Copertina
Autore David Harvey
Titolo L'enigma del capitale
Sottotitoloe il prezzo della sua sopravvivenza
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2011, Campi del sapere , pag. 314, cop.fle., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-07-10470-1
OriginaleThe Enigma of Capital and the Crisis of Capitalism [2010]
TraduttoreAdele Oliveri
LettoreRiccardo Terzi, 2012
Classe economia , economia politica , economia finanziaria , storia economica , storia sociale , movimenti
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Indice


  9  Preambolo


 13  1.  Il flusso si interrompe

 52  2.  L'ammasso del capitale

 69  3.  Il capitale si mette all'opera

115  4.  Il capitale va al mercato

127  5.  Il capitale evolve

146  6.  La geografia del tutto

188  7.  Distruzione creatrice sulla terra

217  8.  Che fare? E chi lo farà?


261  Postfazione
279  Appendice 1
281  Appendice 2
283  Fonti bibliografiche e letture di approfondimento
287  Indice analitico


 

 

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Pagina 9

Preambolo


Questo libro parla del flusso di capitale.

Il capitale è la linfa vitale che scorre nel corpo politico di tutte le società che definiamo capitalistiche, diffondendosi, talvolta a goccia a goccia e talvolta come un'inondazione, in ogni recesso del mondo abitato. È grazie a questo flusso che noi, che viviamo sotto il capitalismo, comperiamo il nostro pane quotidiano, così come le nostre case, le nostre automobili, i telefoni cellulari, le camicie, le scarpe e tutti i beni di cui abbiamo bisogno ogni giorno per vivere. È attraverso questo flusso che si genera la ricchezza da cui si producono i servizi di assistenza, di intrattenimento, di istruzione, di soccorso e di pulizia di cui usufruiamo. Tassando questo flusso gli Stati accrescono il proprio potere, la propria forza militare e la propria capacità di garantire un tenore di vita adeguato ai propri cittadini. Se il flusso si interrompe, rallenta o, peggio ancora, viene sospeso, si va incontro a una crisi del capitalismo in cui la vita quotidiana non può più proseguire nella maniera in cui siamo abituati.

Capire il flusso del capitale, i suoi tortuosi sentieri e la strana logica del suo comportamento è dunque essenziale per comprendere le condizioni in cui viviamo. Agli albori del capitalismo gli economisti di tutti gli orientamenti politici fecero ogni sforzo per analizzarlo, facendo emergere gradualmente una valutazione critica delle dinamiche del capitalismo stesso. Ma in tempi recenti abbiamo abbandonato l'obiettivo di giungere a una tale interpretazione critica: elaboriamo invece sofisticati modelli matematici, analizziamo incessantemente i dati, esaminiamo fogli di calcolo, osserviamo minuziosamente i dettagli e seppelliamo qualsiasi concezione della natura sistemica del flusso di capitale sotto una montagna di saggi, relazioni e previsioni.

Nel novembre 2008 sua Maestà la Regina Elisabetta II chiese ai docenti di economia della London School of Economics come mai non avessero previsto il sopraggiungere della crisi (una domanda che era sicuramente sulla bocca di tutti, ma che solo un monarca feudale poteva porre in termini così semplici, aspettandosi di essere ascoltato). Gli economisti non avevano una risposta. Dopo sei mesi di studio, riflessione e consultazione con i principali responsabili della politica economica, riuniti sotto l'egida della British Academy, scrissero una lettera aperta alla Regina, confessando di aver perso di vista per qualche motivo il cosiddetto "rischio sistemico", di essersi abbandonati, come tutti gli altri, a una "psicologia del diniego". Ma cosa, esattamente, avevano negato?

Si ritiene che la prima persona ad aver dimostrato correttamente e in un'ottica sistemica come circola il sangue nel corpo umano fu un certo William Harvey, un mio omonimo vissuto nel diciassettesimo secolo (e come me un "uomo del Kent"). Fu su questa base che la ricerca medica riuscì poi a stabilire come gli attacchi cardiaci e altri disturbi possono gravemente danneggiare, se non definitivamente stroncare, la forza vitale che sostiene il corpo umano. Quando il flusso sanguigno si ferma, il corpo muore. Le nostre conoscenze mediche, ovviamente, sono oggi molto più sofisticate di quanto Harvey potesse immaginare. Nondimeno, tali conoscenze poggiano ancora sulle solide fondamenta che lui per primo ha gettato.

Nel tentativo di far fronte ai gravi tremori che agitano il cuore del corpo politico, in assenza di una comprensione della natura sistemica del flusso di capitale, i nostri economisti, dirigenti d'azienda e responsabili della politica economica hanno riesumato antichi rimedi o applicato concezioni postmoderne. Da un lato le istituzioni internazionali e i promotori di credito continuano a succhiare come mignatte tutta la linfa vitale che riescono a ingurgitare dalle popolazioni di ogni parte del mondo, anche le più impoverite, attraverso i cosiddetti programmi di "aggiustamento strutturale" e ogni sorta di altri stratagemmi (come raddoppiare improvvisamente le commissioni sulle carte di credito); dall'altro, le banche centrali stanno inondando le economie e gonfiando il corpo politico globale di liquidità in eccesso, nella speranza che queste trasfusioni di emergenza possano curare una malattia che richiederebbe una diagnosi e interventi ben più radicali.

In questo libro cercherò di ristabilire una qualche comprensione della natura del flusso di capitale. Se riusciamo a capire più a fondo le perturbazioni e la distruzione a cui tutti siamo esposti, forse potremo cominciare a scoprire cosa fare al riguardo.

David Harvey

New York, ottobre 2009

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Pagina 19

Dal 1973 a oggi, in tutto il mondo, si sono avute centinaia di crisi finanziarie, rispetto alle pochissime registrate tra il 1945 e il 1973; e diverse di queste hanno avuto origine nei mercati immobiliari o nei processi di sviluppo urbano. La prima vera crisi globale del capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale ebbe inizio nella primavera del 1973, sei mesi dopo l'impennata dei prezzi del petrolio causata dall'embargo petrolifero arabo. Le sue origini vanno rintracciate in un tracollo generalizzato del mercato immobiliare, che causò il dissesto di alcune banche ed ebbe conseguenze drammatiche non soltanto per le finanze delle amministrazioni locali (come la città di New York, che nel 1975, prima del salvataggio, andò tecnicamente in fallimento), ma per le finanze pubbliche più in generale. Il boom del Giappone degli anni ottanta si concluse con il crollo del mercato azionario e il calo repentino dei prezzi dei terreni (che è ancora in corso). Nel 1992 le autorità svedesi dovettero nazionalizzare il sistema bancario a seguito di una crisi dei paesi nordici, causata dagli eccessi nei mercati immobiliari, che aveva colpito anche la Norvegia e la Finlandia. Uno dei fattori scatenanti della crisi asiatica del 1997-1998 fu uno sviluppo urbano eccessivo, favorito dall'afflusso di capitali speculativi esteri in Tailandia, Hong Kong, Indonesia, Corea del Sud e Filippine. Infine, negli Stati Uniti, la crisi delle "savings and loans" (associazioni mutue di risparmi e prestiti), che ebbe origine nel settore degli immobili commerciali e si protrasse dal 1984 al 1992, vide 1400 cooperative di credito edilizio e 1860 banche colare a picco, con un costo di circa 200 miliardi di dollari per i contribuenti americani. (William Isaacs, l'allora presidente della Federal Deposit Insurance Corporation, ne fu così turbato che nel 1987 minacciò l'American Bankers Association di nazionalizzare le banche se queste ultime non si fossero date una regolata.) Le crisi associate ai problemi nei mercati immobiliari tendono a essere più durature di quelle brevi e acute che di tanto in tanto scuotono direttamente i mercati azionari e il settore bancario. Infatti, come vedremo, gli investimenti nell'ambiente costruito sono tendenzialmente basati sul credito, ad alto rischio e di lunga maturazione: quando infine ci si accorge che l'investimento è stato eccessivo (come è accaduto di recente a Dubai), il disastro finanziario prodotto in tanti anni impiega molto tempo a fare il suo corso.

Non c'è dunque nulla di nuovo, a parte le dimensioni e la portata, nell'attuale disastro finanziario, e non c'è nulla di inusuale nel fatto che abbia le sue radici nello sviluppo urbano e nei mercati immobiliari. Dobbiamo dedurne, perciò, che sono all'opera alcune connessioni strutturali che meritano un'attenta ricostruzione.

Come interpretare, quindi, l'attuale disastro? Possiamo dire, per esempio, che questa crisi segna la fine del neoliberismo di mercato quale modello economico dominante dello sviluppo capitalistico? La risposta dipende da cosa si intende per neoliberismo. Per come la vedo io, il termine si riferisce a un progetto di classe che ha preso corpo durante la crisi degli anni settanta. Mascherato da una buona dose di retorica sulle libertà individuali, la responsabilità personale e le virtù della privatizzazione, del libero mercato e del libero scambio, questo progetto ha legittimato una serie di politiche draconiane mirate a ristabilire e a consolidare il potere della classe capitalista. A giudicare dall'incredibile concentrazione della ricchezza e del potere osservabile in tutti i paesi che hanno preso la strada neoliberista, questo progetto ha avuto successo, e non c'è prova che sia morto.

Per esempio, uno dei principi pragmatici fondamentali emersi negli anni ottanta è che il potere statale dovrebbe proteggere gli istituti finanziari a qualsiasi costo. Questo principio, che è in aperta contraddizione con il non interventismo propugnato dalla teoria neoliberista, si affermò in occasione della crisi fiscale della città di New York alla metà degli anni settanta, e fu poi esteso a livello internazionale al Messico durante la crisi del debito del 1982, che scosse il paese fin nelle fondamenta. Detto grossolanamente, il principio consiste nel privatizzare i profitti e socializzare i rischi, nel salvare le banche e spremere la gente (in Messico, per esempio, il tenore di vita della popolazione calò di circa un quarto nei quattro anni dopo il salvataggio del 1982). Tale principio produce quello che viene chiamato un "rischio morale" sistemico: le banche tengono comportamenti imprudenti perché non devono assumersi la responsabilità delle conseguenze negative dei rischi a cui si espongono. Il recente salvataggio del settore bancario si inserisce nel solco di questa tradizione, ma su scala più grande e questa volta negli Stati Uniti.

Come il neoliberismo emerse in risposta alla crisi degli anni settanta, così il percorso scelto oggi definirà il carattere dell'evoluzione futura del capitalismo. Le politiche odierne propongono di uscire dalla crisi con un ulteriore consolidamento e concentrazione del potere della classe capitalista. Negli Stati Uniti rimangono ormai solo quattro o cinque grandi istituti bancari, ma a Wall Street molti altri operatori finanziari stanno prosperando. Per esempio, Lazard's, una banca d'affari specializzata in fusioni e acquisizioni, sta facendo denaro a palate e Goldman Sachs (che molti scherzosamente hanno ribattezzato "Government Sachs", per rimarcare la sua influenza sulle politiche del Tesoro degli Stati Uniti) se la passa benissimo. Certo, alcuni ricchi ci rimetteranno, ma come disse una volta Andrew Mellon (banchiere statunitense e segretario del Tesoro dal 1921 al 1932), "durante una crisi le attività patrimoniali ritornano ai loro legittimi proprietari" (cioè lui). E sarà così anche stavolta, se non sorgerà un movimento politico alternativo capace di impedirlo.

Le crisi finanziarie servono a razionalizzare le irrazionalità del capitalismo; di solito conducono a riconfigurazioni, a nuovi modelli di sviluppo, nuove sfere di investimento e nuove forme di potere di classe. Tutto questo potrebbe incontrare seri ostacoli a livello politico; ma finora la classe politica statunitense ha ceduto al pragmatismo finanziario, senza andare alla radice del problema. I consiglieri economici del presidente Obama appartengono alla vecchia scuola: Larry Summers, direttore del National Economic Council, era segretario del Tesoro nell'amministrazione Clinton quando la deregolamentazione finanziaria era al culmine del suo fervore; Tim Geithner, segretario del Tesoro di Obama ed ex governatore della Federal Reserve di New York, mantiene stretti contatti con Wall Street. Quello che potremmo chiamare "il partito di Wall Street" ha un immenso ascendente tanto sul partito democratico quanto sui repubblicani (Charles Schumer, l'influente senatore democratico di New York, ha ricevuto finanziamenti per milioni di dollari da Wall Street nel corso degli anni, non soltanto per le sue campagne politiche ma anche per il partito democratico nel complesso).

Quelli che oggi stanno al timone sono gli stessi che, negli anni di Clinton, erano agli ordini del capitale finanziario. Questo non significa che non riformeranno la struttura del sistema finanziario, giacché in realtà sono costretti a farlo; ma a vantaggio di chi andranno le riforme? È plausibile immaginare che nazionalizzeranno le banche, trasformandole in strumenti al servizio della gente? Le banche diventeranno davvero aziende di servizio pubblico regolamentate, come propongono voci autorevoli persino sul "Financial Times"? Ne dubito. Quasi certamente i poteri dominanti si limiteranno a risolvere il problema a spese della popolazione, restituendo poi le banche agli interessi di classe che ci hanno fatto precipitare in questo disastro, a meno che un'ondata di opposizione politica non imponga di fare altrimenti. Già ai margini di Wall Street si stanno formando rapidamente nuove "boutique finanziarie", pronte a prendere il posto di Lehman Brothers e Merrill Lynch; nel frattempo, le grandi banche che restano ammassano fondi per ricominciare a distribuire i bonus stratosferici che pagavano prima del crollo.


