Copertina
Autore Daniel Heller-Roazen
Titolo Ecolalie
SottotitoloSaggio sull'oblio delle lingue
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2007, Quaderni 27 , pag. 260, cop.fle., dim. 16x22,5x1,8 cm , Isbn 978-88-7462-134-7
OriginaleEcholalias. On the Forgetting of Language
EdizioneZone Books, New York, 2005
TraduttoreAndrea Cavazzini
LettoreCorrado Leonardo, 2009
Classe linguistica
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Indice


  11      I.  L'apice del balbettio
  15     II.  Esclamazioni
  21    III.  Aleph
  27     IV.  Fonemi in via di estinzione
  33      V.  H & Co.
  43     VI.  In esilio
  49    VII.  Binari morti
  61   VIII.  Soglie
  69     IX.  Strati
  79      X.  Slittamenti
  87     XI.  Piccoli astri
  99    XII.  Il ritorno del bagliore
 105   XIII.  La mucca che sapeva scrivere
 111    XIV.  L'animale minore
 127     XV.  Aglossostomografia
 139    XVI.  Hudba
 153   XVII.  Schizofonetica
 163  XVIII.  Un racconto su Abu Nuwas
 165    XIX.  «Persiano»
 171     XX.  Poeti in Paradiso
 185    XXI.  Babele

 195          Note
 223          Bibliografia
 239          Indice analitico


 

 

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Pagina 11

Capitolo primo

L'apice del balbettio


Come tutti sanno, i bambini all'inizio non parlano. I loro primi rumori sembrano ad un tempo anticipare i suoni del linguaggio umano ed esserne fondamentalmente dissimili. Quando si avvicina il momento in cui cominciano a formare le prime parole riconoscibili, gli infanti dispongono di capacità articolatorie che neppure il più dotato dei poliglotti adulti potrebbe sperare di emulare. Per questo senza dubbio Roman Jakobson fu così attratto dalla lallazione infantile, oltre che da questioni quali il futurismo russo, la metrica slava comparata e la fonologia strutturale, ovvero la scienza delle forme sonore del linguaggio. In Linguaggio infantile, afasia e universali fonologici, che egli scrisse in tedesco tra il 1939 e il 1941 durante l'esilio in Norvegia e in Svezia, Jakobson osservava che «un bambino può accumulare delle articolazioni che non è dato trovare in nessuna lingua particolare o addirittura in nessun gruppo di lingue: consonanti di qualsiasi punto di articolazione, consonanti palatalizzate e arrotondate, sibilanti, affricate, clicks, vocali complesse, dittonghi ecc.». Attingendo alle ricerche di psicologi infantili dotati di formazione linguistica, Jakobson concludeva che, allo stadio da lui definito «l'apice del balbettio» (die Blόte des Lallens), non si poteva porre alcun limite alle capacità fonatorie del borbottio infantile. Per quanto riguarda l'articolazione, sosteneva, gli infanti sono capaci di tutto. Senza il minimo sforzo possono produrre qualsiasi suono di qualsiasi lingua umana.

