Autore Thomas Harrison
Titolo 1910 L'emancipazione della dissonanza
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2014, Navigazioni , pag. 320, ill., cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-359-9368-1
TraduttoreFederico Lopiparo, Marco Codebò, Thomas Harrison
LettoreGiorgia Pezzali, 2014
Classe storia dell'arte , critica d'arte , storia letteraria , critica letteraria , storia contemporanea , storia: Europa , paesi: Austria , regioni: Friuli-Venezia Giulia












 

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Indice


    Introduzione                                          7


1.  L'emancipazione della dissonanza                     27

    Gorizia, l'indeterminatezza ebraica
    e l'arte triestina                                   30
    La chimera                                           44
    Duplicità poetica                                    53
    Musica acentrata                                     61
    Spiritualità e materialismo                          68
    Un destino opposto a sé                              78
    Un'ontologia di opposti                              85
    L'esperienza vitale persuasa                         98

2.  Deficienza d'essere                                 109

    Tre donne                                           109
    Una vocazione mortale                               118
    In principio era la fine                            125
    Vita come astrazione                                131
    Sociologia della morte                              136
    Sfacelo del corpo e dell'anima                      141
    Colpa cosmica                                       152
    Impotenza                                           157
    Perdita di sé                                       174

3.  Quel buco chiamato anima                            179

    Autoscopia                                          182
    Individualismo qualitativo                          189
    Trascendenza soggettiva                             194
    Possesso di sé                                      200
    Immagini dell'anima                                 211

4.  Un'etica del fraintendimento                        231

    Trascendenza etica ed estetica                      234
    Povertà di spirito                                  241
    Acquiescenza tragica                                249
    Confessioni estatiche                               260
    Amore intransitivo                                  264
    Le fanciulle dell'unicorno: arte struttiva          270


Postfazione                                             279

Bibliografia                                            293

Indice analitico e dei nomi                             309

 

 

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Pagina 7

Introduzione



                                          1910, l'anno appunto in cui tutte
                                    le impalcature cominciarono a crollare.

                                                             GOTTFRIED BENN



Occhi rossi e gonfi, le cui orbite si espandono attraverso la carne quasi obbedissero a una superiore ingiunzione di non dormire. Pupille dilatate fino a sembrare che trasmettano piuttosto che ricevere percezioni, come accade con il consapevole sguardo di un pesce morto da tempo. Il rosso di questi occhi segnala il doloroso e terrificante affiato di quanto un tempo è forse stata una persona. Qualcosa si sta rimpadronendo di questa faccia, i cui tratti sono in preda al miasma che la affligge. Qui l'unico possibile risultato positivo è il disvelamento. Arnold Schönberg, Lo sguardo rosso, maggio 1910.

Qual è il problema che tormenta questa faccia? È di natura personale o comune? È una conseguenza di quanto accaduto nel 1908, quando Schönberg fu abbandonato dalla moglie per Richard Gerstl, il pittore espressionista che poi si toglierà la vita quando, su insistenza dell'amico Anton Webern, Mathilde tornerà dal marito? O è una premonizione della catastrofe collettiva della Prima Guerra Mondiale? O è qualcosa che appartiene al suo presente che questo volto teme e trova del tutto impossibile da accettare? Se Schönberg fosse stato in grado di rispondere a tali domande non avrebbe avuto motivo di dipingere un simile quadro. Qui, come in altre tele del 1910, egli esprime qualcosa che né la sua musica né i suoi scritti riescono a comunicare. Eppure di fronte a questo quadro si resta con un bisogno di parole che raramente si presenta davanti a opere cubiste o impressioniste. C'è qualcosa nella scabrosità, nell'estrema emotività, nell'«espressionismo» dello stile, che esige una spiegazione, così da rendere necessario conoscere sia l'oggetto di quest'arte destabilizzante sia il perché del suo manifestarsi in questo preciso momento storico.

Il 17 maggio del 1910 la cometa di Halley turba la pace dei cieli d'Europa. Come spesso accade in tali momenti di squilibrio cosmico, l'evento evoca ansie profonde che trovano la loro espressione negli editoriali dei quotidiani che parlano di fatale condanna e degenerazione. Per ogni preoccupazione collettiva ce ne sono migliaia personali. Il 2 maggio, quindici giorni prima dell'apparizione della cometa, un'intima amica dello scrittore Scipio Slataper, Anna Pulitzer, torna a casa dopo un mancato appuntamento con l'amico e si spara di fronte allo specchio; ha in apparenza perso la fede necessaria per vivere. Due settimane prima, il 19 aprile, a non grande distanza dalla città di Anna, Trieste, Sigmund Freud e la Società psicoanalitica di Vienna sono così sgomenti di fronte al crescere dei suicidi nella gioventù dell'Austria-Ungheria da organizzare una conferenza per determinarne le motivazioni. Fra i giovani italiani il suicida più degno di nota non è Anna Pulitzer ma lo studente Carlo Michelstaedter. Il 17 ottobre 1910, non a Trieste questa volta, ma a Gorizia, un'altra città alla frontiera dell'Impero austro-ungarico, quest'artista ventitreenne, nonché filosofo e poeta, è così determinato a concludere la propria vita da spararsi con la rivoltella non una, ma due volte. Il fatto accade in casa della madre il giorno del suo compleanno, in seguito a una discussione fra la donna e il figlio – il fratello maggiore di Michelstaedter era morto un anno prima, anch'egli, pare, suicida.

Esiste un'«idea» all'opera dietro a queste morti? Due giorni dopo il gesto di Michelstaedter, Sabina Spielrein, la paziente schizofrenica e amante di Carl Jung, scrive sul suo diario una riflessione che in quel momento, a quattro anni dalla Prima Guerra Mondiale, si avvia ad assumere una dimensione collettiva. «In segreto,» ella annota il 19 ottobre «sboccia dentro di me il lavoro "sull'istinto di morte"». Una volta terminato, lo studio, pubblicato da Freud nel 1912, propone una tesi che il medico viennese farà sua otto anni dopo in Al di là del principio del piacere, e cioè che l'amore non può separarsi dal suo opposto, ovvero dall'impulso verso la violenza, la negazione e la distruzione. Lo stesso giorno in cui la Spielrein annota il suo segreto, gli studiosi che ritengono che il comportamento personale derivi sempre da tendenze più estese e generalizzate si incontrano in occasione della Prima conferenza della Società tedesca di Sociologia (19-22 ottobre). Sono presenti fra i sociologi Max Weber, Martin Buber e Georg Simmel.

Non è possibile determinare un collegamento diretto fra il quadro di Schönberg e alcuno dei fatti appena accennati, ognuno dei quali, per di più, ha luogo in località lontane e coinvolge persone differenti per sesso, nazionalità e formazione culturale. Nonostante ciò tali eventi rimangono legati da una particolare atmosfera comune e da una muta affinità ideale, che costituiscono - siano esse una questione di idee o di temperamento, di sapere o di percezione - il contenuto di questo libro. Lo si chiami nichilismo in filosofia o espressionismo in arte, tale atteggiamento comporta sia una concezione della storia come incubo, un'ossessione per la mortalità e la decadenza, un senso di emarginazione dell'uomo dall'autonomo procedere della cultura, sia le reazioni indotte da questi fenomeni. I suoi protagonisti sono lo studente Michelstaedter e un gruppo di intellettuali a lui affini: Georg Trakl, Dino Campana e Rainer Maria Rilke; Wassily Kandinsky, Egon Schiele e Oskar Kokoschka; György Lukács, Martin Buber e Georg Simmel; Arnold Schönberg, Scipio Slataper e Wilhelm Worringer. Altre figure, della rilevanza di Giovanni Gentile, Otto Weininger e Ludwig Wittgenstein, si situano sia prima sia dopo l'anno in oggetto, il 1910. Al pari di Michelstaedter molti di questi personaggi erano ebrei e cittadini dell'Impero austro-ungarico, morirono in giovane età e, a volte, per propria mano. Quasi tutti si dimostrarono tanto incerti nel governare i loro intenti quanto l'età in cui vissero lo fu nell'imboccare il proprio cammino.

Michelstaedter si uccide nel giorno in cui termina uno dei lavori più singolari del primo Novecento, la tesi universitaria intitolata La persuasione e la rettorica. In una certa ottica, tuttavia, il suo vero atto conclusivo consiste nel suicidio stesso, in quanto l'opera a cui si era con tanta intensità dedicato nel corso dell'anno non tollerava alcun divario fra teoria e pratica. Che sia l'espressione o il rifiuto della «sanità morale» descritta ne La persuasione e la rettorica, come ancora oggi gli studiosi discutono infuocatamente, questo suicidio non può essere scisso dal pensiero che esso porta alle estreme conseguenze. Un unico e identico principio è infatti all'opera in entrambi, qualcosa che stranamente somiglia all'afona ansietà del quadro di Schönberg.

