Copertina
Autore Roy Harris
Titolo La tirannia dell'alfabeto
SottotitoloRipensare la scrittura
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2003, Scritture 11 , pag. 276, dim. 150x210x20 mm , Isbn 88-7226-725-0
OriginaleRethinking Writing
EdizioneThe Athlone Press, London, 2000
CuratoreGiovanni Lussu, Antonio Perri
TraduttoreAntonio Perri
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe scienze sociali , semiotica , linguistica , libri
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Indice

Prefazione, 9

Introduzione
Scrittura e civiltà, 19

Capitolo primo
L'abbecedario di Aristotele, 35

Capitolo secondo
Strutturalismo nello scriptorium, 55

Capitolo terzo
Cancellare la pagina, 79

Capitolo quarto
Note sulla notazione, 105

Capitolo quinto
Disordine alfabetico, 137

Capitolo sesto
Allucinazioni ideografiche, 155

Capitolo settimo
Lungo la linea tratteggiata, 177

Capitolo ottavo
Oltre il confine linguistico, 199

Capitolo nono
Più potente della parola, 229

Note, 257
Indice dei nomi, 273

 

 

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Pagina 9

Prefazione


Un'utile invenzione per preservare la memoria del tempo passato e garantire l'unione di un'umanità dispersa in tante e distanti regioni della Terra; invenzione irta di difficoltà, poiché nata da un'attenta osservazione dei diversissimi movimenti di Lingua, Palato, Labbra e altri organi del Discorso, cui dovevano corrispondere altrettante differenze di caratteri così da poterli ricordare.
Thomas Hobbes


La descrizione hobbesiana enuncia un dato di fatto e riassume secoli di riflessioni della tradizione sul tema della scrittura. Più in particolare, il tipo di scrittura cui Hobbes allude è quello che ha costituito la base dell'educazione europea sin dall'antichità greco-romana: la scrittura alfabetica. Hobbes del resto non menziona alcun altro tipo di scrittura, e già tale circostanza testimonia della morsa tirannica esercitata dall'alfabeto sul pensiero occidentale relativo all'argomento.

Sfuggire alla tirannia dell'alfabeto non è mai facile per chiunque sia stato educato sin dall'infanzia in scuole europee, poiché il sapere tradizionale sull'alfabeto è parte integrante della loro pratica pedagogica elementare. Quest'ultima infatti si basa sull'insegnamento dell'alfabeto in una delle sue molteplici versioni europee ed è cambiata pochissimo nel tempo, tanto da esser rimasta sostanzialmente immutata dai tempi di Hobbes: si può dire anzi che a molti di noi l'"ABC" è stato insegnato con metodi non troppo dissimili da quelli descritti nel primo secolo a.c. da Quintiliano.

Il sapere tradizionale si basa su alcuni presupposti relativi al rapporto fra parlato e scritto, ma in tutta la tradizione i contributi originali a una riflessione analitica su di essi sono stati pochi, e distanti nel tempo tra loro. In questo libro ne prenderò in esame due tra i più importanti, uno antico e uno moderno; entrambi costituiscono un punto di partenza fondamentale per qualsiasi tentativo attuale di ripensare la scrittura.

Ma perché mai dovremmo avvertire il bisogno di ripensare la scrittura? È probabile che quanti sono appagati dal sapere tradizionale, come lo era Hobbes, non riuscirebbero a trovare alcuna ragione per farlo. Eppure, più osserviamo da vicino il resoconto tradizionale, più ci rendiamo conto chiaramente che vi sono alcune domande fondamentali cui esso non ha risposto, o che ha evitato di affrontare. Ecco dunque una valida ragione per ripensare di nuovo la scrittura: tentare di dare una risposta a queste domande. Un'ulteriore ragione ci è offerta dalle moderne tecnologie, che mettono a nostra disposizione mezzi per leggere e scrivere del tutto assenti in passato. Ma forse una ragione ancora più importante delle due citate ci viene dal constatare come il modo in cui la gente pensa alla scrittura sia inestricabilmente connesso, attraverso una sottile e fitta trama di rinvii, al modo in cui essa pensa agli esseri umani suoi simili. Ripensare la scrittura, in definitiva, vuol dire qualcosa in più che non andare in cerca di una più accurata analisi intellettuale di particolari pratiche comunicative.

