Autore Agnes Heller
Titolo L'uomo del Rinascimento
SottotitoloLa rivoluzione umanista
EdizionePgreco, Milano, 2013 , pag. 676, cop.fle., dim. 13,8x21x4,5 cm , Isbn 978-88-6802-027-9
OriginaleA Reneszánsz Ember [1963]
LettoreGiangiacomo Pisa, 2015
Classe filosofia , storia moderna , storia medievale , citta': Firenze , paesi: Italia: 1500












 

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Indice


Introduzione                                                    1

    Esiste un ideale umano rinascimentale?


I. — LO SVILUPPO DISCONTINUO                                   39


II. — ANTICIHITΐ E TRADIZIONE EBRAICO-CRISTIANA                81

— La secolarizzazione, p. 89.
— Sguardo al passato, p. 127.
— Stoicismo ed epicureismo, p. 143.
— I principi filosofici fondamentali dell'impostazione
  stoico-epicurea dell'esistenza, p. 154
    (Finché viviamo, la morte non esiste, p. 154;
     Vivere secondo natura, p. 163;
     Gli dèi non s'intromettono nelle vicende terrene, p. 179).
— Alcuni tipi stoico-epicurei, p. 184
    (Il cortigiano, ovvero il precettore, p. 185;
     Il moralista e l'uomo politico, p. 188;
     L'uomo integro, p. 196).
— Ecce homo: Socrate e Gesù, p. 201.


III. — ETICA E VITA, OSSIA LE POSSIBILITΐ PRATICHE DELL'UOMO  213

— La vita quotidiana, p. 214
    (Il tempo come termine, p. 253;
     Il tempo come continuità, p. 266;
     Il tempo come ritmo, p. 271).
— Individualità, conoscenza degli uomini, autocoscienza,
  autobiografia, p. 289.
— Misura e bellezza: vincoli emotivi, p. 362.
— Etiche e valori, p. 416.
— Filosofia sociale, politica, utopismo, p. 490.
— Destino, fato, fortuna, p. 541.


IV. — ANTROPOLOGIA FILOSOFICA                                 553

— La natura e l'uomo, p. 555.
— Lavoro, scienza, «techne», arte, p. 581.
— La conoscenze; anima e corpo, p. 610.
— Quali sono le capacità dell'uomo?, p. 629.


Indice dei nomi                                               671


 

 

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Pagina 1

INTRODUZIONE
ESISTE UN IDEALE UMANO RINASCIMENTALE?



La coscienza del fatto che l'uomo è un'entità storica è frutto dell'evoluzione borghese; la premessa della sua realizzazione è la negazione dell'esistenza borghese. L'antichità ha un concetto statico dell'uomo; l'esistenza dell'individuo si svolge entro limiti circoscritti, sia sul piano individuale sia sul piano sociale; l'ideale non rappresenta la proiezione soggettiva di desideri e obbiettivi, ma un limite oggettivo. L'ideologia cristiana del Medioevo infrange questa barriera. Il perfezionamento da un lato, la depravazione dall'altro possono perpetuarsi all'infinito, almeno se paragonati ai confini delle possibilità umane; l'inizio e la fine di questo processo invece sono comunque determinati dalla trascendenza: peccato originale e giudizio universale. Nel Rinascimento compare la concezione dinamica dell'uomo. Esiste la storia dello sviluppo personale dell'individuo ed esiste, parallelamente, la storia dello sviluppo della società. L'identità contraddittoria di individuo e società si evidenzia allora in tutte le sue categorie fondamentali. Situazione ed individuo entrano in un rapporto fluido: passato, presente e futuro sono creazioni dell'umanità. Questa «umanità», a sua volta, è un concetto sintetico. Θ cosí che nascono, a questo punto, «libertà» e «fraternità» come categorie ontologiche immanenti. Spazio e tempo si umanizzano, mentre l'infinito diventa una realtà sociale. Ma per quanto dinamico l'uomo possa essere nell'interazione con la storia, antropologicamente esso resta comunque eterno, universale, identico. L'uomo si autoproduce il mondo, ma non rigenera l'umanità; rispetto ad esso la storia, la «situazione» restano esterne. Perciò la concezione dell'uomo non giunse oltre i «corsi e ricorsi», e il movimento ciclico non si trasformò in spirale. Attraverso l'analisi concreta della psiche e del comportamento umano, i secoli XVII e XVIII approfondiscono da un lato la problematica antropologica, per realizzare — pur allontanandosi apparentemente dal concetto storico dell'uomo — la vera antropologia storica: l'idea dell'autoproduzione dell'uomo. Ormai è sul filo che conduce da Hobbes a Rousseau che il passato dell'umanità diventa — a questo più alto livello — storia. Anche il presente diventa storia dopo la rivoluzione francese — mentre Hegel e Balzac stanno al centro dell'attenzione generale. — Fino a quando, infine, con Marx — con la negazione della società borghese — anche il futuro si manifesta in forma di storia.


Il concetto di «Rinascimento» implica un processo sociale globale. Dall'ambito economico-sociale, in stretto rapporto con la struttura di base, esso si estende fino all'ambito culturale, abbraccia le norme di vita e la mentalità quotidiana, l'esercizio pratico delle norme etiche e gli ideali etici, le varie forme di coscienza religiosa, l'arte e la scienza. A rigor di termini possiamo parlare di Rinascimento soltanto laddove, in base a cambiamenti economico-sociali strutturali, questi fenomeni sono apparsi insieme e contemporaneamente. Così in Italia, in Inghilterra, in Francia, in Spagna e, in parte, nei Paesi Bassi. La tendenza che, accanto al Rinascimento, si è soliti indicare come Umanesimo, non rappresenta altro che una, o più, proiezioni ideologiche del Rinascimento: manifestazioni etiche e scientifiche, che poterono esistere e conquistare terreno, isolatamente dalla struttura sociale e dalla realtà quotidiana, anche in paesi in cui il Rinascimento era inesistente come fenomeno sociale globale. In quei luoghi ovviamente esso non poté mettere radici; i suoi effetti si limitarono a farsi avvertire negli strati superiori della vita sociale — si trattasse di aristocrazia politica o intellettuale —, e ben presto esso si trovò isolato. Così la Riforma spazzò via l'umanesimo tedesco. Così scomparve, in Ungheria, senza quasi lasciar traccia di sé, la precoce monarchia assoluta di Mattia Corvino, le cui basi erano state poste da Giovanni Hunyadi, il più grande dei condottieri.