Si potrebbe pensare che con tali capacità linguistiche l'acquisizione di una lingua particolare sia un compito facile e rapido per il bambino. Eppure non lo è. Tra il balbettio dell'infante e le prime parole del bambino, non solo non c'è un passaggio evidente, ma c'è piuttosto la prova di un'interruzione decisiva, qualcosa come un punto di svolta in cui le abilità fonetiche dell'infante – fino ad allora illimitate – sembrano vacillare. «Come tutti gli osservatori riconoscono con grande sorpresa», riporta Jakobson, «nel passaggio dallo stadio prelinguistico all'acquisizione delle prime parole, cioè al primo stadio propriamente linguistico, il bambino perde interamente la sua capacità di produrre dei suoni». Un'atrofia parziale delle abilità fonetiche non è certo del tutto sorprendente in questo stadio; allorché il bambino inizia a parlare una singola lingua, tutte le consonanti e le vocali che un tempo poteva produrre ovviamente non gli servono più a nulla, ed è solo naturale che, smettendo di utilizzare i suoni assenti nella lingua che sta imparando, il bambino dimentichi rapidamente come produrli. Ma, quando l'infante inizia ad imparare una lingua, non perde solo la capacità di produrre suoni che eccedono i limiti del suo particolare sistema fonetico. Molto più sorprendente (auffallend), notava Jakobson, è come molti dei suoni comuni al balbettio infantile ed al linguaggio adulto spariscano anch'essi, ora, dal repertorio linguistico dell'infante: solo a questo punto può dirsi veramente iniziata l'acquisizione di una singola lingua. Nell'arco di qualche anno, il bambino gradualmente padroneggerà i fonemi che definiscono la forma sonora di ciò che sarà la sua lingua madre, secondo un ordine che Jakobson per primo ha presentato nella sua forma strutturata e stratificata: iniziando, ad esempio, con l'emissione delle dentali (come t e d), l'infante imparerà a pronunciare le palatali e le velari (come k e g); dalle occlusive e dalle labiali (come p, b, e m), acquisirà la capacità di formare le costrittive (come v, s e f); e così via, finché compiuto il processo di apprendimento del linguaggio, il bambino arriva ad esprimersi nella sua «lingua natia», espressione a noi tutti familiare, ma la cui imprecisione è palese.

Che succede nel frattempo ai molti suoni emessi un tempo facilmente dall'infante, e che ne è dell'abilità che possedeva prima di apprendere i suoni di una singola lingua, di produrre quelli contenuti in tutte le lingue? Θ come se l'acquisizione del linguaggio fosse possibile solo attraverso un atto d'oblio, una sorta di amnesia linguistica infantile (o amnesia fonica, dato che ciò che l'infante sembra dimenticare non è il linguaggio, ma una capacità apparentemente infinita di articolazione indifferenziata). Può il bambino essere così affascinato dalla realtà di un'unica lingua da abbandonare l'illimitato, ma in definitiva sterile, regno che contiene la possibilità di tutte le altre? O invece bisognerebbe cercare delle spiegazioni nella lingua appena acquisita? Θ la lingua madre che, facendo presa sul nuovo parlante, rifiuta di tollerare in lui persino l'ombra di un'altra? Il tutto è complicato dal fatto che, nel momento in cui l'infante si fa silenzioso, non sa dire nemmeno «io», ed esitiamo ad attribuirgli la coscienza propria di un essere parlante. Θ comunque difficile immaginare che i suoni che un tempo il bambino era capace di produrre così facilmente siano scomparsi per sempre dalla sua voce, lasciandosi dietro nient'altro che un sottile fil di fumo. Due fatti per lo meno avvengono nella voce svuotata dai suoni che il bambino non sa più emettere: dalla scomparsa del balbettio ecco emergere una lingua e un essere parlante. Può darsi che sia inevitabile. Forse l'infante deve dimenticare le infinite serie di suoni che poteva un tempo produrre «all'apice del balbettio», per padroneggiare il sistema finito di consonanti e vocali che caratterizza una singola lingua. Forse la perdita di un arsenale fonetico illimitato è il prezzo che il bambino deve pagare per ottenere i documenti che gli garantiscono piena cittadinanza nella comunità di una singola lingua.

Rimane forse nei linguaggi dell'adulto qualcosa dell'infinitamente variegato balbettio da cui sono emersi? Se così fosse, sarebbe soltanto un'eco, poiché, dove c'è una lingua, il balbettio infantile è da tempo scomparso, almeno nella forma che aveva nella bocca del bambino ancora incapace di parlare. Sarebbe solo un'eco di un'altra lingua, e di qualcosa d'altro dal linguaggio: un'ecolalia, custode della memoria di quel balbettio indistinto e immemoriale che, perdendosi, ha permesso a tutte le lingue di esistere.