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Pagina 21

[scrittura come criterio di "civilizzazione"]


A sostegno dell'idea che connette l'invenzione della scrittura all'alba della civiltà è possibile identificare almeno due tesi, entrambe plausibili, molto diffuse e ingannevoli. Una afferma che la pratica della scrittura impone a chi apprende grandi prove di rigore e agilità mentale, del tutto al di là delte possibilità di menti immature. Per questo l'osservazione che di solito i bambini imparano a parlare prima di imparare a scrivere rafforza l'equazione tra comunità prealfabeta e immaturità sociale. La seconda tesi sostiene che solo se la gente è in grado di esprimersi per iscritto e di arricchire la propria mente mediante la lettura la sua vita potrà sviluppare appieno tutte le sue potenzialità. Imparare a leggere e scrivere è considerato un traguardo che rende possibile, in linea di principio, superare quelli che altrimenti sarebbero i limiti insuperabili della condizione umana e anzi addirittura superare la stessa mortalità dell'uomo.

Samuel Butter ha formulato quest'idea nel modo seguente:

La parola parlata è prodotta mediante vari organi nella bocca o in prossimità di quest'ultima, e si serve dell'aria, non della vista; essa muore nell'istante stesso in cui è prodotta, senza lasciare alcuna traccia materiale, e se continua a vivere lo fa soltanto nelle menti di quanti l'hanno udita. Ma il suo campo d'azione non va oltre la distanza da cui è possibile udire una voce; e ogni volta che desideriamo riaverne un'impressione sensoriale, bisogna ripeterla di nuovo.

Il simbolo scritto invece si estende indefinitamente nel tempo e nello spazio, almeno sin dove una mente è ancora in grado di comunicare con un'altra mente; esso conferisce alla mente dello scrivente una vita limitata solo dalla durata di inchiostro, carta e lettori, invece che da quella del suo corpo in carne ed ossa.

Tutto ciò a sua volta porta a concludere che quando il legame comunicativo non si crea soltanto tra un singolo essere umano vivente e un altro ma anche - attraverso la scrittura - tra le generazioni presenti, passate e future, quel che ne risulta è un'entità sociale di valore superiore.

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Pagina 32

Forse, l'aver riconosciuto il ruolo cognitivo svolto dalla scrittura è davvero il segno che la transizione dall'alfabetizzazione utilitaria alla piena alfabetizzazione ha avuto inizio; forse, è finalmente l'annuncio di una società alfabetizzata ormai matura. Ma come facciamo a deciderlo? In base a quali criteri è possibile valutare la validità o non validità di tutte queste affermazioni? L'assunto alla base di questo libro è che la sola base coerente per compiere questa valutazione consiste nello sviluppare una semiologia della scrittura indipendente e oggettiva. Sarà "oggettiva" e "indipendente" in quanto libera dai presupposti più o meno etnocentrici che ho analizzato più in alto, e che hanno sinora caratterizzato lo studio della scrittura e della sua storia; ma sarà anche libera da qualunque tendenza a blandire la nostra autostima di alfabetizzati, equiparando tacitamente lettori e scriventi [writers] di tutto il mondo alla popolazione civilizzata del pianeta. Quest'ultimo, per ovvie ragioni, è un obiettivo difficile da raggiungere: come possono infatti gli studiosi prendere le distanze dai presupposti stessi esemplificati (e gelosamente custoditi) dalle loro pubblicazioni, dalle loro imprese erudite e dalla loro stessa esistenza istituzionale?

