Copertina
Autore Jacques Helft
Titolo I segreti dell'antiquario
SottotitoloI trucchi e le malizie del mestiere più affascinante del mondo
EdizioneL'Ambaradan, Torino, 2005, L'Approdo , pag. 216, cop.fle., dim. 140x210x15 mm , Isbn 978-88-89257-05-0
OriginaleVive la chine! Mémoires d'un antiquaire
EdizioneRocher, Monaco, 1955
TraduttoreRoberto Forno
LettoreGiorgia Pezzali, 2006
Classe narrativa francese , aforismi , citta': Parigi , collezionismo
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Indice

     NOTA INTRODUTTIVA                    4

I    Prime armi                           7
II   Oltre frontiera                     21
III  Via Ponthieu 4                      38
IV   Nel Nuovo Mondo                     48
V    Aneddoti                            64
VI   Le aste pubbliche                   96
VII  I collezionisti                    106
VIII Considerazioni tecniche            127
IX   Ai margini del mestiere            143
X    Ancora aneddoti                    149
XI   Massime e riflessioni              165
XII  Qualche personaggio del mestiere   168
XIII Mediatori e "segugi"               178
XIV  L'oreficeria                       185
XV   Il mestiere                        201



 

 

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Pagina 7

I
Prime armi



Sono nato al 34 di rue Lafayette, nel mezzanino sopra al negozio dove i miei genitori, sotto l'insegna La vecchia Bretagna, commerciavano antiquariato e vecchie cose. Fin dalla culla, dunque, sono stato mischiato alla vita dell'antiquario.

In quel negozio, dato l'inconfondibile odore che vi regnava, anche un cieco si sarebbe reso conto di trovarsi in mezzo a vecchi mobili e vecchie carabattole. Ed era collegato a casa tramite una scala a chiocciola, oggi abbastanza in disuso, ma allora strumento comune, su un gradino della quale mio fratello Yvon e io avevamo installato il nostro quartier generale, da dove controllavamo l'andirivieni dei clienti.

Quello fu il posto dove si svolse la mia educazione artistica e commerciale. Da quel posto di osservazione, io studiavo mia madre intenta a mostrare a un cliente le linee garbate di una poltrona che chiamava Luigi XV, la forma rigida di un tavolo che denominava Luigi XVI. Erano tutti numeri d'ordine, per me, e fui ben sorpreso nello scoprire più tardi che essi si trasformavano in personaggi che ebbero un'influenza notevote sullo svolgimento della storia nazionale francese.

In alternativa a questo spettacolo, giocavamo al cerchio sul marciapiedi di rue Lafayette, arrischiandoci talvolta, violando il divieto paterno, a correre nel bel mezzo della strada, zigzagando tra le poche carrozze e le rare carrette che violavano il nostro territorio. Il pericolo maggiore era rappresentato dal tram a cavalli Pantin-Opéra che ogni cinque minuti passava, ma un colpo di tromba ci avvertiva del suo lento arrivo, e comunque non mancava certo spazio tra un paio di rotaie e l'altro.


Della visita dello zar a Parigi, nel 1896, conservo il ricordo di un entusiasmo straordinario: la pubblicità dell'evento, probabilmente, era riuscita a colpire nel profondo l'immaginazione popolare. Nella mia classe a scuola, per rendere omaggio alla sovrana che veniva da così lontano per contribuire al suggello dell'alleanza franco-russa, ci fecero imparare a memoria questa dolce poesia:

        Dal Caucaso ai confini del Nord
        come un coro
        vibra ancora
        il dolcissimo nome della zarina
        che un raggio illumina,
        e nei nostri quartieri popolosi
        ricchi e poveri
        tutti festanti
        celebrano la sua bontà divina
        con ritornelli gioiosi.

Col mio animo di ragazzo ancora gonfio di questo saggio d'antologia, avevo assistito alla sfilata del corteo ufficiale da una finestra del ristorante Larue, in place de la Madeleine. E quando a metà corteo, in una carrozza trainata da quattro cavalli, apparve la zarina, sentii bisbigliare: «Vous savez, elle est enceinte» [N.d.T. «Sa? È incinta!»], vuoi la pronuncia, vuoi l'abbigliamento con la tiara in testa, mi parve fuor di dubbio che la zarina fosse, in effetti, "en sainte" [N.d.T. "Come una santa".]