Al 1910 datano anche i più angosciati autoritratti di Egon Schiele e di Oskar Kokoschka, i più giovani compatrioti di Gustav Klimt.

In Germania, piuttosto che in Austria, tre avvenimenti annunciano il definitivo avvento di una nuova arte espressionistica: (1) la rottura fra gli artisti della Secessione di Berlino che avvia la Nuova secessione; (2) il passaggio dalla nascita della Nuova associazione degli artisti di Monaco nel 1909 ai primi progetti per l'almanacco del Blauer Reiter nel 1911; (3) la fondazione del più duraturo organo dell'espressionismo letterario, il settimanale «Der Sturm». In quest'anno, quando Freud menziona per la prima volta in uno scritto il complesso d'Edipo e Carl Schmitt pubblica Über Schuld und Schuldarten («Sulla colpa e i tipi di colpa»), Georg Simmel aggiorna la sua sociologia culturale con La metafisica della morte. In un articolo per il giornale fiorentino «La Voce», l'italiano Giovanni Boine contrappone la religione alla modernità. Il giovane tossicodipendente austriaco Georg Trakl comincia a scrivere la più inquietante poesia della prima metà del secolo. Nello stesso momento la sua controparte a sud delle Alpi, Dino Campana, getta le fondamenta dei suoi Canti orfici, riscritti in seguito a memoria e pubblicati nel 1914. Periodicamente confinato in istituti correzionali, Campana è chiuso una volta per tutte in manicomio nel 1918, all'età di trentatré anni. Trakl, incestuosamente legato alla sorella più giovane, si uccide prima di raggiungere la trentina. Schiele, nato tre anni dopo Boine, muore un anno dopo, nel 1918, a ventott'anni. Primo artista mai incarcerato in Austria per «offese contro la morale pubblica», trova il modello iniziale per i suoi tormentati nudi nella quattordicenne sorella Gerti.

Nel 1910 siamo anche testimoni della grande ripresa, forse l'ultima, della tradizionale aspirazione europea a liberare lo spirito umano dalle costrizioni della realtà materiale. È il momento in cui il capo delle logge tedesche della Società teosofica, Rudolf Steiner, scrive La scienza occulta ed enuncia i principi dell'antroposofia; nello stesso tempo Arthur Edward Waite pubblica la sua Pictorial Key to the Tarot («La chiave pittorica dei tarocchi») e P.D. Ouspensky fornisce «la chiave agli enigmi del mondo» nel Tertium Organum. La filosofia italiana del tempo conosce l'idealismo più colto di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Ancor più decisiva è la comparsa dell'astrattismo in arte. Tre anni prima, lo storico d'arte Wilhem Worringer aveva legato l'arte simbolica e non-figurativa a una «spazio-fobia spirituale» («geistige Raumscheu») nella psiche culturale. Già nel 1910 egli sente come la medesima fobia sia identificabile nel suo tempo, descritto da Wassily Kandinsky nel primo e tuttora più filosofico manifesto dell'arte astratta, Lo spirituale nell'arte. Sia Worringer sia Kandinsky mettevano in gioco il rapporto fra anima e forma, o fra l'intuizione di una verità e la sua articolazione figurativa. Il più completo studio di tale rapporto si rinviene in un libro pubblicato quell'anno, con le medesime parole a far da titolo, L'anima e le forme, del venticinquenne ungherese György Lukács. In uno «stato di permanente disperazione per l'andamento del mondo», come lui stesso più tardi caratterizzerà questo periodo della sua vita nella Teoria del romanzo, Lukács scrive un ulteriore saggio da includere nell'edizione tedesca del libro, uscita nel 1911: La metafisica della tragedia. Nel corso di quell'anno considera la tragedia come qualcosa che racchiude ogni sforzo dell'anima, non solo verso il raggiungimento della forma, ma anche verso l'agire etico. Il Bene, sostiene Lukács ne La povertà dello spirito (1911), trascende ogni regola della moralità.

Per quanto riguarda le forme a disposizione di quest'«anima», gli anni che precedono la Grande Guerra del 1914 ne vedono l'inesorabile sgretolarsi. In un certo senso, quando le avanguardie distruggono le convenzionali maniere dell'espressione, si ricollegano con logica stringente alla liquidazione della parola compiuta da poeti come Paul Valéry e Hugo von Hofmannsthal. Tuttavia, nel 1910, altri ancora si dedicano a distinguere tra significato e non-senso, specialmente in quell'Impero asburgico al quale appartiene lo stesso Michelstaedter: i filosofi Fritz Mauthner e Adolph Stöhr, il saggista Karl Kraus e, fin dal 1912, Ludwig Wittgenstein. Secondo Kraus e Wittgenstein il contenuto espressivo del linguaggio dipende meno dalle motivazioni conscie dei parlanti che dall'etica tramandata dalle loro comunità; quanto, in questo momento, l'etica appaia decaduta può misurarsi sulla base di un testo, non solo molto influente su Wittgenstein e Kraus, ma sull'intera loro generazione: il best-seller Sesso e carattere (1903) di Otto Weininger. Anch'egli suicida a ventitré anni, Weininger sostiene che né le donne né gli ebrei possiedono la costituzione spirituale necessaria al comportamento morale. L'agire in accordo con le più nobili possibilità dell'essere è alla portata solo dei più geniali fra i maschi.

Che Kraus e Wittgenstein siano di origine ebraica non li trattiene dal sottoscrivere le idee di Weininger più di quanto non sia successo a Italo Svevo o Arnold Schönberg. Lo stesso Weininger è un ebreo e, se dobbiamo credere alle tesi di Theodor Lessing, l'odio di sé degli ebrei è in questa fase della storia una questione di orgoglio. L'ebreo antisemita Max Steiner suggerisce altrettanto quando anch'egli si uccide nel 1910. Nel periodo prebellico innumerevoli pensatori sono fin troppo disposti ad assumersi la responsabilità del senso di colpa descritto da Weininger. Il suo «ebreo» è in sostanza una figura ideale, spiritualmente emarginata dalla cultura normativa cristiana, una creatura senza fede o solide radici, riluttante ad accettare qualsiasi principio o credenza prima di averne esaminato il messaggio alla lettera. Come Adolf Hitler tre decenni dopo – anch'egli un «artista» nel 1910, benché respinto dalla stessa Accademia viennese di Belle Arti che accettò Schiele –, Weininger avrebbe scorto tale «giudaismo» nelle ambizioni di ogni figura di questo studio: costruire la certezza e l'etica ex nihilo (Michelstaedter), articolare visioni uniche di individui eccezionali (Schiele, Kokoschka e Trakl), offrire rappresentazioni pure dell'anima (Kandinsky, Schönberg e il giovane Lukács), ordinare in un sistema le intuizioni altrui (Wittgenstein, per sua stessa ammissione). I lavori di ognuna di queste figure avrebbero rammentato a Weininger le elucubrazioni dell'ebreo in esilio, errante per un deserto e reso nudo dalla diaspora spirituale della storia.

In realtà non pochi temi di Weininger erano già stati annunciati dai critici culturali a cavallo del secolo: uno strisciante senso di «crepuscolo delle Nazioni», di assoluta consunzione dei valori occidentali, di un deteriorarsi fisiologico e spirituale che richiedeva il più chirurgico degli interventi. Lo stesso antisemitismo era solo un canale per quella paura di dissoluzione morale che i sedicenti avversari della decadenza, come Houston Stewart Chamberlain e Julius Langbehn, avevano ispirato nelle classi intellettuali europee. Mentre dozzine di edizioni esaurite di Sesso e carattere convincono queste élite che «essere sé stessi» è tutt'altro che un'impresa innocente, un pensatore ancora più noto raccoglie le prove della vacuità spirituale dell'epoca: è Oswald Spengler e le sue scoperte vengono pubblicate come primo volume de Il tramonto dell'Occidente.

Nel 1910 le visioni nichilistiche dell'Europa cominciano a preoccupare osservatori distanti come l'America:

Ogni lettore di giornali francesi e tedeschi sa che non passa un giorno senza che si produca qualche inquietante discussione sulla supposta decrepitudine sociale: caduta della natalità; declino della popolazione rurale; ridotta efficienza degli eserciti; moltiplicazione dei suicidi; crescita della follia o dell'idiotismo, del cancro, della tubercolosi; segni di esaurimento nervoso, di indebolimento della vitalità; «abitudine» all'alcol o alla droga; indebolimento della vista nei giovani e così via, senza fine.

