su questo livello, ma una parte sempre più grande andava a Copenaghen. Al passaggio del secolo lo zucchero proveniente da Saint Croix rappresentava metà dell'intero volume importato.

Lo zucchero era venduto alle aste che si tenevano al Magazzino delle Indie Occidentali in autunno, dopo che le navi erano tornate in patria con il raccolto dell'anno. Da lì in poi i profitti cominciavano ad accumularsi per davvero. Quello che arrivava a Copenaghen era esdusivamente zucchero grezzo. Gli introiti per la raffinazione e per la distribuzione rimanevano appannaggio della madrepatria. Perfino nelle isole delle Indie Occidentali non si trovava zucchero raffinato se non quello prodotto in Danimarca. Nel 1755 la raffinazione dello zucchero è definita il principale settore industriale di Copenaghen. Il ruolo dello zucchero delle Indie Occidentali per la crescita della città può essere paragonato a quello della pesca delle aringhe nel Medioevo. Il trafficante di schiavi Rømer e il capitano negriero Berg non furono i soli ad avere la buona idea di dedicarsi alla produzione dello zucchero. Nel 1770 c'erano quindici raffinerie a Copenaghen, due a Helsingør e due a Frederikshald. Roskilde, Randers, Aalborg, Frederikshavn e Flensburg avevano ciascuna la sua. Gli oltre ventiquattro impianti del paese erano tenuti in vita dal lavoro degli schiavi nelle isole lontane.

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[...] Cecilia continuava a girare. Conoscono di rado la propria età. Hanno uno sguardo ambiguo, sfuggente: non bisogna guardare i bianchi negli occhi, ne vengono solo guai. Portano un sentimento di paralisi nel cuore, alcuni diventano servili e striscianti, altri balordi e ridanciani. E così quando ti bastonano a sangue. Sanno molte più cose sui bianchi di quante i bianchi ne sappiano su di loro. Sanno fingersi più sciocchi di quel che sono. Sono abili con le lusinghe. Sanno farsi spuntare le lacrime agli occhi a comando. Fissano senza pudore le ragazze nere. Non parlano che di fuggire. La loro gioia più grande è la sventura di un bianco, osservata di nascosto. Cecilia girava. Il 1766. Diciassettemilacentonovantasette schiavi a Saint Croix. Ventimilacentottantadue barili di zucchero da imbarcare. "Trattieniti, mia lacrima e tu taci, mia Cetra", scrive il fratello minore di Mathias. Federico V è morto, Moltke è caduto in disgrazia, von Pröck deve rientrare in patria. Verranno tempi migliori per i negri? No, sta per aprirsi l'epoca dello splendore. Cecilia continua a girare. Il 1771. Ci sono più di ventimila schiavi a Saint Croix. Più di ventimila barili di zucchero sono pronti per l'imbarco. Johannes Ewald non compone versi per la morte del re, ma solo per quella del Consigliere di Stato Haagensen, e ricama un po' sul tentativo di diserzione di Mathias: s'era trattato d'un viaggio di piacere senza il consenso degli ufficiali superiori. A Saint Croix esce il primo giornale. Contiene notizie, annunci e una rubrica fissa per la ricerca dei negri maroon. Michael Kirwan "has for sale two good house Creole Negroes and an excellent horse". John Smith si prende la libertà di annunciare che darà un ballo pubblico per il compleanno di Sua Maestà Graziosissima il re Cristiano VII, e si onora di credere che ciascuno vorrà godere della squisita cena che sarà offerta alla fine della serata e della miglior musica che questa terra possa offrire. Mrs. Harp cerca "a well fet creole negroe, named Peter", che è fuggito, e promette una ricompensa di "five pieces of eight". La compagnia Kortright & Crüger ha il piacere di comunicare che il prossimo lunedì si terrà una vendita di trecento ottimi schiavi. Cecilia continua a girare. Kippido è un ragazzo magro e silenzioso, di lineamenti delicati e natura riflessiva. Ha imparato a leggere da solo. Conosce le tabelline dall'uno al venti. Sa che la terra non è piatta, e che chi sostiene che si possono abbattere le stelle con il fucile dice una sciocchezza. Cosa avrebbe potuto dare all'umanità uno come lui, in altre circostanze? Ora le dà zucchero. Kippido lavora con gli altri negri nei campi. Non parla mai. Sta quasi sempre per conto suo. A volte, quando trova un nido tra le canne, o un uovo di tartaruga nella sabbia, sorride. Cecilia continua a girare. Alla sua morte, sezionano il suo cervello per vedere se non abbia più volute di quello degli altri, e Lange Tikki ne divora un pezzo di nascosto. Cecilia continua a girare.