A dispetto di ciò, lo scopo da raggiungere è chiarissimo. Deve trattarsi di una semiologia che rompa i ponti con la passata tradizione, in cui i sistemi di scrittura erano considerati semplici indicatori di progresso culturale o cognitivo: una tradizione che giudicava i sistemi di scrittura sulla base della loro maggiore o minore "accuratezza" nel trascrivere il parlato, quella stessa tradizione cioè che considera inevitabilmente l'alfabeto - in forma tacita o esplicita - la conquista più alta raggiunta dall'uomo nella storia delle forme di scrittura. Solo allora infatti potremo esser certi di avere a nostra disposizione una semiologia della scrittura che non si limiti a riciclare i pregiudizi del passato.

Ci si sarebbe augurati che tale semiologia potesse nascere proprio a partire dall'opera dei due grandi fondatori del pensiero moderno sui segni, Saussure e Peirce. Sfortunatamente Peirce ha ben poco da dire sulla scrittura: egli in effetti rappresenta un eloquente esempio - si potrebbe dire, anzi, un esempio davvero impressionante - della miopia intellettuale cui l'alfabetizzazione utilitaria può indurre riguardo ai propri stessi procedimenti e alle proprie implicazioni semiologiche. Dal canto suo, Saussure riuscì almeno ad accorgersi di quanto le opinioni espresse dalla sua stessa società in merito a questioni linguistiche fossero distorte da pregiudizi legati all'alfabetizzazione e accumulatisi nel tempo; egli perciò affermò più volte che uno dei prerequisiti alla base di ogni moderna scienza del linguaggio e delle lingue consisteva nel tracciare una chiara separazione fra il parlato e lo scritto.

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Pagina 97

[il modello del libro a stampa]


Una prospettiva integrazionale dunque ribalta la priorità data per scontata nei resoconti tradizionali sulla scrittura. L'attenzione si incentra non su alcuni sistemi di correlazioni presupposte tra segni scritti e parlati, ma sui particolari della comunicazione scritta in specifiche circostanze; e questo rovesciamento delle priorità di analisi ne porta con sé degli altri.

Ripensare la scrittura da un punto di vista integrazionale implica riconoscere come la riflessione moderna sull'argomento sia stata profondamente condizionata da uno dei principali prodotti dell'alfabetizzazione utilitaria post-rinascimentale: il libro a stampa. La comunicazione scritta, da un punto di vista integrazionale, è una forma di comunicazione in cui l'integrazione contestualizzata si fonda nella gran parte dei casi su una cornice visiva e su analogie visive. Le vere implicazioni di tutto questo risultano in parte oscurate, perché oggi è difficile sottrarsi all'eredità intellettuale di un'alfabetizzazione in cui il libro a stampa prodotto meccanicamente è presentato come esempio paradigmatico di testo scritto. Di solito abbiamo a che fare con un'opera che contiene centinaia di pagine di linee, riprodotta in centinaia o migliaia di copie più o meno identiche; di solito si tratta di un oggetto trasportabile, progettato in modo tale che la lettura sarà controllata interamente dal singolo lettore che può prendere in mano il libro o metterlo giù quando gli pare, voltarne le pagine senza fretta, andare avanti e indietro entro i confini del testo seguendo gli orientamenti più inediti dettatigli da interessi personali. Sarà il lettore insomma che decide se leggere a voce alta o in silenzio e sceglie quando, dove e - nel caso della lettura a voce alta - a chi leggere. In breve, questo caso paradigmatico mostra un prodotto che, fra tutti i tipi di scrittura, è il meno legato al contesto e ha il grado di autonomia più elevato (almeno se tali proprietà sono misurate sotto forma di distanza - fisica, temporale, culturale - che separa lo scrivente dal potenziale lettore). Ma il libro è anche un esempio alquanto insolito di scrittura in quanto non presuppone alcuna particolare cornice visiva, tranne - in alcuni casi - quella offerta dalle "illustrazioni" che accompagnano il testo. Dunque le analogie visive che predominano sono quelle, interne, che vengono alla luce a partire dal testo stesso: si tratta delle analogie che connettono un contrassegno all'altro, dando modo al lettore di riconoscere "la stessa lettera" o "la stessa parola" ripetuta due volte nella stessa pagina ecc. Sono, insomma, le stesse analogie alla base della distinzione di Peirce tra "tipi" [types] e "repliche" [tokens]. Con un testo simile, il lettore non ha alcun bisogno di andare in cerca di nessun'altra cornice visiva: il libro è autosufficiente e può esser letto ovunque (posto che vi sia abbastanza luce per leggerlo). Si potrebbero riassumere tutti questi tratti salienti del libro a stampa dicendo che rappresenta il caso limite nel quale, nella misura in cui sia umanamente possibile, il testo scritto è realizzato in modo tale da fornire il proprio contesto.

