Copertina
Autore Michael Hardt
CoautoreAntonio Negri
Titolo Impero
SottotitoloIl nuovo ordine della globalizzazione
EdizioneRizzoli, Milano, 2002, Collana storica , pag. 458, dim. 160x225x30 mm , Isbn 978-88-17-86952-2
OriginaleEmpire
EdizioneHarvard University Press, Cambridge, 2000
TraduttoreAlessandro Pandolfi, Daniele Didero
Classe politica , filosofia , scienze sociali , globalizzazione
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Indice


Ringraziamenti                         Pag.   9
Prefazione                                   11

PARTE PRIMA
LA COSTITUZIONE POLITICA DEL PRESENTE

I   L'ordine mondiale                        21
II  La produzione biopolitica                38
III Le alternative all'interno dell'Impero   55

PARTE SECONDA
PASSAGGI DI SOVRANITÀ

I   Due Europe, due modernità                79
Il  La sovranità dello stato-nazione         99
III La dialettica della sovranità coloniale 117
IV  Sintomi del passaggio                   136
V   La rete di poteri: la sovranità
    americana e il nuovo Impero             155
VI  La sovranità imperiale                  175

INTERMEZZO

    Il controImpero                         197

PARTE TERZA
PASSAGGI DI PRODUZIONE

I   I limiti dell'imperialismo              211
II  Governamentalità disciplinare           228
III Resistenza, crisi, trasformazione       245
IV  La postmodernizzazione o
    l'informatizzazione della produzione    263
V   Costituzione mista                      285
VI  La sovranità capitalistica o
    l'amministrazione della società globale
    del controllo                           303

PARTE QUARTA
IL DECLINO E LA CADUTA DELL'IMPERO

I   Virtualità                              329
II  Generazione e corruzione                344
111 La moltitudine contro l'impero          364

    Note                                    383
    Indice dei nomi                         439

 

 

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Pagina 11

PREFAZIONE



L'impero si sta materializzando proprio sotto i nostri occhi. Nel corso degli ultimi decenni, con la fine dei regimi coloniali e, ancora più rapidamente, in seguito al crollo dell'Unione Sovietica e delle barriere da essa opposte al mercato mondiale capitalistico, abbiamo assistito a un'irresistibile e irreversibile globalizzazione degli scambi economici e culturali. Assieme al mercato mondiale e ai circuiti globali della produzione sono emersi un nuovo ordine globale, una nuova logica e una nuova struttura di potere: in breve, una nuova forma di sovranità. Di fatto, l'Impero è il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo.

Molti sostengono che la globalizzazione della produzione e degli scambi capitalistici comporta una maggiore autonomia delle relazioni economiche rispetto ai controlli politici e, quindi, che la sovranità politica sia in declino. Alcuni salutano questa nuova era come una liberazione dell'economia capitalistica dalle restrizioni e dai vincoli imposti dalle forze politiche; altri, invece, la deplorano poiché essa chiude i canali istituzionali attraverso i quali i lavoratori e i cittadini potevano influenzare o contestare la logica fredda del profitto capitalistico. È indubbiamente vero che, con l'avanzare della globalizzazione, la sovranità degli stati-nazione, benché ancora effettiva, ha subito un progressivo declino. I fattori primari della produzione e dello scambio - il denaro, la tecnologia, il lavoro e le merci - attraversano con crescente facilità i confini nazionali; lo stato-nazione ha cioè sempre meno potere per regolare questi flussi e per imporre la sua autorità sull'economia. Anche i più potenti tra gli stati-nazione non possono più essere considerati come le supreme autorità sovrane non solo all'esterno, ma neppure all'interno dei propri confini. Tuttavia, il declino della sovranità dello stato-nazione non significa che la sovranità, in quanto tale, sia in declino. Nel corso di queste trasformazioni, i controlli politici, le funzioni statuali e i meccanismi della regolazione hanno continuato a governare gli ambiti della produzione e degli scambi economici e sociali. La tesi di fondo che sosteniamo in questo libro è che la sovranità ha assunto una forma nuova, composta da una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un'unica logica di potere. Questa nuova forma di sovranità globale è ciò che chiamiamo Impero.

Il declino della sovranità dello stato-nazione e la sua crescente incapacità di regolare gli scambi economici e culturali è infatti uno dei primi sintomi che segnalano l'avvento dell'Impero. La sovranità dello stato-nazione era la pietra angolare su cui, per tutto il corso dell'epoca moderna, le potenze europee avevano costruito i loro imperialismi. Ciò che intendiamo con «Impero», tuttavia, non ha nulla a che vedere con l'«imperialismo». I confini definiti dal moderno sistema degli stati-nazione sono stati fondamentali per il colonialismo europeo e per la sua espansione economica: le frontiere territoriali della nazione delimitavano il centro di ogni singola potenza, dal quale veniva esercitato il potere sui territori esterni attraverso un sistema di canali e di barriere che, alternativamente, facilitavano e bloccavano i flussi della produzione e della circolazione. L'imperialismo costituiva una vera e propria proiezione della sovranità degli stati-nazione europei al di là dei loro confini. Alla fine, quasi tutti i territori del globo furono spartiti e lottizzati e la carta del mondo fu codificata con i colori europei: rosso per il territorio britannico; blu per quello francese; verde per il portoghese e così via. In qualunque luogo la sovranità moderna mettesse radici, veniva edificato un Leviathan che dominava la società e imponeva confini territoriali gerarchici per proteggere la purezza della sua identità da tutto ciò che era estraneo.