Il Rinascimento è la prima tappa del lungo processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo. Ha ragione Engels quando, riferendosi al Rinascimento, parla di «rivoluzione». La trasformazione dell'intera struttura economico-sociale, dello stile di vita, della scala dei valori, è simile a un cataclisma. Tutto diventa labile: i terremoti sociali si susseguono a un ritmo vertiginoso, i rapporti fra l'«alto» e il «basso» cambiano continuamente. La pluralità dello sviluppo sociale, alla cui problematica concreta dedicheremo un capitolo a parte, già si delinea in queste esplosioni, in questi rapidi capovolgimenti del destino. Comunque sia, il Rinascimento si situa fra due ordinamenti economici e sociali di maggiore stabilità; da un lato troviamo il feudalesimo, dall'altro il rapporto di equilibrio fra le forze feudali e quelle borghesi. E da questo punto di vista non ha importanza per quanto tempo — più o meno a seconda dei casi — la stabilità dell'equilibrio seppe conservarsi nei vari paesi. Sia prima che dopo abbiamo società più chiuse — e differentemente chiuse — rispetto al Rinascimento, di cui si dice nell' Enrico VII di Shakespeare che «la speranza fugace fece del re un dio, del contadino un re».

Ma il Rinascimento è anche una rivoluzione economico-sociale che nella sua ascesa finale elimina, fa abortire o fa smarrire in vicoli ciechi molte delle sue singole rivoluzioni e trasformazioni. Si dimostrarono vicoli ciechi l'evoluzione in Italia, in Spagna, e in parte nei Paesi Bassi: qui all'alba non seguí nessun mattino. Ma anche dove mattino ci fu, come nella patria dell'evoluzione classica, in Inghilterra, il mondo visto alla luce del giorno risultò molto più problematico e contraddittorio di quanto non apparisse alla luce rosata dell'alba. Potremmo affermare che ciò fu già previsto anche dai filosofi del Rinascimento. Volendo, potremmo richiamarci all'esempio di Moro. Nella prima parte dell' Utopia il mondo disumano dell'accumulazione originaria del capitale viene notoriamente smascherato. Ma la messa a fuoco delle contraddizioni non illumina ancora, a questo punto, altro che le «assurdità». E lo stesso Moro accettò di sua spontanea volontà l'incarico di cancelliere alla corte di Enrico VIII, solo perché sperava veramente che il sovrano avrebbe contribuito a far cessare gli antagonismi e, da vero «principe cristiano», avrebbe realizzato una società giusta, nei limiti concessi dalla condizione data della «natura umana». Nel 1517 (!), mentre già a Wittenberg Lutero preparava le sue tesi, Erasmo, l'amico di Moro, elaborava le sue profezie sulla pace eterna nel mondo, sulla forma di vita serena del genere umano nei tempi in cui esso avrebbe formato un'unica grande famiglia governata dai principi cristiani della tolleranza e dell'umanesimo. Se mettiamo a confronto il «critico» Moro e il «critico» Swift, la differenza fra i due periodi è palese anche in quella Inghilterra il cui sviluppo risultò essere — accanto a quello francese — l'unica «via praticabile» fra quelle offerte dal Rinascimento.

Il Rinascimento è l'alba del capitalismo.

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III
ETICA E VITA,
OSSIA LE POSSIBILITΐ PRATICHE DELL'UOMO



Il primo capitolo trattava della conquista e della rinnovata scelta del passato, delle questioni inerenti alla sintesi delle due grandi eredità culturali dell'umanità; abbiamo chiarito il rapporto del concetto di uomo e dell'ideale umano nel Rinascimento con il concetto — e l'ideale — umano antico e cristiano. Il terzo capitolo tratterà dell' antropologia specifica del Rinascimento: della formulazione teorica definitiva dei problemi radicalmente nuovi. Ma perché risultino chiare le generalizzazioni ideologiche dei nuovi fatti vitali, dobbiamo prima analizzare i fatti vitali stessi. Ovviamente, solo in casi rarissimi le nostre fonti saranno la descrizione delle consuetudini, delle norme etiche, dei fatti stessi; in genere dovremo derivare le nostre affermazioni sulla vita da opere artistiche ed aforismi, da frammenti e commenti filosofici: pertanto neanche questo capitolo di mezzo è privo di generalizzazioni filosofiche. Nonostante ciò, dobbiamo dire che il «genere» cui appartengono le seguenti analisi è piuttosto la sociologia storica.

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LA VITA QUOTIDIANA



Nell'epoca rinascimentale la scienza, la tecnica, l'arte erano relativamente poco differenziate dalla vita quotidiana. Su questo fatto dobbiamo porre l'accento anche rispetto al Medioevo — particolarmente, è ovvio, nel caso della scienza. Nella società divisa in ceti la scienza era il privilegio di determinate caste. Essa poteva costituire un privilegio della chiesa — come ad esempio la stessa filosofia — o l'insieme di conoscenze attitudinali non esercitate professionalmente, riservate soltanto a determinati membri di determinati ceti (come nelle sette diramazioni delle «sette arti liberali») — oppure il segreto di gilde e corporazioni, che si trasmetteva di generazione in generazione, ma solo nella cerchia degli «iniziati». Quindi la vita quotidiana degli uomini — e qui non pensiamo solo agli sfruttati, a coloro che erano privati di ogni base materiale, ma anche a gran parte degli strati dominanti — era una vita completamente «al di fuori della scienza»; la scienza e la magia, non ancora separata dalla scienza, si celavano fra i veli del mistero, ed erano spesso collegate ai concetti della «diavoleria» e del «peccato». La vita quotidiana non fecondava questa scienza, né viceversa la scienza influiva sulla vita quotidiana. — Nel Rinascimento la situazione cambia radicalmente. In primo luogo: la dissoluzione della divisione in ceti annulla il carattere privilegiato della scienza (e della filosofia). Da questo punto di vista il formarsi dell'Accademia platonica fiorentina segna l'inizio di un'epoca: si tratta della prima scuola filosofica indipendente dai vecchi ambiti ecclesiastici e universìtari, e pertanto essa è completamente mondana e «aperta» — cioè, in linea di principio, aperta a tutti gli uomini di pensiero (i cui pensieri seguono lo spirito di Platone). Patrono è proprio quel Cosimo dei Medici così incolto nel senso tradizionale (secondo la cultura scolastica ufficiale del tempo). Le università — e prima fra tutte quella patavina — si aprono sempre più spesso ai giovani che non sono predestinati allo studio per nascita. I popolani, che fino a quel momento potevano accedere agli studi solo tramite la carriera ecclesiastica, ora vi accedono ugualmente pur senza prendere gli ordini sacri (e fra di loro ci sono molti spretati): l'esercizio della scienza, e al suo interno l'esercizio delle «arti libere», cominciano a trasformarsi in professioni — prende lentamente forma quel nuovo strato di uomini che oggi chiamiamo intellettuali. Per questo aspetto, lo sviluppo della divisione borghese del lavoro è un processo vivificatore.