La possibilità di uscire dall'attuale crisi in maniera differente dipende molto dall'equilibrio delle forze di classe, dalla misura in cui la massa della popolazione saprà sollevarsi e dire: "Quando è troppo è troppo, è ora di cambiare questo sistema". Joe l'idraulico, assurto a simbolo dell'americano medio durante la campagna presidenziale statunitense del 2008, e altri come lui avrebbero buone ragioni per fare un'affermazione del genere. Per esempio, dagli anni settanta a oggi, il reddito delle famiglie negli Stati Uniti è rimasto generalmente stagnante, mentre la classe capitalista ha accumulato immense ricchezze. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, i lavoratori non hanno partecipato ai guadagni derivanti dall'aumento della produttività. Abbiamo vissuto trent'anni di compressione dei salari. Come e perché è accaduto tutto questo?

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Il divario tra i guadagni dei lavoratori e la loro capacità di spesa è stato colmato dall'avvento delle carte di credito e dalla crescita dell'indebitamento. Negli anni ottanta il debito delle famiglie statunitensi si attestava in media a circa 40.000 dollari (in termini reali); oggi è salito a 130.000 dollari a famiglia, mutuo compreso. L'esplosione del debito è stata favorita dall'azione di istituti finanziari che hanno sostenuto e promosso l'indebitamento dei lavoratori, i cui redditi non accennavano ad aumentare. Inizialmente il fenomeno ha interessato la popolazione con un impiego stabile, ma alla fine degli anni novanta si è reso necessario spingersi oltre, perché il mercato era esausto; bisognava perciò estenderlo alle fasce di reddito più basse. Società di credito immobiliare come Fannie Mae e Freddie Mac, sottoposte a pressioni politiche, hanno allentato i cordoni della borsa per tutti; gli istituti finanziari, inondati di credito, hanno cominciato a concedere prestiti anche a chi non aveva un reddito stabile. Se ciò non fosse accaduto, chi avrebbe comprato tutte le nuove case e i nuovi appartamenti costruiti dalle imprese edilizie mediante il ricorso all'indebitamento? Il problema della domanda nel settore immobiliare è stato temporaneamente risolto finanziando sia i costruttori sia i compratori. Gli istituti finanziari, nel loro insieme, hanno finito per controllare sia l'offerta sia la domanda di immobili residenziali.

Una dinamica analoga si è verificata con tutte le forme di credito al consumo erogato per l'acquisto di ogni sorta di beni, dalle auto alle macchine tosaerba ai regali di Natale, comprati a piene mani nelle grandi catene come Toys "R" Us e Wal-Mart. Tutto questo indebitamento era ovviamente rischioso, ma il problema poteva essere superato grazie a mirabolanti innovazioni finanziarie come la cartolarizzazione, che apparentemente spalmava il rischio su un gran numero di investitori, creando persino l'illusione di farlo scomparire. Il capitale finanziario fittizio ha preso il comando, ma nessuno ha voluto fermarlo, perché tutti quelli che contavano sembravano guadagnare un sacco di soldi. Negli Stati Uniti, i finanziamenti alla politica provenienti da Wall Street sono aumentati a dismisura. Ricordate cosa disse Bill Clinton quando si insediò alla Casa Bianca? "Volete forse dirmi che il successo del programma economico e la mia rielezione dipendono dalla Federal Reserve e da una manica di maledetti trader?" Clinton, se non altro, era uno che imparava in fretta.

C'era poi un altro modo di risolvere il problema della domanda: esportare capitale e coltivare nuovi mercati in giro per il mondo. Questa soluzione, vecchia quanto il capitalismo stesso, fu portata avanti con ancora maggior vigore dopo gli anni settanta. Le banche d'investimento di New York, con i caveau pieni dell'eccedenza di petrodollari proveniente dagli Stati del Golfo e alla ricerca disperata di nuove opportunità di investimento in un periodo in cui le possibilità di investire con profitto all'interno degli Stati Uniti si erano esaurite, cominciarono a erogare prestiti ingenti ai paesi in via di sviluppo come il Messico, il Brasile, il Cile e persino la Polonia. Come disse Walter Wriston, direttore generale di Citibank, un paese non può sparire; si sa sempre dove trovarlo in caso di difficoltà.

E le difficoltà puntualmente arrivarono, con la crisi del debito dei paesi in via di sviluppo degli anni ottanta. In seguito all'impennata improvvisa dei tassi di interesse dopo il 1979, più di quaranta paesi, principalmente in America Latina e in Africa, faticarono non poco a ripagare i propri debiti, e nel 1982 il Messico minacciò di rendersi inadempiente. Gli Stati Uniti rinvigorirono tempestivamente il Fondo monetario internazionale (Fmi) (a cui l'amministrazione Reagan nel 1981 aveva cercato di tagliare i fondi, in ottemperanza a un rigido principio neoliberista), investendolo del compito di applicare una disciplina rigorosa a livello globale per fare in modo che le banche riavessero indietro il proprio denaro, costringendo la gente a pagare. I "programmi di aggiustamento strutturale" dell'Fmi, che imponevano politiche di austerity per restituire alle banche il dovuto, da quel momento proliferarono ovunque. Il risultato fu un'ondata crescente di "rischio morale" nelle prassi creditizie bancarie internazionali. Per qualche tempo, questo approccio ebbe enorme successo. In occasione del ventesimo anniversario del salvataggio del Messico, l'economista capo di Morgan Stanley ne ha declamato le virtù, dipingendolo come "un fattore che ha creato i presupposti per una maggiore fiducia degli investitori a livello mondiale e ha contribuito ad alimentare il mercato della crescita della fine degli anni novanta, nonché la forte espansione economica degli Stati Uniti". Salvare le banche e spremere la gente: un principio dagli esiti miracolosi, ma solo per le banche.

Ma perché questo approccio fosse veramente efficace, bisognava creare un sistema di mercati finanziari globalmente interconnessi. Negli Stati Uniti, a partire dagli anni settanta, sono stati rimossi gradualmente tutti i vincoli geografici all'attività bancaria. Fino ad allora tutte le banche, con l'eccezione delle banche d'investimento — che erano legalmente distinte dagli istituti di deposito — erano state costrette a operare all'interno di singoli Stati; le "savings and loans", dal canto loro, finanziavano mutui ipotecari che venivano tenuti separati dai depositi bancari. Ma integrare i mercati finanziari globali, al pari di quelli nazionali, era ormai considerato un obiettivo vitale; questo portò, nel 1986, a collegare tra loro i mercati azionari e finanziari di tutto il mondo. Il "Big Bang", come fu allora chiamato, mise in collegamento in un unico sistema di trading Londra e New York e, subito dopo, tutte le principali (e fino ad allora locali) piazze finanziarie. Da quel momento in poi, le banche furono libere di effettuare transazioni internazionali (già nel 2000 le banche messicane erano controllate in maggioranza da capitale straniero e Hsbc aveva operazioni ovunque, definendosi orgogliosamente "la banca locale del mondo"). Ciò non vuol dire che non vi fossero ostacoli ai flussi internazionali di capitale, ma le barriere tecniche e logistiche a tali flussi furono certamente ridotte. Il capitale liquido poteva scorrazzare facilmente per il mondo alla ricerca degli impieghi che offrivano i rendimenti più elevati. Nel 1999, la sospensione della distinzione tra banche d'investimento e istituti di deposito, vigente negli Stati Uniti fin dall'introduzione del Glass-Steagall Act del 1933, favorì l'ulteriore integrazione del sistema bancario in un'unica enorme rete di potere finanziario.

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Mettiamola così. Nel 1750, quando il capitalismo era costituito dalle fabbriche localizzate entro cinquanta miglia da Manchester e Birmingham in Inghilterra e da pochi altri centri di produzione, l'accumulazione apparentemente ininterrotta di capitale a un tasso composto del 3 per cento all'anno non poneva particolari problemi. Ma pensiamo adesso a una crescita composta ininterrotta in rapporto a tutto ciò che sta accadendo non soltanto in America del Nord, in Oceania e in Europa, ma anche nell'Asia orientale e sud-orientale, nonché in gran parte dell'India, del Medio Oriente, dell'America Latina e di porzioni rilevanti dell'Africa. L'idea che il capitalismo possa continuare a crescere a questo tasso composto è a dir poco scoraggiante. Ma perché un tasso di crescita del 3 per cento implica un reinvestimento del 3 per cento? È un enigma che dobbiamo risolvere (restate sintonizzati!).

Particolarmente dopo la crisi del 1973-1982, si è posto il grave problema di come assorbire un'eccedenza di capitale sempre maggiore nella produzione di beni e servizi. In questi ultimi anni, le autorità monetarie come il Fondo monetario internazionale hanno affermato in più occasioni che "il mondo è inondato di liquidità eccedente", cioè di una massa crescente di denaro alla ricerca di impieghi redditizi. Durante la crisi degli anni settanta, ingenti eccedenze di dollari si sono accumulate negli Stati del Golfo in conseguenza dell'impennata dei prezzi del petrolio; questi petrodollari sono stati poi riciclati nell'economia mondiale attraverso le banche d'investimento di New York, che hanno concesso enormi prestiti ai paesi in via di sviluppo, creando i presupposti per la crisi del debito del Terzo Mondo degli anni ottanta.

La quantità di capitale eccedente assorbita nella produzione è diminuita progressivamente (nonostante tutto ciò che è accaduto in Cina), perché, dopo un breve rimbalzo negli anni ottanta, i margini di profitto a livello globale hanno cominciato a diminuire. Nel tentativo disperato di trovare nuovi impieghi per questa eccedenza di capitale, una vasta ondata di privatizzazioni è dilagata per il mondo, giustificata dal dogma che le imprese gestite dallo Stato sono per definizione inefficienti e lassiste, e che l'unico modo di migliorare i loro risultati è quello di trasferirle al settore privato. È un dogma che a un attento esame non regge. È vero che alcune imprese statali sono inefficienti, ma altre non lo sono; per rendersene conto, basta viaggiare sulle ferrovie francesi e metterle a confronto con quelle pietosamente privatizzate degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. E non c'è nulla di più inefficiente e scialacquatore del sistema sanitario statunitense, basato sulle assicurazioni private (Medicare, il segmento gestito dalla pubblica amministrazione, presenta costi amministrativi molto più bassi). Non importa. A sentire il mantra, bisognava aprire le imprese gestite dallo Stato al capitale privato, che non aveva altro posto dove andare; e così servizi pubblici come l'acqua, l'elettricità, le telecomunicazioni e i trasporti - per non parlare dell'edilizia, dell'istruzione e della sanità pubbliche - sono stati spalancati alla benedizione dell'impresa privata e dell'economia di mercato. In alcuni casi ci sono stati forse guadagni di efficienza, ma in altri no. Ma una cosa è apparsa subito evidente, e cioè che gli imprenditori che hanno rilevato queste aziende pubbliche, spesso a condizioni estremamente favorevoli, sono diventati rapidamente miliardari. Il messicano Carlos Slim Helú, classificato dalla rivista "Forbes" al terzo posto tra gli uomini più ricchi del mondo nel 2009, ha fatto la sua fortuna con la privatizzazione delle telecomunicazioni in Messico nei primi anni novanta. Questa ondata di privatizzazioni, in un paese terribilmente povero, in poco tempo ha catapultato diversi messicani nella classifica "Forbes". In Russia, la terapia shock che ha inaugurato la transizione al mercato ha trasferito in pochi anni il controllo di quasi metà dell'economia a sette oligarchi (Putin combatte contro di loro da allora).

Negli anni ottanta, all'aumentare del capitale eccedente che confluiva nella produzione, in particolar modo in Cina, la concorrenza tra i produttori si è intensificata e ha cominciato a spingere i prezzi al ribasso (come nel caso di Wal-Mart, che offre prezzi sempre più bassi ai consumatori statunitensi). Pressappoco dopo il 1990 i profitti hanno preso a diminuire, nonostante l'abbondanza di manodopera a basso costo. La presenza simultanea di bassi profitti e bassi salari è un'evenienza peculiare. Di conseguenza, quantità sempre maggiori di denaro si sono riversate nella speculazione sulle attività finanziarie, poiché era lì che si potevano realizzare i maggiori guadagni. Perché investire nella produzione, dove i profitti erano scarsi, quando ci si poteva indebitare in Giappone a un tasso di interesse quasi nullo e investire a Londra con un rendimento del 7 per cento, coprendosi al tempo stesso da una variazione sfavorevole del tasso di cambio yen-sterlina? In ogni caso, è stato pressappoco in quel periodo che il debito è esploso e il nuovo mercato dei derivati è decollato, risucchiando, insieme alla famigerata bolla delle dotcom e dei titoli tecnologici, enormi quantità di capitale eccedente. Perché preoccuparsi di investire nella produzione mentre stava accadendo tutto questo? La finanziarizzazione delle tendenze alla crisi del capitalismo è iniziata di fatto proprio in quel momento.

Una crescita sostenuta e ininterrotta del 3 per cento si scontra con una serie di gravi limiti: limiti ambientali, limiti di mercato, limiti di redditività, limiti spaziali (solo vaste zone dell'Africa, anche se ormai completamente devastate dallo sfruttamento delle risorse naturali, e alcune remote regioni dell'interno in Asia e in America Latina, non sono state ancora del tutto colonizzate dall'accumulazione di capitale).