Tuttavia le cose non vanno allo stesso modo per il segno scritto in genere; proprio per questo sarebbe un errore per qualunque semiologo della scrittura trasformare implicitamente il libro a stampa, con le sue ben note caratteristiche, in un modello di cui tutte le altre forme non sono che imperfette approssimazioni. Se vogliamo davvero ripensare la scrittura, forse la prima cosa su cui dobbiamo riflettere è proprio la reale portata di questo esempio atipico.

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Pagina 150

[inconsistenza del principio alfabetico]


Quali lezioni può trarre un semiologo da questo sterile dibattito? Da un punto di vista integrazionale il cosiddetto "principio alfabetico", a dispetto di tutto ciò che è stato scritto su di esso, appare privo di una valida definizione semiologica. E che tale assenza non sia affatto casuale lo dimostra il fatto che il principio alfabetico è destinato a galleggiare in questo strano vuoto teorico: un alfabeto è soltanto una notazione. Basandosi su un'unica notazione è possibile, in linea di principio, costruire un insieme infinito di sistemi di segni che non hanno nulla in comune riguardo alla rispettiva struttura semiologica tranne il fatto di utilizzare quella particolare notazione. Una notazione insomma non determina in sé la struttura di una scrittura.

Ecco perché in definitiva il solo senso che si può attribuire al termine scrittura alfabetica è il seguente: "una forma di scrittura che fa uso di unità di notazione derivate storicamente dalla serie tradizionalmente nota come 'alfabetica', impiegata in varie culture dal secondo millennio a.C. in poi". Questa definizione non è poi così circolare come si potrebbe credere. Infatti il solo modo di verificare se una scrittura è o no alfabetica consiste nel ricostruire le sue connessioni storiche, dato che le variazioni di forma sono oggi talmente grandi da non consentirci di riconoscere "l'alfabeto" con una semplice occhiata. Dire invece che "la scrittura alfabetica è una scrittura che fa uso del principio alfabetico" è del tutto privo di senso, in assenza di una qualunque definizione coerente del principio in questione.

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Pagina 151

[il mito dell'alfabeto ideale]


Nulla di ciò che si è detto implica che sia impossibile prendere una notazione alfabetica e usarla per creare una scrittura basata su di una correlazione uno-a-uno fra lettere e unità fonetiche. Al contrario questo accade spesso e i risultati sono utilizzati nei moderni dizionari per fornire un'indicazione, sia pure approssimativa, di come sono pronunciate le parole. In effetti lo si può fare per qualunque lingua, a quasi tutti i livelli pedagogici; tuttavia da ciò non segue che quest'uso alquanto specializzato della notazione alfabetica sia più "corretto" dell'uso fattone nella tradizionale ortografia di tutti i giorni, e senza dubbio non lo si può addurre a prova retrospettiva del fatto che era proprio ciò che i primi inventori dell'alfabeto (chiunque fossero) avevano in mente.

