Copertina
Autore David Harvey
Titolo Breve storia del neoliberismo
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2007, La cultura 602 , pag. 286, cop.fle., dim. 14x21,5x2,4 cm , Isbn 978-88-428-1376-7
OriginaleA Brief History of Neoliberalism
EdizioneOxford University Press, Oxford, 2005
TraduttorePietro Meneghelli
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe politica , storia contemporanea , globalizzazione
PrimaPagina


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Indice


Introduzione                                          9


1.  «Libertà» è solo una parola...                   14

2.  La costruzione del consenso                      51

3.  Lo stato neoliberista                            78

4.  L'irregolarità degli sviluppi geografici        103

5.  Il neoliberismo «con caratteristiche cinesi»    139

6.  Il neoliberismo alla prova                      174

7.  La prospettiva della libertà                    208


Note                                                235

Bibliografia                                        253

Ringraziamenti                                      267

Elenco delle figure e delle tabelle                 269

Indice analitico                                    271

 

 

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Pagina 9

Introduzione


Molto probabilmente in futuro gli storici guarderanno al biennio tra il 1978 e il 1980 come a un punto di svolta rivoluzionario nella storia sociale ed economica del mondo. Nel 1978 Teng Hsiao-ping compì il primo passo importante verso la liberalizzazione di un'economia governata da comunisti in un paese che ospitava un quinto della popolazione mondiale. La strada intrapresa da Teng avrebbe trasformato la Cina, nell'arco di due decenni, da paese arretrato e chiuso in se stesso a centro aperto del dinamismo capitalista, caratterizzato da tassi di crescita talmente sostenuti da non avere confronti nella storia. Sull'altra sponda del Pacifico, e in circostanze assai diverse, un personaggio allora relativamente oscuro (ma oggi famoso) di nome Paul Volcker assumeva, nel luglio 1979, la guida della Federal Reserve e, nel giro di pochi mesi, modificava radicalmente la politica monetaria. Di lì in avanti la Fed avrebbe condotto la lotta all'inflazione senza alcun riguardo per le conseguenze (in particolare per la disoccupazione). Dall'altra parte dell'Atlantico Margaret Thatcher era già stata eletta, nel maggio 1979, primo ministro della Gran Bretagna, con il mandato di porre un treno al potere dei sindacati e mettere fine alla deprimente stagnazione inflazionistica che aveva soffocato il paese nel decennio precedente. Poi, nel 1980, Ronald Reagan fu eletto presidente degli Stati Uniti e, in virtù della sua capacità comunicativa e del suo carisma personale, avviò il paese verso una rivitalizzazione dell'economia fondata da un lato sul sostegno alle manovre compiute da Volcker alla Fed e dall'altro sulla sua personale miscela di politiche finalizzate a contenere i sindacati, a deregolamentare l'industria, l'agricoltura e lo sfruttamento delle risorse, e a liberare le potenzialità della finanza a livello nazionale e sullo scenario mondiale. Da questi vari epicentri si sono diramati e diffusi gli impulsi rivoluzionari che hanno trasformato l'immagine del mondo intorno a noi.

Mutamenti di questa portata ed estensione non si verificano accidentalmente; dunque è legittimo cercare di capire grazie a quali strumenti e attraverso quali percorsi la nuova configurazione economica – spesso indicata con il termine generico di «globalizzazione» – sia scaturita da quella precedente. Volcker, Reagan, Thatcher e Teng Hsiao-ping hanno tutti adottato argomenti minoritari diffusi da tempo e li hanno resi maggioritari (sempre attraverso una lunga lotta). Reagan recuperò una concezione minoritaria che all'interno del Partito repubblicano risaliva a Barry Goldwater, all'inizio degli anni sessanta. Teng osservò l'aumento di ricchezza e di potere economico in Giappone, a Taiwan, a Hong Kong, a Singapore e nella Corea del Sud e, per tutelare e promuovere gli interessi del proprio paese, adottò il socialismo di mercato in luogo della pianificazione centralizzata. Sia Volcker sia la Thatcher fecero uscire dall'ombra di una relativa oscurità una dottrina nota come «neoliberismo», e la trasformarono nel principio guida della teoria e della pratica economica. Ed è di questa dottrina – delle sue origini, del suo sviluppo e delle sue implicazioni – che mi occuperò principalmente in questo volume.

Il neoliberismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell'uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell'individuo all'interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio. Il ruolo dello stato è quello di creare e preservare una struttura istituzionale idonea a queste pratiche. Lo stato deve garantire, per esempio, la qualità e l'integrità del denaro; deve predisporre le strutture e le funzioni militari, difensive, poliziesche e legali necessarie per garantire il diritto alla proprietà privata e assicurare, ove necessario con la forza, il corretto funzionamento dei mercati. Inoltre, laddove i mercati non esistono (in settori come l'amministrazione del territorio, le risorse idriche, l'istruzione, l'assistenza sanitaria, la sicurezza sociale o l'inquinamento ambientale), devono essere creati, se necessario tramite l'intervento dello stato. Al di là di questi compiti, lo stato non dovrebbe avventurarsi. Gli interventi statali nei mercati (una volta creati) devono mantenersi sempre a un livello minimo, perché secondo la teoria neoliberista lo stato non può in alcun modo disporre di informazioni sufficienti per interpretare i segnali del mercato (i prezzi), e perché in ogni caso potenti gruppi di interesse distorcerebbero e influenzerebbero in modo indebito, a proprio beneficio, tali interventi (in particolar modo nelle democrazie).

Ovunque, a partire dagli anni settanta, si è assistito a un'impetuosa svolta verso il neoliberismo nelle pratiche e nelle teorie di politica economica. La deregolamentazione, la privatizzazione e il ritiro dello stato da molte aree d'intervento sociale sono stati estremamente diffusi. Quasi tutti gli stati, da quelli nati in seguito al crollo dell'Unione Sovietica alle socialdemocrazie tradizionali a stati del welfare come la Nuova Zelanda e la Svezia, hanno adottato, a volte volontariamente, altre a seguito di pressioni coercitive, questa o quella versione della teoria neoliberista, adattandovi almeno in parte le loro politiche. Il Sudafrica del dopo-apartheid ha presto adottato il neoliberismo, e anche la Cina contemporanea, come vedremo, sembra puntare in questa direzione. I sostenitori della svolta neoliberista occupano oggi posizioni molto influenti nell'istruzione (università e molti think-tanks), nei media, nei consigli di amministrazione delle grandi aziende e nelle istituzioni finanziarie, in strutture chiave dello stato (ministeri del Tesoro, banche centrali) e anche in quelle istituzioni internazionali, come il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca mondiale e l'Organizzazione mondiale per il commercio (WTO), che regolano la finanza e gli scambi globali. Il discorso proposto dal neoliberismo è, in breve, divenuto egemonico, e la sua influenza talmente pervasiva da costituire parte integrante del modo in cui molti di noi comunemente interpretano, vivono e comprendono il mondo.

La conversione al neoliberismo ha comportato tuttavia una ingente «distruzione creativa», non solo di strutture e poteri istituzionali preesistenti (tanto da minacciare le forme tradizionali di sovranità statale) ma anche nell'ambito della divisione del lavoro, delle relazioni sociali, del welfare, degli assetti tecnologici, degli stili di vita e di pensiero, delle attività riproduttive, dell'attaccamento alla propria terra e degli atteggiamenti affettivi. Facendo dello scambio di mercato «un'etica in sé, capace di fungere da guida di tutte le azioni umane e di sostituire tutte le convinzioni etiche coltivate in precedenza», il neoliberismo sottolinea l'importanza dei rapporti contrattuali nel mercato. Sostiene che il bene sociale può essere massimizzato intensificando la portata e la frequenza delle transazioni commerciali, e tenta di ricondurre tutte le azioni umane nell'ambito del mercato. Questo richiede tecnologie per la creazione di informazione e per l'accumulazione, l'immagazzinamento, il trasferimento, l'analisi e l'utilizzo di enormi database necessari per orientare le decisioni nel mercato globale. Di qui il profondo interesse del neoliberismo per le tecnologie dell'informazione (che ha indotto alcuni a proclamare l'avvento di un nuovo tipo di «società dell'informazione»). Queste tecnologie hanno portato a comprimere nel tempo e nello spazio la densità crescente delle transazioni commerciali, producendo un'esplosione particolarmente intensa di ciò che altrove ho definito «compressione spaziotemporale». Più è vasta l'estensione geografica (di qui l'accento sulla «globalizzazione») e più è breve il termine dei contratti commerciali, meglio è. Questa preferenza trova un parallelo nella famosa definizione della condizione post-moderna fornita da Jean-Franηois Lyotard, in cui «il contratto limitato nel tempo» si sostituisce all'«istituzione permanente nel campo professionale, affettivo, sessuale, culturale, familiare, internazionale, come negli affari politici». Le conseguenze culturali del trionfo di tale etica del mercato sono innumerevoli, come ho già evidenziato nel saggio La crisi della modernità.