Il passaggio alla finanziarizzazione a partire dal 1973 è stato dettato dalla necessità, poiché rappresentava una maniera di risolvere il problema dell'assorbimento dell'eccedenza. Ma da dove proveniva il denaro eccedente, il surplus di liquidità? Già negli anni novanta la risposta era chiara: da un aumento del grado di leva finanziaria. Di solito le banche concedono prestiti in misura pari, diciamo, a tre volte il valore dei depositi raccolti, contando sul fatto che i depositanti non preleveranno mai tutto il denaro contemporaneamente. Se si verifica una corsa agli sportelli, quasi certamente la banca deve chiudere i battenti perché non ha nei caveau denaro a sufficienza per onorare tutti i suoi impegni. A partire dagli anni novanta le banche hanno alzato il rapporto tra prestiti e depositi, spesso facendosi credito a vicenda, e ritrovandosi così con un livello di indebitamento più elevato rispetto a qualsiasi altro settore dell'economia. Nel 2005 l'indice di leva finanziaria era salito a 30 a 1; non c'è da stupirsi che il mondo apparisse inondato di liquidità eccedente. Il capitale fittizio eccedente creato dal sistema bancario stava assorbendo l'eccedenza! Era come se i membri della comunità bancaria si fossero ritirati nell'attico del capitalismo a fabbricare un mucchio di denaro trafficando e indebitandosi tra loro, senza prestare la benché minima attenzione a cosa facessero i lavoratori che vivevano nel seminterrato.

Ma quando le prime banche si sono trovate in difficoltà, la fiducia nel sistema bancario si è dissolta e la liquidità fittizia, creata mediante la leva finanziaria, è evaporata. È iniziato così un processo di riduzione dell'indebitamento, che ha determinato forti perdite e la svalutazione del capitale bancario. È a questo punto che gli abitanti del seminterrato hanno capito cosa avevano fatto gli occupanti dell'attico nei vent'anni precedenti.

Le politiche pubbliche, anziché mitigare il problema, lo hanno aggravato. Parlare di "salvataggio nazionale" è inesatto: in realtà i contribuenti stanno semplicemente salvando le banche e la classe capitalista, condonando i loro debiti e le loro trasgressioni, e solo i loro. Finora, negli Stati Uniti, il denaro è andato alle banche e non certo ai proprietari di casa che hanno subìto il pignoramento dell'abitazione o alla popolazione più in generale; e le banche impiegano questo denaro non per concedere prestiti, ma per ridurre il proprio indebitamento e rilevare altre banche, occupandosi solo di consolidare il proprio potere. Questa disparità di trattamento ha suscitato negli abitanti del seminterrato un moto di indignazione politica populista contro gli istituti finanziari, sebbene molti a destra e nei media rimproverino aspramente i proprietari di case, irresponsabili e incoscienti, accusandoli di aver fatto il passo più lungo della gamba. Infine, per scongiurare quella che potrebbe essere una grave crisi di legittimazione per il futuro della classe capitalista dominante, sono stati proposti provvedimenti tiepidi e tardivi per aiutare la popolazione. Possiamo fare ritorno a un'economia alimentata dal credito appena le banche riprendono a erogare finanziamenti? Se no, perché?

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2. L'ammasso del capitale


Come riesce a sopravvivere il capitalismo? E perché è così incline alle crisi? Per rispondere a queste domande descriverò innanzitutto le condizioni necessarie affinché l'accumulazione del capitale possa prosperare; individuerò quindi i potenziali ostacoli alla crescita perpetua e analizzerò come tali ostacoli sono stati superati in passato, per illustrare infine quali sono i principali impedimenti presenti questa volta.

Il capitale non è un oggetto, ma un processo nel quale il denaro viene mandato continuamente alla ricerca di altro denaro. I capitalisti, cioè coloro che mettono in moto questo processo, possono assumere diverse sembianze. I capitalisti finanziari cercano di realizzare guadagni concedendo prestiti a fronte del pagamento di un interesse; i capitalisti commerciali comprano a poco e vendono a molto; i possidenti riscuotono rendite perché i terreni e gli immobili di loro proprietà sono risorse scarse; i redditieri realizzano guadagni dalle royalty e dai diritti di proprietà intellettuale; gli operatori di Borsa negoziano titoli di proprietà (per esempio, azioni societarie), titoli di debito e contratti (compresi i contratti assicurativi) realizzando un profitto. Anche lo Stato può comportarsi da capitalista, come quando, per esempio, usa le entrate tributarie per investire in infrastrutture che stimolano la crescita e generano ulteriore gettito fiscale.

Ma la forma di circolazione del capitale che è diventata dominante dalla metà del diciottesimo secolo in poi è quella del capitale industriale o produttivo. In questo caso il capitalista inizia la sua giornata con una certa somma di denaro; quindi, dopo aver selezionato una tecnologia e una forma organizzativa, si reca nel mercato e acquista la quantità di forza-lavoro e i mezzi di produzione (materie prime, stabilimenti, prodotti intermedi, macchinari, energia e così via) di cui ha bisogno. La forza-lavoro viene combinata con i mezzi di produzione mediante un processo lavorativo attivo che si svolge sotto la supervisione del capitalista. Il prodotto è una merce che viene venduta nel mercato dal suo proprietario, il capitalista, a scopo di profitto. Il giorno successivo il capitalista, per ragioni che diverranno evidenti tra poco, prende una porzione del profitto del giorno prima, lo converte in nuovo capitale e ricomincia il processo su scala più grande. Se la tecnologia e la forma organizzativa non cambiano, il capitalista si limita ad acquistare una maggiore quantità di forza-lavoro e di mezzi di produzione per generare un profitto maggiore il secondo giorno; e così via, all'infinito.

Nei settori dei servizi e dell'intrattenimento questo processo assume un aspetto leggermente diverso, perché la merce che viene venduta è il processo lavorativo stesso (tagliare i capelli o divertire la folla), e dunque non c'è scarto temporale tra produzione e vendita della merce (sebbene il tempo di preparazione possa essere piuttosto lungo). La necessità di reinvestire nell'espansione, data la natura spesso personale dei servizi offerti, non è altrettanto pronunciata, anche se non mancano esempi di centri di servizio, catene di cinema, caffetterie e persino centri di istruzione superiore privati che espandono il proprio giro d'affari.

Nella circolazione del capitale la continuità del flusso è molto importante. Il processo non può essere interrotto senza generare perdite. Vi sono anche forti incentivi ad accelerare la velocità di circolazione. Coloro che riescono a muoversi più rapidamente di altri attraverso le varie fasi della circolazione del capitale accumulano profitti maggiori rispetto ai concorrenti. L'accelerazione permette quasi sempre di realizzare maggiori profitti, perciò le innovazioni che contribuiscono ad accelerare il processo sono molto ricercate. Per esempio, i nostri computer stanno diventando sempre più veloci.

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C'è però un'altra motivazione per reinvestire. Il denaro è una forma di potere sociale di cui ci si può appropriare e che, per di più, non presenta un limite intrinseco, a differenza della quantità di terreni che si possono possedere o alla quantità di risorse fisiche che si possono controllare. Dopo il rovesciamento della dittatura di Marcos, nelle Filippine, si è scoperto che la moglie Imelda possedeva seimila paia di scarpe; ma anche a questo c'è un limite, così come nessuna persona, per quanto ricca, può essere proprietaria di miliardi di yacht o di ville sfarzose. Ma non c'è un limite intrinseco ai miliardi di dollari che il singolo individuo può accumulare. L'illimitatezza del denaro, e l'inevitabile desiderio di impossessarsi del potere sociale che questo conferisce, creano una vasta gamma di incentivi sociali e politici ad accumularne quantità sempre maggiori; e una maniera essenziale di ottenere sempre più denaro è quella di reinvestire parte dell'eccedenza di fondi guadagnati ieri per generare altra eccedenza domani. Triste a dirsi, ci sono molti altri modi di accumulare il potere sociale conferito dal denaro: frode, corruzione, banditismo, furto e traffici illegali. Qui mi concentrerò soprattutto sui metodi di accumulazione legali, anche se si potrebbe argomentare che le forme extralegali siano fondamentali e non marginali per il capitalismo (le tre voci più importanti del commercio estero a livello globale sono gli stupefacenti, le armi illegali e il traffico di esseri umani).

L'importanza dell'illimitatezza del potere del denaro non potrà mai essere sottolineata abbastanza. I gestori dei maggiori hedge fund di New York nel 2005 hanno rastrellato 250 milioni di dollari a testa in compensi individuali; nel 2006 il principale gestore ha guadagnato 1,7 miliardi di dollari, e nel 2007, un anno disastroso per la finanza globale, cinque di loro (incluso George Soros) hanno realizzato circa 3 miliardi di dollari ciascuno. Ecco cosa intendo quando affermo che il denaro è una forma di potere sociale illimitato. Cosa farebbe George Soros se venisse pagato in paia di scarpe?

Ovviamente il desiderio smodato di ricchezza non è una novità; ma per molto tempo i sistemi sociali sono stati congegnati in modo tale da limitare l'eccessiva concentrazione di potere personale derivante dal possesso di ricchezza monetaria. Per esempio, secondo gli antropologi il potlach praticato nelle società non capitalistiche conferisce prestigio a coloro che donano, rinunciano o in alcuni casi persino distruggono, attraverso elaborate cerimonie, i possedimenti materiali che hanno accumulato; altrettanto avviene con varie forme di economia del dono. La generosità filantropica vanta una lunga tradizione anche nella storia del capitalismo: si pensi alle varie fondazioni Carnegie, Ford, Rockefeller, Gates, Leverhulme e Soros. Ad accumulare ricchezza personale, peraltro, possono essere anche istituzioni non capitalistiche come il Vaticano (nel Medioevo la Chiesa cattolica vendeva indulgenze — biglietti d'ingresso al Paradiso — ai ricchi mercanti). Per gran parte del secolo scorso, molti Stati capitalisti avanzati hanno adottato sistemi di tassazione progressiva, forme di redistribuzione in natura e alte imposte sulle successioni, cercando di contenere in tal modo l'eccessiva concentrazione di ricchezza e di potere personale.

Perché allora, dopo il 1980, le restrizioni all'eccessiva concentrazione del potere del denaro sono state allentate un po' ovunque, a cominciare dagli Stati Uniti? Le spiegazioni che pongono l'accento su un accesso improvviso di "avidità contagiosa" (come ebbe a dire Alan Greenspan) non reggono, perché il desiderio di accumulare il potere del denaro esiste da sempre. Perché il presidente Bill Clinton cedette così facilmente agli obbligazionisti? Perché Larry Summers, quando era segretario del Tesoro di Clinton, si oppose energicamente alla regolamentazione della finanza? E perché Joseph Stiglitz, che oggi si colloca su posizioni moderatamente progressiste ma che negli anni novanta era il massimo consulente economico di Clinton, si trova a sostenere provvedimenti che "casualmente" finiscono per rendere i ricchi sempre più ricchi? George W. Bush varò forse provvedimenti fiscali estremamente favorevoli per i ricchi solo perché li aveva in simpatia o perché aveva bisogno del loro appoggio per essere rieletto? Non è che magari il "Partito di Wall Street" aveva preso il potere sia al Congresso sia nell'esecutivo? Se è così, perché Gordon Brown, Cancelliere dello scacchiere in Gran Bretagna durante il governo del New Labour, ha seguito così facilmente le sue orme? (Forse la City di Londra era arrivata anche a lui?) E perché i più ricchi sono diventati incommensurabilmente più ricchi un po' ovunque, dalla Russia al Messico, dall'India all'Indonesia?

In assenza di limiti o ostacoli, la necessità di reinvestire per restare capitalisti spinge il capitalismo a espandersi a un tasso composto. Si crea così il bisogno perpetuo di trovare nuove aree di attività per assorbire il capitale reinvestito: da qui il "problema dell'assorbimento dell'eccedenza di capitale". Ma da dove vengono le nuove opportunità di investimento? E quali limiti presentano? Chiaramente, non ci sono limiti intrinseci alla capacità del denaro di alimentare la crescita (come è diventato evidente nel 2008-2009, quando i governi hanno tirato fuori apparentemente dal nulla migliaia di miliardi di dollari per salvare un sistema finanziario ormai al collasso).

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Esaminando il flusso del capitale attraverso la produzione si scoprono sei potenziali ostacoli all'accumulazione, che il capitale deve superare per potersi riprodurre: 1) l'insufficienza di capitale monetario iniziale; 2) la penuria o le difficoltà politiche nell'offerta di lavoro; 3) l'inadeguatezza dei mezzi di produzione, anche a causa dei cosiddetti "limiti naturali"; 4) l'assenza di tecnologie e forme organizzative appropriate; 5) le resistenze o le inefficienze nel processo lavorativo; 6) l'assenza, nel mercato, di una domanda sostenuta da una capacità di spesa. Un impedimento in uno qualsiasi di questi punti avrà l'effetto di interrompere la continuità del flusso del capitale e, se persistente, di produrre infine una crisi di svalutazione. Consideriamo questi potenziali ostacoli uno alla volta.


L'accumulazione originaria del capitale nell'Europa tardo medievale fu il frutto di violenze, atti predatori, ruberie, frodi e furti. Adoperando questi metodi extralegali, i pirati, i preti e i mercanti, coadiuvati dagli usurai, accumularono "potere del denaro" in misura tale da iniziare a far circolare sistematicamente il denaro come capitale. Il saccheggio dell'oro degli Inca perpetrato dagli spagnoli fu un esempio paradigmatico. Negli stadi iniziali, tuttavia, il capitale non circolava direttamente attraverso la produzione, ma assumeva una varietà di altre forme: capitale agrario, mercantile, terriero e talvolta anche capitale mercantilista di Stato. Ma queste forme non erano idonee ad assorbire il vasto afflusso di oro; c'era troppo metallo prezioso a rincorrere una quantità insufficiente di beni. Ebbe origine così la "grande inflazione" del sedicesimo secolo in Europa. Fu solo dopo il 1750, quando i capitalisti appresero a far circolare il capitale attraverso la produzione impiegando lavoro salariato, che la crescita composta poté avere inizio.