Quando giunse il tempo c'iscrivemmo al liceo Carnot per proseguire gli studi; e ricordo che avevamo l'abitudine di andarvi di tanto in tanto con un mezzo di trasporto il quale ebbe non poca importanza nel farci entrare - oso dire - il mestiere nel sangue. Se c'era da trasportare un mobile, il nostro caro garzone del negozio, Blanchard, ci lasciava salire sul carretto a mano, consentendoci persino di aiutare a spingerlo su per la salita di via de Londres. Così mi capitava, per forza di cose, di stare con la faccia schiacciata per un'ora di seguito contro intarsi o bronzi di un cassettone; altre volte me ne stavo accoccolato sopra lo schienale di un mobile, da cui saltavano alla mia attenzione cavicchi, incastri e ogni particolare costruttivo, oltre alle opere di rinforzo rese necessarie dall'antichità. E in tal modo, senza rendermene conto e così come s'impara la lingua materna, mi divenne familiare ogni parte dei mobili vecchi.


1900, anno dell'Esposizione universale. Per far dimenticare le accese discussioni attorno all'affare Dreyfus e le diatribe contro l'Inghilterra - immortalate dalle caricature della regina Vittoria, di lord Kitchener, di Chamberlain (non quello di Monaco) - vengono insegnate due cose importanti ai parigini: innanzitutto che, nonostante quanto si credeva, l'anno non sarà bisestile, e, poi, che il secolo XX nascerà solo il 1° gennaio 1901.

Quali magnifiche possibilità offre una tale Mostra a un ragazzino di nove anni! Ricordo tutto come se fosse ieri, e soprattutto certi particolari che possono sembrare insignificanti a un adulto, ma che lasciano il marchio nella vita di un ragazzo.

La "Ruota gigante", il "Marciapiede mobile" che consentiva - in un fragore da temporale e con gran discapito di quelli che abitavano nelle vicinanze - di compiere il giro dell'esposizione su tre piste sopraelevate e a velocità variabile, la "Luna a un metro" (dove noleggiavano telescopi), la ricostruzione di una "via di Parigi", una specie di mercato con i suoi bravi negozi decorati da pittori come Toulouse-Lautrec.

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Pagina 38

III
Via Ponthieu 4



I venti anni trascorsi nella nostra casa di via Ponthieu non rappresentano soltanto il periodo più intenso della mia attività professionale: ai piani superiori viveva la mia famiglia e quella di mio fratello Yvon, di modo che a quel periodo sono legati tutti i ricordi di una vita prospera e felice.

Dal lato commerciale, l'esercitare in casa (cioè senza negozio con vetrina) presenta un notevole vantaggio: si è portati a interessarsi soltanto di una ristretta clientela di collezionisti appassionati, a dedicarvisi completamente e a cercar di soddisfare ogni richiesta. L'unico grosso inconveniente di una sistemazione privata sta nel diminuire in maniera considerevole le possibilità d'acquisto, mentre - per quanto possa apparire paradossale - un antiquario fa i soldi comperando, non con le vendite. L'assioma è confermato quasi sempre nella nostra professione, e le cose procedono in modo diverso solo per certi fuoriclasse come lord Duveen, che - al contrario - non cercava mai di comperare a buone condizioni; e, naturalmente, l'assioma non vale per la tribù di mercantucoli dalla coscienza labile, per i quali l'abilità consiste nel vender cara una merce di nessun valore. Questa tribù esistente nell'ambito di ogni professione e in tutti i paesi, è alimentata in genere dai cercatori di illusioni, i collezionisti occasionali di chimere e di fumo.

Al magazzino di via Lafayette non passava una settimana senza che qualcuno entrasse con un oggetto sotto il braccio, o con un buon indirizzo a Parigi o in provincia; invece alla casa di via Ponthieu, dall'apparenza così poco commerciale, era ben raro il colpo di campanello apportatore dell'occasione buona per un acquisto inatteso. Chiusi com'eravamo nella torre d'avorio, la risorsa principale rimastaci per alimentare le nostre disponibilità di merce - al di fuori delle campagne d'acquisto in Francia e soprattutto all'estero - era di avere buoni mediatori, uomini e donne di mondo specialmente.