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Pagina 18

[...] Qual è mai la relazione tra le esclamazioni, sia infantili che adulte, e le lingue in cui sono pronunciate? In un certo senso le interiezioni sembrano rappresentare una dimensione comune a ogni lingua in quanto tale, poiché sarebbe difficile, se non impossibile, immaginare una forma di linguaggio che ne fosse priva. D'altra parte, le esclamazioni denotano necessariamente un'eccedenza nella fonologia di una lingua singola, poiché sono composte di suoni specifici per definizione non contenuti altrimenti nella lingua. Gli «elementi fonologici distintivi anomali» sono, in breve, contemporaneamente inclusi in una lingua e da essa esclusi; più precisamente, sembrano inclusi in una lingua proprio in quanto sono esclusi da essa. Equivalenti fonetici di quelle entità paradossali che la logica degli insiemi ha bandito dalla propria disciplina all'atto stesso della sua fondazione, i rumori delle esclamazioni costituiscono gli «elementi» interni a ogni lingua che appartengono e non appartengono all'insieme dei suoi suoni. Sono i membri sgraditi ma inalienabili di ogni sistema fonologico, dei quali nessuna lingua può fare a meno ma che nessuna riconoscerà come propri.

Che tali elementi fonetici siano meno «anomali» di quanto potrebbero sembrare, lo suggerisce nientemeno che un pensatore e creatore di lingua quale Dante, affermando – nel suo incompiuto trattato sulla lingua, il De vulgari eloquentia – che, dalla Caduta di Adamo in poi, il discorso umano è sempre iniziato con un'esclamazione disperata: «Heu!». (Quindi con un'espressione la cui forma scritta contiene almeno una lettera rappresentante un suono che doveva essere assente dal latino medievale noto a Dante: la consonante aspirata pura h). Il suggerimento del poeta è degno di essere preso in seria considerazione. Cosa può significare che la forma primitiva del linguaggio umano non sia un'asserzione, una domanda, una nominazione, ma un'esclamazione? Presa troppo alla lettera, l'osservazione di Dante rischia di essere fraintesa, poiché non definisce tanto le condizioni empiriche del discorso, quanto quelle strutturali che consentono la definizione del linguaggio in quanto tale. Queste condizioni sono quelle dell'interiezione: appena è possibile un'esclamazione, suggerisce il poeta-filosofo, può esserci una lingua, ma non prima; una lingua in cui non si potesse gridare non sarebbe affatto una lingua umana. Forse perché l'intensità del linguaggio non è mai maggiore che nell'interiezione, nell'onomatopea, e nell'imitazione umana di ciò che non è umano. Mai una lingua è più «se stessa» che quando sembra abbandonare il territorio del suo suono e del suo senso, assumendo la forma fonica di quanto non ha – o non può avere – un linguaggio proprio: versi animali, rumori naturali o meccanici. Θ qui che una lingua, gesticolando oltre se stessa in un discorso che non può dirsi tale, si apre alla non-lingua che la precede e la segue. Θ qui, nell'emissione di quegli strani suoni che i parlanti si ritenevano incapaci di produrre, che una lingua si manifesta come una «esclamazione» nel senso letterale del termine: un «chiamar-fuori» (ex-clamare, Aus-ruf), oltre o prima di sé, nei suoni del linguaggio inumano che essa non può né completamente ricordare né del tutto dimenticare.

