Copertina
Autore Katie Hickman
Titolo Il giardino delle favorite
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Narratori moderni , pag. 414, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x3,8 cm , Isbn 978-88-11-68639-2
OriginaleThe Aviary Gate [2008]
TraduttoreSara Caraffini
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa inglese
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Pagina 13

PROLOGO
Oxford, oggi



Il foglio di carta pergamena, quando Elizabeth lo vide per la prima volta, aveva un colore ambrato come quello del tè ed era fragile come foglie secche.

Era un piccolo in folio ripiegato accuratamente in tre così da inserirsi perfettamente tra le pagine del libro. Lungo uno dei lati piegati spiccava una macchia d'acqua. Lei diede un'altra rapida occhiata alla relativa voce sul catalogo – Opus astronomicum prima de sphaera planetarum – poi di nuovo al foglio.

"L'ho trovato."

Sentiva la gola contratta. Per un attimo rimase seduta, immobile. Il bibliotecario le dava la schiena, chino su un carrello di libri. Elizabeth alzò gli occhi verso l'orologio sulla parete di fronte: le sette meno cinque.

Le restavano cinque minuti prima della chiusura della biblioteca, forse meno. La campanella era già suonata e la maggior parte degli altri lettori stava cominciando a mettere via le proprie cose. Eppure Elizabeth non riuscì a costringersi a spiegare il foglio. Prese invece il libro e, tenendolo aperto con cura, il dorso stretto nelle mani messe a coppa, se lo accostò al viso. "Attenta, fa' piano adesso", si disse.

Poi, a occhi chiusi, lo annusò come un gatto esitante. E subito captò l'odore di tabacco da fiuto e polvere vecchia, un lieve sentore di canfora. Poi il mare, decisamente il mare. E qualcos'altro, cosa? Inspirò di nuovo, molto lievemente, stavolta.

Rose. Tristezza.

Elizabeth posò il volume, le mani tremanti.

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Pagina 88

Lavare Celia avrebbe comportato bagnarsi parecchio. Per prepararvisi Cariye Lala si era spogliata quasi completamente; un sottile drappo le cingeva le gambe ossute ma le vecchie mammelle dondolavano liberamente mentre lavorava, i capezzoli lunghi e raggrinziti, con il colore e la consistenza di prugne secche. Talvolta urtavano la schiena e le gambe di Celia, stesa bocconi sul marmo.

E adesso? La poverina era in preda al tormento. "Cosa dovrei fare, adesso? Devo dirle qualcosa o rimanere in silenzio?" Il marmo, che ormai scottava, le pungeva guancia e collo. Per essere una donna dall'aria così fragile, Cariye Lala era piena di un'energia davvero sorprendente. Afferrò Celia per un braccio e si mise all'opera di buona lena.

Man mano che la sua giovane servetta le passava brocche d'argento piene d'acqua, prima calda e poi talmente fredda da togliere il fiato, Cariye Lala sciacquava e strofinava. Aveva una mano infilata in un ruvido guanto di tela con cui frizionò l'intero corpo di Celia. La pelle di quest'ultima era talmente delicata che ben presto quel candore niveo, che di lì a poche ore il sultano si sarebbe visto offrire per il suo diletto, si trasformò in un bagliore roseo e, alla fine, in un pungente rossore color cremisi. Un breve gemito le sgorgò dalle labbra. Tentò di ritrarsi ma si ritrovò prigioniera di una stretta simile a una morsa. Cariye Lala riusciva a tenerla giù senza alcuna difficoltà, come fosse stata un lottatore. Lei si ribellò brevemente, poi si immobilizzò.

Girandola sulla schiena, l'anziana donna ricominciò, stavolta con rinnovata energia. Nessuna parte del corpo di Celia, a quanto sembrava, poteva sfuggire a quello zelo pulitore: la tenera pelle del seno e del ventre, le piante e l'arco dei graziosi piedini. Nessuna parte di lei era troppo intima. Arrossì e trasalì sentendo le mani della donna allargarle le natiche, tastando le rosee pieghe all'attaccatura delle cosce.