L'Impero emerge al crepuscolo della sovranità europea. Al contrario dell'imperialismo, l'impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l'intero spazio mondiale all'interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. L'Impero amministra delle identità ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali modulando reti di comando. I singoli colori nazionali della carta imperialista del mondo sono stati mescolati in un arcobaleno globale e imperiale.

La trasfonnazione della moderna geografia imperialista del mondo e l'affermazione del mercato mondiale segnalano il passaggio all'interno del sistema capitalistico di produzione. Ma, soprattutto, le divisioni spaziali tra i tre «Mondi» (il Primo, il Secondo e il Terzo) si sono confuse, di modo che troviamo di continuo il Primo Mondo nel Terzo, il Terzo nel Primo e il Secondo quasi da nessuna parte. Il capitale sembra trovarsi di fronte a un mondo levigato, o meglio, a un mondo definito da nuovi e complessi regimi di differenziazione e omogeneizzazione, deterritorializzazione e riterritorializzazione. La costruzione degli itinerari e dei limiti di questi nuovi flussi globali è stata accompagnata da una trasformazione degli stessi processi produttivi e, cioè, da una riduzione del ruolo del lavoro industriale di fabbrica e da una crescente priorità attribuita al lavoro basato sulla comunicazione, sulla cooperazione e sull'affettività. Nella post-modernizzazione dell'economia globale, la creazione della ricchezza tende sempre più risolutamente verso ciò che definiamo produzione biopolitica - la produzione della vita sociale stessa - in cui l'elemento economico, quello politico e quello culturale si sovrappongono sistematicamente e si investono reciprocamente.

Molti identificano negli Stati Uniti l'autorità suprema che domina la globalizzazione e il nuovo ordine mondiale. I loro sostenitori li esaltano come leader mondiale e unica superpotenza; gli avversari li denunciano come un oppressore imperialista. Queste opposte valutazioni si basano entrambe sulla convinzione che gli Stati Uniti abbiano assunto quel ruolo di potenza globale che le nazioni europee hanno abbandonato. Se il XIX secolo è stato il secolo britannico, il XX è stato quello americano; in altri termini, se la modernità è stata europea, la postmodernità è americana. L'accusa più grave che gli oppositori rivolgono agli Stati Uniti è che questi ultimi ripetono le stesse pratiche dei vecchi imperialisti europei; i loro sostenitori, invece, vedono negli Stati Uniti un leader assai più efficiente e magnanimo, in grado di riuscire laddove gli europei hanno fallito. La nostra ipotesi di fondo, che sia emersa una nuova forma di sovranità imperiale, contraddice entrambe queste concezioni. Né gli Stati Uniti, né alcuno stato-nazione costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista. L'imperialismo è finito. Nessuna nazione sarà un leader mondiale come lo furono le nazioni europee moderne.

Gli Stati Uniti occupano una posizione indubbiamente privilegiata nell'Impero, ma questo privilegio non deriva dalle somiglianze quanto piuttosto dalle differenze rispetto alle vecchie potenze imperialiste europee. Queste differenze possono essere chiaramente identificate se si focalizzano i fondamenti propriamente imperiali (non imperialistici) della costituzione americana, ove per «costituzione» intendiamo, a un tempo, la costituzione formale - il documento scritto con i suoi vari emendamenti e i suoi dispositivo giuridici - e la costituzione materiale, vale a dire l'ininterrotta formazione e ridefinizione della composizione delle forze sociali. Thomas Jefferson, gli autori del Federalist e gli altri padri fondatori degli Stati Uniti si erano ispirati al modello imperiale dell'antichità: essi credevano di aver creato un nuovo Impero sull'altra sponda dell'Atlantico, un nuovo Impero con le frontiere aperte e in continua espansione, in cui il potere sarebbe stato effettivamente distribuito in reti. Questa idea imperiale è sopravvissuta maturando attraverso la storia della costituzione americana ed è riemersa oggi, su scala globale, nella sua forma pienamente realizzata.

Occorre sottolineare che noi non usiamo il termine «Impero» come una metafora che implica la definizione delle somiglianze tra l'attuale ordine mondiale e gli imperi di Roma, della Cina, quelli precolombiani ecc. - ma piuttosto come un concetto che esige un approccio essenzialmente teorico. Il concetto di Impero è caratterizzato, soprattutto, dalla mancanza di confini: il potere dell'Impero non ha limiti. In primo luogo, allora, il concetto di Impero indica un regime che di fatto si estende all'intero pianeta, o che dirige l'intero mondo «civilizzato». Nessun confine territoriale limita il suo regno. In secondo luogo, il concetto di Impero non rimanda a un regime storicamente determinato che trae la propria origine da una conquista ma, piuttosto, a un ordine che, sospendendo la storia, cristalizza l'ordine attuale delle cose per l'eternità. Dal punto di vista dell'Impero questo è, a un tempo, il modo in cui le cose andranno per sempre e il modo in cui sono sempre state concepite. In altri termini, l'Impero non rappresenta il suo potere come un momento storicamente transitorio, bensì come un regime che non possiede limiti temporali e che, in tal senso, si trova al di fuori della storia o alla sua fine. In terzo luogo, il potere dell'Impero agisce su tutti i livelli dell'ordine sociale, penetrando nelle sue profondità. L'Impero non solo amministra un territorio e una popolazione, ma vuole creare il mondo reale in cui abita. Non si limita a regolare le interazioni umane, ma cerca di dominare direttamente la natura umana. L'oggetto del suo potere è la totalità della vita sociale; in tal modo, l'Impero costituisce la forma paradigmatica del biopotere. Infine, benché l'agire effettivo dell'Impero sia continuamente immerso nel sangue, il suo concetto è consacrato alla pace - una pace perpetua e universale fuori dalla storia.

