Copertina
Autore Merete Pryds Helle
Titolo L'amore ai tempi della pietra
EdizioneScritturapura, Asti, 2012, Paprika 27 , pag. 232, cop.fle., dim. 15x21x1,4 cm , Isbn 978-88-89022-47-4
OriginaleHej menneske [2009]
TraduttoreBruno Berni
LettoreGiangiacomo Pisa, 2012
Classe narrativa danese , archeologia , antropologia , evoluzione
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Indice


1.  (Dove Edith ha circa 26 anni)
    Introduzione                                             18

2.  (Dove Edith ricorda la migrazione avvenuta quando
    aveva 11 Anni)
    Importanza di Göbekli Tepe per la formazione
    dell'identità sociale e delle metafore nel primo PPNA    26

3.  Domesticazione I                                         33

4.  Il rituale di Göbekli Tepe: un'analisi sociale           46

5.  La discussione archeologica                              49

6.  Le coppelle: un panorama                                 59

7.  Regole del matrimonio inviolabile,
    Shkârat Msaied 9032 a.C.                                 75

8.  I tabu                                                   79

9.  Le nozze                                                 80

10. L'astronomia                                             84

11. Il tempo                                                 87

12. Il visibile e l'invisibile, l'immagine del demone        92

13. La Narrazione del grano umano                            96

14. Mutazioni cromosomiche del grano
    nel passaggio da grano selvatico a domestico            113

15. Sviluppo tecnologico e utensili composti
    nel passaggio dal Natufiano al PPNA                     118

16. La rivoluzione dei prodotti secondari                   125

17. La rivoluzione delle bambine                            128

18. La teoria di Steven Mithen sulla fluidità cognitiva     143



 

 

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Pagina 1

Sudo tanto che quasi non riesco a stare ferma davanti all'animale. La salamandra azzurra rotea gli occhi e guarda a un tempo me, che le sto inginocchiata davanti, e il paesaggio roccioso che si apre verso il deserto di sabbia del Sahara. Ci sono 45 gradi, il cielo è azzurro Pepsi, non c'è un alito di vento. Indosso un paio di pantaloni da lavoro e una vecchia camicia a maniche lunghe di mio padre, e mi sono legata sui capelli e sul naso una sciarpa bianca ricamata. Un avvoltoio vola alto sopra di noi. Poi Abu Muhammad grida jallajalla e la salamandra mi guarda malinconica e scompare come un puffo che rotola in una cassa di sabbia. Mi alzo, faccio un cenno con la mano a Bo, che sta pronto accanto al teodolite, e prendo la stadia, un bastone dalla lunghezza stimata a quattro metri, la metto sopra un gigantesco fallo di pietra nera che Bo ha appena dissotterrato, e cerco di tenerglielo dritto. Il bastone.


Mi trovo in una fossa dove sono già stata parecchie volte e mi sento a mio agio. È nel deserto giordano, a venti chilometri dall'attrazione turistica di Petra, costruita duemila anni fa da certi geniali e innovativi ingegneri del deserto e nota soprattutto per il film di Indiana Jones Il tempio maledetto. Per quanto mi riguarda conobbi Petra da ragazza quando lessi Appuntamento con la morte di Agatha Christie, dove i turisti vivono in una tenda dentro la città di pietra. Ma Petra è una bazzecola moderna in confronto alle rovine fra le quali mi trovo.

La fossa è stata scavata fino a un paio di metri di profondità nel deserto roccioso e contiene un intero villaggio dell'età della pietra, che ha fra i sette e gli ottomila anni. È la sesta volta che partecipo agli scavi dell'Istituto Carsten Niebuhr in questo villaggio, Shkârat Msaied, e forse è l'ultima. Un po' perché 'ormai i soldi del Fondo Carsberg sono quasi finiti, un po' perché sto scrivendo la mia tesi, che ha il titolo provvisorio di La morte alata e tratterà delle ossa di uccelli rapaci che sono state trovate sul posto e di come sembrano essere state usate. Per esempio troviamo molte più ossa di ali dei grandi uccelli che ossa del petto e delle zampe, il che sta a indicare che gli animali sono stati uccisi e mangiati fuori dal villaggio e le grandi ali piumate sono state riportate indietro in un secondo momento e usate come ornamento.

Nei primi anni, quando dovevamo scavare la fossa, spaccavamo la crosta di terra incredibilmente dura con dei grandi picconi, finché non siamo arrivati a una profondità di sessanta centimetri, dove affioravano i primi muri di pietre. La sera le braccia e le spalle mi sembravano trasformate in dura terra del deserto, e le notti che dormivamo in città prendevo un taxi a un dollaro fino al centro di Wadi Musa, dopo potevo andare nell' hammam e farmi massaggiare dai giovani arabi che mi sorprendevano per la professionalità e la calma che mantenevano mentre stavo lì cosparsa di schiuma con le loro mani sul mio corpo coperto solo da un bikini. Infine accettai l'idea che non capirò mai gli uomini in generale e gli arabi in particolare.