La ragazzina portò un vasetto di terracotta preso dal braciere e pieno dell'argilla che, come Celia aveva imparato, si chiamava ot. Da quando era entrata nella Casa della Felicità si era abituata ai continui bagni praticati dalle donne del palazzo, la pulizia rituale prescritta dalla nuova religione che adesso dovevano tutte sposare. Il rito solitamente aveva luogo nella foschia allegramente affollata e pettegola dei bagni comuni nel giardino delle cariye. Quell'attività sarebbe stata guardata con profondo stupore, e forse sgomento, dalle sue amiche inglesi e italiane dall'odore nettamente più muschiato, le quali facevano il bagno di rado, se non mai. Fin da quando era stata portata nel palazzo per la prima volta, Celia si era ritrovata ad apprezzare quelle lunghe ore profumate nel bagno turco, tra le poche durante le quali lei e Annetta potevano bisbigliare liberamente con le altre ragazze, non sottoposte a vigilanza né vincoli. L'applicazione dell' ot era l'unica esigenza del bagno, tuttavia, che lei guardasse ancora con repulsione e insieme timore.

Cariye Lala prese un attrezzo di legno simile a un cucchiaio appiattito ed estrasse una modica quantità di impasto dal vasetto offertole, spalmandolo con destrezza sulla pelle di Celia. In un primo tempo l' ot, un'appiccicosa sostanza simile ad argilla, non risultava sgradevole: era liscio e profumato e piacevolmente caldo al tatto. Celia rimase sdraiata e tentò di respirare lentamente e con calma, un consiglio datole da Gulbahar dopo la prima volta, quando non aveva capito cosa stava per succedere e si era attirata addosso vergogna e onta schiaffeggiando in pieno viso la maestra dei bagni più anziana. Ma dopo poco non riuscì più a star ferma. Un dolore bruciante, come se fosse stata marchiata con un ferro incandescente, le si diffuse su tutta la sensibile carne dell'inguine, spingendola a drizzarsi a sedere di scatto, con un frido.

«Bambina! Quante storie!» Cariye Lala non mostrò traccia di pentimento. «Θ così che deve essere. Guarda come sei liscia e dolce al tatto.»

Celia abbassò lo sguardo e vide minuscole stille di sangue, non più grandi delle piccolissime punture di un sottile ago da ricamo, sulla propria carne depilata. E laddove, pochi istanti prima, tra le sue gambe si era trovato un dorato e femmineo cespuglietto, si scoprì adesso a fissare, con una sorta di affascinato terrore, il nudo bocciolo a forma di albicocca di una bambina.

Ma Cariye Lala non aveva ancora finito. Spingendola di nuovo giù si diede da fare con un paio di pinzette d'oro, estirpando qualsiasi isolato peletto tralasciato dall' ot. La ragazzina le reggeva una candela, talmente vicina che Celia temeva le lasciasse colare un po' di cera sulla pelle. Ma, persino con la candela ad aiutarla, l'anziana donna doveva piegarsi talmente tanto nei suoi sforzi che lei ne sentiva il fiato caldo, e la solleticante criniera di capelli, sulla pelle che ancora bruciava.

Non avrebbe saputo dire per quanto tempo era rimasta tra le mani operose di Cariye Lala. Dopo che la vicemaestra dei bagni si fu accertata finalmente che nemmeno un unico empio peletto le fosse rimasto sul corpo, le venne concesso di rimettersi seduta. Strofinata e spiumata e massaggiata da capo a piedi con una lunga serie di erbe e unguenti, la sua pelle chiara scintillava di una luminosità sovrannaturale nella penombra perlata dell'hammam. Le unghie erano lucide. I capelli, asciugati e ondulati tanto da brillare nella brunita luce del sole, furono intrecciati con fili di perle d'acqua dolce. Altre perle grandi come nocciole le penzolavano dalle orecchie e le si attorcigliavano con discrezione sulla gola.

Non sapeva se dipendesse dal tepore o dal profumo di mirra proveniente dal braciere che la ragazzina continuava ad alimentare nell'angolo della stanza, ma piano piano aveva cominciato a rilassarsi. Le cure di Cariye Lala erano talvolta rudi, ma la donna non aveva inteso farle male come succedeva talvolta con le altre maestre più anziane, che distribuivano pizzicotti e furtive tirate di capelli per la minima infrazione alle regole. Una sorta di passiva indifferenza per il proprio destino si era impadronita di lei. Le maniere lente ma spicce di Cariye Lala avevano un effetto calmante. Era riposante non dovere pensare.