Naturalmente la dissoluzione della società divisa in ceti non è che l'espressione dello sviluppo immanente dei mezzi di produzione. E l'aspetto vivificatore di questo «dissolvimento» non si limita a tanto: spazza via con sé anche la ragnatela dei «segreti» delle corporazioni. Zilsel mostra correttamente il modo in cui si sviluppa l'idea del carattere universale della scienza e della cooperazione scientifica. Questa cooperazione non tollera i «segreti» trasmessi di generazione in generazione, ma esige — nell'interesse dello sviluppo globale della nazione o della città — la comunicazione e la trasmissione dei risultati e la collaborazione reciproca. Lo scienziato non è ormai più un mago circondato da mistero; la «comunicazione» dei suoi segreti è una parte essenziale della sua esistenza. Egli è un prestigiatore che viene riconosciuto come tale soltanto se mostra il segreto su cui si basa la sua esibizione, e lo rende quindi ripetibile; ripetibile (la parte di altri, in linea di principio da parte di tutti. Questo fatto è importante anche per le scienze in cui l'intuizione individuale e il carattere dello scienziato hanno un ruolo predominante: per esempio nella scienza medica. Paracelso e Cardano, pur non rinnegando le proprie intuizioni, volgarizzano sempre più i principi fondamentali della loro scienza, che diventano così comprensibili a tutti, stimolando quelle attitudini universali che tutti i medici — purché attenti possono far proprie. Sia a Paracelso che a Cardano il culto del «mistero» è completamente estraneo.

La «novità» insita nella scienza rinascimentale sta nel fatto che essa affonda le radici nelle necessità create dalla vita quotidiana, e per giunta in maniera immediata ed evidente agli occhi di tutti. Come la filosofia rinascimentale, che scaturisce a sua volta dai problemi morali e di altro genere posti dalla vita quotidiana degli uomini: in maniera immediata ed evidente. Perciò è altrettanto immediatamente e progressivamente riferibile alla vita quotidiana e al pensiero quotidiano. Abbiamo già visto un esempio: il modo in cui si realizza la condotta stoico-epicurea nell'esercizio quotidiano degli uomini «comuni». Ma le scoperte geografiche, la scoperta della polvere da sparo, la stampa, la visione copernicana del mondo, trasformarono le concezioni quotidiane degli uomini, per citare solo le novità di maggiore importanza.

Dobbiamo inoltre porre l'accento sul fervido influsso reciproco fra scienza e vita quotidiana, in rapporto non solo al passato, ma anche al futuro. Nel XVII secolo, infatti, in un certo senso questo sviluppo «va oltre» l'armonia esistente. Questo continuo e reciproco influsso deriva dall'avviamento dei cicli di accumulazione borghese, articolandosi fra i bisogni creati dallo sviluppo delle forze produttive e l'evoluzione della scienza; si accentua, altresì, la collaborazione fra i problemi vitali e il pensiero filosofico. Ma cessa in pari grado l'immediatezza che caratterizzava l'epoca rinascimentale. I frutti — o i flagelli — tecnici dell'evoluzione della scienza diventano tangibili per tutti. Ma i problemi scientifici stessi acquistano un carattere talmente astratto e tecnico da diventare imperscrutabili e incomprensibili per l'uomo comune: con un balzo, la scienza si lascia dietro le spalle il pensiero quotidiano. La scienza rinascimentale sta ancora all'interno del pensiero quotidiano; la sua metodologia non si distingue dalla téchne quotidiana in misura tale da non poter essere compresa, in tempo relativamente breve, anche dai non specialisti; la sua visione del mondo è ancora tanto antropomorfica da poter essere assimilata come un semplice «prolungamento» dell'immaginazione quotidiana. La prima scoperta scientifica che rappresenta uno scandalo per l'immaginazione quotidiana è la visione copernicana del mondo — per farsene un'idea occorre già staccarsi dal solido terreno di ciò che i sensi possono testimoniare. Ciò nonostante, essa riesce a penetrare con relativa facilità nella coscienza quotidiana. In parte perché sorregge il fortissimo bisogno che si sente dell'ateismo pratico, in parte perché può essere resa facilmente «sensibile» con una semplice allegoria (immaginiamoci due palline, una piccola e una grande: perché sarebbe la grande a dover ruotare intorno alla piccola? non è forse più naturale che sia la piccola a ruotare intorno a quella grande? ecc.). Θ questo carattere concreto, sensibile, antropomorfico, per essere chiari: questo stato rudimentale della scienza, ciò che le permette, in una certa misura, di «immergersi» nella vita quotidiana non solo tramite i suoi risultati, ma globalmente, con tutti i suoi problemi scientifici. Dobbiamo aggiungere che, nelle città-stato italiane, questo effetto reciproco fu ancora incrementato dal fatto che l'esistenza di uno strato contadino legato alla natura mancava quasi del tutto: a Firenze, a Venezia o a Roma si può dire che l'intera popolazione fosse immediatamente interessata a tutto ciò che riguardava la navigazione o l'industria; nelle piccole città-stato le «notizie» scientifiche si diffondevano rapidamente — non esisteva strato che fosse completamente escluso da questi contatti.