Nello strato superiore di terra c'erano molti frammenti di vasellame, i rifiuti dei nabatei, la popolazione di Petra, e dei romani, dei commercianti, dei beduini che da allora hanno utilizzato il luogo. Perché oggi come allora, ottomila anni fa, il villaggio è in buona posizione quando all'una il vento si alza e rende sopportabile il calore del deserto.

Abitavamo nelle tende da beduini intorno agli scavi e la sera stavamo sdraiati con le lampade tascabili accese e contavamo i grassi scorpioni bianchi che si dondolavano nelle zanzariere. È come scegliere fra la peste e il tifo: le reti attirano i mostri velenosi che adorano arrampicarsi, ma allo stesso tempo li tengono lontani dal corpo. Stamattina, quando siamo arrivati col pickup, perché ora il professore partecipa agli scavi e così dormiamo in albergo ogni notte, Mahmoud mi ha mostrato un grande scorpione grasso che aveva catturato in una bottiglia. Bianco come un osso di asino. Lo aveva morso al tallone.

"Bedouin no problem", mi ha detto ridendo dell'espressione del mio volto. Il deserto è duro. Tutto si difende, è velenoso, ostile, e punge. No problem. Solo che io non sono un beduino.

[...]

Quando infine il disegno è terminato, stacchiamo con cautela la pietra superiore dai bordi e la solleviamo. Si rivela spessa cinque centimetri e pesante. Per alzarla dobbiamo farci aiutare da Mahmoud e Muhammad, che vanno in giro spingendo carriole di terra fuori dalla buca, e sono contenti di cambiare un po'. Mahmoud ha solo vent'anni, dieci meno di me, ma flirta sempre, e non senza effetto. È bello, a parte i suoi denti marroni mezzi marci. Muhammad è il figlio più grande di Abu Muhammad, ci ho messo due anni a capire che è per questo che il padre si chiama Abu Muhammad, ed è alto e imponente come suo padre, con uno sguardo lontano e sognatore, ma un lavoratore estremamente produttivo. Ho rispetto per quella famiglia, perché mandano all'università il più intelligente dei figli, anche se è una femmina. Insieme solleviamo la pietra e la spostiamo sul pavimento. Sotto la pietra c'è un triangolo di sottili lastre e nel triangolo c'è uno scheletro di bambino. Il figlio di Edith. Un cranio sottilissimo che si sbriciola a passargli sopra il pennello. Marie Louise mi mostra che la sutura non si è chiusa. Perciò il bambino è morto prima dei due anni. Ci sono delle minuscole ossa di dita, una colonna vertebrale arcuata. Ho voglia di piangere. Gli altri vengono a vedere, gli operai per primi, Muhammad ha l'aria triste e mi posa la mano sul braccio, poi arrivano Bo, Charlott, Ingolf e gli altri studenti, Anne Mette, Aiysha e Mikkel. Osserviamo il piccolo corpo, Ingolf va a prendere la macchina fotografica e noi stiamo lì con delle coperte pesanti e cerchiamo di tenere lontano il sole forte, di creare un attimo di ombra per la fotografia. Poi gli altri tornano alle loro case mentre noi portiamo alla luce lo scheletro con pennelli e cucchiaini. Quando abbiamo tirato su il piccolo cranio, e io l'ho preso in mano – la tenera carne è completamente scomparsa – cominciamo a riordinare le ossa del bambino. Forse avrei dovuto dare ascolto a me stessa già lì, fra sacchetti di plastica con le dita dei piedi, un fragile cranio e i denti marci, e tornare subito nella piovosa Danimarca, nel mio appartamento, da te, Taiko.

[...]

Per me va bene. Decido di farmi forza. Sono uscita dalla presa mortale dello scorpione e devo sfruttare la luce e l'inatteso riposo per qualcosa di sensato mentre aspetto il tuo arrivo. Mi siedo sul letto col portatile in grembo, una bottiglia di Coca Cola e due Bounty. Poi apro sul portatile il file della mia tesi. La morte alata. Una descrizione della vita a Shkârat Msaied nel PPNA/PPNB.

Devo scrivere del villaggio che stiamo portando alla luce, di come era otto o diecimila anni fa. Siamo in Giordania, nel cosiddetto Vicino Oriente, proprio nel momento di transizione fra quando i popoli erano cacciatori e raccoglitori e quando divennero agricoltori stanziali. È qui che l'uomo, per la prima volta, mostra il suo carattere e invece di adattarsi alla natura comincia a modificarla in modo che si adatti a lui. Il nuovo modo di vivere si diffonde fulmineamente in tutta la mezzaluna fertile, su una punta della quale ci troviamo noi adesso, mentre l'altra punta è in Turchia. Devo tenere duro, attenermi ai fatti. Così posso mantenere me stessa nel mondo reale. I fatti sono una buona cosa. Niente storie, solo descrizione degli oggetti materiali, niente interpretazioni. Io sono proprio così. Ingolf sarà fiero di me.

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Pagina 18

Capitolo 1

(Dove Edith ha circa 26 arazzi)

Introduzione


Edith è seduta sulla roccia scaldata dal sole fra due stranieri quasi nudi e si gode il calore che si attenua. Il cielo si arrossa, come se fosse percorso da una gazzella sanguinante che scivola sul fango del crepuscolo. Edith ha nel palmo della mano alcuni granelli e li guarda.