L'Impero dispone di enormi strumenti e poteri di oppressione e di distruzione; tuttavia, questo non ci fa assolutamente rimpiangere le vecchie forme di dominio. Il passaggio all'Impero e i suoi processi di globalizzazione offrono nuove possibilità alle forze di liberazione. La globalizzazione non è certo una realtà semplice e i molteplici processi con i quali la identifichiamo non sono unificati, e tanto meno univoci. Il nostro compito politico non è, per cosi dire, semplicemente quello di resistere contro questi processi, bensi quello di riorganizzarli, e di orientare verso nuove finalità. Le forze creative della moltitudine che sostengono l'impero sono in grado di costruire autonomamente un controImpero, un'organizzazione politica alternativa dei flussi e degli scambi globali. Le lotte volte a contestare e sovvertire l'impero, così come quelle tese a costruire una reale alternativa, si svolgeranno sullo stesso terreno imperiale - in realtà, queste nuove lotte hanno già iniziato a emergere. Attraverso queste e altri tipi di lotte, la moltitudine sarà chiamata a inventare nuove forme di democrazia e un nuovo potere costituente che, un giorno, ci condurrà, attraverso l'Impero, fino al suo superamento.

Nella nostra analisi del passaggio dall'imperialismo all'Impero, prenderemo in considerazione in primo luogo l'Europa e, quindi, un asse tra l'Europa e l'America. Questa scelta non dipende dal fatto che riteniamo queste aree come le fonti privilegiate ed esclusive di nuove idee e delle innovazioni storiche: semplicemente, questo è stato l'orizzonte geografico dominante lungo il quale si sono sviluppati i concetti e le pratiche che attualmente animano l'impero, in sintonia, - come cercheremo di mostrare - con l'espansione del sistema capitalistico di produzione. Mentre la genealogia dell'Impero è, in tal senso, europea, i suoi attuali poteri non sono limitati ad alcuna area determinata. Le logiche di potere che, per un verso, hanno avuto origine in Europa e negli Stati Uniti, al giorno d'oggi investono pratiche di dominio che attraversano l'intera superficie del globo. Ma, soprattutto, neanche le forze che contestano l'Impero e prefigurano effettivamente una società globale alternativa sono limitate ad alcuna regione geografica. La geografia di questi poteri alternativi, una nuova cartografia, attende ancora di essere scritta o, meglio, comincia a essere scritta dalle resistenze, dalle lotte e dai desideri della moltitudine.

Scrivendo questo libro abbiamo cercato, per quanto possibile, di utilizzare un ampio approccio interdisciplinare. Le nostre argomentazioni intendono essere, a un tempo, filosofiche e storiche, culturali ed economiche, politiche e antropologiche. Il nostro oggetto di analisi, peraltro, esige questa ampia interdisciplinarietà dato che, nell'Impero, le distinzioni che in passato potevano giustificare approcci rigidamente disciplinari stanno progressivamente venendo meno. Ad esempio, nel mondo imperiale, l'economista ha bisogno di una conoscenza di base della produzione culturale per comprendere l'economia; analogamente, la critica culturale ha bisogno di una conoscenza di base dei processi economici per comprendere la cultura. Questo è dunque un requisito intrinseco al nostro progetto. In definitiva, con questo libro speriamo di aver contribuito a fornire un quadro teorico generale, un insieme di strumenti concettuali per teorizzare e agire all'interno e contro l'Impero.

Come altri grossi libri anche questo può essere letto in molti modi diversi: dall'inizio alla fine e viceversa, per singole parti, soltanto qua e là, o basandosi su corrispondenze. I capitoli della Parte Prima introducono la problematica generale dell'Impero. Al centro del libro, nella Seconda e nella Terza Parte, esponiamo la storia del passaggio dalla modernità alla postmodernità o dall'imperialismo all'Impero. La Parte Seconda ricostruisce questo passaggio soprattutto dal punto di vista della storia delle idee e della cultura dall'inizio della modernità sino al presente; il filo rosso è costituito dalla genealogia del concetto di sovranità. La Parte Terza affronta il medesimo passaggio dal punto di vista della produzione intesa in un senso molto ampio, che comprende la produzione economica e la produzione della soggettività. Questa ricostruzione tratta di un periodo più breve e si concentra, soprattutto, sulle trasformazioni della produzione capitalistica, dalla fine del XIX secolo a oggi. C'è quindi una corrispondenza tra la suddivisione interna della Parte Seconda e quella della Terza: i primi capitoli di ogni singola parte affrontano l'epoca moderno-imperialista; i capitoli centrali hanno per oggetto i meccanismi del passaggio; i capitoli finali analizzano il nostro mondo postmoderno e imperiale.