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Pagina 162

15.
Istanbul, oggi



Il lunedì mattina seguente Elizabeth si presentò al palazzo del Topkapi. Aveva preso accordi per incontrare Berin, il suo contatto presso l'Università del Bosforo, accanto all'entrata della seconda corte. Non c'erano turisti, quel giorno. All'ingresso, due guardie imbronciate presero il suo passaporto e, dopo averlo esaminato per quello che parve un lasso di tempo gratuitamente lungo, spuntarono il suo nome su una lista e la lasciarono passare con palese riluttanza.

Berin, una quarantenne turca dai modi miti, la stava aspettando dall'altra parte. «Questa è Suzie.» Presentò Elizabeth all'assistente di produzione inglese. Si strinsero la mano. Suzie portava jeans neri e un giubbotto di pelle da motociclista. Infilata nella sua cintura, una ricetrasmittente ronzava e crepitava.

«Grazie mille per tutto questo, te ne sono davvero grata», disse Elizabeth.

«Θ che ho trovato appassionante il tuo progetto. Se qualcuno te lo chiede, basta che tu dica che sei una ricercatrice. E in effetti lo sei.» Suzie le sorrise. «Solo che non sei dei nostri, tutto qui. Berin mi ha raccontato del lavoro che stai svolgendo», aggiunse mentre attraversavano un giardino formale di erba e cipressi. Alcune rose dalla tarda fioritura tremolavano nel vento gelido. «E dei tuoi sospetti che un tempo possa esserci stata una schiava inglese, in questo harem.»

«Ne sono quasi sicura, sì. Una giovane di nome Celia Lamprey.» Elizabeth spiegò del frammento di cronaca da lei scoperto. «Era la figlia di un comandante della marina mercantile, rimasta coinvolta in un naufragio nell'Adriatico, probabilmente tra il 1595 e il 1600, poi fatta prigioniera da corsari ottomani. Stando al frammento di cronaca giunto fino a noi finì qui, nell'harem del sultano.»

«E cosa sarebbe stata: una moglie, una concubina, una serva oppure cos'altro?»

«Θ difficile dirlo, in questa fase. Secondo la cronaca fu venduta come cariye, parola che in turco significa semplicemente "schiava". Nella gerarchia del palazzo il termine era generalmente usato per indicare le donne di rango inferiore ma, visto che ogni donna qui era tecnicamente una schiava — oh, tranne le figlie del sultano e sua madre, naturalmente, la Valide Sultan, che veniva automaticamente liberata alla morte del suo padrone — poteva non avere affatto questo significato. Suppongo che sia stata venduta al palazzo come potenziale concubina. Con una o due eccezioni, i sultani non prendevano mai moglie. Θ una della caratteristiche più bizzarre del sistema ottomano, il fatto che tutte le donne del sultano, dalla prima all'ultima, provenissero dall'estero: Georgia, Circassia, Armenia, varie parti dei Balcani, persino l'Albania. Ma mai dalla Turchia.»

«Ci fu una donna francese, mi pare di ricordare, all'inizio del XIX secolo», disse Suzie. «Come si chiamava?»

«Probabilmente ti riferisci a Aimée Dubucq de Rivery», rispose Elizabeth. «Una cugina di Giuseppina Bonaparte. Sì, esatto, ma nessuna donna inglese, almeno a quanto si sapeva finora.»

Raggiunsero l'ingresso dell'harem, nei pressi del quale era impilata una quantità di attrezzatura cinematografica, rotoli di cavi e grandi casse di legno nere e argento, ma il luogo era deserto. Un sacchetto di patatine vuoto vorticò ai loro piedi. Sullo sportello di una biglietteria un cartello scritto a mano, rimasto dal giorno prima, diceva: ULTIMO TOUR GUIDATO ALLE 15.10.