Per quanto riguarda l'arte la cesura fra società feudale e società rinascimentale non è così netta come nel caso della scienza. Anzi: nel Medioevo l'arte e la vita quotidiana sono ancor meno differenziate che nel Rinascimento. La religione appartiene alla vita di tutti i giorni proprio come — per determinati strati — il servizio cavalleresco. L'arte, a sua volta, è o al servizio della religione o al servizio dei cavalieri. L'arte figurativa, la musica, la poesia compaiono durante i giorni di festa, che sono i punti nodali della vita di tutti i giorni. E come tutti sanno, l'arte stessa non si scinde consapevolmente dall'artigianato e dallo svago.

Da tutto ciò consegue, però, che in un certo senso anche qui la svolta coincide col Rinascimento. Θ a questo punto, infatti, che l'arte si isola dalla téchne e dallo svago; l'artista considera coscientemente come suo obiettivo l'arte in quanto tale — e non invece come sottoprodotto di attività differenti, religiose o artigianali. Si sviluppano la personalità, la consapevolezza e la gerarchia degli artisti. Quest'ultima è particolarmente importante, poiché non esiste, nella storia mondiale, forse neanche una singola epoca che abbia avuto la capacità di questa di catalogare con tanta puntualità, chiarezza e sicurezza i suoi contemporanei in base alla loro validità artistica. Così, ad esempio, i due antagonisti Cellini e Vasari pongono gli stessi artisti (Giotto, Masaccio, Leonardo, Giorgione, Michelangelo) in cima alla gerarchia. Θ proprio questa separazione che rende possibile questo fecondo e costante influsso reciproco. Poiché ora la vita quotidiana produce l'arte non semplicemente in quanto parte di sé, ma appunto come arte — e la rispetta, l'onora, la glorifica in quanto tale —, e l'arte, obbediente alle proprie leggi, si riflette e penetra nella vita di tutti i giorni con la sua essenza artistica. Pensiamo soltanto all'abitudine di esporre le statue commissionate dalla città in piazza della Signoria a Firenze. Pensiamo a come, nei giorni seguenti alle inaugurazioni di queste esposizioni, sulle statue mal fatte si affiggessero centinaia di poemetti beffardi (e altrettanti se ne introducessero nell'abitazione dell'artista), mentre una buona statua otteneva altrettante composizioni che la esaltavano: sono fatti che mostrano, da un lato, come l'arte e il livello artistico fossero di competenza comune, e indicano, dall'altro, il buon gusto del vasto pubblico (e, a parte, la sua attitudine a scrivere versi). Non c'è da stupirsi che gli uomini che vivevano sempre in un ambiente colmo di cose belle sapessero distinguere il bello dal brutto, l'opera riuscita da quella fallita — e che considerassero la nascita di nuove bellezze come un arricchimento della propria vita. Certamente in questa prospettiva il caso di Firenze è eccezionale persino nell'ambito del Rinascimento.

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Pagina 236

E a questo punto dobbiamo tornare ai pensieri dell'universalità e della felicità individuale, che sono assai importanti in Pomponazzi.

Dai rapporti sociali del suo tempo, Pomponazzi trae la conclusione che l'universalità come tale è caratteristica solo dell'intero genere umano: gli individui possono essere universali solo in senso etico. Per Pomponazzi, l'universalità è sempre una categoria teleologica; egli tratta dell' obiettivo dell'uomo singolo in rapporto all'obiettivo del genere umano. L'uomo singolo prende parte all'obiettivo dell'umanità, ma soltanto se agisce con successo all'interno della propria relativa parzialità. «Non ogni uomo possiede l'ultimo fine adatto alla parte, se non come parte del genere umano. Ed è sufficiente che abbia in comune il fine umano».

La felicità del singolo invece può — come abbiamo visto — essere completa. La felicità, infatti — e in questo Pomponazzi segue le orme dell'interpretazione tradizionale —, è la conseguenza della condotta virtuosa della vita. Ma cos'è ciò che necessariamente appartiene alla condotta virtuosa e alla felicità? L'uomo deve riconoscere che egli non è che una parte dello sviluppo dell'umanità intera, che deve individuare il proprio posto, le funzioni corrispondenti alla sua natura, deve assolvere il suo compito meglio che può, nella consapevolezza di prendere parte, in tal modo, all'obiettivo dell'umanità. Ed ecco che siamo tornati ancora una volta alla condotta stoica della vita. Lo stoicismo compare sotto un nuovo aspetto: dal punto di vista della divisione del lavoro. La coscienziosa esecuzione del proprio lavoro, la penetrazione del «tutto» nella «parte» — ecco lo stoicismo specifico della società produttrice di merci.

Ma occorre sottolineare una volta in più che questa è tutt'altro che un'apologia, e non lo è neanche se confrontata con la successiva concezione di Hobbes. Pomponazzi partiva infatti da un tale status quo umano e sociale, in cui esisteva sì la divisione del lavoro, ma in cui la versatilità dei singoli uomini era assicurata anche e persino all'interno della divisione del lavoro. Il «prendere parte» all'intelletto scientifico e produttivo che — ripetiamo — caratterizza secondo Pomponazzi la vita quotidiana di tutti, non è semplicemente l'analisi strutturale del mutuo influsso fra pensiero quotidiano e scienza, ma la descrizione dello status quo del tempo; la descrizione di un tempo in cui — come abbiamo visto — l'unità della scienza, della prassi, della produzione e della morale è ancora molto più efficace di quanto non lo sarà nei secoli successivi. E a questo punto possiamo dare la risposta alla domanda che ci siamo posti all'inizio del nostro ragionamento, se fosse cioè l'eccezionale genialità di Pomponazzi e la ristrettezza d'impostazione dei successivi pensatori a causare l'oscuramento e la scomparsa di queste scoperte nei cinque secoli successivi. Non intendiamo sminuire la grandezza del pensiero di Pomponazzi, se rispondiamo che non fu né l'una né l'altra, ma il fatto che la duplice versatilità, quella dell'«ancora» e quella del «già», che nel Rinascimento vennero a coincidere, si scisse in due. Gli uomini comuni della vita borghese di tutti i giorni, quelli che diventeranno i «tutti quanti», non potranno più centrare con tanta facilità il pensiero scientifico, l'attitudine pratica poliedrica, l'integrità morale; diventerà più difficile ritrovare quale rapporto fecondo — che esiste sempre — che collegava il pensiero quotidiano indifferenziato con le varie forme riflesse differenziate, più difficile descrivere o codificare l'universalità dell'uomo e dell'umanità. Infatti, a prescindere da poche eccezioni (che rappresentano poi o la retroguardia del Rinascimento o l'avanguardia del socialismo) ciò non avvenne più fino a Marx.