Da un punto di vista strettamente fonetico, ogni sillaba è un continuum che ha una certa durata e può essere diviso, ai fini dell'analisi, in tanti segmenti consecutivi quanti si vuole. Grazie alle moderne apparecchiature elettroniche è possibile ricavare un'informazione acustica dettagliata su ciascuno di tali segmenti; ma la domanda "quanti segmenti come questi è necessario rappresentare in una trascrizione della sillaba che sia affidabile?" si confuta da sé, posto che il solo tipo di rappresentazione "fedele" ai fatti fonetici sarebbe quello che non divide affatto il continuum in segmenti - come accade in uno spettrogramma sonoro. La trascrizione alfabetica è inevitabilmente una rappresentazione inesatta del parlato, nella misura in cui è obbligata dalle sue stesse convenzioni a stabilire una serie di suddivisioni che non esistono. Per il semiologo, credere che una trascrizione alfabetica accurata al massimo grado rispecchi la struttura dell'enunciato è un po' come supporre che il modo migliore per disegnare un getto d'acqua sia di riprodurne ogni singola gocciolina isolatamente.

Il problema non può esser risolto apportando alcuni piccoli correttivi alle teorie dell'alfabeto comunemente accettate, o correggendo le affermazioni troppo ambiziose formulate al riguardo dagli storici. Non appena si accetta la distinzione integrazionale fra scrittura e notazione, infatti, l'intero problema dell'alfabeto ci si presenta sotto una nuova luce e siamo inevitabilmente portati a concludere che, da un punto di vista semiologico, la scrittura alfabetica non esiste.

In altre parole - nonostante l'importanza giustamente attribuita nella storia culturale ai sistemi descritti col termine "scrittura alfabetica" - le scritture eterogenee classificate in tale insieme non godono in realtà di alcuno statuto speciale nella semiologia della scrittura. Al contrario, non è neppure chiaro se appartengano o meno in via definitiva all'insieme in cui Saussure (assieme ad altri) le aveva collocate senza esitazione - quello della scrittura "fonetica". Eppure l'alfabeto è la chiave di volta del pensiero occidentale relativo alla scrittura; se questa chiave di volta crolla, bisogna ripensare anche tutto il resto.

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Pagina 199

Capitolo ottavo

Oltre il confine linguistico


La scrittura è linguaggio? Si tratta di una domanda tra le più controverse di una disciplina - la linguistica - intrinsecamente controversa. Come spesso avviene, purtroppo, l'oggetto di discussione è oscurato da incertezze terminologiche. Così secondo alcuni teorici è legittimo utilizzare il termine scrittura in due accezioni, una più ampia e l'altra più ristretta:

In senso generale, scrittura è ogni sistema semiotico [...] visuale e spaziale; in senso stretto è un sistema grafico di notazione del linguaggio.

Il problema è che questo senso "stretto" dipende esso stesso da un'interpretazione non meno ristretta del termine linguaggio: in senso "generale", infatti, si può sostenere che anche il linguaggio comprenda molte forme di comunicazione. E non si può legittimamente accantonare questa circostanza dicendo che il senso più ampio implica sempre una metafora (come nelle espressioni "il linguaggio dell'architettura", "il linguaggio dei fiori", "il linguaggio delle api" e così via), perché quello di "metafora" è esso stesso un concetto semiologicamente controverso. In breve, sarebbe una vera ingenuità immaginare che i rapporti tra scrittura e linguaggio possano esser chiariti facendo appello a definizioni di dizionario o a etimologie o a ipotetici significati "letterali" del termine in questione, in quanto anche questo terreno metalinguistico è mobile e incerto.

Chi fa appello a un senso "stretto" del termine scrittura, e dunque anche della parola linguaggio, dà per scontata la legittimità di un'equiparazione fra lingua e discorso orale. Le storie della scrittura presentano moltissimi esempi di tale atteggiamento: secondo James Février, ad esempio - per citare un autore a caso -, la scrittura è

un procedimento di cui ci si serve per immobilizzare, fissare il linguaggio articolato, sfuggente per sua stessa natura.

In questo passo si presuppone che il "linguaggio articolato" debba essere l'oralità, a meno che Février non faccia propria un'idea di "sfuggente" più astratta rispetto a quella accolta dalla maggior parte di noi. Quel che sta facendo Février è riassunto da Julia Kristeva quando scrive:

La scrittura è considerata una rappresentazione del discorso orale, il suo doppio, e non una forma materiale distinta le cui combinazioni danno vita a funzioni linguistiche diverse da quelle del suono. Perciò la scienza della scrittura è prigioniera di una concezione del linguaggio che equipara la lingua alla lingua parlata [...].