"Sono solo semi", dice.

"Non sono come quelli che conosci", dice uno degli stranieri. È un uomo alto e dinoccolato, quando cammina sembra spinto avanti dal vento. Ha due code di leopardo annodate alla vita e una collana di denti di squalo. Fra i capelli ricci sono infilate delle lunghe piume d'aquila, ha braccia e gambe coperti di tatuaggi geometrici. Si è presentato come Aquila, il suo compagno come Verde, e così è chiaro che tipo di gente sono, per chi non lo ha già indovinato dalle numerose borse di pelle che portano alla cintura e sulle spalle. Gente che va in giro senza famiglia né clan, gente che pratica il baratto per tirare avanti e conosce il valore delle cose. Gente al cui arrivo gli abitanti del villaggio sono contenti, ma sono anche contenti quando se ne vanno e li salutano con la mano mentre accarezzano i nuovi gioielli o le armi. Uomini che conoscono sempre le novità, pieni di storie sulle vicende nel vasto mondo.

"Piantarli", ripete Edith. "Che cosa hanno di speciale?"

"Danno un raccolto maggiore", spiega Verde. È più piccolo di Aquila e porta delle lunghe collane di turchesi che gli pendono dal collo. Ha due topi bianchi nei capelli e sui lombi un pezzo di lino verde intessuto.

"La spiga non si apre durante la mietitura. Questo rende più facile mietere e più facile battere. E ha un sapore migliore".

Edith fa scivolare di nuovo i semi nel sacchetto di pelle di Verde, uno dopo l'altro.

"Come posso essere sicura che ciò che dite è vero?" chiede abbassando lo sguardo sul villaggio rotondo coricato su una piana sotto la rupe dove sono seduti. int 3

(Pre Pottery Neolithic A/B, abbreviato in PPN A/B. Si trovano stoviglie, contenitori e figure di argilla cotte nel fuoco, ma poca ceramica. Il periodo è caratterizzato dal cosiddetto addomesticamento, ovvero il processo con cui vengono rese domestiche specie vegetali e animali e costruite abitazioni.)


Edith vede i bambini del villaggio, sette in tutto, che saltellano lungo il corso d'acqua, in fila come rane, finché uno cade. Le donne sul piazzale davanti alle abitazioni tengono d'occhio la carne di gazzella sul fuoco mentre, accovacciate, fanno dei fori nelle piccole pietre verdi che scambieranno con Verde e Aquila. Gli uomini sono seduti in circolo e parlano in modo concitato, apparentemente di un uomo anziano sdraiato su una stuoia fuori dal circolo. Edith ha partorito due figli e così il peggio è passato.

[...]

"Cosa volete allora per i vostri semi?" dice lei.

Ora le cose si fanno più complicate.

Verde e Aquila potrebbero chiedere collane di perle verdi, da barattare sulla costa per un buon prezzo. Potrebbero chiedere corna di gazzella o carne, oppure ossa affilate dei grandi uri o aghi d'osso e abiti di pelle. Potrebbero chiedere asce di selce o punte, che sono apprezzate più all'interno del deserto, dove la qualità della selce è peggiore. Potrebbero chiedere i raffinati gioielli di madreperla di Stane o i bracciali di pietra di Ishi. Avrebbero potuto anche chiedere del tempo con una delle donne o un bambino come assistente e compagnia, magari un bambino che aveva difficoltà con la stretta convivenza del villaggio. Dio li fa e poi li accoppia. Ma i due mercanti sono persone moderne, ciò che desiderano è partecipare alla più alta esperienza collettiva che la civiltà possa offrire, nella quale il singolo si sente come una goccia di sangue in un organismo più grande. Verde e Aquila non hanno un clan, quello in cui sono nati lo hanno abbandonato e nella stessa occasione hanno assunto i loro nomi da vagabondi. E senza un legame di appartenenza a un clan non possono partecipare al grande incontro del solstizio, a cinquecento chilometri a nordovest, che ogni dieci estati raccoglie il mondo e sospende il tempo, risucchia la gente nell'ombelico del tempo, in modo che sanno cosa c'è dall'altra parte, dentro il corpo del tempo. È questo che Verde e Aquila desiderano. Non è ciò che vogliamo tutti?

Edith ascolta il desiderio dei due uomini. Se li immagina camminare da soli fra i bassi pistacchi e i mandorli, vede i branchi di gazzelle, sente il rumore di passi sulla terra pietrosa, nel silenzio assordante che si alza sulle rupi e sul deserto. Anche lei cammina, ha due vite che cambiano con le stagioni. Nella parte più calda dell'anno è ogni giorno in un posto nuovo. In quella più fresca dorme ogni notte nella sua casa rotonda, rotonda come le case di giunchi erette in fretta, che costruiscono d'estate quando camminano. La forma delle case è innanzitutto pratica, ma diventa anche un rapporto fra corpo, pensiero e ambiente, e a poco a poco tutto il mondo sembra rotondo. La casa è solo una versione più piccola della casa del cielo.

Dice che parlerà con gli altri. Poi vedranno.