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Pagina 43

Capitolo sesto

In esilio


Un'intera lingua può scivolare nell'oblio: in tal caso si dice che è morta, o, più precisamente, che si è iniziato a parlarne una nuova. Queste espressioni rimandano al tipo di conoscenza caratteristico della linguistica storica, la quale può solo gettare uno sguardo retrospettivo sui propri oggetti d'obsolescenza. Quando un popolo inizia a dimenticare la propria lingua di un tempo, quasi mai le cose sono così chiare. Varie sono le possibilità. Una lingua può scomparire del tutto inavvertitamente; può anche essere rievocata da chi la parlava, quando per loro si riduce soltanto a una memoria. Ma nessuna lingua – nemmeno quella considerata sacra – può sottrarsi alla propria caducità. Così, ad esempio, la lingua dei cinque libri di Mosè cedette progressivamente il passo, nella collezione unitaria ma composita di testi che costituiscono la Bibbia ebraica, alle forme linguistiche posteriori che la soppiantarono, fino al «siriaco» in cui si ritiene comunicassero i Caldei nel Libro di Daniele, e che i filologi moderni identificano con una lingua differente ma affine, l'aramaico. E fu così che questa seconda lingua semitica – propria non soltanto ai consiglieri di Nabuccodonosor ma, in verità, anche a coloro che professavano la propria discendenza da Israele – cedette a una terza lingua, l'arabo, in un periodo ancora successivo nella vita del popolo dell'antico Vicino Oriente.

Per gli ebrei, la perdita dell'ebraico biblico sollevò interrogativi la cui portata teologica poteva difficilmente essere elusa. Θ vero che la Scrittura poteva essere almeno in parte spiegata e tradotta, e che le espressioni bibliche potevano affiorare passando al setaccio gli idiomi susseguitisi nel tempo. A riprova, basta ricordare una pagina del Talmud, in cui non meno di tre lingue sono chiamate a glossare un unico principio giuridico. Si può anche ricordare quel monumento dell'ebraismo arabico che è il Taj: l'edizione poliglotta del Pentateuco, con l'ebraico originale, la versione aramaica chiamata Targum e la singolare traduzione, ultimata da Sa'adia Gaon nel X secolo, in cui la Scrittura ebraica trova espressione in una forma di arabo che in più di un punto ricorda marcatamente lo stile e la fraseologia caratteristici del Corano, ma scritta, nella fattispecie, con le lettere dell'alfabeto ebraico. Lo scopo del Talmud, come pure del Taj, era di percorrere a ritroso, grazie a tecniche ermeneutiche, esegetiche e filologiche, il tempo che separava una forma linguistica da un'altra; ambedue aspiravano ad attraversarne gli strati di oblio che uniscono, pur separandolo, un dato momento nella vita di una lingua a un altro ormai dimenticato.

Alcune dimensioni della lingua perduta, tuttavia, si dimostrarono particolarmente difficili da recuperare. Una di esse era quella sonora. Ben presto, la fonetica della lingua sacra divenne oggetto di discussione tra i filologi ebraici, che operarono in larga parte nella scia delle nascenti scuole di grammatica dell'arabo classico. Naturalmente i dibattiti si fecero più accesi quando si trattò di definire le convenzioni di quell'ambito della lingua in cui le forme fonetiche diventano matrici della composizione, cioè la poesia. Per quanti credevano che la lingua originaria degli ebrei potesse dar vita a composizioni in versi all'altezza di quelle di altre lingue, la questione era urgente. Come doveva essere scritta la poesia ebraica? La Bibbia stessa forniva solo indicazioni assai vaghe, in quanto non conteneva enunciati dai quali il critico o lo scrittore potessero estrarre chiari principi di versificazione. Nel X secolo, un poeta e filologo marocchino di nome Dunash ha-Levi ben Labrat propose un'idea inedita. La poesia ebraica, suggerì, poteva adottare la metrica utilizzata dai poeti della penisola arabica prima dell'avvento dell'Islam. Certo, sarebbe stato necessario adattare in qualche modo il sistema metrico beduino per trapiantarlo nella lingua semitica più antica. Il sistema delle vocali ebraiche, in particolare, differiva sostanzialmente da quello dell'arabo classico, e certi metri arabi risultavano impossibili da riprodurre nella lingua biblica. In una serie di composizioni poetiche originali, però, Dunash dimostrò che, una volta chiarite certe restrizioni, il sistema di versificazione arabo poteva essere applicato all'ebraico. Dei sedici ritmi originari del verso arabo classico, almeno dodici potevano essere recuperati nella «traduzione» metrica (e il filologo spagnolo del XV secolo Sa'adia ben Maimum Ibn Danan, a cui dobbiamo la più completa esposizione classica della prosodia ebraico-araba, era dell'avviso che anche gli altri quattro potessero essere adattati alla lingua biblica).