La situazione descritta dalla Kristeva si estende all'intera tradizione occidentale di affermazioni sulla scrittura, che trae origine dai programmi pedagogici sviluppati per insegnare ai bambini i primi rudimenti dell'alfabeto: proprio in quest'ambito infatti per molti secoli si è insegnato che esiste una fondamentale corrispondenza uno a uno fra "lettere" e "suoni", e che i casi di non corrispondenza andavano accantonati considerandoli delle "eccezioni". Qualunque efficacia avessero simili programmi da un punto di vista pedagogico, questo non rende di certo le affermazioni descritte dalla Kristeva più accettabili da un punto di vista semiologico.

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Pagina 226

[una nuova prospettiva]


Per società che hanno raggiunto questo momento storico di svolta, la scelta è allora tra una "vecchia" semiologia della scrittura - in cui la scrittura è vista soltanto come una forma possibile per l'espressione di un messaggio - e una "nuova" semiologia in cui è invece considerata processo di creazione di oggetti testualizzati. Per le ragioni indicate nei capitoli precedenti, solo un approccio integrazionale può render giustizia alla prospettiva nuova; la differenza essenziale tra le due semiologie è che in un caso i valori semiologici dipenderanno dalla "adeguatezza" della forma scritta nell'esprimere il messaggio dato, mentre nell'altro i valori semiologici sono derivati dal ruolo dell'oggetto testualizzato - consistente nell'integrare le attività di quanti partecipano alla sua realizzazione e interpretazione. Si tratta insomma di due concezioni del tutto diverse: la prima conduce a una reificazione del "messaggio", considerato come un oggetto esistente a priori in forma fisica o mentale che dev'essere ricondotto e armonizzato ai principi di un particolare sistema di scrittura; la seconda porta a vedere nel "messaggio" non qualcosa di dato in anticipo - o in ogni caso qualcosa di "dato" - ma qualcosa di creato dall'interazione tra scriventi e lettori, che agiscono in qualità di partecipanti entro una particolare situazione comunicativa.

Se tuttavia dobbiamo cercare di comprendere in che modo tutto ciò potrà influire sul futuro di una società alfabetizzata, è importante non continuare a pensare che "scrivente" e "lettore" siano destinati a occupare per sempre quei rigidi ruoli prefissati concessi loro dall'antico regime di alfabetizzazione utilitaria.

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Pagina 236

[la crisi del concetto occidentale di scrittura]


La lezione di Un coup de dés, Lettre-Océan e Finnegans Wake non era facile da assimilare per un pubblico abituato a rispettare le norme della tradizione letteraria occidentale. Ma cosa stava accadendo? Molti esegeti del movimento modernista non l'hanno ancora compreso ma ad esser messo alla prova sino ai limiti estremi era proprio il vetusto concetto occidentale di scrittura glottica, soggetto a deliberate sollecitazioni intellettuali ed estetiche che avrebbero portato alla sua distruzione - proprio come avvenne alle convenzioni "rappresentative" della pittura ufficiale messe in crisi dall'avanguardia dell' école de Paris. L'ironia della storia sta nel fatto che tutto questo accadeva proprio nel momento in cui Saussure stava elaborando la propria difesa strutturalista dell'antica visione fonottica della scrittura: in tale contesto lo strutturalismo appare davvero come l'ala reazionaria del modernismo, fedele a un'azione di retroguardia già destinata al fallimento.

Insomma non appena fu ovvio - attraverso le dimostrazioni pratiche - che la comunicazione scritta non dipende né dall'esistenza di una lingua orale che essa è chiamata a trascrivere né dall'esistenza di convenzioni ortografiche che la regolano, solo il persistere di più antichi e rigidi modi di pensiero poteva impedire di raggiungere la conclusione che la scrittura è in grado di creare forme di espressione proprie. Ci voleva il genio di Mallarmé, Apollinaire e Joyce per trasformare quelle che erano solo possibilità teoriche in realtà semiologiche - proprio come in pittura fu necessario l'intervento del genio di Picasso e Braque.