«State dimenticando, però, che non erano soltanto le donne a essere schiave», affermò Berin. «L'intero impero ottomano si basava sulla schiavitù, però non si trattava di schiavitù nella comune accezione moderna. Non c'era alcun marchio di infamia legato alla condizione di schiavo. E non era un sistema particolarmente crudele, per nulla simile a quella che si potrebbe definire "schiavitù da piantagioni". Piuttosto un'opportunità di carriera, davvero.» Sorrise. «La maggior parte dei nostri gran visir hanno iniziato come schiavi.»

«Credi sia questo che ne pensavano le donne?» chiese Suzie in tono scettico. «Ne dubito.»

«Non esserne tanto sicura.» Nella sua tipica maniera pacata, Berin si dimostrò insistente. «Credo sia esattamente quello che pensava la maggior parte di loro. Persino la tua Celia Lamprey potrebbe essere giunta a pensarla così, alla fine.» Posò la mano sul braccio di Elizabeth. «Non scartare l'ipotesi, non è impossibile, sai. Parecchi uomini europei assursero a posizioni di grande rilievo, sotto gli ottomani, quindi perché non una donna?»

Davanti a loro si stagliava un'enorme porta di legno costellata di borchie d'ottone e sormontata da una scritta in lettere arabe dorate. Elizabeth alzò gli occhi e rabbrividì. Cosa aveva pensato Celia Lamprey quando aveva varcato per la prima volta quel portone? Il palazzo aveva rappresentato un rifugio, per lei, oppure un inferno? Era possibile vedere con chiarezza nel passato?

«Il fatto è che nessuno ha mai saputo realmente chi fossero queste donne.» Berin si rialzò il bavero del cappotto, come se anche lei sentisse un improvviso brivido freddo. «E, per lo più, non lo sapremo mai. Siamo in grado di dare un nome solo a una manciata di loro, tra tutte le varie centinaia passate da questa porta, per non parlare della possibilità di scoprire qualsiasi altro dettaglio. Θ questo il significato della parola "harem", del resto: "proibito". Non è previsto che lo sappiamo.» Rivolse un sorriso canzonatorio a Elizabeth. «Eppure, io spero che tu la trovi, la tua Celia Lamprey. Venite...» Anche lei alzò gli occhi verso la grande porta che avevano di fronte. «Entriamo?»


La prima cosa che Elizabeth notò fu quanto fosse buio, all'interno. Lasciò Berin, Suzie e il resto della troupe a preparare il set nella camera imperiale del sultano e cominciò a guardarsi intorno da sola. All'inizio una delle guardie la seguì ma ben presto cominciò ad annoiarsi e tornò nella sua guardiola, dove poteva leggersi il giornale in santa pace. Lei scoprì di poter vagabondare liberamente nelle stanze deserte.

Lasciato l'atrio, la cosiddetta Cupola con l'Armadio, percorse lentamente il corridoio degli eunuchi. Niente mobilio, poche finestre, stanzette minuscole non più grandi di ripostigli. Maioliche di Iznik di straordinaria antichità e bellezza rivestivano le pareti irregolari, dando alla luce un peculiare riflesso verde chiaro.

Alla fine del corridoio c'era un alto vestibolo dal soffitto a cupola da cui si dipartivano altri tre passaggi. Guardò la sua piantina e ne lesse i nomi. Il primo, che portava agli appartamenti del sultano, era indicato come Strada d'Oro, il corridoio lungo il quale le concubine venivano condotte a incontrare il loro signore. Il secondo, che arrivava nel cuore dell'harem, era chiamato prosaicamente «corridoio del cibo» mentre il terzo, che lasciava il serraglio per raggiungere il cortile più interno e gli alloggi riservati agli uomini, era segnato come porta della Voliera. Decise di imboccare il secondo e si ritrovò in un cortiletto a due piani, isolato da cordoni. Un cartello diceva: CORTE DELLE CARIYE.

Si guardò intorno. Non c'era traccia della guardia, così scavalcò cautamente i cordoni. Sul cortile si aprivano numerose stanze. La maggior parte delle porte era chiusa con il chiavistello. Guardando attraverso la crepa in una di esse riuscì a scorgere i resti marmorei di un vecchio bagno turco. Le altre camere erano vuote, il loro intonaco crepato e macchiato. Nel luogo regnava un senso di decadimento e un lieve sentore di muffa che nemmeno lo sguardo insolente delle moderne comitive turistiche era riuscito a dissipare. Di fronte al bagno turco trovò una ripida scalinata che scendeva in alcune stanze simili a un dormitorio e, da lì, nei giardini. Ma in quelle stanzette, talmente piccole e anguste che potevano essere state occupate solo da donne di basso rango, le assi di legno del pavimento erano così marce che lei rischiò di sprofondarvi con un piede.