Anche se oggi esistono molti studi generali sulle trasformazioni globali e sui loro effetti, quel che ancora manca è la storia economico-politica delle origini della neoliberalizzazione e del modo in cui si è diffusa sullo scenario mondiale: questa è la lacuna che il presente libro mira a colmare. L'osservazione critica di questo processo costituisce inoltre la cornice entro cui individuare e costruire soluzioni politiche ed economiche alternative.

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Pagina 14

1. «Libertà» è solo una parola...


Perché un modo di pensare diventi dominante è necessario mettere a punto un apparato concettuale in grado di sollecitare le nostre intuizioni e i nostri istinti, i nostri valori e i nostri desideri, oltre che le possibilità intrinseche del mondo sociale in cui viviamo. Una volta rivelatosi idoneo allo scopo, questo apparato concettuale si radica a tal punto nel senso comune da apparire scontato e non essere messo più in discussione. I fondatori del pensiero neoliberista adottarono come fondamenti, ovvero come «valori centrali della civiltà», gli ideali politici di dignità umana e di libertà individuale; fu una scelta accorta, poiché si tratta di concetti dall'indubbio potere seduttivo. Tali valori, a loro parere, erano minacciati non solo dal fascismo, dal comunismo e dalle dittature, ma anche da tutte quelle forme di intervento statale che sostituivano al libero arbitrio degli individui le decisioni collettive.

I concetti di dignità e libertà individuale esercitano di per sé un fascino notevole: tali ideali ispirarono i movimenti di dissidenza dell'Europa orientale e dell'Unione Sovietica prima della fine della Guerra fredda, così come gli studenti di piazza Tien-An-Men. I movimenti studenteschi che nel 1968 dilagarono in tutto il mondo — da Parigi e Chicago tino a Bangkok e Città di Messico — erano in parte animati dal desiderio di una maggiore libertà di parola e di scelta. Più in generale questi ideali esercitano un'attrattiva su chiunque consideri preziosa la facoltà di decidere in piena autonomia.

Negli ultimi anni l'idea di libertà, che ha radici profonde nella tradizione americana, ha avuto un ruolo di primo piano negli Stati Uniti. L'11 settembre è stato infatti immediatamente interpretato da molti come un attacco a questo principio. «Un mondo pacifico in cui cresca la libertà» ha scritto il presidente Bush nel primo anniversario di quel giorno terribile «è funzionale agli interessi americani a lungo termine, riflette ideali americani duraturi e unisce gli alleati dell'America.» «L'umanità» concludeva «ha l'opportunità di far trionfare la libertà su tutti i suoi antichi nemici», e «gli Stati Uniti accettano con gioia la responsabilità di porsi alla guida di questa grande missione.» Il documento ufficiale della National Defense Strategy statunitense reso noto qualche tempo dopo faceva proprio questo linguaggio. «La libertà è il dono dell'Onnipotente a ogni uomo e ogni donna di questo mondo» avrebbe affermato Bush in seguito, aggiungendo: «Proprio perché siamo la più grande potenza della terra, abbiamo il dovere di contribuire a diffondere la libertà».

Quando tutte le altre ragioni per scatenare una guerra preventiva contro l'Iraq si dimostrarono infondate, il presidente fece ricorso all'idea secondo cui portare la libertà in quel paese era di per sé una motivazione sufficiente a giustificare il conflitto. Gli iracheni erano liberi, e questa era l'unica cosa che contava veramente. Viene da chiedersi di quale genere di «libertà» si trattasse, visto che, come notava saggiamente molto tempo fa il critico e poeta Matthew Arnold, la libertà «è un ottimo cavallo da cavalcare, ma per andare da qualche parte». Verso quale destinazione ci si aspetta che il popolo iracheno conduca il cavallo della libertà che gli è stato donato con la forza delle armi?

La risposta dell'amministrazione Bush a questa domanda venne formulata il 19 settembre 2003, quando Paul Bremer, alla testa dell'Autorità provvisoria della coalizione, promulgò quattro ordinanze che prevedevano «la totale privatizzazione delle imprese pubbliche, il pieno diritto alla proprietà privata delle attività economiche irachene da parte di aziende straniere, il rimpatrio totale dei profitti da queste ottenuti [...] l'apertura delle banche dell'Iraq al controllo straniero, l'equiparazione del trattamento delle società straniere a quello delle imprese nazionali [...] l'eliminazione di quasi tutte le barriere agli scambi commerciali». Tali disposizioni dovevano essere applicate in tutti gli ambiti dell'attività economica, inclusi i servizi pubblici, i media, le imprese manifatturiere, i servizi, i trasporti, le società finanziarie e l'edilizia; solamente il petrolio era escluso (presumibilmente in ragione del suo status speciale, in quanto produceva gli introiti necessari a finanziare la guerra, e della sua importanza geopolitica). Il mercato del lavoro, invece, sarebbe stato rigidamente regolamentato: gli scioperi erano di fatto proibiti nei settori chiave e il diritto a costituirsi in sindacato veniva limitato. Veniva imposta inoltre una flat tax assai regressiva (un piano di riforma fiscale ambizioso che da tempo i conservatori attendevano di poter attuare negli Stati Uniti).

Secondo alcuni queste ordinanze rappresentavano una violazione delle Convenzioni di Ginevra e dell'Aia, che sanciscono l'obbligo per la potenza occupante di proteggere le risorse economiche del paese occupato, senza svenderle. Alcuni iracheni hanno opposto resistenza all'imposizione all'Iraq di quello che l'Economist di Londra ha definito un regime «da sogno capitalista». Un membro dell'Autorità provvisoria, nominata dagli Stati Uniti, ha criticato aspramente l'imposizione del «fondamentalismo del libero mercato», definendolo frutto di «una logica sbagliata che ignora la storia»? Le leggi volute da Bremer potevano essere definite illegali in quanto provenienti da una potenza occupante, ma una volta confermate da un governo «sovrano» sarebbero divenute legittime. E il governo ad interim nominato dagli americani, che assunse il potere alla fine del giugno 2004, fu proclamato «sovrano»; però aveva solo il potere di confermare leggi già esistenti. Prima del passaggio di poteri, Bremer moltiplicò il numero delle leggi che precisavano, in modo più che mai dettagliato, le regole del libero mercato e del libero scambio (toccando temi specifici come le norme sul copyright e i diritti di proprietà intellettuale), esprimendo l'auspicio che queste soluzioni istituzionali assumessero presto «un'autonomia e un rilievo propri», in modo che fosse molto difficile fare marcia indietro.

Secondo la teoria neoliberista, le misure che Bremer aveva delineato erano necessarie e sufficienti per produrre ricchezza e dunque per accrescere il benessere della popolazione nel suo complesso. L'idea che le libertà individuali siano garantite dalla libertà di mercato e di scambio rappresenta un aspetto fondamentale del pensiero neoliberista, e il fulcro dell'ideologia con cui gli Stati Uniti guardano al resto del mondo. Quello che gli americani evidentemente cercavano di imporre con la forza all'Iraq era un apparato statale che avesse come obiettivo fondamentale quello di garantire le condizioni ottimali per una redditizia accumulazione di capitale da parte degli investitori nazionali e stranieri. Definisco questo tipo di apparato statale «stato neoliberista»: le libertà che incarna riflettono gli interessi dei detentori della proprietà privata, delle imprese commerciali, delle multinazionali e dei capitali finanziari. In altre parole, Bremer invitò gli iracheni a condurre il loro cavallo della libertà dritto nel recinto neoliberista.