Non sorprende che l'uso sistematico di ritmi stranieri nell'ebraico abbia causato la più profonda costernazione tra gli autonominatisi custodi della lingua ancestrale. Nel XII secolo il poeta e filosofo spagnolo Yehuda ha-Levi, difendendo la religione ebraica nel Libro delle prove e degli argomenti in favore della fede disprezzata, altresì noto come Kuzari, suggeriva addirittura che l'uso dei metri arabi nell'ebraico avesse contribuito all'obsolescenza della lingua sacra (tuttavia, si esita ad attribuire all'autore del dialogo questa affermazione, per di più formulata in arabo, in quanto lo stesso ha-Levi era stato uno dei maestri ineguagliati della prosodia araba in lingua ebraica). In effetti, fin dal momento in cui Dunash lo introdusse, il sistema arabo di versificazione incontrò delle resistenze.

[...]

Cosa significa per una lingua andare in esilio? Θ certo più comune parlare di un individuo o di un popolo bandito dalla propria terra. Θ vero che talvolta la lingua può esserne coinvolta, come nel caso dello scrittore in esilio di cui Josif Brodskij ha tracciato un ritratto memorabile: «La condizione di uno scrittore in esilio somiglia a quella di un cane o di un uomo catapultato nello spazio dentro una capsula (somiglia di più a quella di un cane, naturalmente, perché nessuno si preoccuperà mai di recuperarti). E la tua capsula è la tua lingua. Per chiudere la metafora, occorre aggiungere che il passeggero non tarda molto a scoprire che la capsula non gravita verso la terra, bensì verso l'esterno, nello spazio». Tuttavia la situazione descritta dai grammatici medievali è più complessa, poiché è un'intera lingua ad essere esiliata, e non un singolo scrittore. Per riprendere l'immagine di Brodskij, la capsula non contiene nessuno, neppure un cane: non si può distinguere il ricettacolo dal contenuto, perché qui è l'intera lingua ebraica a lasciarsi alle spalle la propria mitica patria, e veicolo e passeggero sono tutt'uno. Da qui la differenza fondamentale tra lo scrittore in esilio e la lingua in esilio. Il primo può sognare di venir «recuperato» da chi sta ancora nel paese da cui proviene, anche se il sogno assume l'aspetto di una sconfessione quando Brodskij, in una significativa parentesi, osserva «nessuno si preoccuperà mai di recuperarti». Nel caso della lingua, invece, la messa al bando è irreparabile. «Quel poco che oggi ne rimane» resterà in esilio, perché non può esserci ritorno ad una terra la cui «ricchezza» è definitivamente scomparsa.

Si possono certo vedere i discepoli di Menahem come partigiani di una vana volontà di difendere la purezza di una lingua che sanno ormai perduta. Presto gli assidui grammatici furono infatti sconfitti dal fiorire della letteratura che avevano così strenuamente tentato di ostacolare. A meno di un secolo dalle «risposte» dei discepoli, sorse in Spagna un intero corpus di poesia ebraica composta in metri arabi, la quale annunciava, nella sua bellezza e complessità senza pari, tutte gli sconfinamenti che la lingua sacra avrebbe poi compiuto nella storia delle lettere ebraiche: a partire dal verso degli ebrei italiani e provenzali nel Medioevo e nel Rinascimento, composto in forme romanze come la canso e il sonetto, fino alla poesia degli ebrei dell'Europa orientale, che avrebbero successivamente scritto in metri accentati tratti dalle lingue germaniche e slave da essi parlate. Ma può darsi che i discepoli avessero nondimeno colto qualcosa che pochi hanno visto, prima e dopo di loro: e cioè che anche una lingua può essere bandita dal suo luogo d'origine, che essa può restare sacra anche se – o forse proprio perché – la ricchezza che un tempo possedeva è quasi svanita. Non è forse un caso che l'età aurea nella storia della poesia ebraica — quella della Spagna musulmana — sia sorta nel momento in cui gli scrittori in questa lingua perdevano di vista definitivamente la sua terra natia. Perché l'esilio è forse la patria della parola, e può ben darsi che si possa accedere al segreto di una lingua solo nel preciso istante in cui la si dimentica.