Sapevano che avrebbero ricevuto una ricompensa, oltre il fisso consueto, secondo la qualità della scoperta compiuta; sapevano anche che mio fratello e io non esitavamo mai ad accorrere quando, dopo qualche spiegazione telefonica, un affare ci sembrava prometter bene, e sapevano infine che non ci saremmo arrabbiati se, come accadeva spesso, si erano ingannati nel giudicare.


In via Ponthieu ci eravamo creati una raccolta di quadri raffiguranti oreficerie, e questi dipinti non fanno che confermare l'alta considerazione in cui era tenuta quell'arte nel 1700. Se gli oggetti che, per esempio, appaiono negli Chardin presentano sempre un carattere borghese, quelli visibili negli Oudry o nei Desportes risultano creati a uso delle tavole Reali. Tuttavia si può rivelare che queste composizioni riuniscono, accanto a capi sontuosi, vassoi e piatti di una sobrietà assoluta: i primi sono destinati a ornare la credenza o la tavola, gli altri - senza dubbio - a fare normalmente la spola fra sala da pranzo e dispensa; del resto, per meglio attestarne l'impiego, in ciascuno di questi ultimi il pittore ha avuto cura di porre un cosciotto o un pezzo di prosciutto. Si tratta di veri e propri documenti, che mi hanno permesso sovente, quando qualche persona di gusto discutibile veniva a chiedermi un servizio di piatti dalla decorazione complicata, di smuoverla dal realizzare tali aspirazioni presuntuose.

Poiché su questi quadri appaiono parecchi pezzi da parata, essi sono quasi sempre di provenienza e di epoche diverse, ciò che dimostra in maniera evidente come tali servizi venissero riuniti poco per volta, e come le successive generazioni avessero cura di arricchire il prezioso patrimonio.

In ogni caso i nostri contemporanei possono convincersi, da questi dipinti, che non è poi necessario essere "più realisti del re" e che, senza sentirsi sminuiti nell'amor proprio, possono tranquillamente considerare con una certa larghezza di vedute la formula del servizio completo d'argenteria, incontestabile prova di opulenza nei regali in occasione dei bei matrimoni, anche se i vari pezzi non sono per forza "tutti uguali".

D'altra parte, sulla scorta di questi documenti, mi è stato possibile dedicarmi a ricostruzioni davvero appassionanti: così ho esposto il servizio di toeletta del duca di Cadaval, disponendone i vari capi nella stessa armonia che ci viene presentata dell'Aved nel quadro con La signora di Bacquencourt alla toeletta. Gli oggetti d'argento sono posti su un ampio ripiano adorno di pizzi; a questo proposito, è importante notare che mai, in nessuna raffigurazione, si vede una dama di classe dinanzi a quella che si è convenuto di chiamare pettiniera. Ne deduco che questo mobiletto doveva servire come accessorio per il tavolino da toeletta, a meno che non trovasse posto nelle stanze degli ospiti.

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Pagina 81

A Lisbona feci conoscenza di un vecchio antiquario; aveva una bella casa antica arredata con raffinatezza.

Fu ben felice di raccontarmi la storia del suo rapido successo:

«Per venti anni, mentre aspettavo in negozio i clienti che non venivano, ero andato alla ricerca dell'idea geniale che mi facesse raggiungere la fortuna. Lo sa come me, giovanotto, quanto sia desolante aver la convinzione di possedere buoni pezzi e dover costatare lo scarso entusiasmo dei rari visitatori che entrano in bottega non sapendo che cosa fare di meglio, o per sollecitare un'informazione. Ora, un giorno, un lampo m'illumina la mente; osservando con attenzione un piatto Compagnia delle Indie, uno degli oggetti che più abbondavano nel mio negozio, feci una scoperta sensazionale: per un caso fortunato, il filetto intero della decorazione era costituito di tredici stelline d'oro. Tredici stelle! Era stato il primo emblema americano al tempo in cui le tredici colonie s'erano trasformate nei primi tredici Stati dell'Unione. Senza affannarsi, acquistai tutti gli esemplari recanti quel magico ornamento, e qualche anno più tardi partivo alla conquista dell'America.