Tornata in cortile, si ritrovò all'ingresso degli appartamenti della regina madre. Una serie di stanze comunicanti, anch'esse sorprendentemente anguste ma decorate come i corridoi degli eunuchi, con le stesse mattonelle turchesi, azzurre e verdi, e pervase dalla stessa luce verde chiaro. Si aspettava quasi che la guardia l'avesse seguita fin là, ma non era così. Rimase in ascolto, senza però udire alcun suono.

Quando fu sicura di essere completamente sola si sedette su un gradino accanto alla finestra e aspettò. Chiuse gli occhi e tentò di concentrarsi, ma non captò nulla. Nessun legame. Passò la mano sulle piastrelle, facendo correre le dita sui motivi ornamentali di piume di pavone, garofani, tulipani... ancora niente. Si alzò e ispezionò meticolosamente l'appartamento, ma era la stessa cosa dappertutto. Persino la scoperta di una serie di passaggi segreti ma intercomunicanti, costruiti in legno dietro le stanze principali della Valide – camera, stanza di preghiera e salotto –, non servì affatto ad alleviare il suo senso di distacco dal luogo.

"Queste stanze sono semplicemente... vuote", pensò. Poi, ridendo vagamente di sé stessa: "Be', cosa ti aspettavi?".

Stava per lasciare gli appartamenti della Valide quando, nel minuscolo vestibolo all'ingresso, intravide una porta chiusa. Vi appoggiò la mano, aspettandosi che fosse chiusa a chiave come le altre ma, con suo profondo stupore, l'uscio si aprì facilmente e lei si ritrovò ferma sulla soglia di un appartamento in disuso.

Era una stanza ampia, di gran lunga la più grande dell'harem se si eccettuava la suite della Valide, cui era collegata ma di cui, per quanto Elizabeth potesse stabilire, non faceva parte. Per un istante o due esitò sulla soglia, poi fece rapidamente due passi, entrando.

Altro odore di muffa. Luce invernale che filtrava da piccoli fori nel soffitto a cupola. Alcuni tappeti, i bordi logori e marcescenti, rivestivano il pavimento. Dietro, un'altra porta e un cortile che prima non aveva notato. Una stanza colma dell'alito del passato, come il rombo distante del mare.

Per un paio di istanti rimase immobile. Attenta. Attenta, adesso. Senza respirare, stavolta, ma restando in ascolto. "Stai ascoltando. Cosa stai cercando di sentire?" Ma nell'harem ormai abbandonato non si udiva alcun suono, nessuno scalpiccio.

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24.
Costantinopoli, 3 settembre 1599
Notte



Celia si svegliò con un grido. All'inizio non capì cosa l'avesse destata di colpo. Ma poi la consapevolezza – era stato il boato dei cannoni sopra il Bosforo, che indicavano la dipartita di Gulay Haseki – le recò un senso di terrore che ricordava di aver provato soltanto una volta. In quella frazione di secondo tra il sonno e la veglia aveva rivisto le onde che, con un rombo, si abbattevano sulle rocce e sul ponte ligneo; il nauseante crac dell'albero maestro; il peso plumbeo delle sue gonne fradice; occhi accecati da vento e salsedine; il lampo di una lama che si abbassava, suo padre lasciato sanguinante sul ponte della nave che affondava.

Ansimando violentemente, si drizzò a sedere. Persino tra le coperte tiepide aveva la pelle fredda e viscosa. Nella sua stanza – che, come tutte quelle assegnate alle kislar, non aveva finestre affacciate sull'esterno – faceva talmente buio che quasi non riusciva a vedersi le mani quando le teneva sollevate davanti al viso. Sarebbe stato così, essere cieca? Per un attimo le parve di sentire uno scalpiccio – il suono di un intruso sconosciuto che si aggirava con passo felpato nella sua camera? – e fu solo dopo alcuni istanti che capì che si trattava del battito del suo cuore.