Abbiamo organizzato il libro in questo modo al fine di sottolineare l'importanza del passaggio dall'ambito delle idee a quello della produzione. L'intermezzo tra la Parte Seconda e la Terza funziona come una cerniera che articola il passaggio tra un punto di vista e l'altro. Abbiamo concepito questo cambio del punto di vista in modo simile al momento in cui Marx, nel Capitale, ci invita ad abbandonare la sfera rumorosa dello scambio per penetrare negli antri nascosti della produzione. Nella dimensione della produzione le ineguaglianze si rivelano chiaramente ma, soprattutto, si manifestano le resistenze più efficaci e le alternative al potere dell'Impero. Infine, nella Parte Quarta abbiamo cercato di identificare queste forze alternative che stanno attualmente tracciando le linee di un movimento che ci conduca al di là dell'Impero.

Abbiamo iniziato a scrivere questo libro un bel po' di tempo dopo la fine della guerra del Golfo, e lo abbiamo ultimato un bel po' di tempo prima che iniziasse la guerra in Kossovo. Il lettore dovrà dunque collocarne il contenuto in un punto intermedio tra questi due eventi chiave nella costruzione dell'Impero.

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Pagina 38

CAPITOLO II

La produzione biopolitica

    La «polizia» sembra un tipo di
    amministrazione che dirige lo Stato in
    concorrenza con la giurisdizione,
    l'esercito e le finanze.  È vero.
    E tuttavia, la polizia sembra includere
    tutto.  Come dice Turquet: «Essa penetra in
    tutte le situazioni, in tutto ciò che gli
    uomini fanno e intraprendono.  Il suo
    ambito comprende la giurisdizione,
    l'esercito e le finanze».
    La polizia comprende tutto.
                                MICHEL FOUCAULT


Abbiamo colto alcuni elementi della genesi teorica dell'Impero da una prospettiva giuridica ma sarebbe assai difficile, se non impossibile, restando all'interno di questa prospettiva, comprendere in che modo la macchina imperiale viene effettivamente messa in moto. I concetti e i sistemi giuridici si riferiscono sempre a qualcosa d'altro da loro stessi. Attraverso l'evoluzione e l'esercizio del diritto, essi rivelano le condizioni materiali che definiscono il loro influsso sulla realtà sociale. La nostra analisi dovrà dunque discendere al livello di questa materialità e decifrarvi la trasformazione del paradigma di potere. Dovremo scoprire i mezzi e le forze che producono la realtà sociale e le soggettività che la animano.

IL BIOPOTERE NELLA SOCIETÀ DEL CONTROLLO

Per molti aspetti, l'opera di Michel Foucault ha preparato il terreno all'analisi del funzionamento concreto del comando imperiale. In primo luogo, essa ci permette di individuare un passaggio storico fondamentale nelle forme sociali, e precisamente, il passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo. La società disciplinare è quel tipo di società in cui il dominio si costituisce attraverso una fitta rete di dispositivi o apparati che producono e regolano gli usi, i costumi e le pratiche produttive. La messa in funzione di questa società e la produzione dell'obbedienza ai suoi comandi e ai suoi meccanismi di inclusione/esclusione sono compiti che vengono assolti da una serie di istituzioni disciplinari (la prigione, la fabbrica, il manicomio, l'ospedale, la scuola, l'università e cosi via) che strutturano il terreno sociale e fanno valere delle logiche adeguate alla «ragione» della disciplina. In effetti, il potere disciplinare domina strutturando parametri e limiti del pensiero e della pratica, sanzionando e prescrivendo i comportamenti normali e/o quelli devianti. Per illustrare la nascita della disciplina, Foucault si riferisce, generalmente, all'ancien régime e all'età classica della storia francese; adottando una prospettiva più ampia, potremmo affermare che tutta la prima fase dell'accumulazione capitalistica (in Europa e altrove) si è svolta sotto questo paradigma di potere. La società del controllo (che si sviluppa agli estremi limiti della modernità e inaugura la postmodernità), al contrario, è un tipo di società in cui i meccanismi di comando divengono sempre più «democratici», sempre più immanenti al sociale, e vengono distribuiti attraverso i cervelli e i corpi degli individui. I comportamenti che producono integrazione ed esclusione sociale vengono quindi sempre più interiorizzati dai soggetti stessi. In questa società, il potere si esercita con le macchine che colonizzano direttamente i cervelli (nei sistemi della comunicazione, nelle reti informatiche ecc.) e i corpi (nei sistemi del Welfare, nel monitoraggio delle attività ecc.), verso uno stato sempre più grave di alienazione dal senso della vita e dal desiderio di creatività. La società del controllo può quindi essere definita come una intensificazione e generalizzazione dei dispositivi normalizzatori della disciplina che agiscono all'interno delle nostre comuni pratiche quotidiane; a differenza della disciplina, però, questo controllo si estende ben oltre i luoghi strutturati dalle istituzioni sociali, mediante una rete flessibile e fluttuante.