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Capitolo quattordicesimo

L'animale minore


Gli esseri umani sanno fare molte cose, ma le loro abilità impallidiscono, da diversi punti di vista, se paragonate a quelle di altre creature viventi. Con la sua caratteristica onestà, Spinoza ha osservato questo fatto in un famoso scolio del terzo libro dell' Ethica: «Nei Bruti», commentò semplicemente e di sfuggita, «si osservano molte cose che superano di gran lunga l'umana sagacia» (in Brutis plura observentur, quae humanam sagacitatem longe superant). Al-Jahiz, una delle più grandi figure della tradizione letteraria araba classica, si occupò del problema con considerevole acume in un passo del suo ampio e labirintico Kitab al-hayawan (Libro degli animali), che portò a termine verso la metà dell'ottavo secolo d.C. Nel suo compendio, lo scrittore iracheno raccolse, ordinò e commentò larga parte del sapere medico, zoologico, giuridico, filosofico e filologico dell'Antichità classica e del mondo arabo-islamico medievale. In un capitolo, opportunamente intitolato da un curatore moderno Le debolezze dell'uomo rispetto ai poteri degli animali, non tentò nemmeno di nascondere la propria sconfinata ammirazione per le abilità delle bestie. «Dio», affermava al-Jahiz inizialmente, «infuse ogni sorta di conoscenze negli animali diversi dall'uomo». «Egli conferì loro una straordinaria destrezza», scriveva, «tanto nella tecnica che nella capacità di applicazione; fornendoli di becchi o di zampe, aprì loro un intero campo di conoscenze conforme agli strumenti di cui li aveva dotati, e creò in molte specie organi sensoriali altamente sviluppati che li rendono capaci di eseguire imprese meravigliose». Al-Jahiz non dovette sforzarsi a trovare esempi per illustrare la propria tesi. «Osservate il ragno», scrisse, «o la termite, con i doni che ciascuno ha ricevuto; o prendete l'ape e la conoscenza che le fu impartita; o, meglio ancora, l'uccello tessitore e la sua straordinaria attitudine, la sua meravigliosa abilità nell'eseguire capolavori; e vi sono molti altri esempi ancora». Θ come se gli animali differenti dall'uomo fossero uniti nella loro perfezione. «Nella maggior parte degli atti che compiono», proseguiva al-Jahiz, «Dio non impose a queste specie nessun difetto di sorta: dagli insetti alati [hamaj] agli uccellini [khashash] e ai più minuscoli insetti [sigar al-hasharat], tutti quanti possiedono le più straordinarie attitudini».