Gradualmente, mentre i suoi occhi si adattavano al buio, sagome e forme cominciarono a farsi più nitide. Contro la parete più lontana c'erano le figure ancora addormentate delle sue due serve, rannicchiate sotto le rispettive trapunte, sul pavimento. In una nicchia nella parete dietro di lei si era ormai consumata l'unica candela, la fiammella simile a una piccola lucciola azzurra. Infilò una mano nella nicchia e prese il braccialetto dell'Haseki, poi si stese di nuovo sui cuscini per riflettere. Chi c'era in realtà, si chiese, dietro il tradimento dell'Haseki? Hanza era ambiziosa ma aveva qualcosa di decisamente troppo acerbo – ormai Celia ne era più che mai convinta – per avere agito da sola. Gulay Haseki era stata sul punto di rivelarle l'identità del terzo Usignolo... possibile che questo fosse il nocciolo della questione? "Troppo tardi, ormai non può più dirmelo", pensò tristemente.

Dopo che gli eunuchi avevano portato via Hanza e Gulay, la Valide e le maestre dell'harem di più alto rango non avevano perso tempo nel ristabilire l'ordine. Al fine di tenere tranquille le kislar era stata imposta per il resto della serata la regola del silenzio. Nessuno sapeva per certo cosa fosse accaduto a Hanza ma, se ci si poteva basare sui volti scioccati e pallidi che Celia vedeva tutt'intorno a sé, in cuor suo ognuno conosceva la sorte toccata a Gulay Haseki.

Si dice che esistano ben pochi destini peggiori della morte. Pur tentando di evitarlo, lei immaginò come sarebbe stato essere rinchiusa in un sacco; immaginò mani ruvide che la sollevavano, il suono di una voce che supplicava urlando – "No, no, prima uccidetemi, qualunque cosa, qualunque cosa ma non questo" –, un lacerare, un mordere freneticamente, poi il terrore dell'acqua che penetrava nel sacco, acqua che le rombava nelle orecchie e negli occhi, le esplodeva nella gola e nel naso.

E infine freddo, freddo, freddo.

Una sensazione di panico, più densa della bile, le riempì la gola. Lottando per respirare, si alzò di scatto dal letto e corse alla porta, tremando e riempiendosi ripetutamente d'aria i polmoni. Dopo pochi minuti la dolce aria notturna e il terreno solido sotto i piedi riuscirono a calmarla. Si portò la mano alla gola, imponendo al respiro di riacquistare un ritmo normale, e sentì la forma solida della chiave della porta della Voliera appesa alla catenina.

Sarebbe stata pura follia, vero? Fece qualche passo esplorativo nel cortile, dove regnava una quiete assoluta. Non si udiva alcun suono. La luce della luna rischiarava tutto, talmente brillante da permetterle di scorgere il rosso del proprio abito. Non c'era nessuno che potesse vederla, nessuno che potesse sentirla. Aveva già la chiave stretta in mano...

Ma no, non poteva farlo. «Loro osservano. Osservano e aspettano»: le tornarono in mente le parole di Annetta. Ed era vero, chiunque fossero «loro». Gli Usignoli? Ormai non lo sapeva più. La paura di Annetta, e quella dell'Haseki, l'avevano contagiata. Qualsiasi cosa facesse, ovunque andasse, forse persino in quel momento, si sentiva addosso occhi di spie. Tentare di aprire la porta della Voliera – e a che pro? – sarebbe stato peggio che follia, avrebbe significato la morte.

Al solo pensiero si sentì assalire di nuovo dal senso di affanno, solo che stavolta si rese conto che non dipendeva dalla paura del sacco. Si portò la mano alla gola. "Θ questo posto, questa vita, questo è peggio che affogare." Un senso di disperazione, quasi di follia, le montò dentro.

Prima di potere cambiare idea si mise a correre.