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Le forze sociali impegnate a definire le modalità di funzionamento del connubio Stato-finanza — e nessuno Stato è esattamente uguale a un altro — differiscono perciò notevolmente dalla lotta di classe tra capitale e lavoro che grande spazio occupa nella teoria marxiana. Con questo non intendo suggerire che le battaglie politiche contro l'alta finanza siano irrilevanti per il movimento dei lavoratori, perché chiaramente rilevanti lo sono. Ma su molte tematiche, quali imposte, dazi, sussidi e politiche di regolamentazione sia interne sia estere, il capitale industriale e le organizzazioni dei lavoratori, in specifici contesti geografici, potrebbero ritrovarsi alleati anziché in opposizione fra loro, come accaduto con la richiesta di un salvataggio pubblico dell'industria dell'auto statunitense nel 2008-2009, quando le case automobilistiche e i sindacati hanno unito le forze nel tentativo di salvare posti di lavoro e proteggere le imprese dal fallimento. D'altro canto, vi sono numerosi altri interessi, oltre al lavoro, che combattono contro i poteri dell'alta finanza. Quando i finanzieri finiscono per dominare su tutti gli altri settori dell'economia, come è avvenuto negli Stati Uniti dalla metà degli anni ottanta in poi, e quando coloro che dovrebbero essere soggetti alla regolamentazione riescono a condizionare in maniera determinante l'apparato normativo dello Stato, il connubio Stato-finanza finisce per pendere a favore di interessi particolari anziché di quelli del corpo politico nel suo insieme. Una forte indignazione populista diventa allora essenziale per ripristinare l'equilibrio.

Tuttavia, quando il sistema finanziario e il connubio Stato-finanza si inceppano, come accaduto nel 1929 e nel 2008, tutti si rendono conto che la sopravvivenza del capitalismo è a rischio, e nel tentativo di resuscitarlo non si lascia nulla di intentato e non si esclude a priori nessun tipo di compromesso. Per quanto ci lamentiamo, sembra proprio che senza il capitalismo non riusciamo a vivere.

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La saga del capitalismo è ricca di paradossi, anche se le teorie sociali — e la teoria economica in particolare — tendono generalmente ad astrarre del tutto da qualsiasi loro considerazione. Sul lato negativo troviamo non soltanto le crisi economiche periodiche e spesso localizzate che punteggiano l'evoluzione del capitalismo (comprese le due guerre mondiali intercapitaliste e interimperialiste), ma anche problemi di degrado ambientale, la perdita di biodiversità, l'esplosione della povertà tra popolazioni in rapido aumento, forme di neocolonialismo, gravi crisi della salute pubblica, alienazioni ed esclusione sociale a profusione e le ansietà che nascono dall'insicurezza, dalla violenza e da desideri insoddisfatti. Sul lato positivo, alcuni di noi hanno la fortuna di vivere in un mondo in cui il tenore di vita materiale e di benessere non è mai stato così alto, in cui i trasporti e le comunicazioni sono stati rivoluzionati e le barriere spaziali fisiche (ma non sociali) alle interazioni umane sono state notevolmente ridotte, in cui le conoscenze mediche e biomediche offrono a molti una speranza di vita più lunga, in cui si sono costruite città immense, tentacolari e per molti aspetti spettacolari, in cui le conoscenze proliferano, la speranza non muore mai e tutto sembra possibile (dall'autoclonazione ai viaggi spaziali).

Che questo sia il mondo contraddittorio in cui viviamo, e che questo mondo seguiti a evolversi rapidamente e in modi imprevedibili e apparentemente incontrollabili, è innegabile. Ma i principi alla base di questa evoluzione rimangono poco chiari, in parte perché noi esseri umani abbiamo creato gran parte della nostra storia cercando di soddisfare le pretese concorrenti di questo o quel desiderio collettivo e qualche volta individuale, anziché seguire un basilare principio evolutivo come quelli scoperti da Darwin nel campo dell'evoluzione naturale. Se vogliamo cambiare tutti insieme questo mondo, dandogli una configurazione più umana e razionale con un intervento consapevole, dobbiamo innanzitutto imparare a comprendere molto più chiaramente cosa stiamo facendo al mondo e con quali conseguenze.

La geografia storica del capitalismo non può essere ridotta, com'è ovvio, alla questione dell'accumulazione del capitale. Ma bisogna dire anche che l'accumulazione capitalistica, insieme con la crescita demografica, costituisce il nucleo delle dinamiche evolutive umane pressappoco dal 1750; per svelare l'enigma del capitale è essenziale capire come. Ci sono all'opera principi evolutivi a cui possiamo fare appello per qualche delucidazione?


Consideriamo dapprima lo sviluppo capitalistico nel tempo, lasciando da parte per il momento la questione della sua mutevole organizzazione spaziale, delle sue dinamiche geografiche e dei suoi impatti e vincoli ambientali. Immaginiamo, dunque, una situazione in cui il capitale si muove attraverso alcune "sfere di attività", tra loro differenti ma interrelate, alla ricerca di profitto. Una "sfera d'attività" di grande importanza riguarda la produzione di nuove forme tecnologiche e organizzative. I cambiamenti in questa sfera hanno effetti profondi sui rapporti sociali oltre che sul rapporto con la natura. Ma sappiamo anche che i mutamenti in atto nei rapporti sociali e nel rapporto con la natura per molti aspetti non sono determinati dalle tecnologie e dalle forme organizzative. Inoltre, vi sono situazioni in cui le scarsità di manodopera o di materie prime creano forti pressioni a ideare nuove tecnologie e forme organizzative. In questi giorni, per esempio, i media statunitensi insistono sulla necessità di trovare nuove tecnologie per emancipare il paese dalla dipendenza dal petrolio estero e per contrastare il riscaldamento globale. L'amministrazione Obama ha promesso di varare programmi finalizzati allo scopo e sta già indirizzando il settore automobilistico verso la produzione di vetture elettriche o ibride (peccato che i cinesi e i giapponesi ci siano arrivati prima di noi).

Analogamente, i sistemi di produzione e i processi lavorativi sono profondamente coinvolti nella riproduzione della vita quotidiana attraverso il consumo. Nessuno di questi è indipendente dai rapporti sociali dominanti, dal rapporto con la natura e dalle tecnologie e dalle forme organizzative prevalenti. Ma quella che chiamiamo "natura", pur essendo chiaramente condizionata dall'accumulazione del capitale (distruzione degli habitat naturali e delle specie, riscaldamento globale, nuovi composti chimici inquinanti, ma anche strutture del suolo e foreste la cui produttività viene accresciuta mediante tecniche di gestione sofisticate), quasi certamente non è da questa determinata. In ogni momento sul pianeta Terra si verificano processi evolutivi indipendenti. Per esempio, l'emergere di un nuovo patogeno come l'Hiv/Aids ha di norma un enorme impatto sulla società capitalistica (suscitando reazioni tecnologiche, organizzative e sociali che vengono incorporate nella circolazione del capitale); gli effetti sulla riproduzione della vita quotidiana, sui rapporti e sulle attività sessuali, e sui comportamenti riproduttivi sono profondi, ma vengono mediati dalle tecnologie medicali, dalle relazioni istituzionali e dalle convinzioni sociali e culturali.

Tutte queste "sfere di attività" sono inserite in un insieme di ordinamenti istituzionali (come i diritti di proprietà privata e i contratti di mercato) e di strutture amministrative (a livello locale, statale e multinazionale). Pure queste istituzioni si evolvono autonomamente, anche laddove sono costrette ad adattarsi a condizioni di crisi (come si osserva attualmente) e alla mutevolezza dei rapporti sociali. In aggiunta, le persone agiscono sulla base delle proprie aspettative, delle proprie convinzioni e della propria visione del mondo. I sistemi sociali dipendono dalla fiducia negli esperti, dalla disponibilità di conoscenze e informazioni adeguate da parte di coloro che prendono decisioni, dall'accettazione di ordinamenti sociali ragionevoli (di gerarchia o di egualitarismo), nonché da sistemi di valori etici e morali (per esempio, relativi ai rapporti con gli animali e alle responsabilità verso il mondo che chiamiamo natura, nonché verso altri diversi da noi). Le consuetudini culturali e i sistemi di credenze (cioè le ideologie politiche e religiose), pur essendo molto influenti, non esistono indipendentemente dai rapporti sociali, dalle possibilità di produzione e di consumo, e dalle tecnologie dominanti. Le controverse interrelazioni tra le mutevoli condizioni tecniche e sociali per l'accumulazione del capitale, le strutture cognitive e le consuetudini e le credenze culturali compatibili con l'accumulazione ininterrotta hanno svolto tutte un ruolo fondamentale nell'evoluzione del capitalismo. Per semplificare, raccoglierò tutti questi ultimi elementi sotto la voce "concezioni mentali del mondo".

Questo approccio ci consente di individuare sette distinte "sfere di attività" nell'ambito della traiettoria evolutiva del capitalismo: tecnologie e forme organizzative; rapporti sociali; ordinamenti istituzionali e amministrativi; produzione e processi lavorativi; rapporti con la natura; riproduzione della vita quotidiana e della specie; "concezioni mentali del mondo". Non c'è una sfera che domina su tutte le altre o che sia indipendente dalle altre; al tempo stesso, nessuna sfera è determinata collettivamente da tutte le altre. Ciascuna sfera si evolve autonomamente ma sempre in un rapporto di interazione dinamica con le altre. I cambiamenti tecnologici e organizzativi possono essere provocati da ogni tipo di fattori (talvolta anche accidentali), mentre il rapporto con la natura è instabile e in continua evoluzione, ma solo in parte per le alterazioni indotte dall'azione umana. Le nostre concezioni mentali del mondo, per fare un altro esempio, sono di solito cangianti, controverse, soggette a scoperte scientifiche ma anche a ghiribizzi, mode e convinzioni e desideri culturali e religiosi appassionatamente coltivati. I cambiamenti delle concezioni mentali producono ogni genere di conseguenze intenzionali e involontarie per le forme organizzative e tecnologiche, i rapporti sociali, i processi lavorativi, i rapporti con la natura nonché per gli ordinamenti istituzionali accettabili. Le dinamiche demografiche che scaturiscono dalla sfera della riproduzione e della vita quotidiana sono autonome e al tempo stesso profondamente influenzate dalle loro relazioni con le altre sfere.

Le sfere di attività vengono rimodellate senza sosta dai complessi flussi di influenza che intercorrono tra l'una e l'altra. Tali relazioni non sono necessariamente armoniose. A ben vedere, possiamo riconcettualizzare la formazione delle crisi in termini delle tensioni e degli antagonismi che sorgono tra le diverse sfere di attività: per esempio, le nuove tecnologie potrebbero scontrarsi con il desiderio di nuove configurazioni dei rapporti sociali o stravolgere l'organizzazione dei processi lavorativi esistenti. Ma invece di esaminare queste sfere in sequenza, come abbiamo fatto analizzando la circolazione del capitale, nella discussione che segue le considereremo compresenti e soggette a un processo coevolutivo nell'ambito della lunga storia del capitalismo.

Se consideriamo una particolare società in un particolare punto nello spazio e nel tempo — la Gran Bretagna del 1850 o il delta del fiume delle Perle in Cina oggi — possiamo definire il suo carattere e la sua condizione generale facendo riferimento al modo in cui le sette sfere sono organizzate e configurate in relazione l'una all'altra. Esaminando le tensioni e le contraddizioni tra le sfere di attività, possiamo anche dire qualcosa sul probabile sviluppo futuro dell'ordine sociale in questi luoghi, pur riconoscendo che la probabile dinamica evolutiva non è deterministica bensì casuale.


Il capitale non può circolare o accumularsi senza andare a influenzare in qualche modo ciascuna di queste sfere di attività. Quando il capitale incontra ostacoli o limiti all'interno di una particolare sfera o tra una sfera e l'altra, deve trovare il modo di aggirare o superare l'impedimento. Queste difficoltà, se gravi, possono costituire una fonte di crisi. Uno studio della coevoluzione delle sfere di attività fornisce dunque un quadro d'analisi per un attento esame dell'evoluzione complessiva e della propensione alla crisi della società capitalistica. Come si può applicare dunque in modo concreto questo quadro d'analisi piuttosto astratto?

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6. La geografia del tutto


La crisi iniziata nel 2007 in maniera altamente localizzata nei mercati immobiliari degli Stati Uniti si è diffusa rapidamente in tutto il mondo, attraverso un sistema finanziario strettamente interconnesso che, presumibilmente, avrebbe dovuto distribuire il rischio e non certo il caos finanziario. Gli effetti della stretta creditizia, diffondendosi, hanno avuto impatti diversi in luoghi diversi. Tutto è venuto a dipendere dal grado in cui le banche locali e altre istituzioni finanziarie, come i fondi pensione, avevano investito nei titoli tossici che venivano smerciati dagli Stati Uniti; dalla misura in cui gli istituti bancari di altri paesi avevano imitato le prassi dei loro omologhi statunitensi ed effettuato investimenti ad alto rischio; dalla dipendenza delle imprese locali e delle istituzioni pubbliche (come le amministrazioni locali) da linee di credito aperte per rinnovare i propri debiti; dall'impatto della rapida flessione della domanda di consumi negli Stati Uniti e in altri paesi sulle economie trainate dalle esportazioni; dalle fluttuazioni della domanda e dei prezzi delle materie prime (e del petrolio in particolare); e dalle diverse strutture di occupazione, di sostegno sociale (inclusi i flussi delle rimesse) e di prestazione sociale prevalenti nei diversi paesi. Quando, come e perché questa crisi ha colpito un particolare paese, una particolare regione o un particolare quartiere, oppure li ha risparmiati? Perché il tasso di disoccupazione nell'Unione europea (pari in media all'8,9 per cento nell'aprile 2009) varia dal 2 per cento nei Paesi Bassi al 17,5 per cento in Spagna? Perché è significativo che in anni recenti le famiglie statunitensi non abbiano risparmiato quasi nulla, quelle britanniche circa il 2 per cento del proprio reddito e quelle tedesche l'11 per cento? Perché il Libano, nonostante i tumulti del suo recente passato, nell'estate 2009 non aveva quasi risentito degli effetti della crisi? (Risposta parziale: per via dell'enorme stimolo economico già in atto a seguito della ricostruzione del paese dalle rovine del bombardamento israeliano del 2006.)