Il carattere democratico e il rapporto con la vita quotidiana, caratteristici della scienza e della filosofia del Rinascimento, non le ostacolano però affatto nella loro critica del pensiero quotidiano. Vorremmo rifarci, innanzi tutto, al Montaigne, uno dei critici più acuti della vita quotidiana, che dice: «Egli sonderà il valore di ciascuno; di un bifolco, di un muratore, di un passante; bisogna metter tutto a profitto, e servirsi di ognuno secondo quel che ci può offrire, perché tutto torna utile al governo di sé». Ma ciò nonostante scopre in più d'un caso le trappole che il pensiero quotidiano può tendere. Specialmente nei casi in cui era evidente il contrasto fra la prassi e i principi quotidiani degli uomini e l'ideale stoico basato sul rigore scientifico. Citiamo un solo esempio: «Lui, che aveva la fantasia più ampia e più vasta, abbracciava l'universo come la sua città, estendeva le sue conoscenze, la sua compagnia e i suoi affetti a tutto il genere umano, non come noi che guardiamo soltanto sotto di noi. Quando gelano le vigne nel mio villaggio, il mio prete ne argomenta che è l'ira di Dio sulla razza umana, e giudica che i cannibali hanno già la pepita».

Il riferimento al prete mostra che Montaigne è conscio di quanto la religione si appoggi proprio a questa «contemplazione dell'ombelico», di come utilizzi l'attaccamento al particolarismo tipico degli uomini fino a formarne una visione del mondo, sfruttando cioè l'esigenza di generalizzare, immediatamente o per astrazione, le sciagure (o anche i colpi di fortuna) connesse con i propri interessi e con la propria persona.

Θ Bacone, però, colui che si spinge più avanti nel giudizio sul pensiero quotidiano; in questo — e soprattutto in questo — egli è veramente già il precursore dei filosofi del XVII secolo. Vorremmo porre l'accento sul fatto che anch'egli si basa coscientemente sull'esperienza quotidiana — contrapponendo in modo polemico le conseguenze che ne derivano alla dogmatica e alle speculazioni immobilistiche della scolastica. Ma in Bacone il pensiero scientifico non è semplicemente il prolungamento sistematizzato ed astratto della vita quotidiana, come lo è nei pensatori più tipici del Rinascimento, ma si pone anche «di traverso» rispetto all'esperienza quotidiana. Pertanto egli non si limita a scoprire degli «errori» nella struttura dell'esperienza quotidiana, che la scienza — in quanto esperienza astratta e generalizzata — «corregge» semplicemente, ma scopre degli «errori» tipici e necessari, che di conseguenza non si qualificano più neanche come errori, ma come forme necessarie del pensare appartenenti alla normale struttura del vivere quotidiano. Egli scopre (a) che scienza e pensiero quotidiano sono necessariamente coinvolti in una relazione reciproca, e che sono quindi riferibili l'una all'altro; che, allo stesso tempo, (b) il pensiero quotidiano è strutturalmente differente da quello scientifico; che quindi le «verità» quotidiane non dispongono di valori scientifici di verità e di certezza; che (e) per la prassi abituale l'uomo ha bisogno di entrambi questi tipi di pensiero. «Ché ben possono gli esperti eseguire, e fors'anche giudicare, i singoli particolari, presi uno a uno, ma dovranno essere i dotti a dare il disegno generale, e i piani, e la direzione dell'opera. (...) Gli studi perfezionano la natura e son perfezionati dall'esperienza». Abbiamo citato intenzionalmente proprio questo passo, perché qui Bacone non tratta delle scienze naturali, ma del governo della proprietà. Ciò dimostra come i tre elementi della concezione di Bacone che abbiamo appena analizzati non si riferiscono soltanto al rapporto esperienza naturale-teoria-prassi, ma anche al rapporto fra esperienze di qualsiasi genere, teoria e prassi.

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La filosofia fiorentina è quella che ha compiuto più rapidamente lo sviluppo che porta dalla morale comunitaria alla separazione della tabella dei valori dall'etica: qui essa ha percorso in cinquant'anni la via «classica». Dobbiamo richiamarci di nuovo ai tratti di parentela e ai contrasti con Atene. Assistiamo, in entrambe le città-stato, al dissolvimento di una morale comunitaria relativamente stabile. Sia qui sia lì, la prima reazione etica al dissolvimento fu la comparsa della condotta moralitaria (Socrate e Pico della Mirandola). In Atene, però, la conseguenza non fu il distacco fra sistema di valori e morale, mentre a Firenze questa è addirittura la risposta diretta alle questioni poste dalla moralità. Possiamo soltanto accennare alle ragioni. Innanzi tutto a Firenze la stessa morale comunitaria era già più eterogenea; mentre in Atene la produzione delle merci dissolveva soltanto, a Firenze (pur intaccando l'ambito della polis) sviluppava i rapporti sociali a seconda della loro tendenza; la prima non aveva un futuro — neanche dal punto di vista sociale globale — , la seconda sì. Ecco perché la filosofia fiorentina (e Machiavelli innanzi tutto) poté porre alla posterità delle questioni tali, alle quali essa tuttora si sforza di rispondere.