Quella notte Verde e Aquila dormono nella casa di Edith. Srotolano le loro stuoie intrecciate sul pavimento bianco appena spazzato, mentre Edith e i bambini dormono da Tas, l'uomo che lei chiama suo. Prima di dormire lei e Tas parlano a lungo del desiderio dei due uomini in cambio delle sementi che hanno appassionato i pensieri di Edith. Lei vuole quei chicchi, immagina già le spighe che si muovono al vento, grandi e grasse, senza che l'aria porti via i chicchi. Gli steli sono alti come la casa, nella sua mente, ogni spiga è grande come la sua testa, può allungare la mano e coglierla come una noce e mangiarla, grande e tonda. Sì, non il pane, perché quel concetto non esiste nella coscienza di Edith, e le pagnotte che mangerà quando sarà una donna anziana e onorata saranno piatte e sapranno di fumo, ma immagina la spiga come una gigantesca mandorla. Tas vede il suo entusiasmo e si chiede se alla richiesta dei due uomini sia possibile dare una risposta positiva.

Edith, Tas e i loro clan appartengono ai gruppi che hanno accesso ai centri rituali che diffondono energia e raccolgono tutto il mondo conosciuto. Il mondo conosciuto è un'area di circa 180.000 chilometri quadrati. Il più grande centro rituale, quello verso il quale tutti i clan fra pochi mesi si muoveranno, si trova nell'attuale Turchia, nel Kurdistan, in un luogo che ancora oggi significa se non l'ombelico del mondo, almeno l'ombelico della collina, ovvero Göbekli Tepe.

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Pagina 26

Capitolo 2

(Dove Edith ricorda la migrazione avvenuta quando aveva 11 anni.)

Importanza di Göbekli Tepe per la formazione dell'identità sociale e delle metafore nel primo PPNA


Si può paragonare l'importanza di Göbekli Tepe a quella che più tardi avrebbero avuto il Vaticano o la Mecca, i cui anelli non si allargano come cerchi nell'acqua sulle zone circostanti, ma la cui influenza è una costante capace di muoversi fra diversi luoghi senza perdere energia, potere e significato per le persone che vi si affidano. Non è un problema di centro e periferia, ma piuttosto una specie di "il centro esiste e può essere portato ovunque".

Quando si è parte del significato creato dal centro, si è importanti come il centro. Il centro forse è un luogo, e il luogo è sacro ma non indivisibile. Il centro cerca di tenere il controllo del tempo, perché il tempo è sempre stato un problema per l'essere umano. Noi viviamo nel tempo, ma siamo anche al di fuori di esso. È come se la nostra coscienza fosse organizzata in modo tale che, da un lato, è in grado di osservare il tempo esteriore, dall'altro, percepisce se stessa come immutabile. E dov'è il tempo quando noi non ci siamo, e viceversa dove siamo noi quando il tempo non c'è? Nel nostro cervello, che pure è organizzato ingegnosamente, manca un componente in grado di fornire una risposta, e sicuramente è per questo che nasce il bisogno di fermare almeno per un istante il tempo che scorre ingovernabile, e sottometterlo alla percezione che la coscienza ha dell'immobilità.

Il tempo ha le ali, è una ruota, una clessidra di sabbia, la striscia d'ombra di uno gnomone, un orologio da polso Gucci. Già all'epoca di Edith si aveva la sensazione di poter dominare il tempo compiendo le stesse azioni esattamente nello stesso momento ogni dieci anni. Quel giorno diventava allora una scala a chiocciola nel bel mezzo dell'uragano del tempo, una scala che si poteva salire o scendere, indipendentemente dal tempo che intorno turbinava e ululava. Si poteva incontrare se stessi nel passato, incontrare parenti defunti e fermarsi, e sapere: ora siamo qui, con questi morti e questi vivi. E poi continuare a vivere fino allo stesso punto dieci anni dopo. È esattamente lo stesso motivo per cui esistono il Natale e l'Eid, la festa del Sacrificio. Ed è esattamente a quella silenziosa scala nell'occhio dell'uragano del tempo, che Verde e Aquila vogliono avere accesso.


Edith giace sveglia al fianco di Tas, che dorme con la mano su uno dei suoi seni. Ricorda la prima volta che andò a Göbekli Tepe. L'avevano portata lì quando era una neonata, poi erano passate dieci estati e ormai aveva undici anni e doveva percorrere di nuovo quei cinquecento chilometri.

Posso fare alcuni nomi di luoghi che attraverserà, nomi che a Edith non dicono niente: Giordania, Israele, Libano, Siria, Turchia. Grandi stati, identità nazionali, ambasciate e mercanti d'armi, lingue e alfabeti. Questo è uno dei livelli.

Un altro livello potrebbe chiamarsi Petra, Amman, Damasco, Beirut e Konya, Ankara, [...]