Le capacità peculiari del genere umano sembravano ad al-Jahiz appartenere ad un ordine differente. «Dio rese l'uomo», scriveva, «un essere dotato di ragione ['aql], autorità, capacità di agire [istita'a], sovranità, responsabilità, esperienza, spirito di riconciliazione, rivalità, desiderio di comprendere, di partecipare al gioco dell'emulazione, e anche della capacità di considerare con lucidità le conseguenze delle proprie azioni». Al-Jahiz riteneva che tali doti fossero tutt'altro che insignificanti. Ma non si faceva illusioni sui loro limiti, quantomeno se confrontate ai doni degli insetti e degli altri animali. L'erudito autore sapeva bene che l'uomo può apprendere: studio e pratica, eretti su di una robusta attitudine naturale, migliorano certamente le prestazioni umane. Ma, scriveva al-Jahiz, anche «un uomo dotato di acuta sensibilità, in possesso di tutte le qualità intellettuali, versato in un gran numero di discipline, che eccelle in molti ambiti del sapere, è incapace di compiere spontaneamente gran parte delle azioni che gli animali portano a termine». La disciplina, per quanto utile, non può sperare di far raggiungere all'uomo la saggezza dell'animale, la quale sboccia naturalmente, in assenza di accademie, scuole, e istruzione. «Senza essere stato addestrato e senza essere stato istruito, senza scuole e senza nessun apprendistato, e senza nemmeno aver compiuto esercizi ripetuti o metodici», commentava lo studioso con un certo stupore, «queste specie animali, grazie alle loro facoltà naturali, sono spontaneamente in grado di eseguire rapidamente e improvvisamente azioni che il più colto degli uomini, il più erudito dei filosofi tutti, non potrebbero compiere, anche disponendo di mani agilissime o servendosi di strumenti». Non importa quanto rigorosa la sua educazione, quanto grande il suo impegno, e quanto elaborati i suoi strumenti: l'uomo, insisteva l'enciclopedista arabo, resta tra gli esseri viventi un animale minore.

Fare meno, tuttavia, non equivale a non fare nulla, e nel Libro degli animali la relativa debolezza della specie umana rivelava nascosta in sé una curiosa abilità conferita ad essa soltanto. Dopo aver descritto la perfezione negata alla specie umana, al-Jahiz spiegava che l'eccellenza delle specie inumane deve escludere per definizione almeno una pratica, il cui terreno coincide con la provincia naturale dell'uomo: il fallimento, o, per dirla con maggior delicatezza, il far di meno. «L'uomo è fatto in modo tale», scriveva al-Jahiz, «che quando compie un atto difficile da eseguire, ha anche l'abilità di compierne uno meno difficile (mata ahsana shay'an kana kulla shay' dunaha fi-l-gumud 'alaihi ashala)».

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Capitolo sedicesimo

Hudba


Perdere la propria lingua di certo può creare dei problemi, ma anche acquisirne una nuova non è esente da difficoltà, sebbene tutt'altro che rare. Prima o poi bisogna confrontarsi con un idioma che non si può dire nostro, e di fronte al quale l'unica alternativa è adeguare il proprio linguaggio o tacere. In quel momento gli esseri parlanti si rendono conto di non aver appreso nulla di più e nulla di meno che una lingua tra le altre. Considerata come oggetto di scienza, tale lingua varia certo da un luogo all'altro e da un'epoca all'altra: per un certo parlante può essere il tamil; per un altro l'amharico; o, per fare un esempio altrettanto arbitrario, il bulgaro. Ma in quanto fenomeno comune all'esperienza di tutti gli esseri parlanti, quella lingua porta un unico nome, coniato alla fine del Medioevo e mai caduto in disuso: «lingua madre» (materna lingua). Dante, che si considerava il primo ad aver riflettuto su questo tema in quanto tale, sosteneva che la differenza tra il linguaggio originario dell'essere parlante e le forme di linguaggio successive non era solo di grado ma anche di natura. «La nostra prima lingua [o lingua "primaria", prima locutio]», scriveva nei celebri paragrafi d'apertura del De vulgari eloquentia, «la apprendiamo da chi ci sta intorno», «senza bisogno di regole, [la] impariamo imitando la nostra nutrice» (sine regola nutricem imitantes accipimus). La nostra lingua «seconda» (o «secondaria»), al contrario, la apprendiamo deliberatamente e metodicamente allorché acquisiamo padronanza del sistema di principi che il poeta-filosofo medievale, in accordo con l'uso del suo tempo, indicava con il termine assai equivoco di «grammatica» (gramatica). Il punto di vista di Dante era certo decisamente medievale. Ai suoi occhi poteva esistere solo una «seconda lingua» del genere, ed era il latino, la lingua delle scuole. Comunque, qualcosa della sua concezione circa la varietà delle lingue resta valida a tutt'oggi, poiché pochi dubiterebbero che si impari la lingua madre in modo fondamentalmente dissimile da come si acquisiscono le lingue successive.