L'etica comunitaria, moralitaria (Sittlichkeit) regna incontrastata fino all'epoca di Marsilio Ficino. Vediamo come imposta il problema il platonico fiorentino: «Il male dello uomo è quello che è inonesto: e quello, che è il suo bene, è lo onesto. Senza dubbio tutte le leggi e discipline, non d'altro si sforzano, che dare a gli uomini tali instituti di vita che dalle cose brutte si guardino e le oneste mandino ad esecuzione. La qual cosa finalmente appena con grande spazio di tempo, leggi e scienzie quasi innumerabili, possano conseguire: ed esso semplice Amore in breve mette ad effetto. Perché la vergogna, dalle case brutte rimuove: e il desiderio dello essere eccellente alle oneste gli uomini tira. Queste due cose, non per alcuno altro modo che per Amore possono gli uomini con più facilità e prestezza conseguire». Quindi Ficino parte dai fatti seguenti: 1. per l'uomo è bene ciò che conta come morale nella comunità; 2. è questo che tutti gli uomini si sforzano di raggiungere; 3. la morale è deposta in precetti e insegnamenti, che non si possono abbandonare senza provare vergogna; infine 4. (il punto che si ricollega in modo specifico alla filosofia di Ficino) l'amore è il modo più semplice di impadronirsi della morale.

In Pico della Mirandola tutte queste condizioni pregiudiziali si trasformano nel loro opposto. Secondo Pico, ciò che conta per morale nella comunità per lo più non è buono — buono è ciò per cui l'uomo viene perseguitato, ciò che egli fa malgrado il mondo. Le abitudini degli uomini sono cattive abitudini, le sue opinioni false opinioni: «Perché essi stessi non sanno ciò che fanno, ma al modo di chi nuota in un fiume si lasciano trascinare dalla potenza delle cattive abitudini, come quelli dal potere della corrente che li spinge».

— E dà inoltre al suo cugino preferito il consiglio seguente: «Lascia che si agitino, lascia che mormorino, che abbàino — tu segui fino in fondo il cammino che hai intrapreso e non lasciarti turbare». La pura moralità è quindi contrapposta alla moralità del mondo; l'uomo è l'unico sostegno di se stesso: deve percorrere la propria strada in contrasto con gli altri. E qual è l'insegnamento che — in contrasto col mondo — serve da appiglio alla pura moralità? L'evangelo, secondo Pico. «Se infatti ha ragione il Vangelo a dire che è difficile per il ricco entrare nel regno dei cieli, perché ci sforziamo con avarizia di accumulare tesori? E se è vero che non dobbiamo desiderare la gloria che danno gli uomini, ma quella che proviene da Dio, perché diamo retta in continuazione al giudizio degli uomini?».

Ovviamente ciò non significa che Pico fosse più religioso di Ficino. Θ la dissoluzione della polis fiorentina che si manifesta apertamente, e di conseguenza si vedono ormai solo i tratti negativi dell'evoluzione borghese. Alla caccia al denaro occorre contrapporre il vangelo, ossia non semplicemente il vangelo, ma l'interpretazione anticapitalistica del vangelo.

Machiavelli riprende appunto questo programma. Nel giudizio sulla Firenze del suo tempo (anche nel giudizio della sua etica!) egli è mosso dalla stessa valutazione negativa che distingue Pico o Savonarola. Ma in lui l'opposizione diventa un programma. E un programma alternativo per giunta. O tornare alla polis antica e alla morale della polis antica, o abbandonare l'ideale della polis in genere, intraprendere il cammino verso la realizzazione della monarchia assoluta e unitaria in Italia, ma in questo caso accettare tutti i fatti etici formatisi con il capitalismo del tempo — anzi, non soltanto accettarli, ma portarli a termine con consequenzialità. La disputa secolare (e le numerose contraddizioni) che ha circondato la figura del Machiavelli deriva da questa impostazione alternativa della questione. Per questo alcuni hanno visto in lui esclusivamente il seguace della monarchia assoluta, altri esclusivamente il plebeo repubblicano, che si accostò solo satiricamente al tema del «Principe» (come Rousseau). Torneremo ancora sull'analisi della concezione politica del Machiavelli. Ora vorremmo solo dare un rapido sguardo complessivo alle sue conseguenze etiche.

Machiavelli — cui Rousseau in questo caso si riallaccia giustamente — distingue i popoli «incorrotti» e i popoli «corrotti». La morale dei popoli incorrotti è limpida, gli uomini sono pronti a difendere la patria, si attengono alle leggi. Un tale popolo puro fu per esempio quello romano fino all'era imperiale. Machiavelli sa parlare con grande entusiasmo della «pura morale», ma una morale pura di questo genere esiste — secondo lui — solo in comunità repubblicane ben consolidate. «Dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandali non nuocono; dove ella è corrotta le leggi bene ordinate non giovano»

Cos'è che causa la corruzione dei costumi? Nient'altro che la formazione della distribuzione ineguale della ricchezza. Laddove la società inizia a dividersi sempre di più in ricchi e poveri, possono anche esistere le leggi migliori, ma i costumi incorrotti non si conservano. Non si può continuare a governare al vecchio modo una tale società: poiché non possiede un'etica — comunitaria — di vecchio tipo, sarebbe un idealismo assurdo anche volersi appoggiare a quest'etica in campo politico. La politica (e l'etica) deve rendersi conto del nuovo status quo — altrimenti la società va in rovina. — La concezione globale non solo è chiara, ma è anche vera. Θ certo, infatti, che le grandi città-stato si basavano sempre sulla distribuzione relativamente uguale della ricchezza (sia in Atene sia agli inizi della civiltà romana), e che i contrasti troppo acuti fra i patrimoni (all'interno dello strato predominante) mettono necessariamente fine alla fioritura della polis.