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Capitolo 5

La discussione archeologica


Nella discussione archeologica c'è spesso la problematica dell'uovo e della gallina. Cosa arrivò prima, la fluidità del pensiero o la lingua? Cosa arrivò prima, l'agricoltura o l'insediamento? Per molto tempo gli archeologi hanno pensato che il villaggio fosse nato da una diminuzione dell'irrequietezza dei nomadi, e che il villaggio in seguito abbia dato occasione all'agricoltura, perché è nel villaggio che si trova l'agricoltura. Si pensava che poiché tante persone vivevano nello stesso luogo per molto tempo, fosse più facile per loro cominciare a coltivare piante. Un po' perché stavano nello stesso luogo nel periodo che andava dalla semina al raccolto, un po' perché le donne e i bambini sicuramente si annoiavano, e così gli venne in mente di seminare e selezionare. L'orientamento generale degli archeologi è che sia più difficile essere stanziali piuttosto che nomadi, che la vita sedentaria e a stretto contatto sia causa di conflitti, e la gente trovi soluzioni per superare il problema sociale. Di rado vivere a stretto contatto viene considerato socialmente liberatorio. Io invece penso che lo sia.

Alla fine degli anni novanta, quando si cominciò a capire cosa stava davvero spuntando dall'arida terra dorata di Göbekli Tepe in mezzo a un agitato Kurdistan, e arrivarono i primi rapporti col C14, l'immagine cambiò. Perché qui, molto prima che la gente cominciasse a vivere nei villaggi, quando erano ancora cacciatori, ancora raccoglitori, ancora nomadi con tende di qualche tipo, c'era un gigantesco centro rituale che, oltre ad essere costruito in base a un modo di pensare religioso o ideologico, aveva richiesto una collaborazione enorme ed efficiente per erigere i giganteschi cerchi di pietra. Le statue di pietra centrali sono alte circa quattro metri e intorno ci sono otto figure di pietra un po' più basse, dai tre metri ai tre metri e mezzo. Si stima che ci siano volute circa cinquecento persone per scolpire e trasportare gli enormi colossi di pietra. Il lavoro è stato distribuito: chi scolpisce non può procurare allo stesso tempo da mangiare. Alcuni lavorano a erigere un colosso, altri vi incidono sopra delicati rilievi, altri provvedono agli utensili, ai tronchi per i rulli che serviranno a spostare le pietre, altri ancora procurano il cibo. Alcuni forse vengono scelti, o scelgono da soli, per rimanere sul posto fino alla volta successiva in cui bisognerà erigere un nuovo circolo, o fin quando non verrà svolto il successivo rituale. Rimangono e hanno cura di spiriti, demoni, pietre. E forse questo attribuisce loro particolari competenze la volta successiva che si dovrà svolgere il rituale. E non lontano di lì viene trovato il primo grano che mostra segni di selezione guidata.

Perciò ora ci si chiede se l'uovo non sia una gallina. Se quell'enorme raduno di persone, forse mai visto prima, e soprattutto la loro collaborazione, abbia portato a cambiamenti nel modo di osservare l'esistenza. Se dopo quell'esperienza comune abbiano avuto voglia di abitare insieme in modo più stabile e abbiano visto nel grano che era stato introdotto una possibilità per stabilirsi in maniera più permanente. Se dopo il grande rituale collettivo abbiano cominciato e vedere se stessi come qualcosa di diverso dagli animali e dalle piante che li circondano.

Le scelte fatte allora, nel PPNA e PPNB, hanno avuto conseguenze molto ampie. Se Edith e gli altri non avessero cominciato l'agricoltura, io non sarei stata qui in una stanza d'albergo con i rumori della piscina sullo sfondo, mentre il medico mi tiene fermo il polso e mi pratica diverse iniezioni, e non avrei avuto quella scodella di riso con la carne che mi ha portato Marie Louise. È rimasta a lungo sulla porta a osservare la mia gamba tricheco. "Hai ancora paura?" mi ha chiesto. "No", ho risposto io, ma le ho letto in faccia che sapeva che mentivo. E accettava la bugia come una parte della paura.

Senza quelle scelte non avremmo avuto pane, uova, maiali, mucche, qualsiasi altra cosa, il cavallo marrone che sta incatenato al suo albero sulla collina fuori dall'albergo.

In ogni caso, così tante persone riunite in un luogo come Göbekli Tepe devono significare che potevano essere raccontate delle storie. Scambiate delle idee. Certi racconti diffondono azioni come un soffione diffonde i semi. È un caso se uno dei due colossi di pietra più grandi di Göbekli Tepe, che si erge con dignità in mezzo a un circolo di pietre, ha come collana il rilievo di un cranio di toro, e l'altro qualcosa che potrebbe essere un sole e una luna o forse dei semi di piante? Forse il sole e la luna sono grandi semi seminati nella terra del cielo, e il ritmo del cielo è quello che fa germogliare le piante.

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Pagina 80

Capitolo 9

Le nozze


Tutti i peli vengono strappati con del miele indurito. Il dolore è una strada che porta all'amore, Edith e Aloë percorrono quella strada, sono calve, le donne mettono loro in testa delle parrucche di piume, la loro pelle lucida viene spalmata di ocra e olio, scintillanti come scarafaggi stanno lì in piedi sul sentiero di roccia, stanche, e aspettano. Le due ragazze devono andare da sole a Beidha, dove Kamek le aspetta con i due giovani che ha scelto e che stanno sdraiati nel ruscello a lasciarsi lavare dall'acqua prima di essere spalmati di olio e cenere e prima che il loro membro venga legato in un corno di toro.

