Autore Sheila Heti
Titolo Maternità
EdizioneSellerio, Palermo, 2019, Il contesto 98 , pag. 296, ill., cop.fle., dim. 13,5x21x1,8 cm , Isbn 978-88-389-3917-4
OriginaleMotherhood [2018]
TraduttoreMartina Testa
LettoreElisabetta Cavalli, 2019
Classe narrativa canadese












 

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Indice


Maternità

Nota                               9

Un'altra nota                     11

New York                          53

Casa                              61

Book tour                         95

Casa                             107

Sindrome premestruale            117

Sanguinare                       147

Follicolare                      163

Ovulazione                       175

Sindrome premestruale            183

Sanguinare                       213

Follicolare                      229

Ovulazione                       243


 

 

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Pagina 13

Spesso guardavo il mondo da una grande distanza, o non lo guardavo affatto. In ogni momento mi passavano sopra la testa uccelli che non vedevo, nuvole e api, il fruscio dei venti, il sole sulla pelle. Vivevo solo nel mondo grigiastro e senza senso della mia mente, dove cercavo di affrontare tutto ragionando e non arrivavo a nessuna conclusione. Avrei voluto avere il tempo di mettere insieme una visione del mondo, ma il tempo non c'era mai, e oltretutto chi ce l'aveva sembrava avercela avuta fin dalla più giovane età, non aveva cominciato a quarant'anni. L'unica cosa che si poteva cominciare a quarant'anni, lo sapevo, era la letteratura. Lì, se quando cominciavi avevi quarant'anni, si poteva dire che eri giovane. In tutto il resto io ero vecchia, le navi erano già salpate, avevano preso il largo, mentre io dovevo ancora arrivare alla spiaggia. La mia nave non l'avevo neanche trovata. La ragazzina che viveva con noi - aveva dodici anni - mi rendeva evidenti come mai prima i miei limiti: la mia fragilità, la mia obbedienza, le mie ribellioni meschine: e soprattutto la mia ignoranza e il mio sentimentalismo. Quando entrai in salotto al mattino, sul tavolo c'era mezzo hot dog. Lo chiamai una banana. Allora capii che ero troppo vecchia per questo mondo, che lei mi aveva con totale naturalezza sorpassata, e avrebbe continuato a farlo. Trasformare il panorama grigiastro e fangoso della mia mente in qualcosa di solido e concreto, del tutto separato da me, e anzi totalmente diverso da me, era la mia unica speranza. Non sapevo cosa sarebbe stata questa versione solida, o che forma avrebbe preso. Sapevo solo che dovevo creare un mostro potente, dato che io ero un mostro così debole. Dovevo creare un mostro diverso da me, che sapeva più di quanto io sapessi, aveva una visione del mondo e non sbagliava le parole così facili.

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Pagina 15

Lancio tre monete su una scrivania. Due o tre teste: sì. Due o tre croci: no.


Questo libro è una buona idea?

È ora il momento di cominciarlo?

Qui, a Toronto?

Quindi non ho niente di cui preoccuparmi?

Sì, nel senso che davvero non ho niente di cui preoccuparmi?

no

Mi dovrei preoccupare?

Di cosa mi dovrei preoccupare? Della mia anima?

Leggere farà bene alla mia anima?

Stare in silenzio farà bene alla mia anima?

Questo libro farà bene alla mia anima?

Quindi sto facendo tutto giusto?

no

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Pagina 23

Mia madre ha pianto per quaranta giorni e quaranta notti. Da che la conosco, conosco i suoi pianti. Un tempo pensavo che da grande sarei diventata una donna di tipo diverso, che non avrei pianto, e che avrei anche smesso di far piangere lei. Non era mai in grado di spiegarmi cosa c'era che non andasse, tranne dirmi: Sono stanca. Possibile che fosse sempre stanca?, mi chiedevo da piccola. Non lo capisce che è infelice? Mi sembrava che la cosa più brutta del mondo fosse essere infelice senza capirlo. Crescendo, controllavo ossessivamente se mostravo segni di infelicità. Poi anch'io sono diventata infelice. Mi sono riempita di lacrime.