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Ora anch'io vorrei concludere i miei ragionamenti con un paradosso. Machiavelli, all'apparenza un cinico, in realtà è un moralista. Il cinico, infatti, non riconosce l'esistenza dei valori. Machiavelli, invece, riconosce ampiamente la loro esistenza, e aggiunge soltanto che l'universo dei valori della realtà non è omogeneo. Egli non nega affatto il valore qualitativo delle norme astratte, dei principi morali e delle virtù. Anzi lo sottolinea, in quanto nega la definizione di bene morale a tutte le azioni il cui contenuto di valore non sia assoluto. Θ buona la finzione? No. Θ buona la violenza? No. Di che si tratta, se non della difesa della purezza assoluta dei contenuti di valore, difesa addirittura accentuata e moralistica? Ma non esiste soltanto l'universo dei valori morali astratti. Il successo, la realizzazione dell'obiettivo sono anch'essi dei valori, anche la manifestazione della personalità nella creazione è un valore (abbiamo già detto quanto sia grande il suo significato nel Rinascimento), anche il servizio degli interessi dell'uomo è un valore. E se in alcuni casi questi valori si possono realizzare solamente infrangendo le norme morali, non è il non valore che si scontra col valore, ma un tipo di valore con un altro tipo di valore. «Dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debba cadere alcuna considerazione né di giusto né d'ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né d'ignominioso» — scrive nei Discorsi. In questo caso, fra i valori che entrano in collisione, quello di maggior peso non è il valore morale astratto. Naturalmente possono esistere sityazioni tali in cui i valori morali astratti hanno un peso maggiore. Ma è proprio questo che si può e si deve decidere solo in concreto, in situazioni concrete. Machiavelli è realmente un moralista, e resta tale anche nel campo dell'etica politica intesa in senso stretto. Anche qui non si tratta semplicemente del fatto che egli «priva» l'azione politica del suo contenuto morale. Né del fatto che egli descrive semplicemente lo status quo (che descrive, del resto), ma approva e accetta come norma ciò che è mostruoso. La questione presenta, infatti, anche un altro aspetto: la «separazione» operata da Machiavelli è bilaterale. Egli separa non solo la prassi politica dal sistema di valori, ma anche il sistema di valori dalla prassi politica. Egli definisce ciò che realmente esiste, e allo stesso tempo pretende dagli uomini di prendere coscienza delle possibilità e delle leggi interne dell'azione sociale fattiva e dell'azione politica fattiva. La questione non è soltanto che egli propone di fingere, di usare la violenza ecc. (sono fattori compresi nella questione), ma anche che propone: sappi che fingi, sappi che usi la violenza, sappi che violenza e finzione in sé sono cattive, sappi quindi che puoi servirtene soltanto fin quando sono necessarie, sappi che non sei un «uomo puro», e assumi la responsabilità di tutto ciò. Questo è tutto fuorché cinismo.

Machiavelli, quindi, non è «immorale», ma esamina le possibilità reali della morale sociale concreta e della morale politica da un punto di vista moralistico che considera come il valore più alto non quello morale astratto, ma le esigenze del progresso sociale. Per giunta in un'epoca in cui ogni passo del progresso, sociale era necessariamente contraddittorio nel suo aspetto morale.

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[...] Gli ordinamenti sociali della Francia e dell'Inghilterra si stabilizzarono tramite la monarchia assoluta. Ma perché nascessero dei grandi «legislatori», occorreva che essi annientassero prima i loro avversari col ferro e col fuoco — e siamo di nuovo arrivati alla violenza. La prospettiva di Machiavelli com'è noto — era un'Italia nazionale unitaria, una monarchia assoluta moderna. Per la sua creazione — specialmente in conseguenza degli interessi oltremodo contraddittori dei piccoli stati e del papato — occorreva una mano forte, un uomo che non avesse riguardo per nulla e nessuno nella realizzazione dei suoi obiettivi, e solo quando la violenza avesse già fatto l'Italia unita, poteva iniziare la grande opera della «legislazione», la «riconduzione» del popolo alle proprie origini, e così via.

Eccoci arrivati all'unico grande interrogativo dell'etica politica di Machiavelli, al fatto cioè che egli rende la «techne» politica — a prescindere da alcuni esempi concreti — completamente indipendente dalla sfera economica, separa il governo degli uomini dal governo delle cose. Quindi la lotta politica per lui diventa pura lotta per il potere. La lotta per il potere, per così dire, «è sospesa nell'aria». Tutte le volte che descrive come la rovina degli uomini sia dovuta alla loro incomprensione verso «il tempo», con questo «tempo» intende sempre solo il tempo dell'attività politica e di potere. Richiamiamo alla memoria la teoria dei «corsi e ricorsi». Il movimento circolare ivi descritto è il movimento circolare delle forme di potere: repubblica, tirannia, aristocrazia, oligarchia, impero ecc. si susseguono con regolarità, ma su quali basi economiche, di questo non si parla! Né ciò potrebbe accadere; secondo Machiavelli, infatti, gli eventi accadono sempre in modo uniforme. — L'analisi dell'attività politica avviene nello spazio vuoto, la separazione di quest'ultima dalla manovra delle cose va talmente oltre, che Machiavelli non sa, né può distinguere i diversi tipi di violenza. La conquista vittoriosa del potere puramente individuale e le azioni violente portate a termine nel suo interesse e le violenze compiute durante la liberazione della patria vengono posti l'uno accanto all'altro senza distinzione alcuna. E qui imputiamo a Machiavelli non solo la mancata distinzione delle differenze morali, ma anche la mancata distinzione delle differenze politiche. Di qui, e soltanto di qui, deriva la sensazione di repulsione che sopravviene talvolta durante la lettura di alcuni passi del Principe, quei passi che in Rousseau, incondizionato ammiratore di Machiavelli, possono aver destato l'impressione che Il principe fosse una satira.

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I pensatori dell'epoca non toccano, in sostanza, i problemi economici del lavoro. Resta ancora impossibile, anche in quest'epoca, la formulazione filosofico-economica dell'uguaglianza quantitativa di ciò che è qualitativamente differente. Marx — nella sua analisi della Politica di Aristotele — sottolinea il fatto che quest'ultimo non poteva scoprire la causa dell'uguaglianza dei prodotti scambiati, per la semplice ragione che tutto il suo modo di pensare si basava sulla disuguaglianza umana. Nel Rinascimento questa difficoltà è già superata. La produzione borghese incipiente dichiara già l'uguaglianza per principio. Ma prima che avesse inizio la «produzione per la produzione», prima cioè che si iniziasse la riproduzione capitalistica, la qualità concreta dei lavori nascondeva talmente il lato quantitativo dei prodotti del lavoro, e l'utilità, il carattere di valore di scambio, che non fu possibile arrivare molto più vicini alla comprensione del lavoro astratto di quanto non fosse già accaduto nell'antichità. Il campo in cui vi furono degli esperimenti economici, dove si osservò e si analizzò anche il fenomeno dell'alienazione, in modo molto più radicale di quanto non accadesse riguardo al lavoro, è l'analisi del denaro. Ma dobbiamo aggiungere che anche questo accadde solo nel XVI secolo, cioè nel tardo Rinascimento.