Forse l'amore esiste prima dell'amato, l'amore è una condizione, una vasca di olio grasso che dondola fra i giorni e ogni tanto, nei momenti più fortunati, trova un occhio, un corpo sul quale riversarsi, si chiama sesso, si chiama nostalgia, peso, svegliarsi al mattino, e Taiko, i tuoi capelli, la tua schiena o il rumore dei tuoi passi sulle scale, e il mio cuore batte, un animale corre via dentro di me, e anche dentro Edith, che non sa che cosa sia l'animale che le batte dentro, non sa se potrà battere per colui che incontrerà quella stessa sera e che forse ha già visto in passato. Conosce di vista i giovani di Beidha, ma di rado ha parlato con loro e sa solo che l'animale batte e la trascina via. Aloë cammina seria, lentamente, in modo che le piume non le cadano dalla testa, e dice: quello che mio zio sceglierà è mio, è il mio sangue, come può essere diverso? Lei non sa, Edith non sa, che l'amore, o forse piuttosto il matrimonio, può essere diverso.

Tu non vuoi sposarti con me, dici, non prima di qualcosa che non capisco mai bene, ma abitiamo insieme, vieni dentro di me una notte dopo l'altra, il mio io sale attraverso le nubi dell'orgasmo, verso l'alto, verso l'esterno, e cado giù come argento vivo sul tuo corpo, e quando veniamo insieme svieni e cadi pesantemente su di me, e io rido e ti spingo via con le mani per non essere schiacciata dal tuo corpo, e l'amore è anche quando piango ed entro nella stanza e non ho il coraggio di uscire e tu stai un po' lì fuori, poi sbatti la porta e io sono arrabbiata, ma ancora non posso uscire e poco dopo apri di nuovo la porta e posi una scatola di cioccolatini sul pavimento del soggiorno, così sono costretta ad andare fin lì per prenderla, e tu non ti arrabbi del mio disordine, della mia agitazione, della mia apatia nei confronti dei rubinetti che perdono, dei modem che non funzionano, dell'installazione di innumerevoli unità di programma, e penso: deve essere amore, perché altrimenti non si spiega che tu non te ne sia andato da un pezzo. Perché allora non ti credo? Forse vuoi lasciarmi ora, penso ogni giorno.

Non è verso quel genere di matrimonio che Edith sta andando, si tratta piuttosto di una comunione di sangue, l'inevitabile, prendere su di sé la propria esistenza come un mantello intessuto di convolvolo azzurro del deserto e dire: quell'uomo è mio, io sono sua; può innamorarsi o lasciar perdere, di lui o di un altro. Questo non cambierà mai il patto di sangue: non cambiare il respiro degli antenati che corre dietro il suo, aria fredda attraverso la gola, un'eco nei polmoni. Eco di sangue, il corpo di una tredicenne, la danza delle ovaie su pietre, rupi, ghiaia, singoli ciuffi d'erba. Le lucertole fuggono via, i serpenti sibilano sotto le pietre, i suoi seni sono morbidi animali con una vita propria, i seni vanno avanti, brancolano verso le mani, verso l'aria, verso il sole, e dall'altra parte del basso muro di pietre di Beidha aspettano Tas e suo fratello Kō, a un tempo arrabbiati, perché tocca a loro essere spinti fuori dal nido come parte della punizione collettiva, ma d'altro canto già eccitati, già nel pensiero con le mani sui corpi nudi e scintillanti di rosso delle ragazze, già responsabili, già oltre la soglia. La madre lega stretto intorno al loro sesso il corno di toro che punta verso il cielo dove un'aquila aleggia straordinaria, come se il loro membro fosse un topo che si nasconde dal rapace, e il corno di toro indica il sole che sembra un rosso d'uovo. Vengono spinti in mezzo al piazzale davanti alle case, dove gli altri scrutano il sentiero verso Shkârat Msaied. Gli altri del clan sono già arrivati, mancano solo le due ragazze, e nell'istante in cui le loro ombre cadono sul sentiero e si scorgono le piume, partono i tamburi. Non c'è più niente da aspettare, il tamburo è il sangue che martella, pulsa, ci sono flauti stridenti, donne che gridano, cominciano a muoversi in circolo intorno ai due giovani mentre arrivano le due ragazze. Edith e Aloë conoscono il gioco, loro devono entrare a forza nel circolo, tutti i corpi cercano di tenerle fuori, ma loro spingono finché non trovano l'elemento più debole della catena di carne ed entrano e cadono a terra davanti ai due giovani. Poi Edith lo vede. Erano un uomo per ciascuna, non è ancora deciso chi è per chi, ma Edith lo vede: i suoi occhi sono verdi, è tarchiato e muscoloso. Il suo volto è un lago completamente calmo in mezzo a un mare agitato. Edith guarda anche Kō, che è alto e ossuto e ride e già danza, poi guarda Aloë e sa che ora, in quell'istante, non sono più amiche, cugine, io ci sarò sempre per te, ma qualcos'altro, sono due donne che vogliono lo stesso uomo. La loro arma è la danza. La loro arma sono gli occhi, i piedi, il richiamo dei seni, il richiamo delle natiche, nessuna delle ragazze sapeva che i loro corpi erano in grado di parlare, che il corpo è sesso, un pezzo di brace ardente che ansima in cerca di ossigeno. Lo vedono anche i due giovani: non è un segreto, Tas ha sempre avuto ciò che voleva, e Kō gli svolazza dietro come una farfalla, e in realtà è indifferente: Kō ne avrà comunque una senza combattere, è la sua indifferenza a tirarlo con tanta sicurezza attraverso la vita. Edith non sa cosa sta facendo quando nella sua agitazione si getta a terra e allarga le gambe davanti a Tas mentre tutti nel circolo esultano. E Aloë, no, questo comunque non riesce a farlo, e Tas guarda Edith, il sesso che si apre e scintilla come l'interno di una conchiglia, e con un ruggito si getta su di lei mentre i tamburi rombano, e Kō guarda Aloë con un sorriso scemo, e lei si corica lentamente, e un paio di donne si avvicinano e slegano il corno di toro ai ragazzi, gli uomini graffiano loro la schiena con dei coltelli di selce, tre lunghi segni sul fianco destro. Il sangue scorre sulle ragazze mentre si uniscono, e poi ciascuna coppia piscia nella stessa scodella di legno e l'urina viene mescolata e gettata a terra, e così sono legati come un liquido, come atomi nella stessa sostanza gialla di sole.