Il primo esperimento di creazione di uno stato neoliberista, vale la pena ricordarlo, si verificò in Cile dopo il golpe di Pinochet, avvenuto l'11 settembre 1973 (quasi trent'anni esatti prima che Bremer chiarisse quale regime doveva essere instaurato in Iraq). Il colpo di stato contro il governo democraticamente eletto di Salvador Allende fu organizzato dalle élite economiche nazionali — che si sentivano minacciate dalla politica socialista promossa dal presidente — con l'appoggio delle grandi società americane, della CIA e del segretario di Stato Henry Kissinger. Il golpe represse con la violenza tutti i movimenti sociali e le organizzazioni politiche della sinistra e smantellò qualsiasi forma di organizzazione popolare (come i centri sanitari di comunità nei quartieri più poveri), mentre il mercato del lavoro veniva «liberato» dalle restrizioni derivanti da regolamenti e istituzioni (come i sindacati). Ma come si poteva ridare vigore a un'economia in stallo? Le politiche di sostituzione delle importazioni (attuate finanziando le industrie nazionali e imponendo dazi protezionistici) che avevano dominato i tentativi dei paesi latinoamericani di sostenere lo sviluppo economico erano cadute in discredito, in particolare in Cile, dove non avevano mai dato i risultati sperati. Ora che tutto il mondo era in recessione economica, il problema andava affrontato in modo nuovo.

Per contribuire alla ricostruzione dell'economia cilena fu convocato un gruppo di economisti noti come «Chicago boys», in virtù della loro adesione alle teorie neoliberiste di Milton Friedman, che allora insegnava all'Università di Chicago. La storia di come furono scelti è interessante. Gli Stati Uniti avevano finanziato la formazione di economisti cileni presso l'Università di Chicago fin dagli anni cinquanta, nell'ambito di un programma concepito durante la Guerra fredda per contrastare le sinistre in America Latina. Gli economisti formatisi a Chicago divennero figure di spicco dell'Università Cattolica di Santiago, un ateneo privato. Nei primi anni settanta le élite economiche cilene organizzarono la loro opposizione ad Allende attraverso un gruppo chiamato «club del lunedì» e avviarono un rapporto di collaborazione con quegli economisti, finanziando le loro attività attraverso istituti di ricerca. Messo da parte il generale Gustavo Leigh, keynesiano e rivale del leader golpista, nel 1975 Pinochet portò quegli economisti al governo, dove il loro primo compito fu di negoziare prestiti con il Fondo monetario internazionale. Lavorando a fianco dell'FMI, i «Chicago boys» ristrutturarono l'economia secondo le loro teorie. Revocarono le nazionalizzazioni e privatizzarono beni pubblici, resero le risorse naturali (pesca, legname ecc.) accessibili a uno sfruttamento del tutto privo di regole (che in molti casi calpestò senza alcuno scrupolo i diritti delle popolazioni locali), privatizzarono la previdenza sociale, agevolarono gli investimenti stranieri diretti e il libero scambio; fu garantito il diritto delle società straniere al rimpatrio dei proventi delle loro operazioni in Cile; alla sostituzione delle importazioni si preferì una crescita basata sulle esportazioni. L'unico settore riservato allo stato rimase il rame (come il petrolio in Iraq), che era determinante per tenere in piedi il bilancio dello stato, dato che gli introiti che ne derivavano fluivano esclusivamente nelle sue casse. L'immediata ripresa dell'economia cilena in termini di tassi di crescita, accumulo di capitale e alti livelli di profitto sugli investimenti stranieri ebbe vita breve: il sistema crollò con la crisi del debito latinoamericano del 1982. Il risultato fu che, negli anni successivi, le politiche neoliberiste furono applicate in modo molto più pragmatico e meno ideologico. Tutto ciò, incluso il pragmatismo, costituì un utile banco di prova in vista della svolta neoliberista che si sarebbe avuta in Gran Bretagna (sotto la Thatcher) e negli Stati Uniti (sotto Reagan) negli anni ottanta. Non era la prima volta che un esperimento condotto in modo brutale alla periferia del mondo diveniva un modello per la messa a punto di politiche da adottare nel centro (proprio come sarebbe accaduto con la flat tax imposta in Iraq dai decreti di Bremer).

Il fatto che due ristrutturazioni così evidentemente simili di un apparato statale si siano verificate in momenti tanto diversi e in parti molto lontane del mondo sotto l'influenza coercitiva degli Stati Uniti suggerisce che dietro il repentino diffondersi di forme di stato neoliberista, avvenuto in tutto il mondo a partire dalla metà degli anni settanta, si nasconde uno spietato esercizio del potere imperiale americano. Ma anche se questo è senza dubbio avvenuto negli ultimi trent'anni, non basta a spiegare il fenomeno nel suo complesso, come dimostra la presenza, nella svolta neoliberista del Cile, della componente nazionale. E non furono certo gli americani a costringere Margaret Thatcher a imboccare pionieristicamente, nel 1979, la via del neoliberismo. Né furono gli Stati Uniti a costringere la Cina a intraprendere, nel 1978, la strada delle liberalizzazioni. Risulterebbe poi difficile ricondurre al potere imperiale statunitense i parziali spostamenti verso il neoliberismo compiuti dall'India negli anni ottanta e dalla Svezia all'inizio degli anni novanta. La diffusione geografica irregolare di questa tendenza sullo scenario mondiale testimonia che si tratta di un processo di notevole complessità, che comporta decisioni molteplici e una discreta dose di confusione. Perché allora si è verificata una tale svolta neoliberista, e quali sono state le forze che l'hanno resa così egemonica all'interno del capitalismo globale?

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Pagina 47

La prospettiva della libertà

Θ interessante leggere la storia della neoliberalizzazione e della formazione di classe e la sempre più diffusa accettazione delle idee della società di Mont Pélerin sullo sfondo delle riflessioni proposte da Karl Polanyi nel 1944 (poco tempo prima che venisse costituita tale associazione). In una società complessa, notava Polanyi, il significato della libertà diviene tanto più contraddittorio e pregno quanto più le sue sollecitazioni all'azione sono stringenti. Secondo Polanyi esistono due tipi di libertà, uno buono e l'altro cattivo; tra gli esempi di quest'ultimo tipo egli elencava «la libertà di sfruttare i propri simili, o la libertà di impedire che le invenzioni tecnologiche vengano usate a pubblico beneficio, oppure la libertà di trarre profitto da pubbliche calamità organizzate in segreto per trarne vantaggi privati». Ma, continuava, «l'economia di mercato nel cui ambito prosperano queste libertà ha anche prodotto libertà a cui diamo grande valore. La libertà di coscienza, la libertà di parola, la libertà di riunione, la libertà di associazione, la libertà di scegliersi il proprio lavoro». Anche se molti possono «aver care queste libertà di per se stesse» — come certamente accade ancora a molti di noi — si tratta in larga misura di «prodotti secondari della stessa economia che ha prodotto anche le libertà negative». Considerata l'attuale egemonia del pensiero neoliberista, leggere la risposta di Polanyi a questo dualismo può produrre uno strano effetto:

La fine dell'economia di mercato può divenire l'inizio di un'era di libertà senza precedenti. Le libertà giuridiche ed effettive possono essere rese più ampie e più generali di quanto siano mai state; la regolamentazione e il controllo possono servire a garantire la libertà non solo a pochi, ma a tutti. La libertà non come elemento accessorio del privilegio, contaminato alla fonte, ma come un diritto prescrittivo che si estende ben oltre gli stretti limiti della sfera politica, nell'organizzazione interna della società stessa. Così le antiche libertà e i diritti civili si aggiungerebbero alla riserva delle nuove libertà generate dal tempo libero e dalla sicurezza che la società industriale offre a tutti. Una simile società potrebbe permettersi di essere tanto giusta quanto libera.