Subito dopo l'arrivo esposi in una vetrina dieci dei piatti con questa sola scritta: "Piatti della Compagnia delle Indie a tredici stelle, metà del '700. Dollari 10 cadauno". Nessun imbroglio, come vede. Ebbene, avevo venduto ogni cosa prima di sera, e nei giorni seguenti il successo non fece che aumentare. Di fronte a quel rush, ebbi naturalmente la reazione esatta: interruppi la vendita e avvertii gli interessati che avrei tentato di farmene mandare altri dello stesso modello.

Entro un anno, non solo avevo esaurito ogni giacenza, ma a ogni ripresa delle vendite - battezzate come un "nuovo arrivo" - il prezzo saliva, per giungere da ultimo a cinquanta dollari il piatto. Ecco qua, giovanotto: nel nostro mestiere tutto consiste nell'avere un'idea e nel saperla metter in pratica».


Al tempo in cui il mio caro amico Carle Dreyfus era il Conservatore del Louvre, gli avevo procurato un ebanista di classe per restaurare certi mobili del museo.

Come ogni restauratore, Hatfield era spesso incline a mettere in dubbio l'epoca di un oggetto.

Un giorno viene tirato fuori dal deposito del museo un armadio di Boule; io sopraggiungo in quel momento, e lascio credere all'ebanista d'aver appena acquistato il mobile. Il restauratore lo esamina e sostiene che è fabbricato nell'800; oppongo soltanto qualche debole protesta. In quella arriva Carle Dreyfus che gli mostra le marche corrispondenti all'inventario regio eseguito sotto Luigi XV.

Hatfield non riusciva più a capacitarsi.


Durante uno dei miei soggiorni a Lisbona un mediatore spagnolo mi condusse a Santiago de Compostela, dove - mi assicurava - erano in vendita, nella cattedrale, due tappeti Savonnerie. Infatti il sagrestano mi mostrò nel cortile della canonica, sotto una luce splendida, due tappeti a fondo nero con i grandi stemmi di Luigi XIV: si trattava semplicemente dei due esemplari offerti dal Re Sole in occasione della conferenza all'isola dei Fagiani.

Quello spagnoletto si dichiarava autorizzato a condurre l'operazione, ma richiese un prezzo talmente ridicolo da farmi insospettire. Pretesi allora, per concludere l'acquisto, di ottenere dal Capitolo una ricevuta in piena regola; a quel tempo non conoscevo lo spagnolo, ma i gesti e le reticenze di quell'uomo mi sembrarono così loschi che non mi lasciai tentare da un affare tanto vantaggioso.

In seguito venni a sapere che tre mesi dopo, in punto di morte, il sagrestano aveva confessato d'aver fatto sparire gli storici tappeti, sostituendoli con altri moderni delle stesse dimensioni.

Nondimeno i tappeti di Luigi XIV sono rientrati in Francia, acquistati da certi miei colleghi che furono tanto fortunati da scoprire il mezzo di pagarli a chi di dovere. Però dieci volte più cari.


Nel 1935 il nostro mediatore Alfred Coureau era diventato il direttore della Rosenberg & Helft, la galleria che avevamo aperto a Londra. Durante le esposizioni, confondeva sempre Pissarro con Picasso.

Un giorno, mostrando a un visitatore un quadro del primo dei due artisti, dichiarò:

«Non è un bel Picasso davvero, quello?»

«Si,» gli fu risposto «ma dev'essere della prima maniera.»


In quella stessa galleria era in corso una mostra dedicata a Cézanne. Entra Bernard Shaw. Durante la visita gli chiedo le sue impressioni:

«Ba',» risponde «confesso di non capirne niente. Non avrebbe qualcosa di meno brutale da mostrarmi?»

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Pagina 120

La contessa di Béhague aveva un istinto innato per le cose belle: tutti i mercoledì, giungendo da noi, appariva attratta come un innamorato dall'oggetto più raro e più prezioso; e molte volte sono giunto troppo tardi a un buon indirizzo indicatomi: essa era già là, trionfante del bel tiro che aveva potuto giocarmi.

Un giorno, però, non si risolse a comperare l'oggetto della sua scoperta...