In Cina e in gran parte del resto dell'Asia il problema è stato percepito quasi interamente attraverso il crollo delle esportazioni, mentre in Islanda le ripercussioni hanno agito quasi esclusivamente attraverso l'esposizione delle banche nazionali ai titoli tossici. Le banche canadesi, soggette a una regolamentazione e una vigilanza rigorose, finora non hanno dichiarato particolari difficoltà, mentre i settori dipendenti dal commercio con gli Stati Uniti sono stati duramente penalizzati. La Gran Bretagna ha subìto un duro colpo perché aveva seguito il modello statunitense in quasi tutti i suoi aspetti; la Germania, invece, ha dovuto fare i conti soprattutto con il calo delle esportazioni, nonostante circolassero voci che nel sistema bancario tedesco si celassero molti titoli tossici. La Cina, con le sue ingenti riserve di valuta estera, disponeva di abbondanti risorse finanziarie per affrontare le difficoltà, mentre l'Islanda ne era del tutto priva.

Le reazioni delle popolazioni e delle autorità statali sono state molto diverse da paese a paese, a seconda della gravità e della natura dei problemi locali, degli orientamenti ideologici, delle interpretazioni dominanti delle cause primarie, degli ordinamenti istituzionali (per esempio, la rete di sicurezza sociale in molti paesi europei è decisamente più robusta che negli Stati Uniti, dove il sistema di welfare è estremamente parsimonioso), degli usi e delle consuetudini (per esempio, in fatto di risparmi personali) e della disponibilità di risorse locali (per esempio, avanzi di bilancio) per gestire l'impatto della crisi a livello locale. La Germania, ancora memore del terribile impatto dell'iperinflazione della Repubblica di Weimar che portò Hitler al potere, temendo che l'eccesso di finanziamento mediante l'emissione di debito avrebbe avuto effetti inflazionistici, si è attenuta rigidamente all'ortodossia neoliberista; gli Stati Uniti, invece, hanno abbracciato spensieratamente la dottrina reaganiana secondo cui "i deficit sono irrilevanti" (con grande imbarazzo dei conservatori fiscali "rinati" presenti nel partito repubblicano). A fronte di reazioni e impatti così diversi, è lecito domandarsi da dove potrebbe giungere la ripresa, oppure una svolta innovativa verso una politica economica alternativa. Sappiamo quale fu la risposta alla crisi asiatica del 1997-1998: le economie della regione ritrovarono il proprio vigore grazie alle esportazioni verso i mercati dei beni di consumo statunitensi che, sotto la spinta del credito, erano in piena espansione. Dove potrebbe trovarsi la risposta questa volta? Nei mercati emergenti del Brasile, dell'India e della Cina, che mostrano ancora segnali di crescita? Non possiamo dirlo con certezza, nonostante numerosi indizi lascino pensare che l'epicentro della ripresa sia localizzato nell'Asia orientale. È quasi impossibile prevedere gli effetti della crisi e, dobbiamo anticiparlo, le traiettorie geografiche attraverso cui potrebbero propagarsi i cosiddetti "germogli verdi" della ripresa economica.

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7. Distruzione creatrice sulla terra


Il cosiddetto "ambiente naturale" è soggetto a trasformazioni per opera dell'uomo. I campi vengono disboscati, le paludi bonificate, strade e ponti vengono costruiti, piante e animali vengono addomesticati e selezionati, gli habitat vengono trasformati, le foreste vengono abbattute, i terreni irrigati, i fiumi sbarrati, i paesaggi pascolati (voracemente, da pecore e capre) e i climi alterati. Intere montagne vengono tagliate in due per estrarre minerali, le cave sfregiano i paesaggi, i rifiuti si riversano nei ruscelli, nei fiumi e negli oceani, i soprassuoli si erodono e centinaia di chilometri quadrati di foreste e boscaglia vengono sradicati accidentalmente in conseguenza dell'azione umana; gli allevatori e i produttori di soia si impadroniscono voracemente e illegalmente della terra, bruciando la foresta pluviale dell'Amazzonia, proprio mentre il governo cinese annuncia un grande programma di rimboschimento. I britannici amano passeggiare nella campagna brumosa, ammirando il loro patrimonio di case coloniche, i gallesi amano le loro valli, gli scozzesi le loro forre, gli irlandesi le loro torbiere verde smeraldo, i tedeschi le loro foreste, i francesi i loro caratteristici pays con una ricca produzione locale di vini e di formaggi. Gli apache credono che la saggezza risieda nei luoghi, e i gruppi indigeni di ogni dove, dall'Amazzonia alla British Columbia alle montagne di Taiwan, celebrano il loro legame antico e indistruttibile con la terra in cui vivono.

La lunga storia della distruzione creatrice sulla terra ha prodotto quella che talvolta viene chiamata una "seconda natura", cioè una natura rimodellata dall'azione umana. Non è rimasto nulla o quasi, ormai, della "prima natura" che esisteva prima che gli esseri umani giungessero a popolare la Terra. Persino le regioni più remote e gli ambienti più inospitali del nostro pianeta recano l'impronta dell'influenza umana (dai cambiamenti climatici alle tracce di pesticidi alla qualità dell'atmosfera e dell'acqua). Negli ultimi tre secoli, contrassegnati dall'ascesa del capitalismo, l'intensità e la diffusione della distruzione creatrice sulla terra sono aumentate enormemente.

Nelle fasi iniziali dello sviluppo capitalistico questa attività veniva concettualizzata generalmente in termini di un dominio trionfalistico dell'uomo sulla natura (controbilanciato in parte da sentimenti estetici che romanticizzavano il rapporto con quest'ultima). Oggi siamo più circospetti nella retorica, anche se non necessariamente nei comportamenti. La storia del capitalismo è intrisa delle conseguenze ambientali involontarie (talvolta a lungo termine) dei processi lavorativi, alcune delle quali irreversibili (come per esempio l'estinzione di specie e habitat naturali). Di conseguenza, piuttosto che ragionare in termini di dominio, è meglio riflettere sullo sviluppo di comportamenti umani rispetto al mondo fisico e nel tessuto della vita ecologica, e sul modo in cui questi modificano la faccia della Terra spesso in modo drammatico e irreversibile.

Tra i molti soggetti impegnati nella produzione e nella riproduzione della geografia della seconda natura attorno a noi, i più importanti agenti sistemici del nostro tempo sono lo Stato e il capitale. Il paesaggio geografico dell'accumulazione del capitale è in perpetua evoluzione, perlopiù sotto la spinta delle esigenze speculative di ulteriore accumulazione (inclusa la speculazione sui valori fondiari) e soltanto in via secondaria in rapporto ai bisogni delle persone. Ma benché non vi sia nulla di puramente naturale nella seconda natura che ci circonda, i processi coevolutivi che stanno trasformando la geografia non sono interamente sotto il controllo del capitale e dello Stato, e men che mai delle persone, per quanto attivamente possano impegnarsi. L'espressione colloquiale "la vendetta della natura" rimanda all'esistenza di un mondo fisico ed ecologico testardo, recalcitrante e imprevedibile che, come il clima, costituisce l'ambiente nel quale conduciamo la nostra esistenza.

La questione di fondo è come interpretare e comprendere lo sviluppo dialettico del rapporto sociale con una natura che è essa stessa in perpetua evoluzione. La cosiddetta "rivoluzione verde" in agricoltura offre un magnifico esempio di cambiamenti coevolutivi in tutte e sette le sfere di attività. In Messico, a partire dagli anni quaranta, in un nuovo istituto di ricerca agricolo diretto da un giovane scienziato, Norman Borlaug (morto nel 2009) furono selezionate nuove varietà di frumento geneticamente modificate, che alla fine del secolo portarono a quadruplicare i rendimenti dei raccolti e trasformarono il Messico da un importatore netto a un esportatore netto già nel decennio successivo al 1945. Impiantate in Asia meridionale negli anni sessanta (promosse da fondazioni statunitensi come quelle di Ford e Rockefeller in combutta con il governo indiano e quello pachistano), tra il 1965 e il 1970 le nuove varietà di frumento e di riso permisero di raddoppiare i raccolti, con un enorme impatto sulla sicurezza alimentare e sui prezzi dei cereali a livello globale, che diminuirono del 50 per cento. Ma se alla rivoluzione verde va il merito di aver accresciuto la produttività e di aver salvato milioni di persone dalla morte per inedia, è pur vero che questi risultati sono stati ottenuti con ogni sorta di conseguenze sociali e ambientali indesiderabili. La vulnerabilità delle monocolture costringeva a investire in fertilizzanti e pesticidi derivati dal petrolio (e prodotti con grandi profitti da grandi imprese statunitensi come Monsanto); inoltre, l'esborso di capitale richiesto (di solito per la gestione delle risorse idriche e l'irrigazione) ha portato al consolidamento di una ricca classe di produttori (spesso con il dubbio sostegno degli istituti di credito), mentre tutti gli altri agricoltori sono stati ridotti allo stato di contadini senza terra. In aggiunta, gli organismi geneticamente modificati (Ogm) sollevano da sempre dubbi di ordine etico e suscitano obiezioni morali da parte degli ambientalisti (che in Europa li chiamano "alimenti Frankenstein"). Da allora il commercio di Ogm ha dato luogo a conflitti geopolitici.

La geografia dell'accumulazione del capitale e della distruzione creatrice sulla terra non si presta a essere messa chiaramente a fuoco, ma senza un'analisi accurata di questo genere di dinamiche non è possibile acquisire una comprensione soddisfacente di come operi la coevoluzione in luoghi diversi; e senza questa non possiamo valutare fino a che punto il rapporto con la natura costituisca un limite insormontabile all'ulteriore accumulazione di capitale, quali che siano le soluzioni tecnologiche, culturali e sociali adottate.

Le scienze ambientali, com'è noto, ci hanno resi consapevoli di un'intera gamma di conseguenze involontarie delle azioni umane. Per anni, dopo il 1780, i depositi acidi dalle ciminiere delle fabbriche e dalle centrali elettriche distrussero gli ecosistemi locali come le torbiere sulle Pennine Hills nei dintorni di Manchester; ma con l'avvento delle tecnologie che permisero di costruire alte ciminiere, le deposizioni acide interessarono non più aree locali ma intere regioni, poiché i materiali solforosi venivano eruttati ad altezze maggiori nell'atmosfera. Alla fine degli anni sessanta, gli agenti inquinanti provenienti dalla Gran Bretagna stavano distruggendo i laghi e le foreste nei paesi scandinavi, e quelli della valle dell'Ohio stavano danneggiando in modo simile il New England, con gravi ripercussioni politiche che sfociarono in delicate negoziazioni. I clorofluorocarburi (Cfc), sostanze chimiche molto utili nel processo di refrigerazione, a partire dagli anni venti del Novecento divennero essenziali per garantire alle popolazioni urbane in espansione forniture di alimenti sempre freschi; ma quando vengono rilasciati nell'atmosfera, i Cfc distruggono lo strato dell'ozono nell'alta stratosfera, causando una maggiore penetrazione dei raggi ultravioletti e creando una grave minaccia per tutte le forme di vita, particolarmente quelle nelle regioni circumpolari. Anche questo portò a difficili negoziazioni internazionali, sfociate infine nel Protocollo di Montreal del 1987, in cui si stabilì di limitare l'uso dei Cfc per poi eliminarli gradualmente. Da quando gli scienziati hanno suggerito che il riscaldamento globale è provocato in parte dall'azione dell'uomo (anche se resta ancora da stabilire in che misura), gli oppositori (generalmente finanziati dalla lobby dell'energia) si aggrappano all'incredibile affermazione che il riscaldamento globale sia in realtà una bufala messa in giro dagli scienziati per terrorizzare la popolazione mondiale. Nel 1939, quando venne immesso nel mercato, il portentoso pesticida Ddt parve una soluzione meravigliosa al flagello delle infezioni provocate dalle zanzare; ma successivamente si scoprì che aveva conseguenze disastrose per le capacità riproduttive di molte specie a livello mondiale, e perciò negli anni sessanta dovette essere messo al bando (in particolare dopo la pubblicazione di Primavera silenziosa di Rachel Carson nel 1962).

I capitalisti e i loro agenti si danno alla produzione della seconda natura, alla produzione attiva della sua geografia, allo stesso modo in cui si danno a tutte le altre forme di produzione: trattandola come un'impresa speculativa, spesso con la connivenza e la complicità, per non dire con la collaborazione attiva, dell'apparato statale.

[...]

Come si possono monitorare gli immensi cambiamenti nel territorio e nel paesaggio, così si possono anche individuare alcuni tracotanti progetti di trasformazione ambientale finiti in un fallimento clamoroso. Una delle mie storie preferite, raccontata in modo magistrale da Greg Grandin in Fordlandia (2002), è quella del tentativo speculativo fatto da Henry Ford negli anni venti di addomesticare la foresta amazzonica per convertirla alla produzione di gomma. Ford acquistò un grandissimo appezzamento di terra nella regione, fondò una città di nome Fordlandia e cercò di imporre ai lavoratori impiegati nella piantagione e nella fabbrica di gomma nella foresta pluviale tropicale lo stile di vita tipico del Midwest degli Stati Uniti.