Sfortunatamente, notava Polanyi, il passaggio a un futuro del genere è impedito dall'«ostacolo morale» dell'utopismo liberale (e piu di una volta egli cita Hayek come rappresentante di questa tradizione):

Le pianificazioni e il controllo vengono accusati di essere negazioni della libertà. Si afferma che la libera impresa e la proprietà privata sono essenziali alla libertà. Si afferma che nessuna società costruita su fondamenti diversi merita di essere chiamata libera. La libertà creata dalla regolamentazione viene denunciata come illibertà; la giustizia, la libertà e il welfare che offre vengono biasimati come una mascheratura della schiavitù.

L'idea di libertà «degenera così in un mero patrocinio della libera impresa», che significa «piena libertà per coloro che non hanno bisogno di veder crescere i propri redditi, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e una vera e propria carenza di libertà per la gente che invano potrebbe cercare di far uso dei propri diritti democratici per trovare protezione dal potere di quanti detengono le proprietà». Ma se, come sempre accade, «non è possibile una società in cui non siano presenti il potere e la costrizione, e neppure un mondo in cui la forza non abbia una funzione», allora l'unico modo in cui questa visione utopica liberale potrà essere sostenuta è con la forza, la violenza e l'autoritarismo. L'utopismo liberale o neoliberista è condannato, nella concezione di Polanyi, a essere frustrato dall'autoritarismo, se non dal fascismo vero e proprio. Le libertà buone svaniscono, e subentrano quelle cattive.

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Pagina 78

3. Lo stato neoliberista


Il ruolo dello stato nella teoria neoliberista è abbastanza facile da definire, ma la pratica neoliberista, nella sua evoluzione, si è allontanata in modo notevole dal modello teorico. L'evoluzione caotica e lo sviluppo geografico irregolare delle istituzioni, dei poteri e delle funzioni statali negli ultimi trent'anni fanno inoltre pensare che lo stato neoliberista possa costituire una forma politica instabile e contraddittoria.


Lo stato neoliberista nella teoria

Secondo la teoria, lo stato neoliberista dovrebbe favorire in modo precipuo il diritto individuale alla proprietà privata, il primato della legalità, l'istituzione di mercati in grado di funzionare liberamente e il libero scambio. Queste sono le condizioni istituzionali ritenute essenziali per garantire le libertà individuali. La struttura legale è quella degli obblighi contrattuali liberamente negoziati nel mercato tra individui giuridici. Il rispetto dei contratti e i diritti individuali alla libertà d'azione, di espressione e di scelta devono essere protetti. Lo stato deve dunque utilizzare il suo monopolio degli strumenti di coercizione violenta per tutelare queste libertà a tutti i costi. Per estensione, la libertà delle imprese commerciali e delle grandi aziende (che dal punto di vista legale sono considerate come individui) di operare all'interno della struttura istituzionale di liberi mercati e libero scambio è considerata un bene fondamentale. L'impresa privata e l'iniziativa imprenditoriale sono ritenute fondamentali per l'innovazione e la creazione di ricchezza. I diritti di proprietà intellettuale sono tutelati (per esempio tramite brevetti) in modo da incoraggiare i cambiamenti tecnologici. Il continuo aumento della produttività dovrebbe dunque garantire a tutti un livello di vita più alto. Basandosi sull'assunto per cui «l'alta marea solleva tutte le barche» o sull'idea del trickle down (secondo la quale un maggior benessere dei ceti elevati e delle grandi imprese produce ricadute positive per tutta la popolazione), la teoria neoliberista sostiene che l'eliminazione della povertà (a livello nazionale e in tutto il mondo) può essere garantita al meglio attraverso il libero mercato e il libero scambio.

I neoliberisti insistono particolarmente sulla privatizzazione delle risorse. La mancanza di diritti ben definiti a tutela della proprietà privata – tipica di molti paesi in via di sviluppo – è considerata uno degli ostacoli maggiori allo sviluppo economico e alla crescita del benessere generale. La delimitazione e l'attribuzione dei diritti di proprietà sarebbero la miglior forma di protezione contro la cosiddetta «tragedia delle proprietà comuni» (cioè la tendenza degli individui a sfruttare in modo eccessivo e irresponsabile le risorse di proprietà comune, come la terra e l'acqua). I settori in precedenza gestiti o regolati dallo stato devono essere trasferiti nella sfera privata ed essere deregolamentati (liberati cioè da qualsiasi intervento dello stato). La competizione – tra individui, aziende, entità territoriali (città, regioni, nazioni, raggruppamenti regionali) – è considerata un meccanismo virtuoso. Le regole di base della competizione di mercato devono essere ovviamente rispettate; nelle situazioni in cui non sono chiaramente definite, o in cui i diritti di proprietà risultano difficili da definire, lo stato deve usare il proprio potere per imporre o inventare sistemi di mercato (come il commercio dei pollution rights, o permessi di emissione). Secondo i neoliberisti, la privatizzazione e la deregolamentazione, combinate con la competizione, eliminano le lungaggini burocratiche, accrescono l'efficienza e la produttività, migliorano la qualità e riducono i costi, sia direttamente presso il consumatore, perché prodotti e servizi costano meno, sia indirettamente, per via della riduzione del peso fiscale. Lo stato neoliberista dovrebbe perseguire con costanza le ristrutturazioni interne e le nuove soluzioni istituzionali che possono migliorare la sua posizione competitiva rispetto agli altri stati nel mercato globale.

Una volta garantita la libertà personale e individuale nel mercato, ciascun individuo è ritenuto responsabile delle proprie azioni e del proprio benessere, e può essere chiamato a risponderne. Questo principio si estende ai campi dell'assistenza sociale, dell'istruzione, dell'assistenza sanitaria e perfino delle pensioni (la previdenza sociale è stata privatizzata in Cile e in Slovacchia e sono state avanzate proposte per fare lo stesso negli Stati Uniti). Il successo o l'insuccesso individuale vengono interpretati in termini di doti imprenditoriali o di fallimenti personali (per esempio perché non si è investito abbastanza nel proprio capitale umano tramite l'istruzione) invece di essere attribuite a qualche caratteristica del sistema (come le esclusioni classiste che in genere si imputano al capitalismo).

La libera mobilità del capitale tra settori, regioni e paesi è considerata cruciale. Ogni barriera a questa libertà di movimento (dazi doganali, provvedimenti fiscali punitivi, pianificazioni e controlli in campo ambientale o altri impedimenti relativi alla localizzazione) deve essere rimossa, tranne che nelle aree cruciali per l'«interesse nazionale», quale che sia il significato che si attribuisce a questo termine. Rispetto ai movimenti di prodotti e capitali la sovranità dello stato viene volontariamente ceduta al mercato globale. La competizione internazionale è intesa come un fatto salutare, poiché migliora l'efficienza e la produttività, abbassa i prezzi e dunque controlla le tendenze all'inflazione. Gli stati dovrebbero dunque perseguire e negoziare collettivamente la riduzione delle barriere al movimento di capitali attraverso i confini e l'apertura dei mercati (sia per i prodotti che per il capitale) agli scambi globali; se ciò si applichi alla manodopera, intesa come risorsa, è tuttavia controverso. Visto che tutti gli stati devono collaborare a ridurre le barriere agli scambi, è necessaria la nascita di strutture di coordinamento, come il gruppo delle nazioni più industrializzate (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Canada e Giappone) noto come G7 (ora, con l'aggiunta della Russia, G8). Gli accordi internazionali tra stati per garantire la legalità e la libertà di scambio, come quelli oggi inclusi negli accordi dell'Organizzazione mondiale del commercio (WTO), sono cruciali per il progetto neoliberista a livello globale.

I teorici del neoliberismo nutrono, tuttavia, profondi sospetti nei confronti della democrazia. Il governo basato sulla regola della maggioranza è visto come una minaccia potenziale ai diritti individuali e alle libertà costituzionali. La democrazia è considerata un lusso, possibile solo in condizioni di relativa ricchezza, laddove esista una forte classe media in grado di garantire la stabilità politica. I neoliberisti tendono quindi a favorire l'egemonia degli esperti e delle élite. Esiste una netta preferenza per l'esercizio del governo tramite decreti esecutivi e decisioni giudiziarie, piuttosto che tramite il processo decisionale democratico e parlamentare. I neoliberisti preferiscono mantenere le istituzioni chiave, come la banca centrale, al riparo dalle pressioni democratiche. Dato che la teoria neoliberista si fonda sul primato della legalità e su una rigida interpretazione della costituzionalità, ne consegue che conflitti e contrapposizioni devono essere mediati attraverso i tribunali. Soluzioni e rimedi ai problemi di qualsiasi tipo vanno cercati a titolo individuale, attraverso il sistema legale.