Per tutta l'infanzia ho avuto la sensazione di aver fatto qualcosa di male. Esaminavo ogni mio gesto, le parole dette, il modo in cui mi sedevo su una sedia. Cosa stavo facendo per farla piangere? I bambini pensano di essere la causa perfino delle stelle nel cielo, quindi ovviamente i pianti di mia madre dipendevano solo da me. Perché ero venuta al mondo per causarle dolore? Dato che gliel'avevo causato, volevo anche toglierglielo. Ma ero troppo piccola. Non sapevo neanche scrivere il mio nome. Sapendo così poco, come potevo capirci qualcosa del suo dolore? Non lo capisco neanche ora. Nessun bambino, di sua volontà, può strappare una madre al suo dolore, e da adulta sono sempre stata molto occupata. Sono stata occupata a scrivere. Mia madre dice spesso: Tu sei libera. Forse è vero. Posso fare quello che voglio. E allora la farò smettere di piangere. Una volta che avrò finito di scrivere questo libro, nessuna di noi due piangerà mai più.

Questo sarà un libro fatto apposta per impedire lacrime future: per impedire a me e mia madre di piangere. Si potrà definire un successo se, dopo averlo letto, mia madre smetterà di piangere per sempre. Lo so che non è compito dei bambini far smettere di piangere la madre, ma io non sono più una bambina. Sono una scrittrice. La trasformazione che ho subito, da bambina in scrittrice, mi dà dei poteri: voglio dire che certi poteri magici sono quasi alla mia portata. Se sarò abbastanza brava come scrittrice, forse riuscirò a impedirle di piangere. Magari riuscirò a capire perché piange, e perché piango anche io, e a guarire entrambe con le mie parole.


L'attenzione è anima? Se presto attenzione al dolore di mia madre, ciò gli conferisce un'anima? Se presto attenzione alla sua infelicità - se la metto in parole, la trasformo e ci faccio qualcosa di nuovo - posso essere come gli alchimisti, che trasformavano il piombo in oro? Se vendo questo libro, in cambio ne riceverò dell'oro. È una sorta di mutazione alchemica. I filosofi volevano trasformare la materia oscura in oro, e io voglio trasformare la tristezza di mia madre in oro. Quando l'oro arriverà, andrò alla porta di mia madre e glielo consegnerò dicendo: Ecco la tua tristezza, trasformata in oro.

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Pagina 29

Se voglio figli o meno è un segreto che nascondo a me stessa: è il più grande segreto che nascondo a me stessa.

La cosa da fare quando si è indecisi è aspettare. Ma per quanto tempo? La prossima settimana compio trentasette anni. Per certe decisioni il tempo stringe. Come facciamo a sapere come andrà a finire per noi, trentasettenni indecise? Da un lato, la gioia dell'avere figli. Dall'altro, le tribolazioni dell'averne. Da un lato, la libertà di non averne. Dall'altro, il rimpianto di non averne mai avuti: ma in fondo cos'è che ci si perde? L'amore, il figlio e tutti quei sentimenti materni di cui le madri parlano in tono così allettante sono cose che si hanno, non cose che si fanno. È la parte del fare che sembra difficile. La parte dell'avere sembra meravigliosa. Ma i figli non si hanno, si fanno. Io so di avere molto di più rispetto a tante madri. Ma ho anche meno. In un certo senso, non ho nulla. Ma questo mi piace e penso di non volerlo, un figlio.

Ieri ho parlato al telefono con Teresa, che è sulla cinquantina. Le ho detto che mi sembrava che gli altri fossero improvvisamente molto più avanti di me, coi matrimoni, le case, i figli i risparmi. Lei mi ha detto che quando uno si sente così, deve cercare di capire meglio quali sono i suoi veri valori. I nostri valori li dobbiamo mettere in pratica. Spesso le persone vengono incanalate verso un modello di vita convenzionale: il modello che veniamo spinti con tanta forza a seguire. Ma com'è possibile che ci sia un solo percorso giusto? Dice che questo percorso spesso non funziona neanche per tante persone che finiscono per viverlo. Arrivano a quarantacinque, cinquant'anni, e non ce la fanno più. È facile stare a galla e lasciarsi portare dalla corrente, ha detto. Ma solo per un po'.


Voglio forse dei figli perché desidero essere ammirata come il tipo di donna ammirevole che ha dei figli? Perché voglio essere vista come una donna normale, o perché voglio essere il miglior tipo di donna possibile, una donna non solo con un lavoro, ma con il desiderio e la capacità di allevare dei figli, un corpo in grado di fare bambini, e con cui un'altra persona vuole fare bambini? Voglio un figlio per dimostrare a me stessa di essere il tipo (normale) di donna che vuole un figlio e alla fine lo fa?