Sono parole di Henry Adams, rivolte agli storici nel febbraio 1910. Sono questi infatti i più allarmati perché, nel momento a cui si riferisce Adams, fatti che potrebbero altrimenti apparire accidentali assumono le dimensioni di sinistri presagi: il piano militare 19 della Russia zarista per aprire le ostilità su due fronti contro l'Austria e la Germania; l'eclisse totale di sole; la «calcolata offesa» alla monarchia austriaca della Casa Adolf Loos, costruita di fronte alla piazza della residenza degli Asburgo a Vienna. Nel 1910 questi eventi sono letti come rivelazioni, come avvertimenti, come una chiamata alle armi.

La vera chiamata alle armi, quattro anni dopo, era stata anticipata nel drammatico racconto dell'attacco tedesco all'Europa occidentale intitolato The Invasion of 1910 («L'invasione del 1910», 1906). Se l'inglese William Le Queux fu «presago» nell'ambientare la sua guerra fittizia nel 1910, fu perché questo momento formulava al meglio una dialettica che doveva improntare tante decisioni delle potenze belligeranti nel 1914-1918. Era una dialettica che poneva le radici della creazione nella distruzione, della conoscenza nella cecità, della speranza nella disperazione, e che attribuiva valore a situazioni che ne apparivano interamente prive. Nelle opere prebelliche di Michelstaedter, Kandinsky, Lukács e Buber, è ancora all'opera una dialettica luminosa, che pensa fino in fondo il proprio principio di capovolgimento. Nel 1914 è già diventata sinistramente letterale, alimentando l'incauta convinzione che la conflagrazione possa servire come strumento della cauterizzazione e che il radere al suolo la vita possa purgarla dalle infezioni. Hanno mai sospettato i pensatori del 1910 che la loro dialettica potesse cadere preda della negatività che lei stessa tentava di sconfiggere? Una risposta affermativa trova poche giustificazioni, eppure qualcosa porta Michelstaedter e Trakl al suicidio e Campana e altri alla follia. Né possiamo tralasciare il fatto che numeri senza precedenti di giovani siano impazziti o si siano tolti la vita negli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale — cioè prima di essere chiamati alle armi. Non possediamo strumenti di indagine che possano chiarire una tale questione, ma questa sindrome ricorre spesso, ad esempio negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale. L'anno 1910 è la prefigurazione spirituale di una fatalità indicibilmente tragica, riscontrabile nei toni degli audaci e degli angosciati, dei devianti e dei disperati, nell'arte di una gioventù precocemente invecchiata nell'attesa di una guerra che aveva a lungo sperimentato nello spirito.

La precognizione qui si sente nella sofferenza stessa. Per coloro che diffidavano dei dirigenti politici e delle risposte pratiche a fenomeni non assimilati intellettualmente, una reazione virulenta come la guerra a vaghe paure di dissoluzione non poteva essere che la malattia mascherata da cura. Ciò non vuol dire che gli intellettuali si raccolsero nell'opposizione alla guerra; di fatto la maggioranza non lo fece. Questa testimonianza di Rainer Maria Rilke è solo una fra le tante: «Nei primi giorni di agosto,» egli scrive in una lettera del 6 novembre 1914, «lo spettacolo della guerra, del dio della guerra, mi afferrò». Disastro e angoscia, egli riflette, non sono ora più diffusi che nel passato, sono solo più tangibili, più attivi, più evidenti:

Perché l'angoscia in cui l'umanità è giornalmente vissuta proprio fin dall'inizio non può in realtà crescere, non importa quali siano le circostanze. Cresce tuttavia la comprensione dell'indicibile miseria dell'uomo, e questo è forse ciò a cui ogni cosa ci sta portando oggi; un crollo grandissimo — come se nuove risorgenze cercassero via libera e spazio per lo slancio!

È precisamente tale via libera per risorgenze e slanci che cercano il pensiero e l'arte del 1910, ma nel contesto di una miseria così lucida, di uno sconvolgimento talmente filosofico e metafisico, che non potrebbe affatto essere corretto da soluzioni politiche. Se ciò che ci colpisce di più oggi è proprio il nichilismo di quegli anni prebellici, l'orrore di tanta sua pittura, musica e letteratura, è perché in esso noi sentiamo un segnale d'allarme che trascende ogni possibile preoccupazione particolare.

Nel 1910 il primo decennio nell'ultimo secolo del morente millennio viene a concludersi. Nei sette anni che lo precedono e lo seguono assistiamo ad alcuni dei più sorprendenti cambiamenti della storia moderna: drastici rimescolamenti di nazioni, economie, società e coscienze; rivoluzioni artistiche, scientifiche e politiche; i programmi aggressivi di Georges Sorel e delle minoranze ribelli in tutto il continente. Nulla, nel 1910, è veramente concluso, nulla definitivamente iniziato. Ogni sforzo d'inizio è nel contempo una fine, ogni fine un inizio occulto. La «degenerazione» e la «decadenza», un tempo accostate al presente e al passato, indicano fenomeni che avranno fatalmente il sopravvento nel futuro. L'anteguerra fu un laboratorio, di futurismo quanto di passatismo, che mise alla prova tutti gli interessi di un'Europa simultaneamente vecchia e nuova: i confini dell'identità personale, sessuale e sociale; la solidità delle fondamenta morali e teoriche; gli effetti della tecnologia e dell'urbanesimo; la validità e i metodi delle scienze umane – riflessi nel sorgere di fenomenologia, psicologia, sociologia e filosofia del linguaggio, per non parlare di teosofia, antroposofia e altre, meno concrete, ricerche. A dieci anni dall'inizio del secolo, sembrava che sia il morire sia il nascere tardassero ad arrivare.

Possiamo distinguere dei «tratti determinanti» in una così complessa età di transizione? In gran parte le distinzioni vengono già fatte nell'atto stesso della ricerca. Si decide, per una ragione o per l'altra, di esplorare una particolare serie di testi e si prende quindi nota delle domande che essi propongono. Un'ipotesi preliminare comincia a prender forma, alla cui luce altri testi vengono messi alla prova; si raffina e rivede l'ipotesi, convincendosi finalmente di aver afferrato un punto solido. Il metodo da me seguito non è stato diverso. Ho cominciato a concepire la possibilità di questo studio quando mi sono convinto che nel 1910 un particolare fascio di problemi venne affrontato con una intensità fino ad allora sconosciuta.

La scelta delle questioni mi è stata ulteriormente facilitata dal ruolo centrale che ha giocato fin dall'inizio il lavoro di Carlo Michelstaedter (fig. 2). Le ricerche intorno al contesto in cui visse e pensò, condotte per preparare il terreno a uno studio incentrato sulla sua figura, hanno presto prodotto l'idea che egli non fosse affatto un caso isolato, che il suo idealismo nichilista fosse il prodotto di un'indagine assai tradizionale, che i suoi pensieri più radicali trovassero riscontro in altri pensatori contemporanei, che i suoi disegni e quadri si inserissero di diritto in una corrente artistica ben radicata in quella parte del mondo che noi chiamiamo Mitteleuropa, che tante sconcertanti tendenze dell'arte e del comportamento prebellici avessero un senso all'interno di una cornice di pensiero che egli rese esplicita.

Quel che è risultato, quindi, non è tanto uno studio su Michelstaedter, quanto una sintomatologia del suo tempo, una sezione trasversale di eventi intellettuali, artistici e storici. Non si tratta allora di una storia di quel che accadde nel 1910, quanto di ciò che alcuni di questi eventi espressero, un racconto che preserva la propria angolazione, nella maniera forse di un ritratto espressionista, che non traccia le caratteristiche di un volto, quanto una sua immaginaria riscrittura. Quel che conta non è la «storia», ma una storia di simboli. Tuttavia una storia di simboli è storia nel senso tradizionale, basata su anni cruciali come il 1492 o il 1776, sui grandi viaggi transoceanici, sulle innovazioni tecnologiche, su eventi rivoluzionari come la caduta del muro di Berlino. In verità molte città, oltre a Berlino, sono state forzatamente divise tra due stati senza avere per ciò trovato un posto negli annali della storia o senza essersi trasformate in simboli. Una è la città natale di Michelstaedter, Gorizia, ora divisa fra Italia e Repubblica di Slovenia, in precedenza fra Italia e Jugoslavia, e in mani austriache prima del 1918 (si vedano le figure 4 e 5). Anche in questa città, come in innumerevoli altre, gente e idee sono andate e venute senza lasciare traccia alcuna nella memoria, poiché le cose sono storiche non per essere accadute, ma perché rinvengono un posto nella coscienza, al modo di una torre ottomana in Bosnia o della bandiera della Macedonia. Questo studio spera appunto di creare nella coscienza uno spazio per i risultati di un momento storico che non è mai diventato simbolico, anche se cristallizzò processi in atto da secoli. Si ricollegano a questo momento luoghi come Trieste, Budapest e Monaco, messi di solito in ombra dai ricordi più forti delle contemporanee Parigi e Mosca. In questi luoghi si inserisce una serie di figure culturali «secondarie», oscurate dalle più imponenti icone di Picasso, Einstein, Freud e Lenin.