Era il 1935, e quell'anno, d'accordo coi colleghi, avevo organizzato un concorso di vetrine nel tentativo di far uscire il nostro commercio dal torpore in cui l'aveva costretto la crisi economica. L'allestimento più riuscito fu quello di via Penthièvre 38: Gilbert Lévy, proprietario del magazzino, vi aveva realizzato un vero capolavoro di buongusto. Il tema era: "Un negozio d'antiquario nel 1880", ed egli, gran specialista in fatto di porcellane e disegni francesi, con l'aiuto della moglie, una donna molto acuta, aveva saputo rendere con felici accostamenti il vero sapore di un insieme di anticaglie dell'epoca. Così, in un piatto per antipasti di Sèvres rosa, d'insigne rarità, appariva un'assortita scelta di bottoni militari; in un angolo, bastoni da passeggio e ombrelli erano contenuti in un vaso cinese a fondo nero, un esemplare unico; il famoso magot di porcellana di Chantilly, decorato alla coreana, della raccolta Fitz-Henry adocchiava, col suo sorriso beato, uno zuavo pure di porcellana seduto su un cannone dei tempi della battaglia di Solferino; il tutto era opportunamente adorno di pizzi e sommessamente illuminato dalla tenue luce di una lampada a gas ricoperta da un ineffabile paralume di mussolina verde.

La contessa Béhague si arresta dinanzi alla vetrina; col suo fiuto ha già scoperto, alla prima occhiata, due guazzi del Fragonard, L'amore e La pazzia, appesi con noncuranza, per mezzo di mollette da bucato tra alcuni assegnati e qualche riproduzione di figurini femminili.

Esita a entrare perché mi ha ripetuto spesso di non voler comperare nulla in quel negozio, dove i prezzi le paiono eccessivi; ma la tentazione è troppo forte: forse Lévy non conosce il gran valore di quei Fragonard, la cui provenienza può essere delineata sin dall'origine. Varca la soglia, ed Eugénie, la graziosa consorte di Gilbert, finge di non riconoscerla.

«Quanto costa quell'ombrello?» domanda la contessa.

«Sei franchi.»

«E quel bottone di agata?»

«Diciotto franchi.»

«E quella veduta del Pont-Neuf?»

«Dodici franchi.»

Da ultimo, indicando distrattamente i due guazzi:

«E questi?»

«Cinquecentosettantacinquemila franchi.»

Cinque minuti dopo, esilarata, la contessa mi raccontava l'avventura.


Quando l'hanno voluto sapere, non ho mai celato ai clienti affezionati il prezzo di costo.

D. David-Weill, il gran benefattore dei musei francesi, per il quale professavo una sincera venerazione, apprezzava molto questa sincerità; e certe volte ho avuto modo di rallegrarmi per avergli detto che l'esemplare vendutogli ad alto prezzo mi lasciava un margine di guadagno considerevole, visto che il giorno dopo qualche concorrente geloso si affrettava, senza esserne richiesto, a rivelargli quanto mi era costato; allora il mecenate, disgustato da tale assenza di correttezza professionale, pregava gentilmente l'indiscreto di non farsi mai più rivedere.

Oltre le numerose visite che gli facevo a Neuilly, David-Weill mi riceveva spesso in banca, e gli piaceva, fra una riunione e l'altra, ascoltare gli ultimi pettegolezzi dell'ambiente. Quando gli mostravo un oggetto, assicurandogli che era degno della sua raccolta, talvolta rispondeva: «Lo compero volentieri sebbene non me lo presenti quale pezzo unico, come fanno altri; però qualche sua scoperta lo era realmente».

Un giorno, tuttavia, mi rimproverò d'avergli venduto troppo caro un oggetto; si trattava del succhiatoio d'argento dell'ospizio di Reims, un esemplare del '400 di cui fece dono al museo del Louvre. Poco dopo, però, dovette rifiutare un'offerta ben più elevata da parte del direttore del South Kensington Museum.