L'opera di Foucault ci permette inoltre di riconoscere la natura biopolitica del nuovo paradigma di potere. Il biopotere è una forma di potere che regola il sociale dall'interno, inseguendolo, interpretandolo, assorbendolo e riarticolandolo. Il potere può imporre un comando effettivo sull'intera vita della popolazione solo nel momento in cui diviene una funzione vitale e integrale che ogni individuo comprende in sé e riattiva volontariamente. Come scrive Foucault: «Oggi la vita è divenuta [...] un oggetto di potere». La funzione più determinante di questo tipo di potere è quella di investire ogni aspetto della vita e il suo compito primario è quello di amministrarla. Il biopotere agisce dunque in un contesto in cui ciò che è in gioco per il potere è la produzione e la riproduzione della vita stessa.

Queste due linee dell'opera di Foucault si raccordano tra di loro nel senso che solo la società del controllo è in grado di assumere il contesto biopolitico come suo referente esclusivo. Nel passaggio da società disciplinare a società del controllo viene alla luce un nuovo paradigma di potere caratterizzato dalle tecnologie che individuano la società come ambito del biopotere. Nella società disciplinare, gli effetti delle tecnologie biopolitiche erano ancora parziali: la disciplina, cioè, si evolveva secondo logiche relativamente chiuse, geometriche e quantitative; manteneva gli individui all'interno delle istituzioni, ma non riusciva ad assorbirli completamente nel ritmo delle pratiche e della socializzazione produttiva. Non giungeva al punto di permeare completamente i corpi e le coscienze degli individui e cioè al punto di organizzarli nella totalità delle loro attività. Nella società disciplinare, infine, la relazione tra il potere e gli individui era statica: all'invasione disciplinare da parte del potere corrispondeva la resistenza del singolo. Allorché invece il potere diviene completamente biopolitico, l'intero corpo sociale è compreso nella macchina del potere e viene fatto sviluppare nella sua virtualità. Questo tipo di relazione è aperta, qualitativa e affettiva. La società, sussunta da una forma di potere che penetra profondamente nei gangli della struttura sociale e dei suoi processi di sviluppo, reagisce come un solo corpo. Il potere si esprime mediante un controllo che raggiunge le profondità delle coscienze e dei corpi e, a un tempo, la totalità delle relazioni sociali.

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Pagina 55

CAPITOLO III

Le alternative all'interno dell'Impero

    Con il potere dei Consigli dei Lavoratori,
    che deve soppiantare su scala
    internazionale tutti gli altri poteri, il
    movimento proletario diviene il prodotto di
    se stesso e questo prodotto è, nello stesso
    tempo, produttore.  Esso è il suo proprio
    fine.  Solo allora la negazione
    spettacolare della vita sarà a sua volta
    negata.
                                     GUY DEBORD

    Questo è il tempo dei forni di cui si deve
    vedere solo la luce.
                                     JOSÉ MARTÍ


Flirtando con Hegel, si potrebbe dire che la costruzione dell'Impero è buona in sé, ma non per sé. Una delle più potenti operazioni delle strutture di potere dell'imperialismo moderno era stata quella di conficcare dei cunei tra le masse mondiali per dividerle in campi opposti, o, per essere più precisi, in una miriade di parti in conflitto. I segmenti del proletariato dei paesi dominanti sono persino stati portati a credere che i loro interessi erano esclusivamente legati alle loro identità nazionali e al loro destino imperiale. Le più significative istanze di ribellione e di rivoluzione contro le moderne strutture di potere erano quelle che collegavano la lotta contro lo sfruttamento alla lotta contro il nazionalismo, il colonialismo e l'imperialismo. Nel corso di questi eventi l'umanità poteva apparire magicamente unita da un comune desiderio di liberazione e si è creduto di intravedere il bagliore del futuro, del giorno in cui i moderni meccanismi di dominio sarebbero stati distrutti una volta per tutte. Le masse in rivolta, con il loro desiderio di liberazione, i loro esperimenti per costruire delle alternative e le loro istanze di un potere costituente, nei loro momenti migliori, hanno sempre puntato verso l'internazionalizzazione e la globalizzazione delle relazioni, oltre le divisioni imposte dal comando nazionale, coloniale e imperialistico. Nel nostro tempo, il desiderio che fu messo in moto dalla moltitudine è stato indirizzato (in modo strano e perverso, ma nondimeno reale) alla costruzione dell'Impero. Si potrebbe anche dire che la costruzione dell'Impero e delle sue reti globali costituisce una risposta alle lotte contro la moderna macchina di potere e, in particolare, alla lotta di classe spinta dal desiderio di liberazione della moltitudine. La moltitudine ha evocato la nascita dell'Impero.

Dire che l'Impero è buono in sé, tuttavia, non significa dire che esso sia buono per sé. Benché l'impero abbia contribuito a porre fine al colonialismo e all'imperialismo, nondimeno esso costituisce le proprie relazioni di potere su un genere di sfruttamento che, per molti aspetti, è più brutale di quello che ha distrutto. La fine della dialettica della modernità non ha dato luogo alla fine della dialettica dello sfruttamento. Al giorno d'oggi, la maggior parte dell'umanità è più o meno presa nelle reti dello sfruttamento capitalistico. Oggi vediamo una separazione ancora più estrema tra una piccola minoranza che controlla un'enorme ricchezza e moltitudini che vivono in povertà ai limiti dell'impotenza. Le linee geografiche e razziali dell'oppressione e dello sfruttamento tracciate nell'era dell'imperialismo, per molti aspetti, non si sono per nulla dissolte, anzi, si sono moltiplicate in termini esponenziali.