La sensazione di non volere figli è la sensazione di non voler essere l'idea che qualcun altro ha di me. Una cosa grande come quella che hanno i genitori non ce l'avrò mai, ma non la voglio, anche se è bellissima, anche se in un certo senso hanno fatto tombola, hanno vinto il primo premio, ossia il sollievo genetico: il sollievo dell'aver procreato; un successo in senso biologico, che a volte sembra l'unico senso che conta. E oltretutto hanno anche del successo sociale.

C'è una sorta di tristezza nel non desiderare le cose che per tante altre persone danno senso alla vita. Ci può essere della tristezza all'idea di non vivere fino in fondo una storia più universale - il presunto ciclo della vita - in cui dal ciclo di ogni vita dovrebbe nascerne un altro. Ma quando dalla propria vita non nasce nessun altro ciclo, che cosa si prova? Non si prova nulla. Eppure c'è un pizzico di delusione quando le cose splendide che succedono nella vita degli altri tu di fatto non le vuoi per te stessa.

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Pagina 40

Perché facciamo ancora i bambini? Perché era importante per quel dottore che io ne facessi uno? Le donne devono avere i bambini perché devono essere occupate. Quando penso a tutta la gente che nel mondo vuole vietare l'aborto, mi sembra che il senso possa essere uno solo: non è che vogliono una persona nuova al mondo, vogliono che le donne si occupino innanzitutto di tirare su i figli. C'è qualcosa di minaccioso in una donna che non è impegnata coi figli. Una donna del genere dà un senso di instabilità. Cos'altro si metterà a fare? Che razza di guai combinerà?

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Pagina 86

Quando Miles si è avvicinato e si è fermato alle mie spalle, mentre scrivevo, e mi ha messo le mani sul seno, mi sono irrigidita. Mi sono irrigidita perché fino a un attimo prima stavo guardando la foto di una ragazza molto prorompente, e mi è sembrato che per lui invece non ci fosse granché da toccare. Ho pensato che di sicuro stava pensando all'inadeguatezza del mio seno. Poi ha staccato le mani. Si è accorto che mi ero irrigidita?

Ha capito che provavo un senso di insicurezza rispetto al mio seno?

Era, di fatto, rimasto deluso dall'inadeguatezza del mio seno, nel toccarmelo?

no

Ah, ecco. Peccato. Peccato che io abbia proiettato quell'insicurezza su di lui, così come sto proiettando su di voi, monete, la saggezza dell'universo. Ma è utile, tutto questo, per interrompere i miei soliti processi mentali con un o con un no. Più uso queste monete più sento che il cervello mi diventa elastico. Quando ottengo una risposta che non mi aspetto, devo sforzarmi di formulare un'altra domanda - auspicabilmente migliore. È un'interruzione della mia autoindulgenza - o almeno questo è l'effetto che mi fa, dover scavare un po' più a fondo, rimanere spiazzata. I miei pensieri non vanno a finire dove andrebbero normalmente. Al tempo stesso, arrivata a quest'età mi sembra sotto certi aspetti di essermi accettata per quella che sono, e dunque il lancio delle monete non è un gesto di autoeliminazione, come sarebbe se ancora disprezzassi me stessa. O forse disprezzo ancora me stessa?

no

E l'ho mai fatto?

no

No, no, era tutta scena, anche allora. Anche quando sembrava che mi disprezzassi, ero comunque molto felice di essere nata. E possibile disprezzare se stessi ma amare il mondo?

Ma il nostro io non è parte del mondo?

Allora non capisco come sia possibile disprezzare sé stessi ma amare il mondo. Evidentemente bisogna sentire, a livello sostanziale, di non far parte del mondo. È così?

É questa l'essenza della disperazione?

Qual è l'opposto della disperazione? La gioia?

La pace?

no

La felicità?

Quindi l'essenza della felicità e della gioia è la sensazione di appartenere al mondo?

E di essere del mondo, parte del mondo - di non esserne in nessun modo separati?

no

Di sentirsi a casa nel mondo?

Sia a livello microcosmico che macrocosmico?

no

Solo a livello microcosmico, tipo all'interno di una città, di una relazione, di una famiglia, o fra amici?

no

Solo a livello macrocosmico, tipo nella natura, nell'umanità e nel tempo?