Tensioni e contraddizioni

Vi sono alcune zone d'ombra e alcuni punti controversi nella teoria generale dello stato neoliberista. In primo luogo, c'è il problema di come interpretare il potere monopolistico. Spesso la competizione produce monopoli o oligopoli, dato che le aziende più forti eliminano le più deboli. Gran parte dei teorici neoliberisti non vede in questo alcun problema (dovrebbe, anzi, massimizzare l'efficienza) finché non vi siano vere e proprie barriere che impediscono l'accesso alla concorrenza (una condizione spesso difficile da realizzare, e che lo stato avrebbe quindi il dovere di promuovere). Il caso dei cosiddetti «monopoli naturali» è più difficile. Non avrebbe senso la coesistenza tra diverse reti di energia elettrica, di condutture del gas, tra sistemi idrici e fognari e collegamenti ferroviari tra Washington e Boston in competizione tra loro. In questi campi una regolazione statale delle erogazioni, dell'accesso e dei prezzi sembra inevitabile. Anche se si può accettare una parziale deregolamentazione (che permetta ai produttori in competizione tra loro di far passare l'elettricità sulla stessa rete elettrica, o di far correre i treni sulle stesse rotaie, per esempio), la possibilità che si verifichino speculazioni e abusi, come ha abbondantemente dimostrato la crisi elettrica della California nel 2002, o che prevalgano il caos e la confusione più totali, come ha dimostrato la situazione delle ferrovie britanniche, è del tutto reale.

Il secondo principale terreno di controversie concerne i difetti del mercato. Questi emergono quando individui o ditte evitano di pagare tutti i costi loro spettanti trasferendo i loro impegni passivi al di fuori del mercato (gli impegni passivi vengono, secondo la terminologia tecnica, «esternalizzati»). L'esempio classico è quello dell'inquinamento, quando individui e aziende evitano i costi scaricando i rifiuti nocivi, senza pagare alcunché, nell'ambiente; ne può conseguire il degrado o la distruzione di ecosistemi produttivi. Essere esposti a sostanze pericolose o a rischi fisici sul lavoro può avere effetti sulla salute degli esseri umani e ridurre la riserva di manodopera sana. Anche se i neoliberisti ammettono il problema e alcuni di loro riconoscono che in questo caso è opportuno un intervento limitato dello stato, altri sono a favore dell'inazione, perché la cura sarebbe quasi certamente peggiore della malattia. Gran parte di loro tende però a concordare sul fatto che, se ci devono essere interventi, questi dovrebbero essere attuati attraverso meccanismi di mercato (per mezzo di imposizioni o incentivi fiscali, negoziazione dei permessi di emissione ecc.). Anche i difetti della competizione vengono affrontati in modo simile. Quando le relazioni contrattuali e subcontrattuali proliferano, si può incorrere in una crescita dei costi delle transazioni. Per fare un esempio, il vasto apparato della speculazione valutaria diviene sempre più costoso mano a mano che diventa fondamentale per ricavare profitti speculativi. Altri problemi nascono quando tutti gli ospedali di una regione, in concorrenza tra loro, acquistano le stesse sofisticate attrezzature destinate a rimanere poco utilizzate, provocando in questo modo un aumento dei costi aggiuntivi: in questo caso sembrerebbe evidente la necessità di un contenimento dei costi attraverso la pianificazione statale, la regolamentazione e un coordinamento obbligatorio, ma anche in questo caso i neoliberisti considerano con profondo sospetto interventi simili.

In genere si tende a presumere che tutti coloro che agiscono nel mercato abbiano accesso alle stesse informazioni, ovvero che non esistano asimmetrie di potere o di informazione tali da interferire con la capacità degli individui di prendere, nel proprio interesse, decisioni economiche razionali. In pratica a una condizione del genere ci si avvicina, se mai ciò avviene, solo di rado, e questo ha conseguenze rilevanti. I giocatori meglio informati e più potenti dispongono di un vantaggio che può facilmente essere sfruttato per procurarsi ulteriori informazioni e di conseguenza maggior potere. L'affermazione dei diritti di proprietà intellettuale (brevetti) incoraggia inoltre la ricerca di posizioni «di rendita»: coloro che detengono i diritti di un brevetto fanno uso del loro potere monopolistico per stabilire prezzi di monopolio e impedire i trasferimenti di tecnologie, se non a un costo molto alto. Con il tempo l'asimmetria nelle relazioni di potere tende dunque ad aumentare, piuttosto che a diminuire, se non entra in campo lo stato per contrastarla. La presunzione neoliberista che l'informazione sia distribuita in modo ideale e il campo di gioco perfettamente idoneo per una leale competizione appare o innocentemente utopistica o un deliberato occultamento dei processi che conducono alla concentrazione della ricchezza e, dunque, alla restaurazione del potere di classe.

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A livello internazionale, nel 1982 i principali stati neoliberisti conferirono all'FMI e alla Banca mondiale la piena autorità di negoziare una diminuzione del debito, il che in effetti significava proteggere le principali istituzioni finanziarie dal rischio di inadempienze. L'FMI di fatto copre, per quanto gli è possibile, i rischi e le incertezze nei mercati finanziari internazionali. Questa prassi è difficile da giustificare secondo la teoria neoliberista, visto che in linea di principio gli investitori dovrebbero essere responsabili dei loro errori, e di conseguenza i neoliberisti di orientamento più fondamentalista ritengono che l'FMI dovrebbe essere abolito. Questa possibilità fu presa seriamente in esame durante i primi anni dell'amministrazione Reagan, e i repubblicani l'hanno nuovamente proposta al Congresso nel 1998. James Baker, segretario al Tesoro di Reagan, infuse nuova vita all'istituzione quando si trovò di fronte alla potenziale bancarotta del Messico, che avrebbe inflitto gravi perdite alle principali banche d'investimento di New York, le quali nel 1982 controllavano il debito del Messico. Baker utilizzò l'FMI per imporre al Messico aggiustamenti strutturali e proteggere i banchieri di New York dalle conseguenze dell'inadempienza. Questa prassi – dare la priorità alle esigenze delle banche e delle istituzioni finanziarie penalizzando i livelli di vita del paese debitore – era già stata messa alla prova durante la crisi debitoria della città di New York. Nel contesto internazionale ciò significava ricavare surplus dalle popolazioni povere del Terzo Mondo per ripagare i banchieri internazionali. «E un mondo strano» osserva sconcertato Stiglitz «in cui i paesi poveri sovvenzionano di fatto i più ricchi.» Anche il Cile – esempio dopo il 1975 di pratiche neoliberiste «pure» – fu colpito in questo modo nel 1982-1983, e il risultato fu che il prodotto interno lordo crollò di quasi il 14 per cento e la disoccupazione salì del 20 per cento in un solo anno. A livello teorico si evitò di trarne la conclusione che la neoliberalizzazione «pura» non funziona, anche se i pragmatici aggiustamenti successivamente apportati in Cile (oltre che in Gran Bretagna dopo il 1983) aprirono il campo a compromessi che ampliarono ancora di più il divario tra teoria e pratica.

Quella di estorcere tributi grazie a meccanismi finanziari è una vecchia pratica imperiale. Si è dimostrata molto utile alla restaurazione del potere di classe, in particolar modo nei principali centri finanziari del mondo, e non sempre ha bisogno, per operare, di una crisi di aggiustamento strutturale. Quando gli imprenditori dei paesi in via di sviluppo prendono a prestito denaro dall'estero, per esempio, la condizione che viene posta, e cioè che lo stato disponga di riserve sufficienti di valuta estera per coprire i prestiti, si traduce nella necessità di investimenti statali, per esempio, in buoni del Tesoro USA. La differenza tra il tasso di interesse sul denaro preso a prestito (per esempio il 12 per cento) e quello sul denaro contestualmente depositato presso le casse del Tesoro di Washington (che può essere il 4 per cento) produce un ingente flusso finanziario netto verso il centro imperiale, a spese dei paesi in via di sviluppo.