L'idea di Ford era quella di assicurarsi una fornitura stabile di gomma per gli pneumatici delle auto (avendo già stabilito il controllo su quasi tutto il resto). "Fordlandia aveva una piazza centrale, marciapiedi, attrezzature igienico-sanitarie in tutte le case, prati curatissimi, un cinema, negozi di scarpe, gelaterie e profumerie, piscine, campi da tennis, un campo da golf e, naturalmente, Ford Modello T che avanzavano lungo le strade lastricate", scrive Grandin. Ma dopo vent'anni di tentativi e la spesa di somme astronomiche di denaro, Ford non riuscì a cavare un ragno dal buco: la foresta tropicale aveva vinto. Abbandonata nel 1945, la città è ridotta a un cumulo di macerie nella giungla, senza aver mai prodotto una sola goccia di lattice.

Se Henry Ford si lanciò in una speculazione così bizzarra in Amazzonia è perché supponeva, naturalmente, che il mondo fosse aperto al commercio e all'investimento e che non vi fossero ostacoli spaziali (come i confini statali) a impedirgli di perseguire le sue boriose ambizioni. Senz'altro era rassicurato dal fatto di sapere che, se qualcosa fosse andato storto, gli Stati Uniti avrebbero messo in campo, per salvarlo, tutta la loro forza militare di nascente potenza imperiale globale. Dopo tutto, i marines rimasero dispiegati in America centrale per tutti gli anni venti del Novecento, a sperimentare nuove tecniche di bombardamento aereo per reprimere le sommosse dei contadini indigeni che, capeggiati dal carismatico Augusto Sandino in Nicaragua, minacciavano gli interessi della potentissima United Fruit Company, la cui ambizione era chiaramente quella di trasformare la forma di governo di quei paesi in una vera e propria "repubblica delle banane".

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[...] L'idea che il capitalismo promuove l'omogeneità geografica è completamente sbagliata. Il capitalismo prospera nell'eterogeneità e nella diversità, anche se ovviamente entro certi limiti (non può tollerare Cuba, il Cile di Allende o la prospettiva del comunismo in Italia negli anni settanta).

Ma gli ordinamenti istituzionali e amministrativi presenti su un territorio sono, almeno in teoria, soggetti alla volontà sovrana del popolo, il che significa che risentono degli esiti della lotta politica. Questo introduce una dimensione differente nel collegamento tra l'organizzazione geografica e la riproduzione del capitalismo. All'interno di una tale struttura possono nascere facilmente forme di opposizione alla commercializzazione eccessiva e a un gretto sviluppo capitalistico, come pure movimenti sociali che si oppongono al capitalismo di mercato. Queste opposizioni possono provenire sia da sinistra (come nel caso delle insurrezioni di stampo comunista) sia da destra (fondamentalismo religioso e fascismo). Chiunque controlli i mezzi della violenza — tradizionalmente nelle mani dello Stato, ma oggi decentrati attraverso le organizzazioni di stampo terroristico e mafioso oppure posti a livello più alto, come in organizzazioni quali la Nato — possiede generalmente un vantaggio in queste lotte, e in misura sempre maggiore data l'attuale sofisticatezza delle tecniche di sorveglianza e delle tecnologie militari.


L'imperialismo, le conquiste coloniali, le guerre intercapitalistiche e le discriminazioni razziali hanno svolto un ruolo eclatante nella geografia storica del capitalismo. Nessuna descrizione delle sue origini può prescindere dalla rilevanza di tali fenomeni; ne dobbiamo dedurre dunque che sono necessari per la sua sopravvivenza? Il capitalismo non potrebbe seguire invece un'evoluzione antirazzista, non militarista, non imperialista e non coloniale? Come suggerisce Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo (1996), cosa succede quando sostituiamo la nozione di egemonia alle teorie tradizionali sul dominio imperialista e coloniale, sostenendo che la prima è una forma di organizzazione dei rapporti di potere globali molto diversa dal secondo?

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8. Che fare? E chi lo farà?


In tempi di crisi l'irrazionalità del capitalismo è sotto gli occhi di tutti: nell'economia sono presenti eccedenze sia di capitale sia di lavoro, senza che in apparenza si trovi il modo di rimetterle insieme in produzione, mentre le persone patiscono immense sofferenze e molti bisogni rimangono insoddisfatti. Nell'estate del 2009, negli Stati Uniti, un terzo del capitale produttivo giaceva inutilizzato, mentre i lavoratori disoccupati, costretti a occupazioni part-time oppure "scoraggiati" costituivano circa il 17 per cento della forza-lavoro. Cosa può esserci di più irrazionale di questo?

Affinché l'accumulazione del capitale torni a crescere a un tasso composto del 3 per cento occorre trovare una nuova base per la realizzazione del profitto e l'assorbimento dell'eccedenza. L'approccio irrazionale adottato in passato per realizzare questo obiettivo è stato quello di distruggere le conquiste delle epoche precedenti mediante la guerra, la svalutazione delle attività, il degrado della capacità produttiva, l'abbandono e altre forme di "distruzione creatrice". Gli effetti che si producono in questi casi vengono percepiti non soltanto nel mondo della produzione e dello scambio delle merci: molte vite umane vengono sconvolte e persino fisicamente distrutte, intere carriere e conquiste di una vita vengono messe a rischio, le convinzioni più profonde vengono messe in discussione, gli animi vengono feriti e il rispetto per la dignità umana viene messo in disparte. La distruzione creatrice non risparmia nessuno, né buoni, né belli, né brutti, né cattivi. Le crisi, possiamo concludere, sono i razionalizzatori irrazionali di un sistema esso stesso irrazionale.

Può il capitalismo sopravvivere al trauma odierno? Sì, naturalmente. Ma a che costo? Dietro questa domanda se ne cela un'altra. La classe capitalista può riprodurre il suo potere malgrado le innumerevoli difficoltà economiche, sociali, politiche, geopolitiche e ambientali? Ancora una volta, la risposta è un sonoro "sì, può". Ma per far questo, la massa della popolazione dovrà cedere generosamente i frutti del proprio lavoro a coloro che stanno al potere, rinunciare a molti diritti e valori patrimoniali conquistati con fatica (nei campi più disparati, dall'abitazione ai diritti pensionistici) e subire le conseguenze di un vasto degrado ambientale, per non parlare dell'abbassamento sistematico del tenore di vita, che, per quanti già faticano a sopravvivere negli strati più poveri della popolazione, significa rischiare di morire d'inedia. Per soffocare le agitazioni sociali che ne conseguiranno, sarà necessaria una dose massiccia di repressione politica, di violenza poliziesca e di controllo statale militarizzato. Ma a questo si accompagnerà anche un cambiamento doloroso e dilaniante del centro geografico e settoriale del potere della classe capitalista. Infatti, se la storia ci insegna qualcosa, è che la classe capitalista non può mantenere il proprio potere senza modificare il proprio carattere e spostare l'accumulazione su una traiettoria diversa e verso nuovi spazi (come l'Asia orientale).

In tempi di crisi l'incertezza degli esiti raggiunge il suo culmine, poiché molte di queste dinamiche sono imprevedibili e gli spazi dell'economia globale sono fortemente variabili. A livello locale le possibilità sono innumerevoli: una nascente classe capitalista in un nuovo spazio potrebbe cogliere l'opportunità di mettere in discussione le vecchie egemonie di classe e territoriali (come quando Silicon Valley negli Stati Uniti scalzò il primato di Detroit a partire dalla metà degli anni settanta), oppure un movimento radicale potrebbe contestare la riproduzione di un potere di classe già destabilizzato e dunque indebolito. Dire che la classe capitalista e il capitalismo possono sopravvivere non equivale ad affermare che siano predestinati a farlo, né che il loro carattere futuro sia predeterminato. Le crisi sono momenti di paradosso e di possibilità, da cui possono scaturire alternative di ogni sorta, anche di stampo socialista e anticapitalista.

Cosa accadrà dunque questa volta? Per tornare a una crescita composta del 3 per cento, bisognerà trovare nuove opportunità di investimento redditizie a livello globale per un importo di 1600 miliardi di dollari nel 2010 e quasi 3000 miliardi di dollari nel 2030; si tratta di cifre enormi, se paragonate con i 150 miliardi di dollari di nuovi investimenti necessari nel 1950 e i 420 miliardi necessari nel 1973 (le cifre in dollari sono corrette per l'inflazione). Le prime serie difficoltà nel trovare sbocchi adeguati per il capitale eccedente cominciarono a emergere dopo il 1980, nonostante l'apertura della Cina e il crollo del blocco sovietico. Queste difficoltà furono risolte in parte con la creazione di mercati fittizi, in cui la speculazione sui valori patrimoniali poté decollare sottraendosi al controllo degli organismi di vigilanza. Dove andrà adesso tutto questo investimento?

Lasciando da parte i limiti indiscutibili esistenti nel rapporto con la natura (tra i quali il riscaldamento globale assume ovviamente una somma importanza), gli altri potenziali ostacoli dati dall'assenza di una domanda effettiva nel mercato, dalle tecnologie e dalla distribuzione geografica/geopolitica saranno verosimilmente determinanti, anche ipotizzando — il che è improbabile — che non si materializzi un'opposizione attiva degna di questo nome alla continua accumulazione di capitale e all'ulteriore consolidamento del potere di classe. Quali spazi rimangono nell'economia globale per nuove soluzioni spaziali al problema dell'assorbimento dell'eccedenza di capitale? La Cina e l'ex blocco sovietico sono stati già integrati; il Sud e il Sud-est asiatico si stanno colmando rapidamente; l'Africa non è ancora pienamente integrata, ma non vi sono altri luoghi con la capacità di assorbire tutto questo capitale eccedente. Quali nuove linee di produzione si possono aprire per assorbire la crescita? Potrebbe non esserci una soluzione capitalistica efficace nel lungo termine a questa crisi del capitalismo (a meno di non tornare alla manipolazione di capitali fittizi). A un certo punto i cambiamenti quantitativi determinano mutamenti qualitativi, e dobbiamo prendere seriamente in considerazione l'ipotesi che potremmo trovarci proprio a un tale punto di svolta nella storia del capitalismo. Di conseguenza, il dibattito odierno dovrebbe concentrarsi innanzitutto sul mettere in discussione il futuro del capitalismo stesso quale adeguato sistema sociale.

Eppure, sembra che non ci sia molto interesse per una tale discussione, nonostante i soliti mantra sulla perfettibilità della natura umana con l'aiuto del libero mercato e del libero scambio, la proprietà privata e la responsabilità personale, l'abbattimento del carico fiscale e l'intervento minimo dello Stato nelle prestazioni sociali appaiano sempre più insignificanti. Una crisi di legittimità è alle porte. Ma le crisi di legittimità, di solito, si sviluppano a un ritmo diverso rispetto a quelle dei mercati azionari; per esempio, ci vollero tre o quattro anni prima che il crollo dei mercati del 1929 producesse i movimenti sociali di massa (sia progressisti sia fascisti) che emersero pressappoco dopo il 1932. L'intensità con cui i politici stanno cercando possibili vie d'uscita alla crisi odierna ci dà una misura di quanto temono l'illegittimità che incombe su di loro.

La presenza di crepe nell'edificio ideologico non implica che questo sia irrimediabilmente compromesso; e non è detto neppure che solo perché un'idea è palesemente vuota e insignificante le persone la riconosceranno subito come tale. Ora come ora, la fiducia nei presupposti di base dell'ideologia liberista non è stata sensibilmente intaccata. Non vi sono indicazioni che le persone che vivono nei paesi capitalistici avanzati (a parte le solite insoddisfazioni) siano alla ricerca di un cambiamento radicale dello stile di vita, benché molti si rendano conto che potrebbero dover economizzare di più su alcune cose o risparmiare su altre. Le vittime dei pignoramenti negli Stati Uniti (così dicono i primi studi) tendono ad addossarsi la colpa (magari a causa della cattiva sorte) di non essersi dimostrati all'altezza delle responsabilità individuali che la proprietà della casa comporta. Malgrado la rabbia per l'ipocrisia dei banchieri e l'indignazione populista suscitata dai loro bonus, in Europa e in Nord America sembra non esserci alcun movimento pronto ad abbracciare cambiamenti radicali e di ampio respiro. Nel Sud del mondo, e in America Latina in modo particolare, la storia è alquanto diversa. L'evoluzione delle dinamiche politiche in Cina e nel resto dell'Asia, dove la crescita continua e la politica ruota su un asse diverso, rimane avvolta nell'incertezza. Il problema, in quelle regioni, è che la crescita prosegue ma a un ritmo più lento.

L'idea che la crisi abbia origini sistemiche viene sollevata a malapena nei media istituzionali. I provvedimenti pubblici presi finora in Nord America e in Europa sono perlopiù una prosecuzione delle vecchie politiche di sostegno alla classe capitalista. Il "rischio morale", che è stato il fattore scatenante immediato dei fallimenti degli istituti finanziari, a seguito dei salvataggi bancari raggiunge vette mai viste. Nella sua applicazione pratica (contrapposta alla sua teoria utopistica), il neoliberismo si è sempre tradotto in un sostegno sfacciato per il capitale finanziario e le élite capitaliste (con il solito pretesto che gli istituti finanziari devono essere protetti a tutti i costi e che è compito del potere statale creare un clima economico favorevole in modo che le imprese possano realizzare profitti esorbitanti). In questo non si registrano cambiamenti di fondo. Queste pratiche vengono giustificate con la dubbia asserzione che una "marea montante" di attività capitalistica "solleverà tutte le barche", o che i benefici della crescita composta, mediante un processo di trickle-down, ricadranno magicamente su tutta la popolazione (cosa che non succede mai, tranne che per le poche briciole che cascano dalla tavola imbandita dei ricchi).