Il mio buon proposito per quest'anno era di essere felice. Volevo tantissimo essere felice, quasi a costo di tutto il resto, ma non sapevo in cosa consistesse la felicità. Ora che lo so, mi concentrerò su questo. La felicità e la gioia sono la sensazione di appartenere al mondo e di essere a casa nel mondo, sul piano della natura, dell'umanità e del tempo.


Durante il fine settimana, io e mio padre abbiamo guardato dei filmini di famiglia girati in Florida quando avevo nove o dieci anni. In uno ci sono mia madre e mio fratello nel corridoio di un palazzo dove i cugini religiosi di mia madre possedevano due appartamenti: eravamo ospiti lì per una settimana. Mio padre tiene la videocamera, e noi avanziamo lungo il corridoio che porta da un appartamento, quello in cui stavamo, all'altro, che aveva la tv. Io parlo rivolta alla telecamera, dicendo a mio padre di riprendere le pale sul soffitto, e annunciando con voce lenta e volutamente teatrale: Guarda le pale! Vedi come girano... come uno che stia vendendo una casa a un deficiente.

Nel filmino mia madre, appoggiata allo stipite della porta del secondo appartamento, chiede a mio padre se ha le chiavi, per entrare e staccarsi da noi. Sul suo viso, mentre mi guarda, c'è un'aria di disgusto. Piantala di recitare!, dice. Prova a viverla, la vita. I miei non erano mai d'accordo su nulla, quindi papà prende le mie difese. Ma no, guarda che sta provando a recitare, perché è un reportage di viaggio, ci stiamo spostando dal nostro appartamento a quell'altro. Mia madre gli risponde acida, sottovoce: No, invece! Io glielo dico, certe volte: «Sii te stessa». Ma non so neanche più che cosa sia «lei stessa». Fra le sue messinscene e «lei stessa» ormai c'è la confusione più totale.

Per anni quel filmato mi ha fatto male da morire, ci vedevo tutto il disprezzo di mia madre. Quando lo guardavo, da più piccola, mi sembrava la dimostrazione del fatto che non mi amava. Ma adesso credo che avesse ragione a criticarmi. Fra la mia personalità e le mie messinscene c'era davvero la confusione più totale. Vorrei che mia madre mi avesse aiutata ad affrontare i miei problemi, e me li avesse fatti notare in maniera costruttiva, dandomi una mano a venirne a capo. Non ho mai capito cosa ci trovasse di sbagliato in me, e quindi ne ho concluso che ero sbagliata tutta quanta. È così che mi sono sempre sentita, irrimediabilmente sbagliata, e con un bisogno disperato di vivere una vita al riparo dalle critiche, qualunque cosa ciò significasse: dimostrare che ero meglio di come mi vedeva lei, fare almeno una cosa che potesse ammirare.

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Pagina 93

Forse allevare dei figli è letteralmente un compito ingrato. Forse non c'è motivo di ringraziare qualcuno per aver speso energie a produrre un essere umano che non aveva nessun bisogno di nascere. E allora dovremmo tentare di resistere a questo impulso - come ha detto Miles -, trascorrere gli anni della fertilità senza mettere al mondo un figlio, per quanto possiamo desiderarlo, e invece altruisticamente e con tutte le nostre forze fare il possibile per evitarlo? Trovare il nostro valore e la nostra grandezza in un luogo che non sia la maternità, così come un uomo deve trovare il suo valore e la sua grandezza in un luogo lontano dalla dominazione e dalla violenza, e più uomini e donne ci riescono, meglio sarà per il mondo? Miles ha detto che stimiamo gli uomini che combattono e dominano, così come abbiamo una venerazione per le madri. L'egoismo del fare figli è come l'egoismo del colonizzare un paese: entrambi hanno dentro il desiderio di lasciare un segno di sé nel mondo, di trasformarlo in base ai propri valori, e a propria immagine. Quanto mi sento aggredita quando sento che una persona ha avuto tre figli, quattro, cinque, di più ancora... Mi sembra segno di avidità, prepotenza e maleducazione: un espandersi arrogante della propria individualità.

Eppure forse non sono tanto diversa da quelle persone: anch'io mi espando per tante pagine, e sogno che le mie pagine si spandano per il mondo. Mia cugina, che ha la mia età ed è molto credente, ha sei figli. E io ho sei libri. Forse non c'è tutta questa differenza fra noi, solo una leggera differenza nelle cose in cui crediamo - nelle parti di noi che ci sentiamo chiamate a espandere.

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