Anche se riconosciamo tutto ciò, insistiamo a sostenere che la costruzione dell'Impero rappresenta un passo in avanti per sbarazzarsi della nostalgia delle strutture di potere che l'hanno preceduto e per rifiutare qualsiasi strategia politica che implichi il ritorno a quei vecchi ordini, come il tentativo di far risorgere lo stato-nazione per proteggerci nei confronti del capitale globale. Sosteniamo che l'Impero è meglio di ciò che l'ha preceduto, allo stesso modo in cui Marx insisteva che il capitalismo era meglio delle forme di società e dei modi di produzione che aveva soppiantato. La tesi di Marx era fondata su un sano e lucido disgusto per le gerarchie rigide e anguste che hanno preceduto la società capitalistica e, nella stessa misura, sul riconoscimento che, nella nuova situazione, i potenziali di liberazione erano cresciuti. Allo stesso modo, anche oggi vediamo l'Impero spazzare via i crudeli regimi del potere moderno e incrementare i potenziali di liberazione.

Siamo ben coscienti che, affermando questa tesi, nuotiamo contro la corrente dei nostri amici e compagni della sinistra. Nei lunghi decenni della crisi della sinistra comunista, socialista e liberale, iniziata alla fine degli anni Sessanta, gran parte del pensiero critico - sia nei paesi dominanti dello sviluppo capitalistico sia in quelli subalterni - ha cercato di ricomporre dei focolai di resistenza fondandoli sull'identità dei soggetti sociali o di gruppi regionali o nazionali e radicando l'analisi politica nella localizzazione delle lotte. Questi argomenti sono per lo più costruiti facendo leva su una sorta di «collocamento» dei movimenti e delle politiche in cui i confini del luogo (concepiti sia in termini territoriali che di identità) vengono contrapposti allo spazio indifferenziato e omogeneo delle reti globali. In altri tempi, questo genere di argomenti apparteneva alla lunga tradizione del nazionalismo di sinistra, in cui (nel migliore dei casi) la nazione veniva concepita come il principale meccanismo di difesa contro il dominio del capitale straniero e/o globale. Oggi il sillogismo in funzione al centro delle varie strategie «locali» della sinistra appare completamente reattivo: dato che il dominio capitalistico è diventato sempre più globale, allora le nostre resistenze devono difendere ciò che è locale e devono erigere delle barriere per limitare l'accelerazione dei flussi del capitale. Secondo questa prospettiva, la globalizzazione del capitale e la costituzione dell'Impero vengono considerate come altrettanti segni di espropriazione e sconfitta.

Insistiamo tuttavia nel dire che questa posizione localista, malgrado il rispetto e l'ammirazione che ci suscita lo spirito di alcuni tra i suoi sostenitori, oggi è, a un tempo, falsa e dannosa. È in primo luogo falsa poiché il problema è mal posto. In molte sue versioni, il problema è presentato nella luce di una falsa dicotomia tra il globale e il locale, presupponendo che il globale provochi l'omogeneizzazione e l'indifferenza, mentre il locale preserverebbe l'eterogeneità e la differenza. In questi argomenti è spesso implicito l'assunto che le differenze locali sono, in un certo senso, naturali o, per lo meno, che le loro origini sono fuori questione. Le differenze locali preesistono allo scenario attuale e devono essere difese o protette contro l'intrusione della globalizzazione. Non sorprende che, dati questi presupposti, molte forme di difesa del locale adottino la terminologia dell'ecologia più tradizionale e identifichino il progetto politico locale con la difesa della natura e della biodiversità. Questa concezione può facilmente scadere in una sorta di primordialismo che cristallizza e mitizza le relazioni sociali e le identità. Quello che occorre discutere è, invece, proprio la produzione della località, e cioè le macchine sociali che creano e ricreano le identità e le differenze che vengono definite locali. Le differenze locali non sono né preesistenti, né naturali: sono effetti di un regime di produzione. Allo stesso modo, la globalità non dovrebbe essere intesa nei termini di una omogeneizzazione culturale, politica o economica. Sia la globalizzazione sia la localizzazione dovrebbero essere comprese come dei regimi di produzione dell'identità e della differenza, o meglio, della omogeneizzazione e della eterogeneizzazione. Il miglior quadro di riferimento per cogliere la distinzione tra il globale e il locale è quello che concerne le reti dei flussi e gli ostacoli in cui il momento o la prospettiva locale dà la priorità alle barriere e ai confini riterritorializzanti, mentre il momento globale privilegia la mobilità dei flussi deterritorializzanti. È in ogni caso falso sostenere che possiamo (ri)stabilire delle identità locali che si troverebbero in qualche luogo protetto al di fuori dei flussi globali del capitale e dell'Impero.