Da questo intreccio di testi, o di spezzoni di testo, emerge una cronaca di note a margine dei più famosi racconti di storia, politica, economia e psicologia. È una narrazione che si ammette dissonante: in certi momenti salta con rapidità da un discorso a un altro, in altri scava lentamente nelle sottigliezze di un unico passaggio teorico. Tratteggia solo un'unghia, non la mano o il braccio o il cuore, di un complesso corpo culturale, una fioritura, non il ramo o il tronco. Per quanto riguarda il «tronco» che talvolta si crede sottostia a tale fioritura, come se fosse una qualche determinante condizione storica di cui il pensiero e l'arte sarebbero lo sviluppo, esso è un'entità non meno simbolica di ciò che sembra produrre, entrambi frutto di innumerevoli processi, nessuno dei quali può essere pienamente descritto, anche là dove la fioritura che si cerca di comprendere sia una singola persona o un unico verso di poesia. Ci sarebbe troppo da sintetizzare per descrivere un tale «tronco», troppo da ridurre a un ordine intellettuale senza gli strumenti adeguati, senza poter mai spiegare perché proprio questa fioritura sia risultata necessaria, o abbia assunto la forma che prese. Qui il desiderio del «perché?» si soddisfa meglio col «che cosa?» o con la paziente osservazione dell'evidenza. Riconoscere legami, intrecci, analogie nel «che cosa» è forse l'unico mezzo che abbiamo per avvicinarci al «perché».

Le «fioriture» trattate in questo studio sono sia opere di filosofia, sociologia, pittura, musica e poesia, sia fenomeni a sfondo etico ed esistenziale come il suicidio e la follia. Se il nome proprio per il fiorire è sempre Michelstaedter, è perché – in quanto filosofo, poeta, pittore e moralista – egli incarna il maggior numero di queste caratteristiche. Il nome comune rimane espressionismo.

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[...] Prima della Grande Guerra risuona, per l'arte, un richiamo a parlare di unità attraverso la differenza o a non parlare affatto.

Perché un tale richiamo? Perché questa dissonanza nella musica? Un simile scuotersi e scontrarsi delle forme nella pittura? Perché tali oscure e irrisolte tragedie nel teatro, nei romanzi e nella poesia? Hanno forse dei corrispettivi nella sfera sociale e istituzionale? E questo ordinamento del disordine a proposito di che cosa potrebbe essere «emancipante»? La domanda «perché?» non può essere messa a tacere nel descrivere il terreno storico delle questioni in gioco.

Come ha spiegato Aristotele, «perché?» va in cerca non solo delle cause materiali, ma anche di quelle finali, degli obiettivi del fenomeno in questione. L'arte, mentre risponde sempre a condizioni storiche, mira anche a svelare un qualcosa che queste stesse condizioni non esprimono; nel processo complica la conoscenza da cui eravamo partiti, ridefinendo la nostra comprensione delle «cause» grazie alla natura della sua risposta. Quando noi identifichiamo le circostanze e le esperienze che servono ad alimentare l'atto creativo, abbiamo compiuto solo la prima curva del cerchio, un cerchio incompleto finché non ritorniamo a quelle stesse esperienze muniti della nuova consapevolezza che ci è fornita dall'atto in questione; ciò cambia la nostra visione iniziale, rimettendo in moto l'intero cerchio. Nessuna comprensione delle circostanze «determinanti» un'opera d'arte è di grande utilità, a meno che non sia direttamente determinata dall'opera stessa, e questo ci dà altrettante interpretazioni quante sono le letture. In questo momento la domanda «perché?» lascia la sua priorità alle domande «che cosa?» e «come?» — per quanto circolari risultino anch'esse. Quali sono le questioni che un'opera cerca di definire? E come vengono plasmate dai termini in cui sono espresse? Qui la domanda «perché?» si frantuma in una serie di relazioni vicendevolmente determinanti, ramificazioni di esperienze sociali, ideologiche e psichiche, che potrebbero mancare persino di un fondamento comune. A questo punto ci si volge alle relazioni, sperando che il loro «perché?» possa chiarirsi nel loro «che cosa?» e nel loro «come?».


Gorizia, l'indeterminatezza ebraica e l'arte triestina

Nel 1910, per molte acute menti europee, l'esperienza appare sconvolta dalla contraddizione. Il continente è sull'orlo della Prima Guerra Mondiale. Secondo una certa prospettiva la guerra già rivela quella dissonanza della cui unità gli artisti vanno in cerca: uno scontro tra unione e divisione, nazionalismo e internazionalismo, aristocrazia e borghesia, specificità etnica e anonimità imperiale. La disposizione mentale dell'Europa negli anni precedenti la guerra è anche l'effetto di conflitti reali: lo sbilanciamento delle potenze da parte della Triplice Intesa nel 1907, l'annessione della Bosnia-Erzegovina a opera dell'Austria nel 1908, le crisi del Marocco e dell'Ulster, lo scontro italo-turco, le guerre balcaniche, le conflittuali identità nazionali di cechi, serbi, magiari e altri gruppi sparsi all'interno degli imperi ottomano e austro-ungarico. L'ideologia sociale si ritrova sempre più polarizzata fra radicali e conservatori, sinistra e destra, uomo e donna, giovani e vecchi. Per Freud è il tempo di fare i conti col fatto che persino la psiche è «un'arena e un campo di battaglia per finalità che mutualmente si oppongono o, per metterla non-dinamicamente, che essa consiste in contraddizioni e in coppie di contrari». La psicanalisi racconta una storia in cui la coscienza è in competizione con la sua controparte inconscia, gli impulsi leciti con quelli illeciti, i desideri con i bisogni, tutte entità la cui cooperazione non sarà mai meno che faticosa. Il conflitto, come sostengono i sociologi Max Weber e Georg Simmel, si estende dall'Io alle sue relazioni sociali. La salute dell'Ego risiede, psicologicamente e socialmente, in parte nel cedere alle richieste altrui, in parte nel resistervi.

Sin dagli ultimi anni del Diciannovesimo secolo, i pensatori europei avevano diagnosticato, sia nella psiche sia nelle civiltà, due sindromi radicalmente antitetiche, ascesa e declino, sanità e malattia, vitalità e degenerazione. Entro i primi anni del Ventesimo secolo, Lebensphilosophen («filosofi della vita») e pragmatisti riducono il conflitto a una fondamentale opposizione fra volontà esuberante e ragione pietrificante, o fra anima e spirito. I fenomenologi e i filosofi del linguaggio separano i segni dai loro significati, e i fatti in apparenza autoevidenti dai valori. Tutto questo gioca la sua parte nella dissonanza che gli artisti si sentono chiamati ad armonizzare nel 1910.

Questi conflitti furono più «reali» o «tragici» di altri in epoche precedenti? Per esempio, nel 1910 la gioventù dell'Italia o dell'Austria-Ungheria soffrì la repressione sessuale più profondamente, come è stato spesso suggerito, di quella di un secolo prima? Gli avvenimenti, quali essi siano, che potrebbero dare una risposta a tali questioni non sono così importanti come la maniera in cui furono percepiti. La repressione, il processo con cui la psiche difende sé stessa contro un impulso inaccettabile, fu una delle nuove percezioni dell'epoca. «Fu una novità, e niente del genere era mai stato individuato nella vita mentale». La repressione morale e psicologica fu senza dubbio persino più forte in epoche precedenti, ma non venne identificata come tale prima che ci si inoltrasse nel Ventesimo secolo. Qualcosa di simile si applica alle nozioni di conflitto, lotta e tragedia. Se la tragedia risiede nella percezione – non nel fatto – che l'esperienza è tormentata da opposizioni dolorosamente inconciliabili, allora gli anni che precedettero la Prima Guerra Mondiale furono, in Europa, fra i più tragici. Miguel de Unamuno non parlò solo a nome della Spagna, ma dell'intero continente quando descrisse Il sentimento tragico della vita nel 1913: «Poiché noi viviamo solo nelle e delle contraddizioni, poiché la vita è tragedia e la tragedia è lotta perpetua, senza vittoria o speranza di vittoria, la vita è contraddizione». Prima del 1910 le filosofie di Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche avevano pervaso perfino la cultura media europea. Georg Simmel si spinge fino a descrivere la tragedia come fondamentale non solo per la cultura, ma per l'organico dispiegarsi della vita (ne La metafisica della morte del 1910 e in Concetto e tragedia della cultura del 1911). György Lukács vede la tragedia come la forma essenziale dell'umana esperienza, che emerge in tutti i momenti di decisiva transizione storica. Egli pensa alla sua epoca storica quando nota che la tragedia organizza le modalità della comprensione collettiva in ogni «eroica età di decadenza», mentre nuovi sentimenti e istituzioni sorgono a dar battaglia a quelli vecchi. Il «profondo conflitto etico ed ideologico [da cui] le tragedie traggono le loro origini» ha una o due conseguenze: «o l'anima dei vecchi esseri umani è lacerata dall'irriducibile dissonanza fra il vecchio ed il nuovo, o le nuove sensazioni sono distrutte dal peso delle forze ancora vitali delle vecchie istituzioni».