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Pagina 252

[una nuova ingegneria linguistica]


Tutti converranno sul fatto che i word processors - come indica lo stesso termine inglese - siano essenzialmente macchine per manipolare segni verbali. Ma la maggior parte delle nostre teorie attuali sui segni verbali sono state formulate molto tempo prima dell'avvento del computer; ecco allora profilarsi all'orizzonte una domanda molto seria: quelle teorie sono oggi superate? E la semiologia dell'epoca pre-computer è stata definitivamente soppiantata?

Un'anticipazione del modo in cui la scrittura prodotta da una macchina possa alterare il nostro concetto di alfabetizzazione ci era stata già offerta dalla calcolatrice tascabile. Così dagli studenti che svolgono un esame di matematica della durata di tre ore oggi ci si attende qualcosa di molto diverso rispetto all'epoca in cui tutti i calcoli andavano eseguiti a mente. È possibile prevedere che trasformazioni analoghe avranno luogo nella valutazione delle abilità linguistiche, dato che i computer per videoscrittura correggono automaticamente gli errori di ortografia, grammatica e punteggiatura. C'è poi un aspetto particolarmente interessante del word processor: si tratta di una macchina che consente all'utente di sfruttare sistematicamente le potenzialità offerte dall'indeterminatezza del segno linguistico e dall'apertura indefinita dei sistemi di segni. La scrittura tradizionale non dà modo di farlo, perché è vincolata alla rete di associazioni di parote caratteristica di ciascuno scrivente - senza contare l'eredità ortografica di generazioni di convenzioni educative. Il word processor invece è uno strumento nato per eseguire operazioni di ingegneria linguistica: può sistematicamente inventare parole nuove, nuovi paradigmi, nuove costruzioni, nuovi significati e addirittura - se solo lo vogliamo - nuove lingue. Non è difficile perciò immaginare un futuro in cui "scrivi una poesia" potrà essere una comune domanda in un esame di "inglese": le istruzioni per lo svolgimento dell'esame forniranno il vocabolario, e il testo sarà un prodotto dell'immaginazione ottenuto dallo studente sfruttando le proprie capacità nell'uso del word processor. Ma tutto questo non potrà non avere ripercussioni su concetti come quelli di "stile", "testo" e "letteratura".


[il tramonto dell'oralità]


Ma un aspetto ulteriore è passato quasi del tutto inosservato: uno strumento potente e onnipresente come il computer è in grado di ribaltare il pensiero tradizionale circa il rapporto essenziale esistente fra lingua, discorso orale e scrittura. E lo può fare per varie ragioni.

Una ragione è semplicemente la crescita del quantitativo di materiale scritto prodotto. Oggi possiamo predire con buon margine di certezza che, grazie al boom di Internet, in un futuro prossimo la comunicazione scritta supererà quantitativamente quella orale. Se questo accadrà, si tratterà senza dubbio di una vera e propria svolta nella storia dell'uomo: per la prima volta l'oralità diventerà forma di comunicazione "minoritaria".