In seguito non serbò alcun ricordo di com'era arrivata alla porta della Voliera. Senza guardarsi indietro nemmeno una volta corse rapidamente e in silenzio, lungo corridoi e passaggi, giù per gradini e attraverso sentieri, verso quella parte dei giardini del serraglio dove, dopo essere stata dichiarata gφzde e mentre il resto dell'harem si trovava nel palazzo estivo della Valide, una volta le era stato concesso di andare a guardare le cariye novizie che giocavano a palla. Non smise di correre finché non raggiunse il muro più esterno del giardino e là, proprio come preannunciatole da Hanza, tra due cespugli di mirto riuscì a distinguere appena appena il profilo di una grata metallica, parte di un antico portone infisso nel muro e ormai completamente nascosto dall'edera. La grata era talmente piccola e celata dalla vegetazione che, se non avesse saputo di preciso dove cercarla, Celia non sarebbe mai riuscita a trovarla. Infilò la chiave nella serratura e la porta si aprì fluidamente verso di lei.

All'inizio, come un uccello in gabbia che abbia dimenticato di sapere volare, rimase ferma sulla soglia, non sapendo bene come procedere. Si voltò, rimanendo in ascolto, ma alle sue spalle i giardini dell'harem, resi argentei dalla luna, erano immersi nel più assoluto silenzio. Non c'era nemmeno un alito di vento. Poi, dall'altra parte della porta, lo vide: il dono degli inglesi. Era molto più grande di quanto avesse immaginato, un oggetto fatto come un'enorme scatola, alto il triplo di lei, sistemato circa una trentina di metri più in là. Come in sogno, osservò la propria sagoma rischiarata dalla luna sfrecciare silenziosamente in quella direzione.

Esaminò con cura la strana costruzione. La parte inferiore era costituita da una tastiera fatta di avorio ed ebano, come quella di una spinetta. Qua e là erano stati infilati dei pezzetti di carta, come se i tasti fossero stati incollati solo di recente. Sopra erano allineate le canne dell'organo, in ordine crescente di dimensioni. Al centro del bizzarro congegno era inserito un orologio che segnava le ore e, ai suoi lati, due angeli, una tromba d'argento accostata alle labbra, suonavano una tarantara silenziosa. Al di sopra dell'organo sorgeva quello che sembrava un cespuglio fatto di fili di ferro tra i quali spiccavano figure di uccelli di specie diverse, il becco aperto come se stessero cantando, solo che non ne giungeva alcun suono. Paralizzati nella luce lunare, i loro occhietti scintillanti parvero seguire Celia mentre girava ripetutamente intorno al congegno, sbalordita della raffinatezza e della maestria della fattura.

"Paul, oh Paul!" Si posò una mano sulla guancia. "Θ un capolavoro, davvero! Hai qualcosa a che fare con tutto questo?" Sentì subito gli occhi che cominciavano a bruciarle per le lacrime eppure, quando si portò l'altra mano alla bocca, si accorse che stava anche sorridendo. "Come se non sapessi!" Con un'espressione di pura angoscia posò le dita tremanti sui tasti, sentendoli contro la pelle. "Oddio! Paul, mio dolce amore!" Stava in parte ridendo e in parte piangendo. "Θ uno scrigno di oggetti bizzarri, davvero! Sono pronta a scommettere la vita che è stata una tua idea." Accostò la fronte all'involucro ligneo, poi le guance ormai umide e salate, allungò il più possibile le braccia, come se si stesse fondendo con il legno, cercando di tastarne ogni scabrosità e ogni voluta, carezzandolo con i polpastrelli, inspirandone l'odore pungente, di taglio recente.

In quel momento si udì un suono. Celia si immobilizzò. Un lieve scricchiolio giunto da sotto i suoi piedi. Si piegò e le sue dita si serrarono intorno a un oggetto lungo e stretto: un lapis dimenticato dai carpentieri.

Strappò un brandello da uno dei pezzi di carta che spuntavano dalla tastiera, poi rimase ferma con il lapis sospeso nell'aria. "Qualsiasi cosa io scriva, dev'essere qualcosa che non possa tradire nessuno di noi due" – la paura le straziò le viscere – "non parole, Paul, ma... ecco! Una cosa bizzarra, tutta mia."

Tracciò rapidamente tre righe sulla carta, poi si allontanò, correndo, varcando di nuovo la porta della Voliera, attraversando i giardini, salendo scale e sfrecciando lungo i corridoi bui e deserti dell'harem, silenziosa come il vento.

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