La conseguenza di tutto ciò è che non si verificò neanche il tentativo di sintetizzare i vari aspetti del lavoro. Come non si tentò di scoprire le varie forme storiche in cui si manifesta il lavoro, né dal punto di vista del modo di lavoro, né del suo oggetto e dei suoi mezzi, né dei suoi vincoli a date classi, né della sua struttura, né della sua funzione economica. L'analisi sistematica — sintetica e storica — del lavoro vedrà la luce soltanto con le ricerche di Marx. Ma anche il materiale grezzo di queste ricerche — eccezion fatta per l'analisi astratta della struttura e per l'analisi antropologica astratta — è ancora lontano dall'essersi raccolto. Il vero merito del Rinascimento sta nell'avere semplicemente espresso l'universalità antropologica. quanto basta perché si potesse elaborare il concetto dell'uomo dinamico. In tutti gli altri riferimenti possiamo parlare al massimo di tentativi.


La maggioranza dei pensatori del Rinascimento condusse una strenua battaglia perché la scienza e la tecnica diventassero «generi di pubblico dominio». Ciò si riferisce sia alla scienza e alla tecnica dell'economia, sia alla scienza e alla tecnica dell'arte (Alberti), sia alla scienza e alla tecnica della natura (Leonardo, Bacone, Bruno), sia alla scienza e alla tecnica della politica (Machiavelli), sia alla scienza e alla «tecnica» della condotta virtuosa (Charron). Rendere di dominio pubblico un genere significa spogliarlo dei veli del mistero, propagandare la sua utilità generale e la possibilità di imitarlo data a tutti. Anche per l'avviamento della produzione borghese questa democraticità gnoseologica e antropologica era di vivo interesse. Parliamo di democraticità gnoseologica; l'abolizione programmatica del mistero presupponeva, infatti, che gli uomini potessero mettere in uso generalmente i fatti e i procedimenti scoperti dalla scienza e dalla tecnica, e presupponeva quindi che — almeno a seconda delle possibilità — gli uomini possedessero capacità identiche di acquistare conoscenza della realtà. Parliamo di democraticità antropologica, perché l'uguaglianza di principio delle possibilità date alla conoscenza e all'applicazione pratica confidava sulla teoria dell'identità sostanziale del genere umano; spesso apertamente, altre volte come sottinteso. Non esiste alcuno fra i grandi pensatori del Rinascimento, che abbia mai dubitato del fatto che l'uomo sia entità «razionale», cioè che tutti gli uomini siano entità razionali. Questo vale anche per i pensatori più aristocratici di epoche già aristocratiche di per sé (per esempio la prima generazione dei neoplatonici fiorentini).

Tutto ciò è in apparente contraddizione col fatto che il Rinascimento fu la prima epoca ad occuparsi seriamente del pensiero del genio, della genialità, della capacità dell'uomo singolo, del singolo individuo, che lo distingue dagli altri, che è completamente personale e irripetibile. Ma la contraddizione è soltanto apparente. Il problema del genio, per quanto ciò possa sembrare paradossale, fu figlio della gnoseologia e dell'antropologia democratiche.

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Pagina 667

A questo punto non deve stupirci il fatto che in Pico la perfezione individuale, la pacificazione, la conquista dell'obiettivo sono pensieri che conservano la loro validità, esattamente come in Marsilio Ficino. Alla fine del libro egli traccia lo schema dei tre motti delfici con cui «possiamo giungere fino al vero, divino Apollo» — cioè le parole d'ordine della condotta umana più bella. Sono:

1. medèn cígan: «quel famoso "niente di troppo" giustamente prescrive la norma e la regola di ogni virtù secondo il criterio di misura di cui tratta la morale».

2. gnóthi seautón: «il "conosci te stesso" ci incita e ci esorta alla conoscenza di tutta la natura, di cui l'uomo è legame e quasi connubio».

3. ei: «pronunciando il saluto teologico "tu sei", chiameremo il vero Apollo in lieta familiarità».

La prima parola d'ordine appartiene all'antichità, la seconda al mondo moderno, la terza al Cristianesimo intessuto di misticismo e dell'esperienza della bellezza. Così passato, presente e futuro si fondono in un sol tutto.

La rivoluzione del Rinascimento risultò la rivoluzione della concezione dell'uomo. Libertà, fraternità e uguaglianza diventarono insieme categorie antropologiche, e per la prima volta l'umanità acquistò coscienza di sé in quanto umanità. Libertà, lavoro, versatilità, sconfinatezza e infinità rappresentano anch'essi insieme la sostanza umana, la «natura» dell'uomo, e con ciò è stato detto che l'uomo è capace di tutto. Ma l'inizio dell'esplorazione del globo terrestre, quindi dell'universo, ricordavano che il presente, riguardo alla realizzazione delle possibilità, era l'inizio, non la fine. Nei cataclismi del XVI secolo la capacità dell'uomo di sfruttare le possibilità che gli erano date diventò tuttavia sempre più problematica. Le guerre di religione e le devastazioni che produssero sembravano più atroci, e più terribili le crudeltà dell'accumulazione originaria, poiché furono portate a termine da quella stessa umanità di cui si sapeva che era «grande», «sublime», «capace di tutto», che «sapeva governare il proprio destino». Per qualche tempo, l'esaltazione viene sostituita dallo scetticismo e dalla disperazione, Ma il disagio dell'antropologia non dura a lungo. La filosofia della società borghese in via di formazione non disprezza né il pensiero dell'autoproduzione, né quello della versatilità (tecnica), né quello della capacità infinita. Ma le sue ricerche seguono un nuovo indirizzo: si cerca il motivo che spinge l'uomo alla produzione. E questo motivo — che non è più né sublime, né morale, né grandioso — si trova nel movente reale dell'individuo borghese: nell'egoismo.

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