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Capitolo 18

La teoria di Steven Mithen sulla fluidità cognitiva


Mi tiro su a sedere all'improvviso. Fuori è buio, sono stata molto lontana nei miei sogni. Sulla strada di fronte all'albergo passa un corteo nuziale, sparano in aria.

Dalla finestra della stanza di albergo a Parigi vedevamo la chioma di un castagno, verde e frusciante. Alle pareti c'era una tappezzeria fiorata di satin rosa antico. Io dimostravo il mio superiore controllo muscolare spingendo fuori uno alla volta i sette chicchi d'uva che mi avevi infilato nella vagina. Mentre tu andavi di teatro in teatro a guardare le luci, io me ne stavo a letto e leggevo The Prehistory of the Mind di Steven Mithen. È in quel libro che Mithen espone la sua teoria sul perché il paleolitico e il mesolitico diventano neolitico, perché avviene un cambiamento così radicale nella storia dell'umanità dopo i 500.000 lenti anni paleolitici in cui un'ascia di pietra era un'ascia di pietra e un chopper era un chopper.


Mithen ritiene che la coscienza cognitiva dei nostri antenati paleolitici fosse suddivisa in tre aree, o intelligenze, rigidamente separate e senza legami fra loro.


1. C'era l' intelligenza storico-naturale, nella quale si avevano conoscenze su animali e piante, sul loro comportamento e su quali piante e radici erano commestibili e quali avevano proprietà medicinali.


2. C'era l' intelligenza tecnica. Con quella si potevano valutare distanze e proporzioni e ricordarle. Si potevano costruire le asce di pietra e con quelle tagliare gli alberi, costruire chopper per spaccare le ossa in modo da poter succhiare il midollo, schiacciare fibre vegetali. I materiali che la gente usava nel paleolitico erano lievemente elaborati, ma si trattava del materiale che la natura metteva direttamente a disposizione. Pietra. Legno. Con quei due materiali si può scavare un tronco d'albero e navigare fino in Australia.


3. Poi c'era l' intelligenza sociale. I paleolitici vivevano riuniti in gruppi. Si accoppiavano (come facevamo noi quella volta a Parigi, chissà se anche allora chiudevano gli occhi, compenetrati dall'altro, sentendo di aver finalmente trovato la casa, che quell'altra persona li rendeva più se stessi, che era una scala da salire per arrivare in luoghi sconosciuti?), si spidocchiavano a vicenda. Secondo Mithen, che stavo leggendo mentre entravi dalla porta scuotendo l'ombrello e attaccando la macchina fotografica al tuo portatile, questa intelligenza sociale era altamente sviluppata. Nel gruppo paleolitico c'erano complicati rapporti sociali, c'erano tutte le competenze necessarie a conservare la specie. Ovvero che i bambini devono essere accuditi per un periodo esageratamente lungo in confronto agli altri mammiferi, perché devono essere partoriti con il cervello quasi non sviluppato affinché la grande testa del feto possa scivolare attraverso il canale del parto. In quel modo il racconto della Creazione nella genesi dice il vero. C'è un rapporto fra il pensiero cosciente dell'essere umano e il dolore del parto. Il bacino della donna è un compromesso nel rapporto fra la posizione eretta e la possibilità di spingere fuori il cervello dei bambini.


Tu facevi il bagno. Il castagno fuori dalla finestra dell'albergo si scosse di dosso la pioggia col vento. Ciò che Mithen ritiene che poi sia avvenuto fra i trenta e i quarantamila anni fa è che le tre intelligenze separate si fusero insieme e furono legate da qualcosa che lui chiama fluidità cognitiva. Vuol dire che le tre intelligenze mescolano diverse competenze, prima rigidamente separate, e l'uomo diventa capace di pensare concetti che l'uomo paleolitico non era in grado di concepire, e vuol dire che può sfruttare nella pratica questo modo di pensare.