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Pagina 157

Nel 1906 mio padre ricevette da Gauguin un paesaggio di Tahiti con l'incarico di venderglielo. Ignorandone il valore, lo mostrò a Louis Vauxcelles, e questi si affrettò a presentarlo al Luxembourg, l'allora Galleria di Arte Moderna; ma la commissione del museo rifiutò l'opera come indegna. Il celebre critico scrisse allora una lettera di protesta al direttore:

«Lei protegge gli artisti francesi appassionati di allegorie ormai fruste, di simbolismi di maniera, di mitologia, di scene medioevali. La storia di Francia viene saccheggiata da bravissima gente con intenzioni lodevoli ma che non sempre ha, se non il rispetto, almeno la coscienza del nostro passato nazionale. Quante Veneri anadiomeni sorgenti dall'onda saponosa! Quanti Napoleoni pensosi, in brache di daino, un braccio sotto la tunica a imitazione dell'attore Duquesne, la sera di Waterloo! Quanti cardinali beati, in atto di gustare – l'occhio che strizza maliziosamente – un sorso di Bénédictine! Senza dimenticare l'immancabile sguattarello che gioca a piè zoppo o a palline col ragazzotto dei telegrammi!»

Era più che giusto; ma mio padre dovette cercare un altro acquirente per il suo Gauguin.


Jeanne Samary, la brillante artista della Comédie-Française e autrice del grazioso libro Le ghiottonerie di Carlotta, era la discendente perfetta di Suzanne Brohant che, come lei, eccelse nelle parti di servetta. Alla sua morte, nel 1890, tra i famigliari incaricati di proteggere gli interessi delle due figlie minori, figuravano Henry Samary, un attore, e il fratello Georges, un grande antiquario nostro ottimo amico. La povera artista era stata effigiata da vari pittori, e naturalmente venne deciso di conservare questi dipinti, inapprezzabile patrimonio; però si convenne senza esitazioni di vendere un certo ritratto, un vero e proprio orrore firmato da uno sconosciuto. È il famoso Jeanne Samary del Renoir, acquistato per qualche centinaio di franchi dal celebre collezionista russo Morosof; e ci fu permesso di ammirarlo quando, debitamente assicurato per centosettantacinquemila dollari, il governo sovietico lo inviò a Parigi per l'Esposizione internazionale del 1937.

A dire il vero, antiquari e mercanti di quadri antichi, salvo rare eccezioni come Alexandre Rosenberg, padre di Paul e di Léonce, in quel tempo lasciarono il commercio della scuola impressionista a venditori specializzati. Anche i miei genitori erano ben sistemati con gli "avanguardisti" cugini o amici, come Salvator Mayer, Berthe Weill o Sagot; però, trovandosi a sbarcar bene il lunario, non ebbero cura di mettere anche questa freccia al loro arco.


Un viaggiatore inglese riferisce che nel 1873, durante una riunione di aborigeni australiani, mostrò i ritratti della regina Vittoria e del principe Alberto nel costume dell'incoronazione, per sentirne il parere. Quasi tutti rimasero in silenzio; due fra i più evoluti azzardarono una risposta:

«È un bastimento» disse il primo.

«È un canguro» disse il secondo.


Nel 1941 una delle più note gallerie di pittura organizzò una mostra-vendita nel museo di San Francisco, secondo una consuetudine abbastanza diffusa negli Stati Uniti.

Il programma, assai allettante, Da Ingres a Cézanne, aveva attirato per una settimana tutta la popolazione della città; poi, negli ultimi sette giorni, l'addetto alla mostra non aveva visto più nessuno. Tuttavia una signora osò entrare seguita da due ragazze, e, senza neppure munirsi di catalogo, percorrere rapidamente le sale; alla fine, prima di uscire, si fermò davanti all'ufficio dell'incaricato e gli disse:

«Complimenti, giovanotto. La sua produzione è molto buona, sono certa che lei arriverà lontano».

Sulla soglia, il gruppetto si arresta, e una delle ragazze venne a chiedere all'incaricato di concederle l'autografo. Allora, in una pagina del taccuino, egli firmò: «Da Ingres a Cézanne».


Come accade spesso, un cliente si tormentava:

«Quanto varrà domani questo oggetto?»

Il mio amico de Haan gli chiese:

«Hai fatto un buon pranzo ieri sera, no?... E che cosa vale oggi?»


Un antiquario tedesco trapiantatosi a New York mi diceva: «Ho provato col Luigi XV, e non va, ho provato col Luigi XVI, e non va. Finalmente ho capito, e vendo "Drecktorio!" [N.d.T. Da Direttorio e Dreck-torio, in tedesco "immondizia".]

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