Vi sono però altre e più importanti ragioni, che hanno a che fare con la nostra capacità di comprendere i fondamentali processi della comunicazione verbale. Tanto per cominciare, il computer, in qualità di macchina per la scrittura, sta già ridefinendo il nostro concetto di cosa sia una "parola": la parola infatti non è più un'unità lessicale statica appartenente a un inventario pre-registrato in un dizionario, perché per un word processor sarà in ogni caso "parola" qualunque simbolo o unità simbolica che svolge un ruolo nell'elaborazione del testo [processing] e può essere controllato da specifiche operazioni sulla tastiera. È importante notare che questo ruolo non è limitato dai rapporti sintagmatici e paradigmatici che regolano quelle che siamo abituati a considerare le parole convenzionali della lingua comune, né è circoscritto dalle tradizionali linee di confine che considerano i simboli iconici come non-parole. Inoltre, unità e combinazioni simili possono essere inventate dallo scrivente ogni volta che ve ne sia bisogno. I vincoli posti a quest'attività inventiva non si trovano nel mondo esteriore, ma sono soltanto vincoli interni alla macchina. Le unità operative di base non sono più la parola o la lettera - come nelle scritture tradizionali - ma i distinti tasti presenti sulla tastiera, mentre la sintassi operativa è la logica combinatoria consistente nel digitarli in modo sequenziale o simultaneo. Sinora questa logica è ancora largamente tributaria dell'alfabeto latino per ragioni storiche - ed è logico che sia così, almeno in uno stadio di transizione tra forme diverse di alfabetizzazione. Ma nulla ci dice che le cose debbano restare le stesse in futuro: la lettera alfabetica, proprio come il geroglifico egizio, non è indispensabile.

Oggi la tecnologia ci mette in condizione di progettare una "scrittura" con caratteristiche del tutto diverse dal ruolo essenziale che le è stato tradizionalmente assegnato - quello di sistema ancillare di registrazione. Il computer spalanca un futuro nel quale la scrittura sarà il processo creativo essenziale e il discorso orale un semplice commento marginale di quel che è stato scritto. È lecito ipotizzare che questo radicale rovesciamento di ruoli costituirà un aspetto essenziale per la psicologia dell'educazione del nuovo secolo; al tempo stesso ci darà modo di comprendere a cosa sarà "simile" la letteratura: non più espressione linguistica spontanea del pensiero o dell'emozione dello scrittore (cosa che probabilmente non è mai stata, a dispetto di quanto affermato da insigni studiosi) ma indagine delle possibilità verbali rese universalmente disponibili dalla "macchina da scrivere" elettronica. Il paragone più calzante in tale contesto è quello con la musica elettronica: nel mondo computerizzato della musica, per i compositori è sempre meno necessario saper suonare uno strumento qualunque (compresa la laringe umana).


[il futuro della scrittura]


Proprio in tale prospettiva diventa importante far ritorno all'argomentazione di Pattison su Omero. Pattison forse ha ragione quando afferma che l'alfabetizzazione tradizionale dev'essere definita a partire da finalità o modelli preesistenti, non definiti dalla tecnologia della scrittura ma già presenti prima che quest'ultima fosse disponibile. Ci si può chiedere tuttavia se ciò che è stato vero in passato lo sarà anche in futuro. La risposta probabilmente è no, e proprio per questo il word processor non solo introduce una differenza essenziale ma rovescia completamente la proposta di Pattison: i limiti dell'alfabetizzazione saranno definiti dalla tecnologia - ma non nel senso che la qualifica di "alfabetizzato" verrà limitata a quanti sono in grado di leggere e scrivere elettronicamente. Quei limiti infatti saranno delineati dall'utilizzazione di nuove possibilità linguistiche che non sarebbero state disponibili senza avere a portata di mano la tecnologia. E non c'è modo di stabilire in anticipo quali saranno i limiti, perché sino ad oggi abbiamo solo una vaga idea di ciò che i computer del futuro renderanno possibile o addirittura banale.

Il computer è il più potente dispositivo di contestualizzazione che sia mai esistito. La sua capacità di creare e sviluppare nuovi contesti, visivi e verbali, supera di gran lunga quella della mente umana. Questo aspetto del computer è in definitiva molto più importante della sua sovrumana capacità di immagazzinare informazioni. Siamo dinanzi a una macchina che non solo ci dà la possibilità di integrare simultaneamente informazioni scritte, informazioni uditive e illustrazioni ma consente anche di far passare tali informazioni tra diverse lingue e culture, connettendole tra loro. Quando le generazioni future si saranno davvero abituate a sedersi dinanzi a una tastiera e a "digitare" un prodotto audiovisivo che contiene suoni, caratteri e immagini interrelati in modo sistematico, allora esse avranno acquisito un nuovo concetto di scrittura, di letteratura e di linguaggio.

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