Per esempio: i due domini intelligenza sociale e intelligenza storico-naturale si fondono. Così otteniamo quella che è nota come antropomorfizzazione o in linguaggio quotidiano disneyzzazione, in cui animali e piante vengono visti e vissuti come esseri umani. Tutte le ninfe dei boschi, il re dei mirtilli e Paperino.

Esiste anche l'esperienza opposta che diventa l'adorazione dei totem, in cui l'uomo viene visto come animale con caratteristiche animali. In questo modo Aquila è un'aquila, quello è il suo animale totemico, e lui possiede le caratteristiche dell'aquila.

Anche l' intelligenza sociale e l' intelligenza tecnica si fusero. La nostra immagine degli altri cambiò. Possiamo vedere gli altri come cose, come qualcosa che possiamo dominare e spostare a piacere. Come schiavi o nemici. Come altri. Questo è il motivo per cui può nascere un concetto come quello di pulizia etnica, gli animali non lo possiedono.

Come conseguenza di questa combinazione possiamo anche utilizzare oggetti nelle relazioni sociali con altri esseri umani. Non c'è bisogno che ci accontentiamo di spidocchiarci o grugnire amichevolmente per fare sesso, tu puoi uscire dal bagno e con un sorriso sornione avvicinarti alla tua borsa e tirare fuori un regalo avvolto in una carta rosa con intorno un nastro verde, e dentro c'è un kimono giapponese che ho sempre desiderato. E certo, ottieni il sesso, e naturalmente anche io, ma scambiamo qualcosa.


Quando l' intelligenza storico-naturale e l' intelligenza tecnica si fondono, nasce la possibilità di pensare strumenti che siano fatti di qualcosa di diverso da pietra e legno, la natura entra nel mondo della tecnica, per esempio con ossa, calce e argilla, che improvvisamente non sono solo natura, ma materiali. La natura diventa una cosa che può essere elaborata, calce e argilla possono essere cotte, il pesce può essere pescato con ami di ossa di uccello.


Quando tutti e tre i domini si fondono, nascono le basi dell'arte, della religione e della scienza. E mentre queste intelligenze vengono collegate nella nostra coscienza, la lingua interviene e le lega. La lingua appartiene all'intelligenza sociale, e ancora non conosciamo niente di meglio che parlare l'uno dell'altro e della nostra posizione nel gruppo. Anche quando parliamo di oggetti fisici abbiamo difficoltà a non parlarne come se potessero muoversi e avere una coscienza. La stampante si mangia la carta, il trattore sfugge al nostro controllo, la casa dell'infanzia contiene i ricordi, il sole getta la sua luce su di noi.

Steven Mithen paragona la coscienza paleolitica a un coltellino svizzero in cui le funzioni sono separate e possono essere estratte al bisogno. Quando invece vengono connesse dalla fluidità cognitiva, pensieri che scorrono in un mare di coscienza, possiamo inventare battute sugli animali che si comportano come esseri umani. Abbiamo l'arte, perché improvvisamente possiamo vedere una cosa come un'altra e abbiamo le capacità tecniche per realizzare le immagini interiori. Abbiamo la religione, perché l'intelligenza sociale si amplia al mondo naturale e lo popola di spirito. Tutto è parte del gruppo sociale, tutto ha un'anima, anche la pietra, la sorgente, il cielo sopra di noi.

Anche Edith comincia a pensare la natura da fuori, come una cosa staccata dalla sua coscienza, come un bambino cui deve badare, come un gigantesco strumento. La fluidità cognitiva è necessaria alle quattro condizioni che danno inizio alla società agricola:


1. La capacità di costruire strumenti di molti materiali diversi, che devono essere utilizzati per mietere e per lavorare le piante. Nasce dalla combinazione di intelligenza tecnica e storico-naturale.


2. La tendenza a usare animali e piante come mezzo per ottenere prestigio sociale e potere. È l'integrazione di intelligenza sociale e storico-naturale. È la pelle di leopardo sui fianchi, il dente di squalo al collo.


3. La capacità di sviluppare relazioni sociali con piante e animali, che somigliano alle relazioni reciproche fra gli uomini. È di nuovo la combinazione fra l'intelligenza sociale e quella storico-naturale. Gli animali devono essere considerati come una parte della comunità, prima di essere addomesticati. Il cane diventa il miglior amico dell'uomo, mia zia mi regalò un gattino dopo la morte di mia madre, era l'unico che conosceva i miei sentimenti.


4. Quando l'intelligenza tecnica e storico-naturale si fondono, abbiamo l'ultima capacità decisiva per diventare uomini moderni. Ovvero la possibilità di fare cose con gli animali e le piante. Non ci limitiamo a strapparli da terra o a colpirli al crepuscolo quando scendono per leccare il sale. Li mettiamo in un ovile e accoppiamo la pecora con il montone scelto da noi, mandiamo il veterinario con un contenitore congelato pieno di sperma di toro. Mio padre sperimenta con le rose in giardino. Lo sciamano si infila la pelle di aquila sulle mani e vola. È naturale pensare al robot quando è naturale pensare la natura come tecnica. E andiamo ancora oltre e non possiamo fare a meno di produrre il robot come una persona dotata di sentimenti.

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