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PARTE SECONDA
PASSAGGI DI SOVRANITÀ


CAPITOLO I

Due Europe, due modernità

    Sia che si affermi l'infallibilità e se ne
    ricavi la sovranità, sia che, ponendo per
    primo il principio di sovranità, ne derivi,
    a sua volta, l'infallibilità, in entrambi i
    casi si è costretti a riconoscere e a
    sanzionare un potere assoluto. Il risultato
    è comunque la coercizione, che si tratti di
    governi oppressivi o di filosofi
    illuminati, che il sovrano sia il popolo o
    il re.
                                FRANÇOIS GUIZOT


Nella vienna del primo Novecento descritta da Robert Musil nell' Uomo senza qualità, un aristocratico illuminato, il Conte Leinsdorf, cerca di decifrare la complessità del mondo moderno, ma si trova sempre di fronte allo stesso paradosso: «Ciò che ancora non riesco a capire è questo: non c'è nulla di nuovo nel fatto che le persone dovrebbero amarsi a vicenda e che occorra un forte intervento delle autorità per spingerle a farlo. Ma, allora, perché tutto ciò dovrebbe ricadere improvvisamente nei termini di un aut-aut?». Per i filantropi del mondo di Musil, al centro della modernità c'è un conflitto che vede opposti, da un lato, le forze immanenti del desiderio e dell'associazione umana, l'amore della comunità e, dall'altro, il pugno duro di un'autorità che sovrasta tutto, che impone e fa rispettare l'ordine nella società. Questa tensione deve essere risolta o, per lo meno, mediata, dalla sovranità dello stato e, tuttavia, essa riemerge di continuo come una questione che mette sempre in gioco un'alternativa: la libertà o la servitù, la liberazione del desiderio o il suo assoggettamento. Il Conte Leinsdorf coglie lucidamente una contraddizione che attraversa l'Europa moderna e che sta al cuore del concetto moderno di sovranità.

Se individuiamo i primi lineamenti del concetto di sovranità nei suoi diversi sviluppi attraverso la filosofia moderna, ci rendiamo conto che né l'Europa né la modernità sono realtà unitarie e pacifiche. Sin dall'inizio, infatti, sono state segnate dalle lotte, dai conflitti e dalla crisi. In tal senso, vanno riconosciuti tre momenti nella costituzione dell'Europa moderna, che articolano la configurazione iniziale del concetto moderno di sovranità: la scoperta rivoluzionaria del piano di immanenza; la reazione contro le forze dell'immanenza e la crisi nella forma dell'autorità; la parziale e temporanea risoluzione di questa crisi mediante la formazione dello stato moderno come sede della sovranità che trascende e media le forze del piano di immanenza. Nel corso della sua evoluzione, la storia dell'Europa moderna è inseparabile dal principio di sovranità. E tuttavia, come denuncia il Conte Leinsdorf, anche all'apogeo della modernità, quella tensione originaria continua a erompere in tutta la sua violenza.

La sovranità moderna è un concetto europeo nel senso che si è sviluppato inizialmente in Europa, coordinandosi con l'evoluzione della stessa modernità. Questo concetto costituisce la pietra angolare nella costruzione dell'eurocentrismo. Benché dunque la sovranità moderna sia nata in Europa, in gran parte si è costituita ed è cresciuta nel corso delle relazioni tra l'Europa e l'esterno, in particolare, nell'ambito del progetto coloniale e della resistenza dei colonizzati. La sovranità moderna è emersa come il concetto della reazione e del dominio europeo sia all'interno che al di fuori dei suoi confini. Ci sono, dunque, due traiettorie parallele e complementari di questo sviluppo: il potere all'interno dell'Europa e il potere dell'Europa sul mondo.

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PARTE QUARTA
IL DECLINO E LA CADUTA
DELL'IMPERO


CAPITOLO I

Virtualità

    Il popolo non esiste più, o non ancora
    [...] il popolo è stato perduto.
                                 GILLES DELEUZE


Nel corso del nostro studio abbiamo parlato dell'Impero nei termini di un'analisi critica dell'esistente, e quindi soprattutto in senso ontologico. A questo punto, per irrobustire le nostre argomentazioni, occorre affrontare la problematica dell'Impero con un approccio etico-politico, e cioè con un riferimento alle passioni e agli interessi - come, ad esempio, quando abbiamo valutato l'Impero come qualcosa di migliore o di peggiore rispetto ai precedenti paradigmi del potere sempre dal punto di vista della moltitudine. Il pensiero politico inglese, nel periodo che va da Hobbes a Hume, rappresenta, probabilmente, l'esempio più calzante di un tale discorso etico-politico. Esso prese le mosse da una descrizione pessimistica della condizione presociale in cui si trova la natura umana e, ricollegandosi a una concezione della trascendenza del potere, si propose di fondare la legittimità dello stato. Il Leviathan (più o meno liberale) è il meno peggio rispetto alla guerra di tutti contro tutti, e ha un valore positivo in quanto stabilisce e conserva la pace. Oggi, però, questo stile del pensiero politico non è più di grande utilità. Esso presuppone una rappresentazione della soggettività presociale, al di fuori di qualsiasi comunità, e successivamente le impone una sorta di socializzazione trascendentale. Ma nell'Impero, nessuna soggettività è lasciata fuori e tutti i luoghi sono stati sussunti in un generale «non-luogo». La finzione trascendentale del politico non sta più in piedi e non ha più alcuna incidenza, poiché tutti noi viviamo integralmente nell'ambito del sociale e del politico. Una volta che ci siamo resi conto di questa caratteristica fondamentale della postmodernità, la filosofia politica ci costringe a entrare nel campo dell'ontologia.