Questa tendenza degli stati principali, come gli Stati Uniti, a proteggere gli interessi finanziari e a rimanere a guardare mentre questi risucchiano i surplus provenienti da altre aree favorisce e al tempo stesso riflette il consolidamento del potere delle classi più alte all'interno di questi stati intorno ai processi di finanziarizzazione. Ma l'abitudine a intervenire nel mercato e trarre d'impaccio le istituzioni finanziarie quando finiscono nei guai non può conciliarsi con la teoria neoliberista. Gli investimenti avventati dovrebbero essere puniti con le perdite di chi presta il denaro, e invece lo stato fa sì che i prestatori rimangano ampiamente al sicuro. Al contrario, sono coloro che prendono prestiti a dover pagare, quale che sia il costo sociale. La teoria neoliberista dovrebbe dire «quando fai un prestito, stai attento», ma in pratica dice «quando prendi un prestito, stai attento».

[...]

Questo ci porta, infine, al discusso tema dell'atteggiamento dello stato neoliberista nei confronti dei mercati del lavoro. A livello interno, lo stato neoliberista è per forza di cose ostile a ogni forma di solidarietà sociale che limiti l'accumulazione di capitale. Sindacati indipendenti o altri movimenti sociali (come il socialismo municipale del Greater London Council), che avevano acquisito un potere considerevole nel periodo dell' embedded liberalism, dovevano quindi essere messi in riga, se non distrutti, nel nome di quella che veniva presentata come l'inviolabile libertà individuale del singolo lavoratore. La parola d'ordine, per i mercati del lavoro, è «flessibilità». Θ difficile sostenere che l'aumento della flessibilità sia un fenomeno del tutto negativo, in particolare di fronte a pratiche sindacali estremamente restrittive e sclerotiche. Ci sono quindi riformisti di sinistra che sostengono vigorosamente che la «specializzazione flessibile» costituisce una forma di progresso. Ma anche se alcuni lavoratori possono senz'altro beneficiarne, le asimmetrie che sorgono quanto a informazione e potere, insieme alla mancanza di una facile e libera mobilità del lavoro (in particolare attraverso i confini tra gli stati), pongono la forza lavoro in condizioni di svantaggio. La specializzazione flessibile può divenire per il capitale un comodo strumento per procurarsi mezzi di accumulazione più flessibili. I due termini — specializzazione flessibile e accumulazione flessibile — hanno connotazioni assai diverse. Il risultato complessivo è costituito da salari più bassi, crescente insicurezza del lavoro e in molti casi perdita di benefici e di ogni garanzia a tutela del posto di lavoro. Si tratta di tendenze chiaramente percepibili in tutti gli stati che hanno imboccato la strada neoliberista. Dato il violento attacco a tutte le forme di organizzazione del lavoro e di diritti del lavoro e il massiccio ricorso a riserve di manodopera ampie ma molto disorganizzate in paesi come Cina, Indonesia, India, Messico e Bangladesh, sembrerebbe che il controllo della forza lavoro e il mantenimento di un alto tasso di sfruttamento della manodopera siano stati essenziali per il processo di neoliberalizzazione. Il ripristino o la creazione del potere di classe si verifica, come sempre, a spese del lavoro.

Θ proprio in tale contesto di riduzione delle risorse personali provenienti dal mercato del lavoro che la determinazione con cui il neoliberismo trasferisce all'individuo tutta la responsabilità del proprio benessere ha effetti doppiamente deleteri. Mentre si ritrae dall'impegno nel welfare e riduce il proprio ruolo in campi come l'assistenza sanitaria, la pubblica istruzione e i servizi sociali, un tempo fondamentali per l' embedded liberalism, lo stato espone strati sempre più vasti della popolazione all'impoverimento. La rete della protezione sociale viene ridotta al minimo, in favore di un sistema che dà grande rilievo alla responsabilità individuale. L'insuccesso personale viene generalmente attribuito a incapacità personali, e fin troppo spesso è la vittima a essere biasimata.

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Ma non tutto va per il meglio nello stato neoliberista, ed è per questo che esso appare come una forma politica transitoria o instabile. Al cuore del problema c'è una disparità rapidamente crescente tra gli scopi pubblici dichiarati del neoliberismo (il benessere di tutti) e i suoi risultati effettivi (la restaurazione del potere di classe). Ma al di là di questo c'è un'intera serie di contraddizioni più specifiche che è opportuno evidenziare.

1. Da una parte ci si aspetta che lo stato neoliberista rimanga in disparte, limitandosi a predisporre l'ambiente più idoneo per le funzioni del mercato, ma dall'altra si vuole che sia interventista per creare un clima favorevole all'attività economica e che si comporti come un'entità competitiva nelle politiche globali. In quest'ultimo ruolo deve funzionare come un'azienda collettiva, e ciò pone il problema di come garantirsi la fedeltà dei cittadini. Il nazionalismo è una risposta ovvia, ma è profondamente antagonistico rispetto al programma neoliberista. Θ stato questo il dilemma di Margaret Thatcher, giacché fu solo giocando la carta del nazionalismo con la guerra delle Falkland/Malvine e, in modo ancora più significativo, con la campagna contro l'integrazione politica con l'Europa che poté guadagnarsi la rielezione e promuovere all'interno altre riforme neoliberiste. Spesso, nell'Unione Europea, nel Mercosur (dove i nazionalismi brasiliano e argentino impediscono l'integrazione), nel NAFTA o nell'ASEAN, il nazionalismo necessario per far funzionare lo stato come entità aziendale competitiva nel mercato mondiale intralcia in modo generalizzato le libertà di mercato.

2. L'autoritarismo nell'imposizione del mercato mal s'accorda con gli ideali di libertà individuali. Più il neoliberismo volge il timone verso il primo, più gli diventa difficile mantenere la sua legittimità rispetto ai secondi e più è costretto a rivelare i propri toni antidemocratici. A questa contraddizione si accompagna una crescente mancanza di simmetria nella relazione di potere tra grandi aziende e individui comuni. Se «il potere delle grandi aziende vi sottrae le vostre libertà personali», allora la promessa del neoliberismo si riduce a nulla. Questo vale per gli individui sul posto di lavoro e nelle altre dimensioni della vita. Una cosa è sostenere, per esempio, che lo status della mia assistenza sanitaria costituisce una scelta e una responsabilità mia personale; altra cosa è scoprire che l'unico modo per soddisfare le mie necessità sul mercato è pagare premi esorbitanti a società d'assicurazioni inefficienti, mastodontiche, estremamente burocratizzate, ma anche altamente redditizie. Quando queste società hanno addirittura il potere di definire nuove categorie di malattie che si adattano a nuovi farmaci che giungono sul mercato, allora è chiaro che c'è qualcosa che non va. In circostanze del genere, mantenere la legittimità e il consenso, come abbiamo visto nel capitolo 2, diventa un atto di bilanciamento ancora più difficile, che può facilmente rovesciarsi appena le cose cominciano ad andare male.

3. Anche se può risultare cruciale per preservare l'integrità del sistema finanziario, l'individualismo irresponsabile e autocelebrativo di coloro che operano al suo interno produce volatilità speculativa, scandali finanziari e instabilità cronica. Gli scandali di Wall Street e di varie aziende negli ultimi anni hanno minato la fiducia e messo in seria difficoltà le autorità di regolamentazione che devono decidere come e quando intervenire, a livello internazionale oltre che nazionale. Il libero scambio internazionale richiede regole del gioco globali, e ciò chiama in causa la necessità di qualche tipo di governance globale (per esempio da parte del WTO). La deregolamentazione del sistema finanziario facilita comportamenti che rendono necessaria una ri-regolamentazione, se si vogliono evitare le crisi.

4. Si mettono al primo posto le virtù della competizione, ma la realtà è il crescente consolidamento del potere oligopolistico, monopolistico e transnazionale all'interno di poche grandi aziende multinazionali: il mondo della competizione tra soft drinks si riduce a Cola-Cola contro Pepsi, l'industria dell'energia si riduce a cinque enormi aziende transnazionali, mentre pochi magnati dei media controllano gran parte del flusso dell'informazione, che a questo punto diventa prevalentemente mera propaganda.