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Nella stessa regione, quarantaquattro chilometri a nord-ovest dalla Trieste di Slataper, c'è una città conosciuta dagli austriaci come Görz, dagli italiani come Gorizia e dagli sloveni come Gorica. Nel Settecento, in seguito alla voce che la provincia offriva opportunità di lavoro per gli ebrei, la famiglia di Carlo Michelstaedter era emigrata nelle vicinanze, giungendo dalla città tedesca di Michelstadt, nei pressi di Darmstadt. Alla fine del Diciannovesimo secolo questi Michelstaedter erano del tutto italiani, anche se ricevevano la loro educazione, come la maggior parte dei cittadini dell'impero, soprattutto in tedesco. Considerandosi italiani, ma austriaci per lo stato, per gli altri erano soprattutto ebrei. In queste frange di stato senza eredità, i problemi di identità non sono una scelta, ma un doloroso destino.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale Gorizia passò dagli austriaci agli italiani. Ventisette anni dopo, in seguito alla firma dell'armistizio della Seconda Guerra Mondiale, la città di Gorizia fu occupata dalle truppe iugoslave del maresciallo Tito. Un intero mese passò prima che gli Alleati rispondessero alle richieste italiane di aiuto. Il ritardo si può attribuire, senza dubbio, in parte al fatto che Tito era un alleato e in parte al fatto che l'Italia era una potenza sconfitta. Qualunque sia la spiegazione, le rivendicazioni di Tito sul territorio ebbero successo; per sistemare il contenzioso fra italiani e slavi, non fu trovata una via migliore che far correre il confine nazionale attraverso la città. Quasi cinquant'anni dopo, una barriera di ferro separa ancora un settore di Gorizia dall'altro, trasformando le strade in vicoli ciechi, come un tempo a Berlino. Un quarto di una piazza si trova in Italia, tre quarti in una nazione trasformatasi più tardi, nel 1991, nella Repubblica di Slovenia. Per camminare da una parte all'altra della città bisogna passare oltre la frontiera. Italiani e sloveni, come ai tempi di Michelstaedter, abitano ancora entrambe le parti della città, insieme a rari austriaci che addobbano le loro case con le fotografie dell'imperatore Francesco Giuseppe, morto nel 1916. In seguito alla deportazione ad Auschwitz da parte dei tedeschi, tra le cui vittime sono comprese la sorella e l'ottantanovenne madre di Michelstaedter, sono spariti solo gli ebrei, la cui popolazione si è ridotta da quasi trecento a meno di dieci. Gorizia, come Trieste costantemente emarginata dagli stati a cui è appartenuta, ha oggi per gli italiani meno significato di quanto ne avesse un tempo per gli austriaci. Per rendere l'ironia persino più amara, il cimitero di quegli ebrei che abbracciarono la causa italiana contro l'Austria, quello dove sono sepolti Michelstaedter e la sua famiglia, non si trova né in Italia né in Austria, ma in uno stato che nessuno di loro conobbe. Anche qui la casa di tutti è la casa di nessuno.

L'intellettualità mitteleuropea ha un nome per questa sindrome: è l'esperienza dell'ebreo, emblema della non-appartenenza, del fallimento dell'integrazione etnica, sociale, etica e psicologica. Non è stato necessario Otto Weininger per postulare questo legame, stabilendo una connessione fra l'esperienza giudaica e un senso di mancanza di direzione, di opposizione e di disintegrazione. I passi principali erano già stati intrapresi dalla tradizione a cui Weininger apparteneva. Prima dell'inizio del Ventesimo secolo numerosi pensatori avevano associato il giudaismo a tutto quanto minacciava una stabile identità culturale: scetticismo, astratta meditazione, materialismo, egotismo e indifferenza per le comuni convinzioni. Gli storici della cultura avevano, in un momento o in un altro, scaricato tutta la responsabilità per mali come il razionalismo, l'empirismo e l'individualismo sulle spalle degli ebrei. Nelle interpretazioni più estreme, la pretesa propensione ebraica al pensiero speculativo era riconducibile a una perversione innata. Gli ebrei erano «contronatura» per istinto, contrari alle forme produttive, e di per sé evidenti, di una vita naturale. In un'interpretazione più moderata, avanzata negli anni Quaranta da Jean-Paul Sartre, il talento degli ebrei per l'astrazione, la speculazione e il calcolo risultava essere piuttosto la conseguenza, non la causa, di un male del quale non erano responsabili; era una reazione alla loro forzata esclusione dalle tradizioni e dalle opportunità delle culture in cui vivevano. In aggiunta a questi argomenti, essenzialistici o storicistici, c'erano ragioni ideologiche che venivano addotte per spiegare le differenze fra cristiani ed ebrei. Il giudaismo era un credo privato, paradossale, meno fondato sul rito di quanto lo fosse il cristianesimo; incoraggiava nei suoi fedeli lo sviluppo di qualità riflessive e analitiche. Non vincolati dal peso della storia della Chiesa, gli ebrei esploravano più facilmente i sentieri del libero pensiero.

Weininger diede motivazioni metafisiche, non biologiche o storiche, per il tipo ebraico. L'ebreo, egli dichiara, è essenzialmente un «miscredente», una persona che non crede in nulla. Giudaismo e nichilismo sono così sinonimi che conducono le persone a porre il loro immediato interesse al di sopra di tutto il resto. Che cosa accade, si domanda Weininger, quando una persona «non ha un ultimo termine, un fondo su cui la sonda dello psicologo urti con suono ben distinto»? Qualunque cosa. I contenuti psichici dell'ebreo sono «tutti affetti da una dualità o pluralità; da tale ambiguità, duplicità, anzi molteplicità, non sa liberarsi mai». Orfano di quella «semplicità psichica» che fiorisce nella fidente devozione a una spontanea tradizione morale (ovviamente quella cristiana), l'ebreo è creatura della maschera, speculativo in più di un senso, volto sia a riformulare la realtà nel pensiero sia a rispecchiare le credenze altrui senza curarsi del fatto che siano vere o false.

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Pagina 125

Se c'è un senso di deficienza dell'essere agli inizi del Novecento, esso deriva da un disagio etico e metafisico oggi molto meno comune o molto più inibito (anche se non fino al punto da impedire che esploda in innumerevoli atti di violenza definiti spesso «incidenti isolati», di natura molto più raccapricciante rispetto alla violenza suicida di allora). Accanto alle dozzine di ragioni economiche, psicologiche e politiche che spiegano le visioni oscure del 1910, c'è anche una tendenza ad aspirare a un'etica più assoluta di quanto attualmente immaginiamo alla nostra portata. «L'essenza della morte nel mondo» dice Daniel, il portavoce immaginario di Buber, «era divenuta il peccato per il quale io dovevo espiare». Mentre lo spirito «ottimistico» contemporaneo rischia continuamente di essere frustrato da tutto ciò che esclude dalla propria visione, quello «pessimistico» di inizio secolo cercava qualcosa di più vicino a ciò che Trakl chiama una «metamorfosi del male» — un'assimilazione, più che una negazione, delle forze distruttrici. A essere «patologico» non è tanto il sentimento delle deficienze della vita, quanto piuttosto il rifiuto nosofobico di riconoscere queste deficienze: la propagazione passiva del loro travestimento morboso.