L'abisso che separa la «prima» e la «seconda» lingua è evidente, almeno per quanto concerne la loro acquisizione, e non può non suscitare interrogativi sulla natura e la possibilità della transizione tra i due tipi di idioma. Come è mai possibile, c'è da chiedersi, iniziare ad apprendere «una lingua» tramite lo studio, se fino ad allora si era sempre solo cominciato a parlare «imitando senza alcuna regola»? E se proprio si riusciva ad apprendere una «seconda» lingua mediante la padronanza dei principi della grammatica, una tale acquisizione poteva non aver conseguenze per quella che l'aveva preceduta? Non è scontato che, dopo aver soggiornato nel sistema ordinato di una grammatica straniera, gli esseri parlanti possano ritornare pienamente al medium indisciplinato della loro «prima lingua». Ma tali interrogativi non si limitano al passaggio tra la «lingua madre» e quelle «secondarie» che le succedono. Possono anche riguardare la stessa «prima» lingua, e presentarsi in un momento precedente l'acquisizione di qualsiasi lingua che possa opporsi a quel «linguaggio primario» di cui Dante ci ha fornito la prima formulazione filosofica. Perché vi sono alcuni parlanti – per quanto pochi – che possiedono di più o di meno di un'unica lingua madre: coloro che, prima ancora di studiare una lingua straniera, hanno già iniziato a perdere quella un tempo imparata «senza alcuna regola», e ad acquisirne un'altra semplicemente «imitando le [loro] nutrici».

Elias Canetti è un caso esemplare. Nato in Bulgaria nel 1905 da una famiglia di ebrei sefarditi, apprese dapprima l'idioma giudeo-spagnolo degli ebrei che vivevano in Spagna fino alla loro cacciata del 1492, il ladino. Per la verità, diverse lingue venivano parlate correntemente durante l'infanzia di Canetti a Rustchuk, sua città natale. «In un solo giorno», ricorda nel primo volume della sua autobiografia, La lingua salvata (Die gerettete Zunge), «si potevano sentire sette o otto lingue», poiché la città era abitata non solo da ebrei spagnoli, ma anche da molti bulgari, turchi, greci, albanesi e zingari, oltre alcuni rumeni e russi «isolati». Secondo Canetti, lo spagnolo in gran parte medievale dei sefarditi fu la sua prima lingua; era la lingua della sua famiglia e dei suoi amici, come pure dei suoi primi canti domestici e delle romanze apprese da bambino. Ma il futuro scrittore era già esposto ad un'altra lingua a casa sua, nell'infanzia. Nonostante i genitori parlassero sempre in spagnolo con i figli e gli amici, usavano tra di loro un'altra lingua, il tedesco, «la lingua dei loro felici anni di studio a Vienna». Era probabilmente solo naturale che il figlio maggiore, Elias, fosse affascinato in età precoce dalla lingua straniera, e che, quando sua madre e suo padre si rivolgevano l'un l'altro in quell'idioma, egli ne fosse immediatamente attratto. «Stavo ad ascoltarli con la massima concentrazione e poi domandavo il significato di questo e quello», scrisse. «Loro ridevano e dicevano che era troppo presto, quelle cose le avrei capite solo più avanti. Era già tanto che mi concedessero la parola "Wien". Io pensavo che discorressero di cose meravigliose, che si potevano dire solo in quella lingua. Quando alla fine smettevo di mendicare invano una spiegazione, me ne scappavo via infuriato, andavo in un'altra stanza che si usava raramente, e lì, cercando di riprodurre esattamente il suono della voce, ripetevo fra me e me le frasi appena ascoltate, e le pronunciavo come formule magiche esercitandomi più e più volte».

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