5. A livello popolare, la spinta verso la libertà di mercato e la trasformazione di ogni cosa in merce può facilmente impazzire e produrre incoerenza sociale. La distruzione delle forme di solidarietà sociale e, come ha suggerito la Thatcher, anche dell'idea stessa di società in quanto tale, lascia un vuoto crescente nell'ordine sociale. Diventa allora particolarmente difficile combattere l'anomia e controllare i comportamenti antisociali che ne conseguono, come criminalità, pornografia o virtuale riduzione in schiavitù di altri. Riducendo la «libertà» alla «libertà d'impresa» si scatenano tutte quelle «libertà negative» che Polanyi vedeva inestricabilmente intrecciate alle libertà positive. La risposta inevitabile è la ricostruzione delle solidarietà sociali, anche se su linee diverse: di qui la rinascita dell'interesse per la religione e la moralità, per nuove forme di associazionismo (basate su temi come diritti e cittadinanza) e anche il ritorno di forme politiche più vecchie (fascismo, nazionalismo, localismo e così via). Il neoliberismo nella sua forma pura ha sempre rischiato di evocare la propria nemesi, sotto forma di populismi e nazionalismi autoritari. Schwab e Smadja, organizzatori del raduno annuale neoliberista di Davos, un tempo puramente celebrativo, avvertivano fin dal 1996:

La globalizzazione economica è entrata in una nuova fase. Un contraccolpo sempre più forte ai suoi effetti, specialmente nelle democrazie industriali, minaccia di avere un impatto distruttivo sull'attività economica e sulla stabilità sociale in molti paesi. Lo stato d'animo dominante in queste democrazie è di rassegnazione e ansia, il che contribuisce a spiegare l'ascesa di un nuovo tipo di politici populisti. Ciò può facilmente trasformarsi in rivolta.

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6. Il neoliberismo alla prova


Le due locomotive economiche che hanno trainato il mondo durante la recessione globale iniziata dopo il 2001 sono stati gli Stati Uniti e la Cina. L'ironia è che tutti e due i paesi si sono comportati come stati keynesiani in un mondo che si presumeva governato da regole neoliberiste. Gli Stati Uniti hanno fatto ricorso in modo pesante al deficit per finanziare campagne militari e consumi, mentre la Cina ha finanziato a debito, con prestiti bancari improduttivi, grandi investimenti infrastrutturali e investimenti di capitale fisso. I neoliberisti più convinti di certo dichiareranno, come prova a sostegno della loro posizione, che la recessione indica un livello di neoliberalizzazione insufficiente o imperfetto; magari punteranno il dito contro le operazioni dell'FMI e contro quelle schiere di ben retribuiti lobbisti di Washington che regolarmente alterano il processo del bilancio statunitense per scopi legati a interessi particolari. Ma queste posizioni sono impossibili da verificare e loro stessi, nel proporle, si limitano a seguire le orme di una lunga serie di eminenti teorici dell'economia che sostengono che al mondo tutto andrebbe bene se soltanto ci comportassimo secondo i precetti dei loro manuali.

C'è però un'interpretazione più inquietante di questo paradosso. Se mettiamo da parte, come credo che dovremmo fare, l'affermazione secondo cui la neoliberalizzazione non è che un esempio di teoria sbagliata finita fuori controllo (con buona pace dell'economista Stiglitz), o un caso di attuazione insensata di una falsa utopia (con buona pace del filosofo politico conservatore John Gray), quel che ci rimane è una tensione tra il sostegno al capitalismo, da una parte, e la restaurazione/ricostituzione del potere della classe dominante dall'altra. Se abbiamo a che fare con un'aperta contraddizione tra questi due obiettivi, allora non può sussistere alcun dubbio su quale sia la parte verso cui tende l'amministrazione Bush, vista la sua insistente propensione per i tagli fiscali alle grandi aziende e ai ricchi. E poi una crisi finanziaria globale, in parte provocata proprio dalle sue sciagurate politiche economiche, permetterebbe al governo americano di sbarazzarsi finalmente di qualsiasi obbligo relativo al welfare dei suoi cittadini e di limitarsi a mettere insieme le forze militari e di polizia che potrebbero risultare necessarie per reprimere le agitazioni sociali e imporre una disciplina globale. All'interno della classe capitalista potrebbero però prevalere voci più assennate, che hanno ascoltato con attenzione gli avvertimenti di persone come Paul Volcker, secondo cui esiste un'alta probabilità che nei prossimi cinque anni si apra una grave crisi finanziaria. Ma questo significherebbe revocare parte dei privilegi e del potere che negli ultimi trent'anni si sono accumulati nei gradini più alti della classe capitalista. Se si considerano fasi precedenti della storia del capitalismo — viene da pensare al 1873 o agli anni venti del Novecento — quando s'impose una scelta altrettanto cruda, non c'è da ben sperare. Le classi più alte, insistendo sulla natura inviolabile dei loro diritti di proprietà, allora preferirono scardinare il sistema, piuttosto che rinunciare a qualcuno dei loro privilegi e poteri. Così facendo non erano dimentiche dei loro interessi, perché quando assumono l'assetto più appropriato alla situazione possono, come abili curatori fallimentari, trarre vantaggio da un crollo, mentre noi rimaniamo atrocemente intrappolati nel bel mezzo del diluvio. Alcuni di loro possono finire nella morsa e terminare la loro vita con un salto dalle finestre di Wall Street, ma non è la norma. L'unica cosa che temono sono i movimenti politici che li minacciano di espropri o di violenze rivoluzionarie. Anche se possono sperare che il sofisticato apparato militare di cui adesso dispongono (grazie al complesso militare-industriale) proteggerà la loro ricchezza e il loro potere, l'incapacità dimostrata da quell'apparato a pacificare l'Iraq dovrebbe farli riflettere. Ma le classi dominanti raramente cedono volontariamente, se mai lo fanno, una parte del loro potere, e non vedo per quale ragione si debba credere che lo farebbero in questo caso. Paradossalmente, un movimento socialdemocratico della classe lavoratrice, se forte e potente, è in posizione migliore per riscattare il capitalismo di quanto non lo sia lo stesso potere della classe capitalista. Anche se a quanti si collocano all'estrema sinistra questa può suonare come una conclusione controrivoluzionaria, non è priva di un forte elemento d'interesse personale, visto che è la gente comune quella che soffre, che fa la fame e magari muore nel corso delle crisi capitaliste (si pensi all'Indonesia o all'Argentina), e non le classi più alte. Se la politica preferita delle élite al potere è après moi le déluge, è perché il diluvio sommerge soprattutto coloro che non hanno risorse e coloro che non hanno sospetti, mentre le élite dispongono di ben attrezzate arche in cui possono, almeno per un po', sopravvivere piuttosto bene.