In principio era la fine

Se la morte era ancora un elemento esotico nel pensiero del tardo Diciannovesimo secolo, nel 1910 aveva già conquistato pieni diritti di cittadinanza. La svolta è segnata da un breve saggio del sociologo Georg Simmel intitolato La metafisica della morte (1910). Il saggio respinge le concezioni della morte più diffuse in Europa al fine di rappresentarla come un principio che struttura ogni atto vitale dall'interno. Il primo bersaglio di Simmel è la visione materialistica della morte come mera interruzione del respiro. Il secondo è l'idea religiosa secondo cui la morte sarebbe un evento di transizione, un passaggio verso la vera vita. Entrambe queste concezioni vedono la morte come differente e separata dalla vita – come un'intrusione esterna, un arresto dell'azione, un taglio del filo della storia. Simmel al contrario descrive la morte come «legata alla vita dal principio e dall'interno».

Le azioni e le possibilità storiche di un organismo, argomenta Simmel, sono circoscritte fin dall'inizio dalla sua fine. Solo entro i confini di un'esistenza mortale e grazie alle limitazioni pratiche di ogni esperienza possibile, una vita acquisisce identità e forma. In questo senso, il comportamento assunto momento per momento da ogni creatura è una risposta implicita al fatto che nulla di quello che può realizzare durerà per sempre, al fatto incalzante che anch'essa morirà e deve perciò assolvere alle sue funzioni entro uno spazio e un tempo determinati. Ogni istante, con le sue considerazioni e i suoi atti, scrive Simmel, «sarebbe diverso se questa non fosse la nostra sorte, che influisce in esso». Se crediamo che la morte sia l'«opposto» della vita, una condizione che segna solamente un limite a ciò che nella vita possiamo fare (come se questa vita potesse essere esattamente quello che è, solo più lunga, se la morte non interferisse con essa), semplicemente ignoriamo quello che sappiamo prima di iniziare a pensare. La morte plasma l'esperienza dall'interno, delineando in anticipo la natura delle nostre aspirazioni, dei nostri desideri e delle nostre decisioni. La vita non ha alcuna direzione se non nella finitudine e grazie a essa.

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Pagina 182

Autoscopia

«Quando vengono scosse religione, scienza e morale [...], quando i sostegni stanno per crollare,» scrive Kandinsky, «l'uomo distoglie lo sguardo dall'esteriorità e lo rivolge a sé stesso». In questi frangenti le persone si orientano verso «materiali e ambienti che danno carta bianca alle aspirazioni e alle ricerche non-materiali dell'anima assetata». L'anima diventa l'unica vera sede del reale ed è portata a osservare sé stessa (autoscopia).

Nel 1910 i materiali e gli ambienti che danno carta bianca alle aspirazioni dell'anima assumono varie forme. Sono gli scavi soggettivi della psicologia, della fenomenologia, della teosofia e dell'idealismo filosofico. Sono gli audaci esperimenti della musica atonale e dell'astrazione pittorica, entrambe tese a veicolare possibilità spirituali in forme percepibili. La «svolta» di cui parla Kandinsky avviene quando il mondo politico e tecnologico sembra riflettere un'immagine distorta della vita interiore e in cui opere come I quaderni di Malte Laurids Brigge cercano nuovi metodi per vedere e comprendere, nuove strategie per raccogliere più di mere impressioni passive di oggetti senza vita. Mentre le tele dei dipinti diventano veicoli di sentimenti e intuizioni, ritratti e autoritratti tentano di trasmettere l'interiorità dell'apparenza oggettiva. Schiele si dipinge nudo. Michelstaedter cerca di esprimere una persuasione senza voce. Kandinsky e Kokoschka «dipingono quadri il cui oggetto che ne costituisce il tema è poco più di un pretesto [...] per esprimersi come finora soltanto il musicista ha potuto esprimersi». Schönberg, l'autore di questa affermazione, spera che la libertà di cui godono i musicisti possa infine essere condivisa dalle arti visive — e che «chi ancora va alla ricerca del testo, del soggetto materiale, ben presto smetta di cercare». E tuttavia un testo c'è ancora in questa nuova arte espressionista ed è l'Io, più solitario e nudo di quanto non fosse mai stato.

In Kandinsky, le parole «spirito» e «anima» non indicano solamente le rispettive nature di esseri individuali e concreti. Identificano la «necessità interiore» di un'epoca, che giunge all'espressione nell'arte. Ma anche in Kandinsky questa necessità non scopre la propria forma senza percorrere la strada dell'interiorità umana. Solo un passo separa le teorie de Lo spirituale nell'arte e la memorabile distinzione che Paul Kornfeld traccia tra arte espressionista e arte non espressionista: la prima si interessa dell'«uomo ispirato», la seconda dell'«uomo psicologico». L'uomo psicologico, commenta Walter Sokel, «è l'uomo visto dal di fuori, come l'oggetto di una descrizione o di un'analisi scientifica. L'"uomo ispirato" è l'uomo sentito dall'interno, nella sua unicità ineffabile». Nei termini analoghi di Giovanni Gentile, l'uomo ispirato è «un soggetto concepito veramente come un soggetto», non «ridotto a uno dei tanti oggetti finiti che son contenuto dell'esperienza». La persona psicologica è l'io-visto-come-oggetto, la persona ispirata è l'io-esperito-come-soggetto.

Alessandra Comini propone una distinzione simile nel suo studio su Schiele. Sostiene che i ritratti del giovane austriaco non sono interessati alla «facciata» esterna di una persona ma alla psiche, non all'«uomo politico, religioso o economico» dell'arte precedente ma all'«io interiore». E nell'esplorare tale soggetto, Schiele riflette la ricerca collettiva della sua epoca. Il nuovo eroe della generazione espressionista – messo in scena per la prima volta da Oskar Kokoschka in Assassino, speranza delle donne – è «l'Uomo-Io, trasparente e dolorosamente autobiografico». Il desiderio di penetrare le essenze «come ai raggi X» è condiviso da molti contemporanei di Schiele, anche se tra di loro non concordano su come raggiungere tale penetrazione.

Un'ampia gamma filosofica separa le astratte ramificazioni dello spirito di Kandinsky dalla psicobiografia grafica di Schiele. A un estremo abbiamo l'idea di un'anima collettiva e forse perfino cosmica con cui si può entrare in contatto attraverso l'arte o il pensiero. Dall'altro la percezione di un Sé interamente concreto e finito, che sia Io o Es, libido o moralità, maschio o femmina o qualche combinazione. Le concezioni al primo estremo della gamma – teosofia, antroposofia, occultismo e perfino la psicologia junghiana – tendono a enfatizzare l'unità e la continuità tra gli esseri viventi. Quelle all'altro estremo mettono in risalto le disgiunzioni. Nel 1910, tuttavia, le gradazioni della gamma non sono così facili da tener separate. Nessuna teoria ne esclude completamente un'altra. I colori si mescolano, controbilanciando le distinzioni categoriche. In effetti, l'incertezza sulle modalità spirituali – la «confusione» ontologica, per così dire – è immanente alla svolta autoscopica, a un laboratorio di soggettività alimentato simultaneamente da diversi elementi, energie e interessi.

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Pagina 230

Il grande pathos dell'arte espressionista anteguerra risiede dunque nel suo inseguire un ideale dell'Occidente fino al punto in cui svanisce. Con le parole di Kandinsky, «la tendenza [...] all'interiorità» ubbidisce «al detto di Socrate: "Conosci te stesso"». L'ideale dell'espressione dell'Io sembra dipendere dalla possibilità dell'autoconoscenza, ma questa, a sua volta, dipende da una credenza nell'Io. È possibile esprimere sé stessi solo se (a) si possiede un tale Sé, (b) si è adeguatamente in armonia con esso e (c) gli si conferisce una forma adeguata. Nell'arco temporale che separa Socrate dal vitalismo del Ventesimo secolo, questi princìpi non incontrano ostacoli insuperabili. I problemi sorgono quando tutto sembra ruotare attorno a tali princìpi e a essi soltanto. All'apice della sua attrattiva culturale, l'espressione di sé comincia ad apparire un progetto ideale, ma irreale. Non esiste più alcuna misura per la «misura di tutte le cose». La soggettività, il solo vero contenuto dell'esperienza oggettiva, si rivela essere l'estremo bastione dell'alterità, l'oggetto assolutamente alienato. L'ideale dell'autoespressione conduce direttamente al suicidio.

È in questa morte che etica ed estetica hanno inizio.