FUORI MISURA (L'INCOMMENSURABILE)

Quando affermiamo che la filosofia politica deve diventare ontologia, vogliamo dire che non è più possibile costruire la politica su qualche fondamento estrinseco; la politica, cioè, è data immediatamente, è un puro piano di immanenza. L'Impero si forma su questo orizzonte superficiale nel quale sono coinvolti i nostri corpi e le nostre menti. È assolutamente positivo. Nessuna macchina logica esterna lo ha costituito. La cosa più naturale è che il mondo appare politicamente unificato, che il mercato è globale, e che il potere si organizza in queste universalità. La politica imperiale articola l'essere nella sua estensione globale - un mare sconfinato mosso soltanto dal vento e dalle correnti. La neutralizzazione dell'immaginazione trascendentale costituisce, quindi, la prima condizione per comprendere la determinazione ontologica del politico nell'ambito dell'Impero.

Ma il politico va inteso in senso ontologico, soprattutto se si tiene conto del fatto che tutte le possibili qualificazioni trascendentali del valore e della misura utilizzate per regolare il dispiegarsi del potere (per fissarne i prezzi, le suddivisioni e le gerarchie) hanno perso ogni coerenza. Dai sacri miti del potere descritti da antropologi come Otto o Dumezil, alle regole della nuova scienza politica concettualizzate dagli autori del Federalist; dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo alle norme del diritto pubblico internazionale - tutto ciò svanisce mentre facciamo il nostro ingresso nell'Impero. L'Impero detta le sue leggi e mantiene la pace con le leggi e il diritto postmoderni, avvalendosi di procedure mobili, fluide e localizzate. L'Impero è la fabbrica ontologica in cui tutti i rapporti di potere - economici, sociali e personali - si intessono in un'unica trama. In questo spazio ibrido, la struttura biopolitica dell'essere rappresenta la dimensione più intima della costituzione imperiale, poiché, nella globalità del biopotere, tutte le stabili misure del valore sono state dissolte e l'orizzonte imperiale del potere si rivela come un mondo fuori misura. Non solo il politico in senso trascendentale, ma il trascendentale in quanto tale ha cessato di determinare qualsiasi misura.

La grande tradizione metafisica occidentale ha sempre aborrito l'incommensurabile. Dalla teoria aristotelica della virtù come misura alla concezione hegeliana della misura come chiave del passaggio dall'esistenza all'essenza, la questione della misura è sempre stata strettamente legata a quella dell'ordine trascendente. Anche la teoria marxiana del valore paga il suo pegno alla tradizione metafisica: la sua teoria del valore è, infatti, una teoria della misura del valore. È solo nell'orizzonte ontologico dell'Impero che il mondo va fuori misura e che possiamo vedere quanto la metafisica sia assolutamente allergica all'incommensurabile. Tutto deriva dalla necessità ideologica di attribuire un fondamento ontologico all'ordine. Così come Dio era necessario alla concezione classica della trascendenza del potere, allo stesso modo, nello stato moderno, la misura è necessaria per la fondazione trascendente dei valori. Se non ci fosse alcuna misura, dicono i metafisici, non ci sarebbe alcun cosmo, non ci sarebbe un mondo ordinato: e se non c'è un cosmo, non c'è neppure lo stato. In questo contesto, l'incommensurabile risulta impensabile, o meglio, non deve essere pensato. Nel corso della modernità, l'incommensurabile è sempre stato oggetto di un divieto assoluto, di una proibizione di carattere epistemologico. Questa illusione metafisica è giunta alla fine poiché, nel contesto dell'ontologia biopolitica e del suo divenire, è la trascendenza a essere diventata impensabile. Quando, al giorno d'oggi, si invoca la trascendenza politica, essa si corrompe immediatamente nella tirannia e nella barbarie.

Quando diciamo incommensurabile, intendiamo dire che gli sviluppi politici dell'essere imperiale si trovano al di fuori di qualsiasi misura precostituita. Intendiamo dire che le relazioni tra i modi dell'essere e i segmenti del potere vengono ricostruite sempre di nuovo e variano infinitamente. Gli indici del comando (come quelli del valore in senso economico) sono qualificati da elementi puramente convenzionali e assolutamente contingenti. Ci sono sicuramente vertici e apici del potere imperiale - il monopolio delle armi nucleari, il controllo del denaro, la colonizzazione dell'etere - che sorvegliano la contingenza perché non divenga sovversiva e non si unisca alle tempeste che sorgono dagli oceani dell'essere. Le prerogative reali dell'Impero garantiscono che la contingenza divenga una necessità e non trascenda nel disordine. Questi poteri supremi, tuttavia, non sono figure rappresentative di un ordine o di una misura del cosmo: la loro efficacia è determinata dalla distruzione (la bomba) dallo sfruttamento (il denaro) e dalla paura (la comunicazione).

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