I risultati del neoliberismo

Quello che ho scritto sopra è speculativo, ma può essere utile passare in rassegna, dal punto di vista storico-geografico, i risultati ottenuti dalla neoliberalizzazione per verificare fino a che punto possa funzionare come potenziale panacea per i mali politico-economici che attualmente ci minacciano. Fino a che punto, dunque, la neoliberalizzazione è riuscita a stimolare l'accumulazione di capitale? I risultati attuali si rivelano assolutamente deludenti. I tassi di crescita globale aggregata si collocavano intorno al 3,5 per cento negli anni sessanta e perfino durante i difficili anni settanta non scesero sotto il 2,4 per cento. Ma i tassi di crescita dell'1,4 e dell'1,1 per cento negli anni ottanta e novanta (con un tasso che dal 2000 a stento arriva all'1 per cento) mostrano che la neoliberalizzazione non è sostanzialmente riuscita a stimolare la crescita globale (vedi fig. 6.1). In alcuni casi, come nei territori dell'ex Unione Sovietica e in quei paesi dell'Europa centrale che si sono sottoposti alla terapia d'urto neoliberista, si sono registrate perdite catastrofiche. Durante gli anni novanta il reddito pro capite della Russia è diminuito al ritmo del 3,5 per cento all'anno; gran parte della popolazione è caduta in povertà, e di conseguenza l'aspettativa di vita maschile è scesa di cinque anni. L'esperienza dell'Ucraina è stata simile. Solo la Polonia, che si è fatta beffe dei consigli dell'FMI, ha registrato qualche miglioramento netto. In gran parte dell'America Latina la neoliberalizzazione ha prodotto stagnazione (nel «decennio perso» degli anni ottanta) o sprazzi di crescita seguiti da crolli economici (come in Argentina). E in Africa non ha fatto assolutamente nulla per generare cambiamenti positivi. Solo nell'Estremo Oriente e nel Sudest asiatico, ora in parte seguiti dall'India, la neoliberalizzazione è stata collegata a risultati positivi, quanto a crescita, e in questo caso ad aver svolto un ruolo molto significativo sono i paesi in via di sviluppo che non possono davvero dirsi neoliberisti. Il contrasto tra la crescita della Cina (circa il 10 per cento all'anno) e il declino della Russia (meno 3,5 per cento all'anno) è radicale. L'occupazione informale è cresciuta vertiginosamente (le stime suggeriscono che in America Latina sia passata dal 29 per cento della popolazione economicamente attiva durante gli anni ottanta al 44 per cento durante gli anni novanta) e quasi tutti gli indicatori globali che riguardano livelli di salute, aspettativa di vita, mortalità infantile e così via dagli anni sessanta mostrano, quanto a benessere, regressi e non conquiste. La percentuale della popolazione mondiale che si trova in povertà è diminuita, ma questo è dovuto quasi esclusivamente ai miglioramenti in India e Cina. Gli unici successi che la neoliberalizzazione può sistematicamente rivendicare sono quelli che riguardano la riduzione e il controllo dell'inflazione.

I confronti sono sempre odiosi, naturalmente, ma in nessun caso questo è più vero che per la neoliberalizzazione. La neoliberalizzazione circoscritta della Svezia, per esempio, ha ottenuto risultati assai migliori della neoliberalizzazione sostenuta del Regno Unito. I redditi pro capite svedesi sono più alti, l'inflazione più bassa, l'attuale situazione dei conti con il resto del mondo migliore e tutti gli indici, quanto a posizione competitiva e alle condizioni che possono favorire l'attività economica, superiori. Gli indici della qualità della vita sono più alti. La Svezia si classifica terza al mondo quanto ad aspettativa di vita, mentre il Regno Unito si colloca al ventinovesimo posto. Il tasso di poverta è del 6,3 per cento in Svezia e del 15,7 per cento nel Regno Unito; il 10 per cento più ricco della popolazione svedese guadagna 6,2 volte quello che guadagna il 10 per cento al fondo della scala, mentre nel Regno Unito il rapporto è di 13,6. In Svezia l'analfabetismo è più basso e la mobilità sociale maggiore.

Se la consapevolezza di questi fatti fosse più diffusa, l'esaltazione del neoliberismo e della sua specifica forma di globalizzazione dovrebbe smorzarne i toni. Perché, allora, ci sono così tante persone persuase che la neoliberalizzazione attraverso la globalizzazione sia «l'unica alternativa» e perché ha avuto tanto successo?

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La mercificazione di tutto

Presumere che i mercati e i segnali del mercato possano determinare nel modo migliore tutte le decisioni di stanziamento significa affermare che ogni cosa può in linea di principio essere trattata come una merce. La mercificazione presuppone che esistano diritti di proprietà su processi, cose e relazioni sociali, che si possa attribuire loro un prezzo e che possano essere scambiati in base a contratti legali. Si presuppone che il mercato operi come una guida giusta – un'etica – per tutte le azioni umane. In pratica, naturalmente, ogni società stabilisce dove può iniziare e dove deve finire la mercificazione, e dove si collochino questi limiti è materia di discussione. Certe droghe sono ritenute illegali. Vendere e comprare favori sessuali è fuori legge in gran parte degli stati americani, anche se in altri può essere legalizzato e perfino regolato dallo stato come un'industria. La legge statunitense in genere protegge la pornografia, come forma di libertà di parola, anche se vi sono versioni (che riguardano principalmente i bambini) che vengono considerate inaccettabili. Negli Stati Uniti si suppone che la coscienza e l'onore non siano in vendita ed esiste una curiosa tendenza a perseguire la «corruzione» come se fosse chiaramente distinguibile dalle pratiche normalmente usate per diffondere la propria influenza e far soldi nel mercato. La mercificazione di sessualità, cultura, storia, patrimonio ereditario, della natura come spettacolo o come forma di terapia del riposo; il ricavo di rendite monopolistiche dall'originalità, dall'autenticità e dall'unicità (delle opere d'arte, per esempio): tutto questo equivale a dare un prezzo a cose che non sono mai state prodotte come merci. Spesso si manifestano disaccordi in merito all'opportunità di mercificare certe cose (eventi e simboli religiosi, per esempio) o a chi dovrebbe esercitare i diritti di proprietà e ricavare le relative rendite (dall'accesso alle rovine azteche o dal marketing dell'arte aborigena, per esempio).

La neoliberalizzazione ha senza dubbio ampliato i limiti della mercificazione e allargato di molto l'area in cui vigono i contratti legali. In genere celebra (come buona parte della teoria postmoderna) l'effimero e il contratto a breve termine; il matrimonio, per esempio, è inteso come un accordo contrattuale a breve termine, invece che come un legame sacro e inviolabile. In parte, la divisione tra neoliberisti e neoconservatori riflette una diversa idea su quale sia il punto in cui si dovrebbero tracciare le linee divisorie. I neoconservatori generalmente attribuiscono ai «liberali», a «Hollywood» o anche ai «postmoderni» la colpa della dissoluzione e dell'immoralità dell'ordine sociale, piuttosto che ai capitalisti delle grandi società (come Rupert Murdoch), che in realtà sono quelli che procurano gran parte del danno imponendo al mondo ogni genere di materiali, se non lascivi, dotati di valenze sessuali, e che ostentano continuamente, nella loro perenne ricerca del profitto, un'onnipresente preferenza per gli impegni a breve piuttosto che a lungo termine.

Ma qui sono in ballo questioni ben più serie che il mero tentativo di tutelare qualche oggetto di pregio, qualche particolare rituale o qualche attraente angolino di vita sociale dal calcolo monetario e dal contratto a breve termine. Questo perché al cuore della teoria liberale e neoliberista c'è la necessità di costruire mercati coerenti per i terreni, la manodopera e il denaro, e questi, come ha notato Karl Polanyi, «non sono ovviamente delle merci. [...] La descrizione del lavoro, della terra e della moneta come merce è interamente fittizia». Anche se il capitalismo non può funzionare senza queste finzioni, produce un danno indescrivibile quando evita di prendere atto delle realtà complesse che ci sono dietro. Polanyi, in un passo assai celebre, scrive:

Permettere al meccanismo di mercato di essere l'unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell'impiego del potere d'acquisto porterebbe alla demolizione della società. La presunta merce «forza lavoro» non può essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull'individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre della forza lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l'altro dell'entità fisica, psicologica e morale «uomo» che si collega a questa etichetta. Privati della copertura protettiva delle istituzioni culturali, gli esseri umani perirebbero per gli effetti stessi della società, morirebbero come vittime di una grave disorganizzazione sociale, per vizi, perversioni, crimini e denutrizione. La natura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l'ambiente e il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la sicurezza militare messa a repentaglio e la capacità di produrre cibo e materie prime distrutta. Infine, l'amministrazione da parte del mercato del potere d'acquisto liquiderebbe periodicamente le imprese commerciali poiché le carenze e gli eccessi di moneta si dimostrerebbero altrettanto disastrosi per il commercio quanto le alluvioni e la siccità nelle società primitive.

Il danno creato da «alluvioni e siccità» dei capitali fittizi all'interno del sistema di credito globale, in Indonesia come in Argentina, in Messico o anche negli Stati Uniti, testimonia fin troppo a favore dell'argomentazione finale di Polanyi. Ma le sue tesi sul lavoro e sulla terra meritano un'ulteriore elaborazione.

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