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Pagina 279

Postfazione



L'espressionismo descritto in questo studio non è durato a lungo. Tanto per iniziare, molti dei suoi protagonisti — Michelstaedter, Trakl, Schiele, Campana, Slataper, Marc e Boine — nel 1918 erano già morti o impazziti. Ma un altro evento, ancora più decisivo, ne segnò il destino: la Prima Guerra Mondiale. Tra il 1914 e il 1918 tutto quello che i pensatori del 1910 avevano lamentato — la deficienza d'essere, l'insuccesso della retorica razionale ed etica, la tragedia di tutti i tentativi di autodeterminazione, le lotte di ognuno contro tutti — trovò una conferma così vivida da far impallidire ogni precedente trattazione teorica. Alla luce della crisi inedita che attraversava l'Europa, le elucubrazioni del 1910 sembravano mere prefigurazioni della loro futilità storica.

C'erano anche delle ragioni interne per cui le dinamiche teoretiche del 1910 non erano destinate a svilupparsi. Su di esse non si poteva costruire molto; non erano «utili» in vista dei bisogni sociali, politici ed economici dei paesi appena usciti dalla guerra. La persuasione di Michelstaedter e la direzione di Buber non indicavano direttive concrete per l'azione, modelli o sistemi funzionali, idiomi adatti all'agire pratico. Erano riflessioni utopiche sull'esperienza spaesata del presente. Allo stesso modo, anche la bontà di Lukács e lo spirito di Kandinsky erano incapaci di fornire dei moventi al comportamento mondano. Avevano confuso ogni distinzione tra verità ed errore, reale e apparente, profondità e superficie delle cose.

La mente europea accoglie positivamente la contraddizione solo se i suoi termini possono essere risolti in una posizione produttiva, in una qualche consonanza o, per così dire, in una terza «rivelazione» che vada al di là dell'opposizione delle due originali. E questo è proprio ciò che non succede con le arti dissonanti del 1910. Le contraddizioni che incarnano sono prive, per usare le parole del Lukács marxista, di «dinamica propulsiva» e si limitano a convivere «pacificamente l'una accanto all'altra», senza consentire alcun avanzamento dialettico. Le scoperte del 1910 non stabiliscono basi per un progresso sociale o intellettuale. Si limitano a segnalare la fine di un certo modo di pensare, e lo fanno forse più fragorosamente nel loro appello a nuovi inizi. La persuasione e la rettorica di Michelstaedter e le armonie atonali di Schönberg, per citare due esempi, sono dettate dalla stessa decisione: rifiutare il bisogno di una risoluzione. Sono polemiche tenaci contro il mondo e i suoi modi di comprendersi. A rendere le cose ancora più complesse, le contorsioni formali delle loro opere mettono in atto la stessa dissonanza che fa loro da tema, senza fornire alcuna soluzione alle tensioni da cui sono spinte. È per questo motivo che il suicidio di Michelstaedter sembra così coerente: una conseguenza dello spingere le contraddizioni alle loro estreme, mortali conseguenze. Questa è anche la ragione per cui Schönberg decide di abbandonare l'atonalità espressionista. Non riusciva a procedere oltre lungo questa strada. Quello che gli serviva era un nuovo metodo di composizione, scoperto nella serie di dodici note, che potesse dare ordine alle dissonanze che aveva liberato. Le composizioni musicali del 1908-1913 avevano distrutto una certa retorica senza produrne un'altra. Il problema dell'atonalità libera, riteneva Schönberg, era che le sue dissonanze tendevano ancora a un'armonia tonale, sebbene resistessero all'attrazione; la sospensione esigeva una risoluzione.

Circa le altre figure di questo studio, Slataper e Marc persero la vita, come gran parte della loro generazione, in guerra. Boine, sempre in cattiva salute, morì nel 1917. Trakl e Campana lottarono contro i confini del sapere fino alla fine (che per il primo arrivò nel 1915, per il secondo nel 1918, quando fu internato in un istituto psichiatrico). Rilke aveva già superato l'estetica inquieta dell'espressionismo nella seconda parte dei Quaderni. Dal 1911 al 1926, nelle Elegie duinesi e ne I sonetti a Orfeo, ritaglia uno spazio interiore, virtualmente postumo, per un'intuizione poetica ai margini della pratica storica. Schiele nel 1912 paga il suo disprezzo per l'opinione pubblica con la prigione, e nel 1915 viene arruolato e spedito in guerra. L'effetto frenante di questi due eventi lo spinge a incanalare le proprie energie verso nuovi esperimenti pittorici. Trattando individui e paesaggi alla maniera delle nature morte, con intricati dettagli visivi, le sue grandi e melanconiche tele del 1917 e del 1918 hanno poco in comune con le piccole improvvisazioni, rapide e amare, a matita e acquarelli, realizzate prima della guerra. Anche Kokoschka diventa più maturo rispetto alla sua gioventù impetuosa e sostituisce alle visioni provocanti e scandalose del 1910 indagini dell'anima più controllate e sottili, che includono panorami armoniosi.

Perfino Kandinsky abbandona il suo intenso stile di transizione degli anni monachesi. Allo scoppio della Grande Guerra ritorna a casa, in Russia, e ricerca un terreno comune tra la sua estetica e i movimenti avanguardistici futuristi, costruttivisti e suprematisti. Il tentativo non avrà successo, a meno che, ovviamente, non si consideri fino a che punto cambia il suo stile personale. Nel 1921, trasferitosi nuovamente in Germania, si unisce alla scuola tecnica e analitica di Weimar denominata Bauhaus e cerca di dare alle sue inclinazioni spiritualistiche nuove funzioni pratiche. Con il passare degli anni la sua arte diventa sempre più programmatica e le sue astrazioni geometriche si fanno dogmatiche e sfrontate. Non più sospeso tra due mondi, perde la sua natura sperimentale. Nelle tele degli anni Venti e Trenta le forme piatte e affilate hanno la precedenza sul flusso di colori, le disposizioni sistematiche sul conflitto indomabile. Soprattutto, il procedimento appassionato e dinamico cui le sue astrazioni giovanili costringevano il pubblico a partecipare (nella versione di Kandinsky dell'«arte struttiva», consapevole del proprio «divenire», della visione come aspirazione al vedere e del comprendere come fraintendere) è rimpiazzato da una meccanica leggera e utopica.

Nel 1910 la maggior parte dell'opera di Buber, Lukács e Wittgenstein li attendeva ancora. Sebbene l'argomento del Tractatus così come era stato concepito tra il 1912 e il 1914 è ciò che non può mai essere detto con le parole, l'adozione di quest'opera da parte dei positivisti logici accresce la fama di Wittgenstein come filosofo del linguaggio. Anche se continua a dispensare i più seri problemi della vita dalla sua comprensione prosaica, Wittgenstein finisce i suoi giorni come un comune filosofo del linguaggio. Negli anni Venti, Buber è ormai un teologo esistenziale che interpreta tutto l'essere come dialogo e il dialogo come elemento fondamentale della tradizione ebraica. Lukács si converte al marxismo e rigetta la sua più sensibile opera giovanile, insieme all'estetica modernista a cui è legata, come sintomo del capitalismo romantico. Cosa sarebbe potuto sortire dalle arti del 1910 se non fosse intervenuto lo shock della Prima Guerra Mondiale è impossibile a dirsi; quello che è certo, tuttavia, è che non avrebbero potuto proseguire molto oltre lungo le strade che avevano intrapreso.

Aspirando a essere profeti di una consonanza più sofisticata di quanto il linguaggio potesse comprendere, gli artisti e i filosofi del 1910 divennero martiri della dissonanza che loro stessi avevano liberato. La parola martire deriva dal greco martys (...): una persona che testimonia, che confessa la natura di una situazione. Fu, ai primi del Novecento, un pathos della verità che spinse alcune persone a pagare un prezzo molto alto per le proprie scoperte pur di non comprometterle. «Non evitare alcuno scoglio» afferma Blumenberg «un giorno si chiamerà "nichilismo eroico"» Lo si potrebbe anche chiamare nichilismo rivoluzionario, che immagina i prerequisiti per una trasformazione della realtà e crede che le soluzioni possano trovarsi nell'evidenza della testimonianza stessa. Questa era l'«armonia» implicita nella dissonanza. E tuttavia tale martirio non fu sufficiente. Un'intera generazione avrebbe dovuto ripeterlo, anche se raramente con lo stesso grado di consapevolezza, convinta, per lo più, che il proprio impegno bellico fosse al servizio di una nobile causa. La Grande Guerra fu un travestimento dell'idealismo sfrenato del 1910, un nichilismo privo di dimensione eroica, uno schiantarsi contro la barriera corallina solo per paura del mare aperto.