In gran parte del mondo capitalistico abbiamo vissuto un periodo che ha dell'incredibile, in cui la politica è stata depoliticizzata e mercificata. Soltanto adesso che il governo interviene a salvare i finanzieri tutti si rendono conto che lo Stato e il capitale sono più intrecciati che mai, nei rapporti sia istituzionali sia personali. Adesso finalmente si capisce che a governare, in realtà, è la classe dirigente, e non la classe politica che agisce da surrogato.

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Tuttavia, per prima cosa bisogna riconoscere che sviluppo e crescita sono due concetti differenti. È possibile immaginare uno sviluppo diverso, per esempio nel campo dei rapporti sociali, della vita quotidiana e del rapporto con la natura, senza per questo rinfocolare la crescita o favorire il capitale. È falso affermare che la crescita sia un presupposto essenziale per combattere la povertà e la disuguaglianza, o che politiche più rispettose dell'ambiente, come la promozione degli alimenti biologici, siano un lusso per pochi ricchi.

In secondo luogo, le trasformazioni in ciascuna sfera esigeranno una profonda comprensione, poniamo, sia delle dinamiche interne degli ordinamenti istituzionali sia del cambiamento tecnologico in relazione a tutte le altre sfere d'azione. Si dovranno costruire alleanze tra tutti coloro che lavorano nelle diverse sfere; questo vuol dire che un movimento anticapitalista dovrà essere molto più ampio dei gruppi che si mobilitano attorno ai rapporti sociali o su questioni attinenti la vita quotidiana in sé e per sé. Per esempio, si dovranno affrontare e risolvere le tradizionali ostilità tra coloro che possiedono competenze tecniche, scientifiche e amministrative e coloro che animano i movimenti sociali sul campo.

In terzo luogo, sarà necessario misurarsi anche con gli impatti e le reazioni (incluse eventuali ostilità politiche) provenienti da altri spazi nell'economia globale. Diversi luoghi possono svilupparsi in modi differenti, data la loro storia, la loro cultura, la loro collocazione e la loro condizione politico-economica. Alcuni sviluppi in altri luoghi saranno favorevoli o complementari, mentre altri potrebbero essere deleteri o persino antagonistici. Un po' di concorrenza interterritoriale è inevitabile e non necessariamente negativa. Tutto dipende da quale è l'oggetto della concorrenza: indici di crescita economica o vivibilità del quotidiano? Per esempio, Berlino è una città molto vivibile, ma tutti i soliti indici di successo economico di stampo capitalista la descriverebbero come un luogo arretrato. I valori fondiari e i prezzi degli immobili sono deplorevolmente bassi, il che significa che anche le persone che dispongono di mezzi limitati possono trovare un luogo dignitoso in cui vivere. I costruttori se la passano male. Se solo New York e Londra fossero un po' più come Berlino da questo punto di vista!

Infine, è necessario pervenire a un accordo di massima su alcuni obiettivi comuni. Si possono stabilire alcune linee guida generali; tra queste, il rispetto per la natura, l'egualitarismo radicale nei rapporti sociali, ordinamenti istituzionali basati su un senso dell'interesse comune, procedure amministrative realmente democratiche (contrapposte alla finta democrazia governata dal denaro che esiste attualmente), processi lavorativi organizzati direttamente dai produttori, la vita quotidiana intesa come libera esplorazione di nuovi tipi di rapporti sociali e soluzioni abitative, concezioni mentali che pongono enfasi sulla realizzazione di sé nel servire gli altri, e innovazioni tecnologiche e organizzative orientate al perseguimento del bene comune anziché a sostenere il potere militare e l'avidità delle imprese. Questi potrebbero essere i punti corivoluzionari attorno ai quali l'azione sociale potrebbe convergere e ruotare. Ma certo che è utopistico! E allora? Non possiamo permetterci di non esserlo.

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I comunisti, sostengono Marx ed Engels nella loro concezione originaria illustrata nel Manifesto del partito comunista, non hanno un partito politico, ma sono presenti in ogni momento e in ogni luogo come coloro che capiscono i limiti, i difetti e le tendenze distruttive dell'ordine capitalista, nonché le innumerevoli maschere ideologiche e false giustificazioni che i capitalisti e i loro apologeti (in particolare nei media) producono per perpetuare il loro particolare potere di classe. Comunisti sono tutti coloro che lavorano incessantemente per produrre un futuro differente da quello preannunciato dal capitalismo. Questa è una definizione senz'altro interessante. Mentre il comunismo istituzionalizzato tradizionale è praticamente morto e sepolto, secondo questa definizione ci sono milioni di comunisti de facto attivi tra noi, disposti ad agire sulla base delle loro conoscenze, pronti ad assecondare creativamente gli imperativi dell'anticapitalismo. Se, come ha dichiarato il movimento per un'altra globalizzazione alla fine degli anni novanta, "un altro mondo è possibile", perché allora non possiamo dire anche che "un altro comunismo è possibile"? È questo che serve se si vuole realizzare un profondo cambiamento, date le attuali circostanze dello sviluppo capitalistico.

Comunismo, sfortunatamente, è una parola troppo fortemente connotata per poter essere reintrodotta facilmente nel discorso politico, come vorrebbero alcuni; farlo negli Stati Uniti sarebbe sicuramente molto più difficile che in Francia, in Italia, in Brasile o persino in Europa centrale. Ma per certi versi il nome non conta. Forse dovremmo semplicemente definire il movimento, il nostro movimento, come anticapitalista, oppure chiamarci il Partito dell'indignazione, pronti a combattere e a sconfiggere il Partito di Wall Street, i suoi accoliti e i suoi apologeti ovunque essi si trovino, e limitarci a questo. La lotta per la sopravvivenza con giustizia non solo continua, ma ricomincia. Al crescere dell'indignazione e dello sdegno morale per l'economia dell'espropriazione che va a beneficio di una classe capitalista apparentemente onnipotente, i movimenti politici più disparati cominceranno necessariamente a fondersi, superando i limiti dello spazio e del tempo.

Per comprendere la necessità politica di tutto questo bisogna in primo luogo svelare l'enigma del capitale. Dopo avergli strappato la maschera e messo a nudo i suoi segreti sarà più facile capire cosa fare e perché, e come cominciare a farlo. Il capitalismo non cadrà mai da solo: dovrà essere spintonato. L'accumulazione del capitale non cesserà mai da sola; dovrà essere arrestata. La classe capitalista non cederà mai volontariamente il suo potere; dovrà essere espropriata.

Per fare ciò che è necessario ci vorranno tenacia e determinazione, pazienza e astuzia, e un impegno politico incrollabile alimentato dallo sdegno morale per i danni arrecati dalla crescita composta e dallo sfruttamento a ogni aspetto della vita, umana e non, sul pianeta Terra. Mobilitazioni politiche all'altezza di questo compito sono avvenute in passato, e certamente potranno tornare e torneranno ancora. Credo che abbiamo aspettato abbastanza.

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Postfazione


                            C'è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe,
                            la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo
                            vincendo.

                                              WARREN BUFFETT, Il saggio di Omaha



[...]

La mia tesi è che il capitale non risolve mai le proprie tendenze alla crisi, ma si limita semplicemente a rimuoverle; e lo fa in un duplice senso, da una parte all'altra del mondo e da un tipo di problema a un altro. Così, la crisi esplosa originariamente nei mercati immobiliari degli Stati Uniti meridionali e sud-occidentali (oltre che in quelli del Regno Unito, dell'Irlanda e della Spagna) si è abbattuta sui mercati finanziari di New York e Londra, per poi "globalizzarsi" e mettere a repentaglio il commercio mondiale quasi ovunque (dopo essere passata per le banche islandesi, Dubai World, il dissesto della Lettonia, il disastro delle finanze pubbliche californiane e la crisi del debito prima greco e poi irlandese). Per quanto alcuni sistemi bancari nazionali, come quelli di Irlanda, Portogallo e Spagna, potrebbero richiedere o richiederanno ulteriori azioni di salvataggio, a causa dell'elevato volume di titoli tossici lasciati in eredità dai boom fittizi che hanno interessato i mercati immobiliari prima della crisi, pare che il sistema finanziario globale sia stato ormai stabilizzato da un collage di interventi statali, che hanno avuto l'effetto di trasferire l'onere della crisi dalle banche al debito pubblico. Per far fronte all'aumento di quest'ultimo, i governi di Europa e Nord America hanno proposto e quindi attuato piani di austerity draconiani, in modo da ridurre l'entità del debito tagliando i servizi pubblici e minacciando il benessere collettivo.

In alcune parti del mondo, tuttavia, la crisi è passata da un pezzo. Persino negli Stati Uniti la recessione è stata proclamata statisticamente conclusa nel giugno 2009. Chiedete informazioni sulla "crisi economica" a chi vive in Brasile, Argentina, India o Australia, e vi risponderà: "Quale crisi? Quello è un problema vostro, non nostro". Com'è noto, la miopia geografica è un fenomeno alquanto diffuso. Molti abitanti dell'Europa occidentale e del Nord America hanno elargito donazioni generose alle vittime dello tsunami che ha spazzato l'Oceano indiano nel dicembre 2004, ma non hanno badato minimamente ai 15 milioni di indonesiani che hanno perso il lavoro nel crollo del 1997-1998 o all'impennata della disoccupazione in Argentina durante la crisi nel 2001-2002. Quelle erano crisi e mancanze loro, non nostre.

Mentre scriviamo (dicembre 2010) prevale la netta sensazione, corroborata da abbondanti prove concrete, che negli Stati Uniti e in gran parte d'Europa la crisi sia ancora in atto. Il grosso problema è la disoccupazione. Un documento di discussione congiunto pubblicato dall'Fmi e dall'Organizzazione internazionale del lavoro nel settembre 2010 ha stimato che la recessione del 2007-2009 abbia provocato una perdita netta di 30 milioni di posti di lavoro a livello mondiale. Dei 20 milioni che sono stati documentati dalle statistiche ufficiali, tre quarti si trovavano nelle economie avanzate; di questi, 7,5 milioni negli Stati Uniti, 2,7 milioni in Spagna e 0,9 milioni nel Regno Unito. Le perdite nette di posti di lavoro sono state molto meno pronunciate nelle economie emergenti: la Cina, per esempio, ha riportato una perdita netta di 3 milioni di occupati, che, date le enormi dimensioni del suo mercato del lavoro, può essere considerata grave ma non catastrofica. Il dato curioso è che in alcuni paesi a basso reddito si sono registrati lievi aumenti dell'occupazione (in parte a causa del trasferimento dei posti di lavoro dalla Cina verso paesi in Asia meridionale e sud-orientale, dove vigono salari ancora più bassi).

In molte parti del pianeta, la crisi finanziaria iniziata nel 2007 ha prodotto appena qualche effetto duraturo. La ripresa della crescita in Cina (superiore al 10 per cento nel 2010, dopo essere scesa brevemente al 6 per cento ai primi del 2009) e in India (con tassi che potrebbero presto superare quelli cinesi) è accompagnata da un'espansione vigorosa in tutte le aree del mondo esposte al commercio con la Cina. I paesi che forniscono materie prime al colosso asiatico, come Australia e Cile, sono usciti dalla crisi relativamente illesi. Altrove i flussi commerciali hanno subìto qualche cambiamento: è questo il caso di Brasile e Argentina, che dal 2000 hanno visto decuplicarsi il volume degli scambi con la Cina. Il risultato è stato un'accelerazione sostenuta della crescita economica in varie parti dell'America Latina (con tassi prossimi all'8 per cento nei due paesi citati), quantunque al costo di trasformare gran parte dei terreni agricoli in un'unica grande piantagione di soia, con conseguenze ambientali potenzialmente dannose. Anche i paesi che esportano prodotti high-tech verso la Cina, in particolare la Germania, se la sono cavata piuttosto bene.

[...]

L'attuale situazione negli Stati Uniti (simile a quella di molte parti d'Europa) è una necessità economica o una scelta politica? La risposta è che è un po' di entrambe. Ma la sua dimensione politica è oggi più appariscente rispetto allo scorso anno. In gran parte delle economie capitalistiche avanzate, dopo un primo tentativo superficiale di riesumare il paradigma keynesiano, con la scusa della crisi del debito sovrano la classe capitalistica ha cominciato a smantellare ciò che resta dei sistemi di welfare attraverso una politica di austerità fiscale. Il capitale ha sempre avuto difficoltà a farsi carico dei costi della riproduzione sociale (l'accudimento dei giovani, dei malati, degli invalidi e degli anziani, i costi della previdenza sociale, dell'istruzione e dell'assistenza sanitaria). Negli anni cinquanta e sessanta molti di questi costi sociali sono stati internalizzati direttamente (piani sanitari e pensionistici aziendali) o indirettamente (servizi pubblici finanziati mediante la fiscalità generale). Ma fin dal principio dell'epoca neoliberista, iniziata nella seconda metà degli anni settanta, il capitale ha fatto tutto il possibile per sgravarsi di questo fardello, costringendo le popolazioni a trovare il modo di procurarsi e finanziare tali servizi per conto proprio. Come ci riproduciamo, dicono le influenti voci di destra nella politica e nei media, è una questione di responsabilità individuale, non un obbligo statale.