Lo studioso Magens dà alle stampe una grammatica della lingua degli schiavi sul modello di quelle latine, solo con altri esempi di flessione. Invece del verbo latino amo, lo studioso sceglie la sequenza: "Il mio padrone mi picchia, il mio padrone mi picchiò, il mio padrone mi picchierà, il mio padrone mi ha picchiato". Cecilia continua a girare. Il 1775. Ventitremilatrecentottantaquattro schiavi a Saint Croix. Ventiquattromilaseicentosettantadue barili di zucchero da imbarcare. Il Governatore Clausen pubblica il suo supplemento al codice degli schiavi di Gardelin. Poiché i bianchi non solo trovano divertente che gli schiavi lottino tra loro con armi letali, ma addirittura li incoraggiano, si ordina, prescrive e raccomanda a chiunque di catturare questi negri e condurli al forte, dove saranno rinchiusi per tre giorni nella cella nera e puniti con cinquanta colpi di frusta al giorno. Uno schiavo maschio di Sua Maestà assisterà il boia in ogni forte per quanto riguarda gli schiavi che lì devono essere frustati. A causa di debitori disonesti, che dando la libertà ai loro schiavi cercano di svalutare i propri beni a danno dei creditori, la liberazione degli schiavi andrà registrata così che gli eventuali creditori possano protestare entro due mesi, e i negri che facciano parte di un'eredità incapiente non possano essere liberati. Cecilia continua a girare. I più piccoli giocano sulla spiaggia. Si cospargono con la sabbia corallina e scoppiano in risa acute perché così assomigliano ai bianchi. La giovane Manina li guarda a lungo, la luce si versa come olio sul suo corpo levigato e snello. Quanto le piacerebbe immergersi nelle onde e sciacquar via il colore nero con la facilità con cui i bimbi si tolgono di dosso il bianco della sabbia... Cecilia continua a girare. Il 1785. L'Università di Cambridge bandisce un concorso di saggi in latino sulla giustificazione morale della schiavitù. Thomas Clarkson risponde negativamente al quesito, e solleva una tempesta di pubblica indignazione contro la tratta degli schiavi. Cecilia continua a girare. Il 1786. Ventiduemilanovantacinque schiavi a Saint Croix. E altri quattrocentosei stavano per arrivare. Un pomeriggio di dicembre il capitano Jens Jensen Berg della nave negriera danese Christiansborg avvistò il mulino della Green Kay. Poche ore dopo diede fondo all'ancora nella rada davanti a Christiansted. L'arrivo della nave destò molto clamore. Si diceva che ci fosse stato un ammutinamento a bordo, uno degli uomini aveva uno sfregio mortale su una guancia. Per colmo d'ironia, tra l'altro, sembrava trattarsi di un fiero oppositore dello schiavismo. Era un dottore; correva voce che avesse partecipato alla grande campagna di Kiøge contro gli awuna, quella che ultimamente aveva così ben rifornito le aste degli schiavi. Questa volta però l'asta non ci sarebbe stata. Tutti i quattrocentosei schiavi della Christiansborg furono venduti nel giro di mezz'ora, in uno scramble in grande stile tenuto direttamente sulla nave. Dal castello di poppa, l'uomo con la cicatrice osservava una folla inferocita che si strappava di mano gli africani, di cui parlava la lingua. Era il 19 dicembre 1786. Cecilia continuava a girare. Ma il mattino seguente Paul Erdmann Isert scese a terra a Saint Croix, fermamente deciso a riferire ai suoi compatrioti tutto quello che avrebbe visto.

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