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Tuttavia, quello di cui probabilmente non ci si rese conto negli anni che seguirono il 1910 fu il modo in cui la distanza da questi abomini si era già accorciata. Non fu notato perché la gravitazione verso una coincidentia oppositorum nel 1910 non produsse un nuovo linguaggio concettuale, linguaggio che fu trovato solo quando Heidegger raccolse tutte le implicazioni del saggio di Simmel sulla morte in Essere e tempo (1927). Lì la concezione tradizionale della morte fu rifiutata e rimpiazzata da una in cui la mortalità è vista come l'orizzonte di tutti gli atti decisivi, come una caratteristica immanente della vita, che delimita i termini stessi della scelta. Negli anni Trenta e Quaranta i filosofi esistenzialisti elaborarono questa nozione ulteriormente, spiegando come la libertà sia sempre circoscritta dai suoi limiti negativi.

Ma anche queste relazioni tra assurdità e senso, imprigionamento e libertà, non si sono affermate nell'immaginazione popolare e hanno invece portato ad astrarre nuovamente la morte dal sapere teorico, consegnandola all'ottusità dell'atto: ai campi di concentramento, agli ospedali e all'omicidio di massa, alla quarantena gerontologica degli ospizi. Quando non corteggiato direttamente come nel nazismo e nello stalinismo – per non parlare dei molteplici programmi genocidiali portati avanti fino ai nostri giorni – il fenomeno della morte fu semplicemente rimosso. Si pensava di sradicare la morte abolendone i sintomi: la depressione e l'infelicità cronica, le inutili riflessioni metafisiche, le pieghe del grasso e i segni della vecchiaia – tutti fenomeni che con il progredire del secolo sono diventati sempre più tabù.

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Dove ci porta tutto questo oggi, a cento anni di distanza? Se il principio del Ventesimo secolo raccoglie le conseguenze di una storia tragicamente dicotomica, quello del Ventunesimo secolo sembra nutrire un'aspirazione opposta: l'ideale di un mondo libero da resistenze, la moltiplicazione di opportunità per distrazioni illimitate, crociate infinite per maggiori possibilità e comodità. Oggi condividiamo ancora qualcosa con gli espressionisti? Il nostro mondo non è forse l'antitesi del loro?

Mentre gli artisti nel 1910 speravano che la propria opera scoprisse una «realtà autenticamente vivente», oggi vediamo l'arte come un business tra i tanti, una redditizia produzione dell'industria dello spettacolo. Anche quando l'arte ha ambizioni più alte, difficilmente riesce a evitare la parodia, la satira o un moralismo didattico. Oggi è perfino più difficile pensare la differenza tra persuasione e retorica. Il «pathos della verità» è stato sostituito dalla sete di lieto fine. Vogliamo le risposte senza le domande e immaginiamo di sopprimere tutti gli ostacoli al desiderio attraverso una consonanza di volontà o una balcanizzazione di interessi e gruppi. Il materialismo, come gli espressionisti temevano, è diventato il metro di misura più sicuro della conoscenza e il pragmatismo il più affidabile criterio per la determinazione del valore. Non è proprio un'epoca per filosofi.

Per quanto riguarda la ricerca del Sé promossa nella prima decade del secolo, membri scelti della nostra società ricevono piccole fortune per istruirci su come comportarci, promettendoci in cambio miglioramenti morali ed emotivi. Il più delle volte, tuttavia, raccomandiamo simili analisi agli altri, invitandoli a riflettere su come loro possano essere responsabili delle nostre manchevolezze. Ma mettendo da parte ogni ironia, dietro alle differenze ideologiche tra la prima decade del Novecento e l'attuale vi sono molteplici cambiamenti nel tessuto dell'esperienza socioeconomica; tali differenze si basano inoltre su un'unica visione della cultura popolare contemporanea, esemplificata soprattutto dagli Stati Uniti. In Europa la situazione è in qualche modo diversa, sebbene anche lì troviamo la stessa paura della paura, le stesse congiunzioni chimeriche tra compiacenza morale e intolleranza sociale, la stessa miscela di omogeneizzazione culturale e crisi dell'autonomia locale. In ultima analisi, la dissonanza caratterizza i nostri tempi tanto quanto gli anni che precedettero la Grande Guerra, anche se non è sempre altrettanto cosciente di sé. L'inizio del nostro secolo non è semplicemente l'antitesi dei primi anni del Novecento; ne è un'immagine specchio, un riflesso invertito. Le agitazioni sociali seguite al collasso del blocco orientale sono una replica della disgregazione politica degli imperi asburgico, zarista e ottomano e l'indipendenza dei popoli una volta soggiogati riprende un percorso ostacolato dal bilanciamento delle potenze mondiali tra il 1918 e il 1989. Si può solo sperare che, caduto il Muro di Berlino, gli eventi non si limiteranno a parodiare quelli che portarono alla Grande Guerra, quando l'insicurezza sulla collocazione dell'individuo tra i suoi simili condusse a nuove tattiche di autoaffermazione. La mobilità, l'interdipendenza e la rapida trasformazione delle classi, delle etnie e delle nazioni al principio del Ventunesimo secolo dà al discorso identitario dei primi del Novecento un sapore di falsità. Fa sembrare la dissonanza che vorremmo emancipare oggi (o rendere consonante a una regola?) qualcosa di ricreato artificialmente. Bisogna sperare che dei primi anni del Ventesimo secolo non facciamo nostro solo il loro ingenuo intento «espressivo», ma anche la loro conoscenza negativa. Uno degli ideali del 1910 – in base al quale l'appartenenza deriverebbe dalla sua mancanza e l'autoidentificazione dipenderebbe proprio dallo sgretolamento di apparati di identificazione come gruppi sociali e nazioni — potrebbe mitigare alcune nostalgie di carattere opposto.

In un articolo scritto per «La Voce» quattro anni prima della Grande Guerra, Slataper rispose ai desideri degli italiani di ampliare i confini del proprio stato per accogliere al suo interno i loro fratelli di Trieste e di Trento. Se si doveva aspirare a qualcosa, affermò Slataper, non era tanto ad annettere le parti «italiane» dell'Austria-Ungheria, quanto piuttosto a sviluppare l'italianità al loro interno. I tentativi di costituire un'identità, riteneva, avrebbero dovuto precedere l'accettazione di «identità» come dato di fatto. «Noi non neghiamo l'importanza dei confini politici,» scrisse, «ma sentiamo fermamente che non contengono la patria». Prima di pensare a un'annessione di quelle parti dell'Impero asburgico popolate da italiani, Slataper e altri membri de «La Voce» reputavano necessario osservare che altre genti — ad esempio gli slavi — vivevano nelle stesse zone, a Trieste, e che non si poteva semplicemente immaginare che se ne andassero. Questo è un tipo di patriottismo che difficilmente ci si aspetterebbe da un membro di una minoranza priva di diritti civili.

Michelstaedter dà allo stesso problema un'impronta più etica:

    Non è la patria
    il comodo giaciglio
    per la cura e la noia e la stanchezza;
    ma nel suo petto, ma pel suo periglio
    chi ne voglia parlar
    deve crearla.

La poesia di Michelstaedter è appropriatamente lasciata senza titolo, poiché la sua patria non può avere alcun nome.

[...]

Essa si riflette anche negli stili «anti-retorici» degli scrittori triestini della generazione di Michelstaedter. Immersi in una tradizione pratica e mercantile, i triestini non si lasciavano sedurre facilmente dalle correnti artistiche che si diffondevano in Europa. «Non c'è infatti nessun grande scrittore triestino» scrive Baroni, «che si possa inquadrare, non ostante ogni sforzo dei critici, in una o nell'altra delle numerose "famiglie" letterarie del Novecento». Gli abitanti del libero porto di Trieste, come i mercanti levantini di Smirne e di Alessandria, erano troppo radicati in un contesto di scambio multiculturale per definire la propria «identità» riferendosi a delle teorie. Resistettero alla retorica che riduce le differenze tra gli esseri umani e che formula tratti assoluti. Piuttosto, furono più attratti dalle complessità concrete del presente. Situati in un crocevia commerciale tra Oriente e Occidente, gli abitanti di Trieste erano legati tra loro da dipendenze produttive ed economiche – costretti, per così dire, ad andare d'accordo.

Lo spirito di Trieste era «come la natura dell'aria» secondo la descrizione di Kandinsky, composto da corpi estranei. Non c'è alcun dubbio, il concetto di identità individuale era indebolito dalla relatività; ma era anche rafforzato dalla stessa relazione. Abitare significava coabitare, essere a casa non essere al potere, maggioritarismo mutuo minoritarismo. Dietro a ogni conflitto esterno tende a nascondersi un conflitto interno più profondo che la retorica e l'ideologia cercano di occultare. È per questo che scriviamo, dice Slataper in una lettera del 1909 «ai giovani intelligenti d'Italia» — non per esprimerci, ma per «far chiaro dentro di noi».

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