Alcune importanti aree di intervento pubblico, a partire dalla previdenza sociale e dai sistemi pensionistici statali, devono ancora essere privatizzate (anche se in Cile tali privatizzazioni sono avvenute da tempo). L'attuale enfasi sui programmi di austerity, dunque, non è che l'ennesimo passo verso la personalizzazione dei costi della riproduzione sociale. In molti paesi, l'assalto al benessere collettivo ha messo lo Stato in rotta di collisione non soltanto con gli ultimi scampoli di potere sindacale, specialmente quelli del settore pubblico, ma anche con le popolazioni che dipendono più direttamente dai servizi statali (come gli studenti, da Atene a Parigi, Londra e Berkeley). È un assalto che ha scatenato numerose rivolte, tanto che persino l'Fmi ha provato a mettere in guardia i governi più smaccatamente di destra contro il rischio di fomentare gravi agitazioni sociali. I segnali di un fiorire dei disordini in Europa già dall'autunno del 2010 suggeriscono che l'Fmi potrebbe non avere tutti i torti.

La giustificazione economica dei piani di austerity è nel migliore dei casi confusa e nel peggiore chiaramente controproducente. Alcuni analisti responsabili stimano che i provvedimenti annunciati nell'ottobre 2010 dal neoeletto governo britannico, guidato dai conservatori, lasceranno 1,6 milioni di persone senza lavoro nei prossimi tre anni; di questi, quasi 500.000 saranno nel settore pubblico e i restanti principalmente in quel comparto del settore privato che lavora negli appalti pubblici. L'idea che le imprese, senza alcuna assistenza da parte dello Stato, possano generare l'occupazione mancante, quando il meglio che riescono a fare è creare circa 300.000 posti di lavoro all'anno in Gran Bretagna, non è altro che una pia illusione, per usare un eufemismo. Forti della recente vittoria dei repubblicani alla Camera dei rappresentanti negli Stati Uniti, i cosiddetti "falchi" delle finanze pubbliche faranno certamente valere la propria influenza su tutto fuorché sul rinnovo delle ingenti agevolazioni fiscali per i segmenti più ricchi della popolazione, che alimentano il disavanzo di bilancio. Ma anche quando le redini del potere erano in mano ai democratici, questi non hanno avuto il fegato di scontentare i falchi per aiutare la popolazione. Il "Partito di Wall Street", come l'ho chiamato, è troppo potente per consentire una cosa del genere, dato che finanzia le campagne elettorali sia dei democratici sia dei repubblicani. E col passare del tempo diventa ahimè sempre più evidente che anche il presidente Obama appartiene allo stesso partito.

Quel che avviene oggi negli Stati Uniti non è che una riedizione di ciò che è accaduto ripetutamente fin dai primi anni ottanta in diverse parti del mondo. Per esempio, nel 1982 molti paesi in via di sviluppo furono travolti da una crisi del debito, incarnata dal Messico che aveva commesso l'errore di indebitarsi eccessivamente presso le banche d'investimento di New York. Il ripudio del debito avrebbe decretato la fine dei banchieri newyorkesi, così il Tesoro degli Stati Uniti e l'Fmi accorsero in aiuto del Messico, permettendogli di rimborsare le banche, ma costrinsero il paese ad adottare piani di austerity così severi da provocare un declino del 25 per cento nel tenore di vita della popolazione. Salvare le banche e bastonare il popolo è diventato da allora una ricetta universale, che è stata applicata anche in Grecia ai primi del 2010 e in Irlanda in autunno. Nel caso greco a essere a rischio erano le banche francesi e tedesche, in quello irlandese le banche esposte erano perlopiù britanniche. Il calo del tenore di vita della popolazione greca è palpabile e l'Irlanda segue da presso. Lo scorso anno a beneficiare del salvataggio sono state le banche statunitensi, quindi adesso toccherà al governo federale degli Stati Uniti bastonare la popolazione ancor più di quanto non stia facendo la California, che, con il nono bilancio pubblico più grande del mondo, non ha fatto la fine della Grecia e dell'Irlanda solo grazie ai tagli selvaggi e al trasferimento di entrate fiscali federali per sostenere il sistema di previdenza sociale, Medicare e così via. La rapidità con cui gli investitori hanno cominciato a ritirarsi dal mercato dei titoli esentasse del debito statale e locale nel dicembre 2010, tuttavia, suggerisce che questo potrebbe essere il punto caldo della prossima ondata di crisi finanziaria negli Stati Uniti. Saranno le reazioni del governo federale e della Federal Reserve a decidere se le autorità statali e locali degli Stati Uniti si renderanno insolventi in massa oppure no. Ma una crisi di questo tipo sarà molto più difficile da risolvere rispetto a quella del settore bancario, in parte per la sua vastità e profondità e in parte per ragioni politiche.

Quasi certamente sarebbe stato meglio se la Grecia e l'Irlanda si fossero dichiarate inadempienti, perché allora le banche e gli obbligazionisti avrebbero condiviso l'onere della crisi con il resto della popolazione; questi ultimi, in particolare, avrebbero subìto una decurtazione del valore del loro investimento. Nel 2004 l'Argentina ha di fatto ripudiato il debito; a quel tempo il paese fu minacciato di conseguenze disastrose ("non rivedrete mai più gli investitori internazionali", fu detto), ma nel giro di un paio d'anni gli investitori stranieri, nel disperato tentativo di trovare sbocchi redditizi al loro capitale eccedente, stavano già alimentando un boom economico che è durato, con pochi sussulti, fino agli anni turbolenti del 2007-2009. I piani di austerity varati in Grecia e in Irlanda hanno bloccato la ripresa economica di questi paesi, hanno peggiorato la loro situazione debitoria e hanno innescato una spirale negativa di interminabili privazioni. Alla luce di questa esperienza, voci influenti nei media istituzionali (incluso un editoriale di apertura del "New York Times") hanno finalmente cominciato a chiedersi se l'inadempienza (detta eufemisticamente "ristrutturazione") non sia in realtà una soluzione migliore. Persino la cancelliera tedesca Angela Merkel ha indicato che gli obbligazionisti dovranno aspettarsi qualche perdita dopo il 2013, quando i fondi destinati ai salvataggi in Europa cominceranno a esaurirsi. L'effetto sarebbe quello di ritrasferire almeno una parte dell'onere della crisi sulle spalle delle banche, dove secondo una grossa fetta dell'opinione pubblica dovrebbe comunque ricadere, particolarmente data la propensione dei banchieri a corrispondersi senza alcuna vergogna bonus da capogiro. Nel caso greco, inoltre, l'onere verrebbe traslato geograficamente sul sistema bancario francese e su quello tedesco, che versa in condizioni di debolezza, e in definitiva sui governi dei due paesi, che secondo molti greci dovrebbero farsene carico.

Ma bastonare il popolo a tutto vantaggio del grande capitale fa parte dell'agenda politica della destra e della classe capitalistica da sempre. Negli anni ottanta il presidente Ronald Reagan generò un enorme disavanzo di bilancio, ingaggiando una corsa agli armamenti con l'Unione Sovietica e tagliando dal 72 a quasi il 30 per cento l'aliquota fiscale sui redditi più alti. Come confessò più tardi il suo direttore delle finanze David Stockman, il piano era quello di far esplodere il debito e poi usare questo pretesto per ridurre o demolire le tutele e i programmi sociali. Il presidente George Bush il giovane, un altro repubblicano appoggiato da un Congresso a maggioranza repubblicana, ha seguito l'esempio di Reagan alla lettera: tra il 2001 e il 2009 ha trasformato l'avanzo di bilancio esistente alla fine degli anni novanta in un deficit di proporzioni smisurate, combattendo due guerre per capriccio, facendo un bel regalo alle grandi case farmaceutiche con l'approvazione del pacchetto Medicare ed elargendo grossi tagli alle imposte per i contribuenti più ricchi. L'abbattimento delle aliquote fiscali, sostenevano i simpatizzanti di Bush, si sarebbe ripagato da sé attraverso l'accelerazione degli investimenti, cosa che però non è avvenuta (in compenso, però, ha alimentato la speculazione). Anche le guerre, si disse, si sarebbero ripagate da sé con il petrolio iracheno. Quando nel 2003 si stimò che probabilmente la guerra sarebbe costata 200 miliardi di dollari, gli autori delle stime furono attaccati selvaggiamente e accusati di essere oppositori antipatriottici. Adesso sappiamo che la guerra è costata oltre 2000 miliardi di dollari, ma negli anni di Bush nessuno vi faceva caso, perché, come amava dire il vicepresidente Dick Cheney, "Reagan ci ha insegnato che i deficit sono irrilevanti!".

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Appendice 1

Principali crisi del debito e salvataggi, 1973-2009


1973-1975 Crollo dei mercati immobiliari negli Stati Uniti e nel Regno Unito, crisi fiscali delle amministrazioni locali, statali e del governo federale negli Stati Uniti (città di New York sull'orlo del fallimento), impennata dei prezzi del petrolio e recessione.

1979-1982 L'impennata dell'inflazione e il rialzo improvviso dei tassi di interesse operato da Volcker causano la "recessione di Reagan", che provoca un aumento della disoccupazione a oltre il 10 per cento negli Stati Uniti e ripercussioni altrove.

1982-1990 Lo "shock di Volcker" ai tassi di interesse provoca una crisi del debito dei paesi in via di sviluppo (Messico, Brasile, Cile, Argentina, Polonia ecc.). Le banche d'investimento statunitensi vengono salvate dagli aiuti erogati ai paesi indebitati dal Tesoro degli Stati Uniti e da un Fmi rinvigorito (purgato dei keynesiani e armato di programmi di "aggiustamento strutturale").

1984 La Fed, il Tesoro Usa e la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic) organizzano il salvataggio di Continental Illinois Bank.

1984-1992 Fallimenti delle "savings and loans" statunitensi che hanno investito nel settore immobiliare. Circa 3260 istituti finanziari chiudono o vengono soccorsi dalla Fdic. Recessione nel mercato immobiliare del Regno Unito dopo il 1987.

1987 L'uragano che si abbatte sui mercati azionari nell'ottobre 1987 viene contrastato da cospicue iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve e della Banca d'Inghilterra.

1990-1992 Crisi bancaria in Giappone e nei paesi nordici con origine nel mercato immobiliare. Salvataggio di City Bank e Bank of New England negli Stati Uniti.

1994-1995 Salvataggio del peso messicano per proteggere gli investitori statunitensi che detengono debito messicano ad alto rischio. Perdite ingenti su derivati che culminano nel fallimento di Orange County e in gravi perdite per altre amministrazioni locali che avevano effettuato analoghi investimenti ad alto rischio.

1997-1998 Crisi valutaria asiatica (basata in parte nel settore immobiliare). Lassenza di liquidità causa numerosi fallimenti e disoccupazione, dando a istituzioni predatorie l'opportunità di realizzare rapidi profitti dopo i salvataggi punitivi dell'Fmi (Corea del Sud, Indonesia, Tailandia ecc.).

1998 La Fed interviene in soccorso di Long-Term Capital Management negli Stati Uniti.

1998-2001 Crisi da fuga di capitali in Russia (che si dichiara inadempiente nel 1998) e in Brasile (1999), culminata nella crisi del debito in Argentina (2000-2002), che viene seguita da una svalutazione del peso, disoccupazione diffusa e disordini politici.

2001-2002 Bolla delle dotcom e crolli dei mercati azionari, fallimento di Enron e WorldCom. La Fed taglia i tassi di interesse per sostenere i valori delle attività (inizio della bolla immobiliare).

2007-2010 Crisi iniziate nel settore immobiliare negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Irlanda e in Spagna, seguite da fusioni coatte, fallimenti e nazionalizzazioni di molti istituti finanziari. Salvataggi in ogni parte del mondo di operatori che avevano investito in Cdo, hedge fund ecc., seguiti da recessione, disoccupazione e crollo del commercio estero; varo di numerosi piani di stimolo in stile keynesiano e iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali per far fronte alle crisi.

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Pagina 281

Appendice 2

Innovazioni finanziarie e l'ascesa del mercato dei derivati negli Stati Uniti, 1973-2009


1970 Introduzione dei mortgage-backed securities (Mbs, titoli garantiti da portafogli di mutui ipotecari).

1972 Apre il Chicago Currency Futures Market.

1973 Apre il Chicago Board Options Exchange; iniziano le operazioni sui future azionari.

1975 Operazioni su future su buoni del Tesoro e su Mbs.

1977 Operazioni su future su titoli del Tesoro.

1979 Le operazioni "fuori Borsa" e non regolamentate, particolarmente sui future su valute, diventano la norma. Emerge il "sistema bancario ombra".

1980 Swap su valute.

1981 Introduzione dell'assicurazione di portafoglio; swap su tassi di interesse; mercati dei future su eurodollari, certificati di deposito e strumenti del Tesoro.

1983 Mercati delle opzioni su valute, valori azionari e strumenti del Tesoro; introduzione dei collateralised mortgage obligations (Cmo, titoli garantiti da mutui ipotecari residenziali).

1985 Approfondimento e allargamento dei mercati delle opzioni e dei future; avvio sostenuto del trading computerizzato e dell'uso di modelli dei mercati; introduzione delle strategie di arbitraggio statistico.

1986 Unificazione dei mercati delle valute, delle azioni e delle opzioni a livello globale ("Big Bang").

1987-1988 Introduzione dei collateralised debt obligations (Cdo, titoli garantiti da portafogli di crediti), dei collateralised bond obligations (Cbo, titoli garantiti da obbligazioni societarie) e dei collateralised mortgage obligations (Cmo, titoli garantiti da mutui ipotecari residenziali).

1989 Future su swap su tassi di interesse.

1990 Introduzione dei credit default swap (Cds, strumenti derivati per l'assicurazione contro il rischio insolvenza di un debitore) unitamente agli swap su indici azionari.

1991 Vengono approvati veicoli "fuori bilancio" detti special purpose entities o special investment vehicles (società veicolo).

1992-2009 Rapida crescita del volume di operazioni su tutti questi strumenti, che da trascurabile nel 1990 aumenta a oltre 600.000 miliardi all'anno nel 2008.

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